venerdì 31 gennaio 2014

La testimonianza di Michela Marzano, una delle 7 deputate Pd bersaglio del deputato M5S Massimo De Rosa



«Hate speech», discorso dell’odio. È così che in inglese si parla degli insulti. Quegli «atti linguistici» particolari che non servono solo a «dire», ma anche a «fare» qualcosa. Ossia ad offendere, a ferire, a far male. Perché quando si insulta una persona, lo scopo non è affatto quello di manifestare il proprio disaccordo e dialogare con l’interlocutore, ma piuttosto quello di togliergli le parole di bocca e farlo tacere.
Sono anni che lo insegno ai miei studenti a Parigi. Sono anni che mi sforzo di spiegare, come diceva il grande Albert Camus, che è solo quando si utilizzano le parole in modo corretto che si riesce poi a diminuire la quantità di disordine e di dolore che c’è nel mondo. Ecco perché la lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni passa anche attraverso l’attenzione che si pone al linguaggio. Ecco perché gli insulti legati al razzismo, all’omofobia o al maschilismo contribuiscono solo a peggiorare le condizioni di chi, «diverso», non corrisponde agli stereotipi.
Quello che non avrei mai immaginato, però, è il sentimento di desolazione che avrei io stessa provato di fronte questi insulti. Come è accaduto ieri sera alla Camera, durante la riunione serale della Commissione Giustizia. Dopo una giornata di ostruzionismo e dibattiti molto duri in Aula, conclusasi con l’assalto alla Presidenza da parte dei colleghi del M5S, si dovevano votare gli emendamenti al decreto legge sulle carceri. Invece di votare, però, il clima in Commissione ha cominciato subito a degenerare. Accuse reciproche di ostacoli al lavoro democratico. Invettive. Urla. Fino agli insulti.
 «Voi donne del PD siete qui perché siete brave solo a fare i pompini», urla Massimo Felice De Rosa prima di essere allontanato dai commessi. Prima di altre urla. Perché poi è sempre così che finisce quando ci si insulta. A meno di non restare bloccati nel mutismo, come mi è accaduto. Impotente. Terribilmente impotente.
Le parole sono pietre, diceva già Carlo Levi. Ed è come una pietra che mi è arrivata addosso questa frase, lasciandomi senza parole. Prima di realizzare che tutto quello per cui mi sono battuta da sempre mi si stava sbriciolando in mano. Prima di riprendermi pian piano e decidere di sporgere denuncia con le altre colleghe del PD. Prima di capire che il solo modo di reagire per denunciare queste pratiche sessiste è riappropriarsi della parola e manifestare la propria soggettività, nonostante il tentativo altrui di farci tacere.
«Noi rappresentiamo i cittadini, voi siete il male assoluto». Era così che era iniziato tutto. Da chi rivendica sempre pacifismo e volontà di cambiare le cose democraticamente. Quanta democrazia e pacifismo c’è dietro la violenza degli insulti?

giovedì 30 gennaio 2014

Febbraio di lotta delle donne (e forse anche di qualche uomo) di Monica Lanfranco




