domenica 28 settembre 2014

Vi aspettiamo Domenica 5 ottobre a P.zza Europa - Corsico per continuare  "la lunga sciarpa del Naviglio"  e per cantare insieme ...


sabato 27 settembre 2014

La ministra Boschi e il bikini. Regole d’immagine per donne serie e professionali.

Come scrivemmo qualche tempo fa (in questo post ) da un po’ di mesi a questa parte, da quando si è formato il governo Renzi, l’attenzione dei media è tutta incentrata sulla ministra per le riforme Maria Elena Boschi.
Si sprecano le copertine di settimanali e periodici che ci raccontano della sua vita in maniera dettagliata, estrapolando dettagli inutili e spesso ridicoli: dalla tazza di latte che beve quando torna a casa la sera fino alla ricerca del principe azzurro con cui sfornare numerosi pargoli.
L’interesse maggiore dei media però si è concentrato soprattutto sull’aspetto fisico della giovane ministra. Fotografata da ogni angolazione, nessun dettaglio viene tralasciato : capelli, piedi, gambe occhi, bocca, etc .
Una delle pagine che più mi capita di seguire su fb e che si occupa in modo ironico del ridicolo voyeurismo della stampa italiana, ha infatti riportato con varie schermate i numerosi articoli voyeuristici dedicati alla Ministra.
Dal look al sorriso fino ad arrivare all’anulare sinistro
Ogni occasione è buona per pubblicare qualche foto di Boschi, dove da una parte si attirano click dall’altra si vanno ad alimentare stereotipi e linciaggi sessisti. Come più volte abbiamo detto, i media giocano un ruolo determinante nella società perché non si limitano a informare ma anche a formare opinioni e spesso pregiudizi –tra i quali sessismo e razzismo.
E come dimenticare i fantastici sondaggi di Libero?
La preferite con o senza occhiali?
E cosa ne pensate del suo sedere, è grasso o sexy? Sondaggio eliminato subito dopo– si presume per le numerose proteste
Nei mesi estivi poi, questo report de “La Ministra Boschi fa cose”, è diventato maniacale e gran parte delle testate giornalistiche italiane ci hanno deliziato con decine di gallery de “La ministra in bikini”, come se stessero fotografando un orso polare nel deserto.
Le scuole di pensiero sono due :
quelli che pensano che il lato B di Boschi sia ok e quelli che pensano che sia poco in forma e abbia la cellulite sul fondoschiena
E voi con chi state?
Come crede di occuparsi di riforme con quella cellulite sul sedere?
E ancora: “Scandalo a un passo dal topless!!!!11″. Pizzicata in spiaggia mentre si sistema il costume.
Se provate a fare una ricerca su google troverete migliaia di giornali che riportano la falsa notizia con titoloni acchiappaclick del tipo “Hot topless della Boschi”
Insomma, quando non bastano o non esistono le immagini per attirare lettori (o forse sarebbe più corretto definirli “guardoni”) i giornali costruiscono notizie con stupidi titoloni, tra l’altro.
Poi è arrivato l’articolo di “Diva e Donna” che riportava, pensate un po’, immagini di Maria Elena Boschi mentre, sdraiata sul lettino, divaricava leggermente le gambe. Che scandalo, signora mia!
Le foto sono state riprese da vari quotidiani e pubblicate con il banale e imbarazzante gioco di parole “l’onorevole poco onorevole”
Beh, certo, signore care, non è decoroso per una donna stare al mare con gambe rilassate, non è “onorevole” per una donna, figuriamoci per una ministra.
Le donne al mare dovrebbero assumere una posizione un po’ più formale, le gambe non dovrebbero rilassarsi ma bisognerebbe tenerle ben serrate. Anzi, se si potesse evitare di andare al mare sarebbe la scelta più giusta, così nessuno avrebbe da ridire circa il vostro conto e la vostra moralità.
Cara ministra Boschi, se non vuoi che in giro si dica che non sei professionale e seria dovresti adottare un abbigliamento più consono, da donna seria, insomma. Un perfetto outfit per ogni occasione, anche al mare, potrebbe essere : un tailleur rigorosamente nero con pantaloni ampi, un bel paio di decolletè raso terra accollate fino alla caviglia, calze coprenti color brodo o nero 70 den.
Le donne vengono ancora giudicate in base all’aspetto e a quello che indossano e questa spazia dalla loro presunta immoralità fino alla professionalità. Insomma se indossi un pantalone aderente o una gonna non puoi essere considerata né una donna seria né una professionista seria.
E non di certo questo si limita solo ai personaggi della politica o dello spettacolo, che sono più esposti ai giudizi, lo stigma sull’aspetto fisico –che sia avvenente o poco avvenente—purtroppo lo abbiamo subito in tante.
Non sono mica i fotografi e i giornali che si comportano in modo bieco, spione e moralista, è lei che attira tutta questa attenzione su di sé, se fosse un pochino meno carina, se si vestisse in maniera un po’ più castigata nessuno oserebbe darle della poco professionale.
Come le molestie per strada, ad esempio: se metti un paio di jeans sformati, un maxi-cappottone e un paio di doposci al posto delle scarpe, anche in pieno agosto, vedrai che nessuno proverà a molestarti o a rivolgerti commentacci. Certo, come no.
Mai però avrei pensato di leggere questo post sulla pagina fb de “Il corpo delle donne”
Dopo un’ampia introduzione fatta di lunghe premesse dove si precisa che in nessun modo si sta giudicando l’aspetto della ministra, dopo un’ampia parentesi sul voyeurismo acchiappaclick dei giornali il post si conclude con queste parole
La consapevolezza della propria immagine per una donna di potere diventa dunque arma fondamentale. Proprio perchè siamo in un Paese arretrato dal punto di vista della considerazione femminile, consiglierei alla Ministra Boschi di gestire la propria immagine in modo da impedire che i nostri arretrati media stravolgano la sua immagine e ce la propongano in modo molto diverso e molto più banale
Ho letto e riletto le parole di Lorella Zanardo sperando di aver male interpretato e di aver dato un giudizio affrettato al post, ma più rileggevo più in quelle parole non mi ci ritrovavo –né come donna né come femminista. Conosciamo Lorella Zanardo, abbiamo più volte avuto modo di collaborare con lei, di confrontarci e questo non è di certo un attacco al suo lavoro o alla sua persona, ma non posso negare che leggere quelle parole sulla sua pagina sia stato davvero deludente.
Mai e poi mai su una pagina femminista si dovrebbero dare, con toni paternalisti tra l’altro, lezioni di comportamento ad altre donne. Di quale femminismo parliamo allora?
Quale sarebbe poi il profilo da mantenere al mare? Come dicevo più sopra, mettere il tailleur castigato anche in vacanza? Usare i doposci al posto delle infradito?
L’aspetto fisico piacevole diventa quasi una colpa e siccome l’Italia è un paese maschilista, dove un signore ad una festa dell’Unità si rivolge ad una ministra con “Bella ragazela, vieni qui che facciamo una foto insieme”, siccome la nostra stampa usa il corpo femminile anche per parlare di verdure o animali allora le donne –in questo caso la ministra Boschi– dovrebbero adottare un comportamento consono, non attirare l’attenzione su di sé per evitare che l’opinione pubblica possa (s)parlare e avere dei pregiudizi.
Ma la gente sparla e giudica comunque, e il femminismo, da che mondo è mondo, ha sempre tentato di sfatare certi pregiudizi e non di bacchettare le donne dando loro delle dritte su come una donna si dovrebbe comportare.
Ricordiamo il caso inverso di Rosy Bindi, quante volte l’aspetto poco avvenente di quest’ultima è stato giudicato prima delle sue competenze? Il problema di fondo è un altro : bella o poco avvenente l’aspetto delle donne viene prima di tutto il resto, e tutto quello che c’è intorno –dall’abbigliamento all’atteggiamento– è solo un alibi, una scusa per sentirsi giustificati nel giudicarle in modo sessista.