Non è banale che, nella pur lenta acquisizione di consuetudini politiche collettive, (sempre più minacciate dall’oblio, dal mercato e dalla cancellazione dell’impegno sociale come collante civile) da qualche tempo non si pensi più solo all’8 marzo come data simbolica per ragionare sulla situazione delle relazioni tra i generi nel mondo.
Da quando, prima con il 13 febbraio di Snoq, poi con il 14 di One Billion Rising e ora con l’anticipo del 1 febbraio per l’emergenza autodeterminazione con la neonata Women are Europe, anche febbraio si gremisce di fermento tra le donne, e speriamo anche tra gli uomini di buona lena.
Certo, sempre in difesa di ciò che per qualche momento si è pensato essere diritto acquisito: vivere in una parte del mondo dove la cittadinanza, il lavoro, la giustizia, le pari opportunità, le scelte affettive, quelle sessuali e riproduttive fossero finalmente un patrimonio consolidato. Non è così.
Siamo ancora lontane dal constatare che gli obiettivi raggiunti dalle donne sono considerate, nella collettività, come conquiste anche per gli uomini e quindi giustizia e guadagno generale: il divorzio e il diritto di famiglia come fine del giogo patriarcale, i congedi parentali come nuova opportunità per il genere maschile di agire la parte accuditiva e responsabile verso i cuccioli e la cura, l’interruzione di gravidanza come strumento offerto agli uomini per confrontarsi con il proprio senso del limite nel far fronte alle decisioni di una donna sul suo corpo.
Il filo rosso e la parola chiave di questo febbraio così movimentato, e si auspica partecipato da donne e uomini di ogni età e provenienza di pensiero, sarà dunque quello della giustizia: per ricordare, il 1 febbraio, anche alle più giovani che l’interruzione di gravidanza non è libertà di abortire ma responsabilità condivisa nel generare, come hanno fatto le donne di Usciamo dal silenzio nella loro lettera alle nuove generazioni, e per ridare senso in Europa, (non solo in Italia), al filo che lega le donne come soggetto politico, con l’invito di WAE alla mobilitazione nel continente, e poi il 14 febbraio, con il rinnovo di One Billione Rising alla danza.
Non è banale, questo anticipo e questo fermento, che va curato con attenzione per non disperdere energie e fiducia.
Per usare le parole di Eve Ensler nel suo invito alla lotta e alla danza: ”Significa immaginare un futuro migliore e scrivere nuove leggi e una nuova legislatura. Significa rompere il silenzio, condividere le nostre storie, dare un nome e un’identità alle ingiustizie, creare richieste, organizzare forum, assemblee ed eventi, scrivere canzoni, poesie e opere teatrali, girare video. Significa individuare i luoghi in cui manifesteremo. Significa conoscere le lotte delle nostre sorelle in tutto il mondo e farle nostre. Significa portare in primo piano le più emarginate. Significa che la base sarà finalmente al comando. Significa che gli uomini si uniranno a noi e lotteranno insieme a noi. Significa riconoscere i luoghi di intersezione e nuotare in un unico fiume di giustizia. E’ una decisione e una visione del mondo in cui i corpi delle donne e il corpo della nostra madre terra saranno onorati, amati, saranno salvi e considerati sacri. Significa fiducia. Significa alzare la testa e dissolvere i confini, i margini, le separazioni. Manifestate liberatevi danzate per la giustizia”.

venerdì 24 gennaio 2014

»Carla Ravaioli: una anticipatrice. Giornalista, saggista, femminista, ambientalista e fino all’ultimo comunista di un comunismo umanista contaminato dai filoni di pensiero critico che per questo l’hanno allontanata dal potere.


Un ricordo a partire dalle sue parole in "La donna contro se stessa"di Monica Lanfranco

“…il femminismo – accettato o osteggiato, discusso con scientifico distacco o pubblicizzato nei modi tipici del consumismo culturale, contestato o addirittura rifiutato con i più rigidi viscerali sbarramenti difensivi – è ormai comunque, irreversibilmente, una costante del panorama umano e sociale, in Italia come in tutti i paesi dell’Occidente. Provocatoriamente presente nei settori più diversi della vita associata, culturale e politica, pronto allo scatto della protesta dovunque più vistosa si esprima la violenza antifemminile, capace di mobilitare da un giorno all’altro decine di migliaia di donne nei momenti cruciali delle sue battaglie; movimento di massa che ha ormai superato i confini elitistici, intellettuali e borghesi della sua origine, per conquistare fabbriche, scuole di ogni ordine e grado, province depresse, periferie proletarie e sotto proletarie, che ha contribuito a rivitalizzare e orientare tutte le organizzazioni femminili preesistenti, che inevitabilmente si impone all’attenzione, al confronto e al calcolo dei partiti politici; forte di una sempre più vasta e spesso più altamente qualificata letteratura specialistica e di tutto un corredo di centri di produzione, teatri, librerie, case editrici, consultori, gruppi di studio e di documentazione, circoli di lavoro per quartieri; soprattutto portatore di un’analisi che non solo ha affrontato la realtà femminile in tutta la molteplicità delle sue innumerevoli facce, evidenti e nascoste, ma che ha capovolto l’ottica delle precedenti analisi, tendenti a circoscrivere la questione nell’ambito dello sfruttamento capitalistico, per la rimessa in discussione di una politica prevalentemente economicistica.
 Il femminismo infatti muove non più dall’osservazione del ‘sociale’ ma del ‘privato’ (cioè di quel ‘vissuto’ in cui ogni donna quotidianamente sperimenta la propria sudditanza, attraverso gli eventi spiccioli della più minuta fenomenologia esistenziale come nello scontro coi più gravi e coinvolgenti problemi della maternità, della sessualità, del lavoro domestico obbligato) per un confronto e una verifica fra donne dove i più drammatici conflitti, da sempre gestiti e sofferti in solitudine, come fatti strettamente personali e non condivisibili, si rivelano dato costante di una condizione comune, problema non più privato quindi, ma ‘sociale’, dunque ‘politico’”.

Le righe precedenti sono state scritte nel 1977 da Carla Ravaioli nella prefazione alla seconda edizione (nove anni dopo la prima), del suo libro La donna contro se stessa. Un testo che ha formato due generazioni di donne, impegnate nella sinistra e nel femminismo: da oggi è per intero pubblicato qui http://www2.rifondazione.it/primapagina/?p=10177, perché il libro è ormai introvabile anche nelle biblioteche specializzate.
Carla Ravaioli, giornalista, saggista, femminista, ambientalista e fino all’ultimo comunista di un comunismo umanista contaminato dai filoni di pensiero critico che per questo l’hanno allontanata dal potere, forse si è uccisa il 15 gennaio scorso, allo scoccare del suo novantunesimo compleanno.
Poco importa, a questo punto, se si sia trattato di un suicidio o di una morte sopraggiunta per malore. La vita di Carla Ravaioli è stata intensa, di formidabile esempio e stimolo per le donne e gli uomini che cerchino una visione divergente, critica e mai domata sul reale. Personalmente so che, a distanza di quarant’anni, devo anche a lei l’intuizione per lo sviluppo del lavoro che ora sto facendo con Uomini che odiano amano le donne e il teatro sociale per uomini con Manutenzioni-Uomini a nudo.
Lei aveva già capito, nel 1973, come uno dei bandoli della matassa da sbrogliare nelle relazioni tra i generi fosse quello del silenzio maschile sulla sessualità: Maschio per obbligo (così si chiama il libro), era allora già più avanti rispetto alla stessa contestazione femminista dell’epoca, in famiglia così come nel pubblico.
Mi piace ricordarla a chi la conosceva, e a chi invece non sapeva nulla di lei (sperando che qualche editore decida di stampare nuovamente almeno qualche suo titolo) con queste parole, scritte sempre nell’introduzione citata sopra: “Questo infatti – ma me ne accorgo solo oggi – è stato soprattutto per me ‘La donna contro se stessa’: il tentativo di spiegare certi miei comportamenti, autolimitazioni, blocchi improvvisi dopo rincorse a perdifiato, paure di essere quello che volevo, o credevo di volere, confini che io stessa ponevo a una scelta di vita che pure avevo fatto fin da giovanissima (niente matrimonio figli famiglia, lavorare, campare con le mie forze, mettermi in piedi uno straccio di vita che avesse un senso senza che un uomo ne fosse garante e mediatore); il bisogno di oggettivare la mia fatica di donna inquadrandola e proiettandola nella condizione di tutte le donne”
18|01|14

lunedì 20 gennaio 2014

Nasce il centro interuniversitario in culture di genere La direttrice del centro, Carmen Leccardi: “I giovani hanno difficoltà a superare vecchi stereotipi”