Avete mai sentito qualcuno consigliare ad Alfano, Renzi o Grillo di mettere le gambe in un certo modo invece che in un altro e di mantenere un certo profilo anche in vacanza? Avete mai sentito che un politico sia stato giudicato sempre, solo e unicamente per l’aspetto avvenente? No. Ecco, il problema è solo e unicamente questo; come scriveva Oriana Fallaci, tutto cambia a seconda di chi ha la coda e chi no.

venerdì 26 settembre 2014

Famiglia, sesso, donne al potere I tabù che Bergoglio non supera dI Daniela Minerva e Francesca Sironi

Convivenze, contraccezione, gay. La morale sessuale della Chiesa respinge la società contemporanea. È la spina nel fianco di Francesco. Che convoca un Sinodo per discuterne
La partita si apre il 5 ottobre col passo felpato dei Sacri Palazzi. Quando 253 tra vescovi, presbiteri e fedeli di alto rango arriveranno a Roma provenienti dai quattro angoli del pianeta. Con il compito di decidere se le parole su famiglia, sesso e donne di Santa Romana Chiesa hanno ancora senso al tempo delle unioni civili che si avviano a sorpassare i matrimoni, delle coppie gay di fede cattolica, dei divorzi, dell’amore che non è tale senza un passaggio tra le lenzuola; ma anche al tempo dei femminicidi, degli abusi sui bambini, dei matrimoni combinati di adolescenti, della prostituzione coatta. Papa Francesco ha promesso di riportare la Chiesa tra la gente e sa che la sua promessa resterà lettera morta se non entrerà nella carne viva delle nuove famiglie, che significa nei fatti affrontare il tabù dei tabù per i prelati: la questione sessuale. Per questo il Gesuita ha convocato, fino al 19 ottobre, il Sinodo straordinario sulla famiglia : 15 giorni di assemblea e di discussioni su un documento, l’Instrumentum Laboris, che squaderneranno dinanzi al mondo se Bergoglio ha intenzione o no di fare sul serio.
Anche se, nella migliore delle tradizioni vaticane, prima ancora di cominciare il Papa ha messo dei paletti: questo sinodo precede un anno di riflessioni, poi ci sarà un altro Sinodo nel 2015 e infine si vedrà se cambiare qualcosa nella pastorale della Chiesa. Ma attenzione, non si pensi che questo dilungarsi ammorbidisca le spine di Francesco incalzato dalla realtà dell’amore e degli amori, né appanni il suo coraggio di affrontare il Grande Tabù. Lui sa che non si può scuotere il corpaccione ecclesiastico tutto d’un botto, soprattutto se si parla di sesso e donne. E un anno non è poi molto, se servisse a decidere che, come ha detto il cardinale Oscar Rodriguez Mariadaga, il Vangelo può essere interpretato, non va preso alla lettera quando parla di famiglia; e che è ora di farla finita con la sessuofobia.
Il nodo del sacerdozio femminile. I ruoli che potrebbero essere dati da subito alle donne. I temi su cui il Pontefice dovrebbe intervenire secondo Suor Elisa Kidanè, missionaria comboniana
Sarà veramente così? A giudicare dall’Instrumentum Laboris, no: il documento vaticano ribadisce le chiusure di sempre, dalla contraccezione alle unioni fuori dal matrimonio, all’amore omosessuale. Ma Bergoglio ci ha abituato alle sorprese e sono in molti a sperare che il Papa si liberi, in un anno, almeno di una parte della polvere bigotta che segna una così grande distanza tra la realtà e il Verbo. Magari basandosi sul fatto che è lo stesso Instrumentum a mettere nero su bianco una verità scomoda: i cattolici di tutto il mondo si comportano in maniera molto differente da come vorrebbero i vescovi. I quali, nel documento, ne danno la colpa ai media, alla secolarizzazione, all’edonismo, a quelle streghe delle femministe, alle legislazioni permissive; e vanno sulle barricate col solo scopo di mirare meglio l’insegnamento e affilare le armi per combattere quella che sembra ormai a tutti la normalità sessuale.
L’idea di Francesco è stata quella di scrivere un questionario, di inviarlo in giro per il mondo e ascoltare la cosiddetta voce dei fedeli. Sulla base delle risposte, Roma ha poi redatto l’Instrumentum Laboris. Molte le questioni affrontate: dalla comunione che la Chiesa nega ai divorziati all’educazione cristiana dei bambini. Ma il cuore è chiaro e netto: l’etica sessuale, cosa chiede il Vangelo e cosa, invece, fanno gli uomini e le donne del XXI secolo.
«Il documento è deludente», boccia il teologo Vito Mancuso: «Se il Sinodo si attesterà su questo, allora non cambierà nulla. Ma se i vescovi vogliono servire la vita vera allora dovranno accettare il fatto che dalla rivelazione cristiana non discendono necessariamente una serie di no. E da quel che accadrà capiremo anche cosa vuole fare Bergoglio». Già, perché, comunque, sarà poi il Papa a tirare le fila e a decidere se e come cambieranno i diktat vaticani. Tutti confermano che, in realtà, Francesco è concentrato sulla moralizzazione della sua Chiesa più che sulla sua modernizzazione. Sue priorità sono la povertà, le periferie, la pace, lo stile di vita degli ecclesiastici. Ma, chiosa Mancuso: «Non è uno che si fa imporre dei cliché. Non recita. E sa che se vuole restituire la Chiesa allo spirito del Vangelo la questione femminile è tra le prime che vanno affrontate».