Sei università milanesi, Bicocca, Statale, Politecnico, Iulm, San Raffaele e Bocconi hanno creato il Centro interuniversitario in culture di genere, un polo «di riferimento accademico» ma anche «per il territorio, per Milano e la regione» spiega Carmen Leccardi, direttrice scientifica del centro, sociologa, presidente dell’European sociological association e già fondatrice del centro ABCD dell’Università Bicocca. E’ il primo polo di ricerca sul genere così grande in Italia, dove i “women’s studies” si sono sviluppati nelle università solo negli ultimi anni. Qui verranno studiate tematiche di genere come la lotta alla violenza, al femminicidio, agli stereotipi, con l’intenzione di «costruire relazioni tra sapere accademico e vita quotidiana delle donne». Un percorso iniziato due anni fa che vuole aprirsi non solo al territorio italiano,ma internazionale, perché «è importante ragionare in chiave comparativa, altrimenti i dati rischiano di essere insoddisfacenti» spiega la direttrice.
“Saremo un punto di riferimento omogeneo quando si cercano notizie su pensioni, mercato del lavoro e rappresentazione mediatica della donna» continua Leccardi ma «vogliamo coinvolgere le stesse associazioni femminili». Nel progetto ci sono già due associazioni, Donne in quota e Amiche di Abcd, entrambe nate in due università milanesi, in Statale e in Bicocca in occasione dei corsi annuali “Donne politiche e istituzioni” promossi dal ministero delle Pari opportunità e arrivati quest’anno alla sesta edizione anche se manca il rifinanziamento per il prossimo anno.
Leccardi in questi mesi è impegnata con una ricerca sulle nuove soggettività femminili cioè «come le giovani donne reagiscono a questa situazione di chiusura del mercato del lavoro e di stallo nel riconoscimento della capacità di essere soggetti». C’è la precarietà, la maternità sempre più difficile, la violenza: «Fermo restando l’importanza della difesa di diritti fondamentali, come il diritto a non essere vittima di violenza, di disporre del proprio corpo ed altri diritti fondamentali legate alle lotte degli anni Settanta, emergono nuove rivendicazioni, il diritto a esprimere le proprie capacità e competenze» spiega la sociologa. «Stiamo parlando di giovani donne sempre più scolarizzate, più degli uomini, che però vedono un mancato riconoscimento delle loro competenze nella società, c’è una discrasia tra quello che sanno e quello che viene loro riconosciuto, una differenza marcata tra le aspettative di riconoscimento e il riconoscimento effettivo». I gruppi di studio coinvolgono solo giovani di collettivi femministi che provengono da tutta Italia, la ragione? «Penso sia importante guardare a questi nuovi ambiti di soggettività come quando guardiamo alle minoranze attive per guardare in che direzione procedere» e questi collettivi esprimono una «nuova critica (rispetto al pensiero femminista degli anni Settanta, ndr) alla mercificazione dei rapporti sociali, alla visione neo liberista, al ruolo di cura».
Altro filone di ricerca sono gli stereotipi che Leccardi e il suo team di ricerca hanno indagato nelle scuole milanesi, e nei prossimi mesi organizzeranno uno spettacolo teatrale «a conclusione del percorso fatto».
«Abbiamo notato che continuano ad essere diffusi anche negli studenti delle scuole medie superiori una serie di stereotipi e pregiudizi sulle differenze di genere. Persiste la convinzione che le donne sarebbero incapaci di esercitare delle forme di giudizio razionale, che siano preda dell’emotività, meno affidabili dal punto di vista delle responsabilità, esclusivamente attratte da modelli maschili seduttivi. Abbiamo visto che aderire agli stereotipi di genere produce un senso comune molto ostile alle donne, che non esprime le sue potenzialità negative nel mondo della scuola ma nel mondo del lavoro sì, producendo delle situazione estremamente critiche, sia nelle relazioni lavorative che tra i generi». In conclusione, per i giovani, emerge una «nuova difficoltà a costruirsi come soggetti a tutto campo: uomini che esprimono la propria presenza nel mondo anche in riferimento a qualità femminili e donne, viceversa, che scelgono anche strade che richiamano doti e virtù maschili, questa flessibilità nella costruzione dell’identità trova un’ostacolo nella riproduzione di vecchi stereotipi».

martedì 14 gennaio 2014

Womenareurope" per capire cosa e come si può fare per andare avanti insieme



Dopo la bocciatura della risoluzione “Estrela” - il Parlamento europeo, con il supporto del Pd, ha respinto per la seconda volta e in via definitiva il rapporto su “Salute e diritti sessuali e riproduttivi”, mentre ha approvato il testo del Ppe che prevede come “la formulazione e l’applicazione delle politiche in materia di salute sessuale e riproduttiva nonché in materia di educazione sessuale nelle scuole sia di competenza degli Stati componenti” - e il tentativo di modifica della legge spagnola sull’aborto, molte associazioni hanno deciso di costruire una rete europea di donne con l’obiettivo di organizzare un evento europeo per riaffermare l’autodeterminazione delle donne. Manifestazione che dovrebbe svolgersi l’8 marzo non soltanto per l’aborto legale, ma soprattutto per riprendere il dibattito sulla libertà di una vita affettiva e sessuale non vincolata all'obbligo della procreazione e sostenuta da una reale disponibilità di reddito. La prima rete locale si è attivata a Firenze e numerosi sono stati i contatti provenienti da associazioni nazionali ed europee: tutti con l’intento di costruire una rete di associazioni di donne e di donne singole che raccogliesse un’adesione ampia per un’iniziativa europea.
Alcune donne del Coordinamento difesa 194 ci dicono che “oggi abbiamo formato la base della rete: ci sono 118 adesioni e sono in aumento, circa la metà sono associazioni, le altre sono di donne singole. Abbiamo aperto un blog e una pagina Facebook sia per raccogliere le adesioni che per scambiarsi materiali e informazioni. Abbiamo anche già rapporti con reti di altri Paesi, Spagna e Francia, che essendo più avanti nella costituzione della rete e nello scambio di informazioni, si chiedono come mai in Italia non abbiamo ancora un ‘cartello’ di donne”.
Da questo punto di partenza come intendete procedere? “Ora dobbiamo passare a diffondere l’idea di rete: essere il più possibile connesse a realtà europee, così da poter partire con iniziative coordinate – ci dicono - tutto questo si può fare oltre che tramite Facebook e blog anche con una mailing-list da implementare. Poi passeremo alla proposta di un’iniziativa contemporanea in tutta Europa per riportare l’attenzione sull’autodeterminazione delle donne, probabilmente nella giornata dell'’8 marzo (se la data verrà confermata dalla Spagna). La decideremo in modo che abbia il maggior impatto possibile sull’opinione pubblica italiana e in funzione di quanto faranno in Spagna” .
Per questa prima base della rete le promotrici si sono date alcune indicazioni: si può aderire come associazioni di donne e come donne singole, non come partiti o istituzioni. “Rimaniamo quello che siamo: Wae non vuole essere una nuova organizzazione con gruppi territoriali. La vera sfida è stare in contatto pur mantenendo le differenze e fare rete con obiettivi comuni” sottolineano da Firenze. “Chiediamo a tutte le donne che hanno voglia di fare qualcosa di dirlo: si può lavorare su Facebook, blog, twitter, scrivere articoli, mettere contatti in comune, ognuna può dare il suo contributo”.
Un’iniziativa di tutte le donne europee, di qualsiasi orientamento sessuale, tutte possono contribuire concretamente a “tessere” la rete, che già in parte, in questi anni, si è creata. “Sappiamo che il tema sul quale è stata lanciata la rete parte da un'emergenza e sappiamo bene che in realtà i temi legati alla autodeterminazione sono tanti: facciamo in modo che questa sia l'occasione per riprendere una ampia discussione connessa alla libertà di essere e alla libertà di scegliere della propria vita” concludono le promotrici.