Cosa c’entra la questione femminile con la famiglia cristiana? A costo di essere pedanti, ripeteremo il sillogismo che riempie i cuori di vescovi e cardinali, e che segna passo passo il documento di cui discuterà il Sinodo: modello di tutte le donne è Maria, vergine e madre; alle femmine Dio ha affidato il compito di figliare, per legge naturale, all’interno della famiglia che ha come modello unico quella di Nazareth (madre vergine, padre e figlio) e che è la cellula fondante della società; l’incontro tra un uomo e una donna ha come suggello naturale la gravidanza. Qualunque grillo abbiano per la testa le donne del XXI secolo che non rientri in questo schemino è contrario alla legge di natura.
Il lavoro femminile? È una costrizione. Gli asili nidi? Da combattere, perché la madre deve restare col bambino nei primi anni di vita. E la contraccezione? Va eliminata. Parla Don Pietro Cesena, il parroco di Borgotrebbia, quartiere di Piacenza.
La questione sessuale e la questione femminile sono la stessa cosa sia nelle teste dei cardinali sia nel magistero di Santa Romana Chiesa. E se siete convinti che poi, nei fatti, i preti sappiano bene che le cose non stanno così, state ad ascoltare cosa ci ha detto Don Pietro Cesena, da 14 anni guida della parrocchia di Borgotrebbia, a Piacenza e che sulla scrivania, quando ci riceve, ha un libro dal titolo “Contro gli asili nido”: «Il lavoro femminile è una costrizione. Una necessità dettata dal falso bisogno di guadagnare di più per consumare di più. Nella coppia cristiana invece la donna può decidere di rinunciare ad alcune capacità per amore, per donarsi alla famiglia». Di Don Pietro, dalle Alpi alla Sicilia ce ne sono migliaia: insegnano ai giovani la verginità, tuonano contro i contraccettivi e le convivenze, nella convinzione che: «La donna è creata per essere feconda».
Non stupisce allora leggere nei questionari inviati dalle diocesi a Roma per il Sinodo che la Chiesa è percepita dai fedeli come ostile e giudicante e che questo allontana i giovani. È un fatto, che però non piace al cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi: «Urge permettere alle persone ferite di guarire e di riconciliarsi. Si tratta di proporre, non imporre; accompagnare, non spingere; invitare, non espellere». Baldisseri estrapola la madre di tutte le soluzioni proposte dal documento su cui discuterà il Sinodo che invoca lo sguardo amorevole sui peccatori, da perdonare e convincere a non sbagliare più. E che spinge a una previsione sull’esito: finiranno col concedere la comunione ai divorziati, e chiuderanno così, è l’opinione dei più. Confortati dal gesto plateare del Papa che domenica 14 settembre ha sposato in San Pietro venti coppie “moderne”: conviventi, alcuni con bambini, magari avuti da una precedente unione. E ha chiosato con un significativo: «Gesù sta in mezzo alla gente e sceglie i peccatori». Riportando la macchina del Sinodo a quanto suggerisce l’Instrumentum Laboris: siate misericordiosi.
«Quel documento è totalmente estraneo a 100 anni di storia delle donne: a questa storia, purtroppo, la struttura ecclesiastica è rimasta pressoché impermeabile», commenta la teologa Marinella Perroni, della Facoltà Sant’Anselmo di Roma: «Io credo che il Papa sarebbe forse disponibile ad ascoltarci. Ma viene anche lui da un mondo rimasto per troppo tempo lontano dalla consapevolezza critica delle donne e non so quale possibilità reale abbia di studiare a fondo come si è andata configurando e evolvendo la cosiddetta questione femminile».
Così il pallino torna nelle mani del Papa che da mesi dice un gran bene delle donne, della loro intelligenza di cui il mondo e la Chiesa hanno bisogno, del «genio femminile», ha detto al congresso del Centro italiano femminile il 25 gennaio scorso. Certo è un genio che ha la sua lampada nella famiglia. Che si esprime nelle opere della Madonna. Preistoria per le donne di mezzo mondo. E così anche il Papa finisce per scivolare quando dice alle suore: «Siate madri, non zitelle».
Ma la decisione finale spetterà a Francesco
Il sinodo appena convocato vedrà un acceso confronto tra le due fazioni sui temi della modernità: dal celibato dei preti alla comunizione ai divorziati. Ma l'ultima parola sarà di Bergogllo e non arriverà prima del 2015