domenica 12 gennaio 2014

COGNOME E PASTOIE Chiara Saraceno

"Temo che anche in questo caso siamo di fronte alla logica consueta che entra in azione in Italia quando si toccano questioni che hanno a che fare con la famiglia: si arriva con ritardo a regolare ciò che altrove da tempo fa parte dei diritti di libertà e in nome di questo ritardo si pretende di procedere lentamente, perché la società “non sarebbe pronta”.
L’IDEA che ci debba essere un privilegio paterno, almeno nella continuità del cognome, continua a prevalere tra i nostri legislatori. Il disegno di legge sul cognome che può essere attribuito ai figli approvato dal Consiglio dei ministri sembra partire con il piede sbagliato, rischiando così di incorrere di nuovo nella censura della Corte di Strasburgo. Secondo le notizie di agenzia, il disegno di legge prevede che il figlio «assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori». Questa formulazione ancora una volta privilegia il cognome paterno, che verrebbe attribuito di default, mentre per attribuire il cognome materno o quello di entrambi i genitori occorrerebbe una esplicita richiesta e dichiarazione di consenso. In ottemperanza al principio di libertà di scelta nelle questioni che riguardano la vita privata e della uguaglianza tra madri e padri, la norma dovrebbe essere formulata in modo da non privilegiare alcuna delle tre soluzioni, chiedendo che all’atto della dichiarazione di nascita, eventualmente prima che essa avvenga, i genitori dichiarino quale cognome vogliono attribuire al figlio. La procedura sarebbe simile a quella richiesta oggi quando il padre non coniugato con la madre vuole riconoscere il figlio dandogli il proprio cognome.
Non è, inoltre, chiaro perché non dovrebbe essere possibile almeno aggiungere il cognome della madre ai figli nati prima dell’entrata in vigore della legge. Capisco le difficoltà burocratiche, ma anche di continuità della riconoscibilità sociale di un individuo, a prevedere un cambiamento radicale di cognome. Ma la possibilità di aggiungerlo senza dover fare lunghissime trafile burocratiche come avviene attualmente non dovrebbe presentare problemi insormontabili e soddisferebbe coloro che avrebbero desiderato farlo, ma ne sono stati scoraggiati, quando non impediti. Contestualmente si dovrebbe modificare la norma che stabilisce che all’atto del matrimonio la moglie aggiunge al proprio il cognome del marito, lasciando liberi entrambi i coniugi di aggiungere o meno il cognome dell’altro e di definire quale sia il cognome di famiglia.
Giacciono in Parlamento diverse proposte di legge che toccano questi temi, ma sembra che la presidenza del Consiglio, o chi ha formulato il disegno di legge, li ignorino. Temo che anche in questo caso siamo di fronte alla logica consueta che entra in azione in Italia quando si toccano questioni che hanno a che fare con la famiglia: si arriva con ritardo a regolare ciò che altrove da tempo fa parte dei diritti di libertà e in nome di questo ritardo si pretende di procedere lentamente, perché la società “non sarebbe pronta”. È successo con il divorzio, arrivato tardi e con vincoli (processo a due stadi, con lungo periodo di attesa intermedio) sconosciuti in altri Paesi. È successo con l’equiparazione piena tra figli naturali e legittimi, per cui ci sono voluti oltre quarant’anni, più un anno tra la modifica della legge e i decreti attuativi. È successo con la riproduzione assistita, che è regolata da una delle leggi più restrittive al mondo. Sta succedendo con il riconoscimento delle coppie omosessuali, per le quali si inizia, tra molte resistenze, a discutere di unioni civili, mentre i Paesi che le hanno introdotte da più tempo stanno passando al matrimonio. E sembra stia succedendo anche con il cognome. Nel frattempo, in società, le famiglie, i rapporti tra uomini e donne, il modo in cui si decide di generare, i rapporti tra le generazioni cambiano e in molti casi rischiano di rimanere fuori, non solo dalle regole, ma dalle protezioni. Fino alla prossima sentenza di una Corte.

venerdì 10 gennaio 2014

Scienziata di Marcianise premiata da Barack Obama: Raffaella De Vita genio dell’Ingegneria negli Usa



Negli Usa vive e lavora un genio dell’ingegneria e della meccanica molecolare mondiale che ha origini campane. Il suo nome è Raffaella De Vita, nata a Marcianise in provincia di Caserta, diplomatasi al liceo scientifico Quercia nella città che le ha dato i natali ed attualmente docente alla Virginia Tech University di Blacksburg. La scienziata verrà insignita il prossimo anno del ‘Pecase’ – Presidential Early Career Awards for Scientists and Engine – la più alta onorificenza che il Governo degli Stati Uniti conferisce a ricercatori ed ingegneri. E sarà il presidente Barack Obama in persona a consegnare il premio a De Vita, selezionata insieme ad altri 102 luminari del settore.
 Raffaella De Vita ha già ottenuto nel 2012 un importante riconoscimento alla sua carriera con il premio ‘Career’ della National Science Foundation grazie allo studio sui disturbi del pavimento pelvico, un problema che colpisce un terzo delle donne americane adulte. Con questo lavoro De Vita “potrebbe potenzialmente trasformare i metodi di ricostruzione chirurgici e le procedure di riabilitazione post-operatoria per la sofferenza femminile da disturbi del pavimento pelvico”, come ha spiegato la stessa scienziata. Insomma, un’opera rivoluzionaria che potrebbe portare a trovare la cura per numerose patologie di cui sono vittime moltissime donne. Un orgoglio per l’intera Regione, motivo di vanto per il territorio campano e ulteriore dimostrazione che il talento, da queste parti, è di casa.

mercoledì 8 gennaio 2014

La donna che non si alzò! Deborah Dirani


Cosa ci vuole per essere rivoluzionarie senza retorica, senza violenza, senza dare fuoco ai cassonetti, urlare come gatte arruffate e, tuttavia, essere autrici di un vero cambiamento?
Vi voglio raccontare una storia, una delle mie preferite, di una donna eccezionale perché, nella sua lotta per i diritti civili, non ha usato la violenza, ma la fermezza di uno storico, coraggiosissimo (per noi che siamo qua oggi, inimmaginabile) NO.
Rosa Parks aveva 42 anni, era una bella signora afroamericana che lavorava come sarta in un grande magazzino a Montgomery, in Alabama (l’ultimo baluardo del più becero razzismo dei liberi Stati Uniti d’America). Non era una professoressa universitaria, non era una megamanager, non era insomma una donna che avesse avuto accesso ai templi della cultura. Era una sarta: stava chinata con la testa sulla sua macchina da cucire dalla mattina alla sera. Rosa Parks era una donna come tante, una donna del tutto simile a noi che oggi ancora ci lamentiamo delle discriminazioni che subiamo in quanto donne. Rosa Parks era una donna e per di più afroamericana, e per di più dell’Alabama. Se noi ci sentiamo ‘sfigate’, lei era, per diritto di nascita, la quintessenza della sfiga. Solo che Rosa era una poco incline al piagnisteo e alla lamentela, era una che era entrata a far parte del movimento per i diritti civili degli afroamericani della sua città. Quindi, riassumendo, Rosa Parks lavorava, aveva una famiglia e si dedicava alla politica.
Il primo dicembre 1955 era sera e Rosa aveva finito il suo turno di lavoro, era andata alla fermata dell’autobus e aveva atteso che arrivasse quello che l’avrebbe riportata a casa (dove immagino avesse ad attenderla una cena da preparare, una pila di panni da stirare e altre faccende da concludere prima di spataccarsi a letto). Quando il suo autobus arrivò, lei salì nella parte retrostante, quella riservata ai neri (che sì nel 1955 negli Stati Uniti d’America i neri viaggiavano in posti riservati in fondo al tram) ma non trovò un posto libero. Era stanca Rosa così, quando vide che davanti, vicino all’autista nel settore dei bianchi, c’era un seggiolino libero, si trascinò fino a lì, si accomodò e iniziò a sentire che piano piano i muscoli della sua schiena si distendevano, le gambe si allungavano e le spalle si rilassavano. Guardava fuori dal finestrino, la signora Parks, facendosi cullare dal rollio dell’autobus: un momento di relax tutto per sé. Un momento interrotto dal rimprovero di James Blake (l’autista) che le intimava di alzarsi per cedere il posto a uno del colore giusto (il bianco) che aveva diritto a quel seggiolino. Lei guardò l’autista, guardò i bianchi che aveva intorno, guardò anche se laggiù dove avrebbe dovuto sedere si fosse liberato un sedile, e poi semplicemente disse: “No”. “No, non mi alzo”. Rosa Parks si era scocciata di essere discriminata, di vedere violati i suoi diritti di essere umano, prese tutto il coraggio che aveva nel cuore, e disse “No”. Quel “No” le costò l’arresto per avere violato le norme del suo stato. Poteva finire lì, chi le chiuse in faccia con un ghigno soddisfatto le sbarre della sua cella, era piuttosto convinto che sarebbe finita lì. Ma quella notte 50 attivisti per i diritti degli afroamericani, guidati dall’uomo che qualche anno dopo disse “I have a dream” e che all’epoca era quasi un signor nessuno, decisero che per rappresaglia avrebbero boicottato gli autobus di Montgomery. E lo fecero per 381 giorni di fila, fino a quando il caso di Rosa Parks, giunto alla Corte Suprema, non produsse un risultato che 382 giorni prima sarebbe stato impensabile: la segregazione razziale sui pullman pubblici dell’Alabama fu dichiarata incostituzionale.
Rosa Parks, donna, afroamericana, sarta di Montgomery ha cambiato il corso della storia del suo Paese trovando il coraggio di dire “No” alla violazione di un diritto: quello di essere tutti uguali dal momento in cui nasciamo.
Ogni giorno, in Italia, nel mondo ci sono donne che subiscono la violazione dei propri diritti: che vengono, usate, umiliate, vessate, violentate. Ogni giorno ogni donna del mondo può avere il coraggio di dire “No”. In tante, lo so, lo fanno, in tante per questo pagano con la vita. Ma io sono sicura: una di loro sarà per tutte noi la Rosa Parks che ci aiuterà a scrivere un futuro migliore per noi e per le nostre figlie. E sarà, proprio come Rosa Parks, una donna normale, una qualunque di noi.