«Anche per lui il femminile coincide col materno e il maschile con l’esercizio dell’autorità. Pur se alcuni suoi punti di vista sembrano aprire nuove prospettive, Bergoglio continua a muoversi, non diversamente dai suoi predecessori, dentro il sistema di pensiero appreso durante la sua formazione. La teologia che si insegna e si impara ancora oggi nei seminari e nelIe Facoltà è espressione di un universo mentale e esistenziale solo maschile: di fronte alle istanze delle donne che, prima che essere rivendicazioni di potere, sono richieste di un radicale cambio di mentalità, gli ecclesiastici restano spesso atterriti e per questo, forse, le demonizzano», riassume Marinella Perroni. E le fa eco Don Cristiano Mauri, brianzolo, classe 1972, un prete giovanotto che va in giro in jeans e ha un blog, “ La bottega del Vasaio ”: «Ti preparano a fare il prete in un ambiente totalmente maschile come il seminario. Poi tu esci e hai a che fare per il 90 per cento del tempo solo con donne. E ti rendi conto di come la tua vita, e lo dico da celibe, ha bisogno dell’apporto delle donne, del loro sguardo, della loro sensibilità». Invece, aggiunge Don Cristiano: «Questo di ottobre è di sicuro un Sinodo con un’impronta molto maschile. Il modello familiare proposto è ancora unico, ancora lo stesso portato in scena al Family day di due anni fa, quando sul palco salirono tutte coppie bellocce, con 4-5 figli, dove la donna faceva la madre. Continuiamo a restituire un’immagine di noi gerarchica e al maschile».

giovedì 25 settembre 2014

Una casa per over 65, dove vivere una menopausa rivoluzionaria

Su invito della rivista Twf, Thérèse Clerc ha presentato a Roma la “Casa delle streghe” che nella periferia di Parigi accoglie donne over 65 intenzionate a vivere insieme una vecchiaia attiva e ricca. E ha lanciato un appello per la creazione di strutture simili in Italia
“Il mio è un progetto per cambiare l’immagine della vecchiaia”: Con queste parole Thérèse Clerc, ottantacinquenne, madre di quattro figli e femminista piena di energia e sensualità ha presentato a Roma – in un incontro organizzato alla Casa delle Donne dalla rivista femmista Dwf (Donna Woman Femme) - la “Maison de Babayagas” (in italiano “La Casa delle Streghe) che ha fondato a Montreuil, nella periferia parigina, per ospitare 20 donne over 65 intenzionate a vivere insieme una terza età attiva e aperta alla collettività. “La nostra è una casa aperta, in cui le donne continuano a lavorare con la comunità del quartiere, dove vivono molti immigrati”, ha spiegato Clerc, “di qui l’idea della giovinezza”. Clerc, che ha fondato la casa in cui 20 donne vivono in piccoli appartamenti autonomi di 35 mq, dentro una struttura con molti spazi comuni e pagando una quota media di 420 euro al mese, ha spiegato come è riuscita a mettere in piedi un progetto tanto innovativo e ha lanciato un appello per la creazione di case simili anche in Italia.
“La Maison de Babayagas” è nata dopo una lotta di 10 anni”, ha spiegato Clerc che nel febbraio 2013 ha inaugurato la casa, dal costo di 4 milioni di euro, ottenuti per una metà dal comune di Montreuil e da altre istituzioni pubbliche e per l’altra metà attraverso un mutuo della banca che eroga prestiti per servizi pubblici “Caisse des Impots et Consignations”. Clerc ha spiegato che l’evento decisivo per il lancio del progetto della “Casa delle Streghe”, è stata l’estate del 2003, “quando la Francia è stata attraversata da un’ondata di caldo che ha provocato la morte di 15 mila anziani”. A quel punto Le Monde ha pubblicato un articolo sul progetto e questo ha agito da traino per le istituzioni. Ma l’iniziativa dell’attivista francese è basata sulla sua esperienza personale: “Quando ho assistito per cinque anni mia madre fino alla fine della sua vita è stata molto dura, avevo quattro figli, che si sposavano, soffrivano e divorziavano”, dice, “mi son detta che avrei fatto in modo che loro non dovessero vivere la stessa esperienza”.
L’attivismo sociale, oltre al pagamento della quota, è un elemento fondamentale per l’accesso alla Maison de Babayagas, perché considerato fondamentale per invecchiare bene: “Le femministe invecchiano meglio per il senso dato alla loro vita, cosa che garantisce una migliore salute mentale”, afferma Clerc. I quattro principi su cui si fonda la convivenza nella Maison sono: autogestione, solidarietà, cittadinanza ed ecologia: autogestione perché la casa è governata da un “Consiglio di amministrazione” eletto dalle abitanti; solidarietà e cittadinanza perché è una casa aperta al quartiere, dove organizza corsi di lingua e altre attività con i giovani e gli immigrati; ecologia perché è stata progettata per riutilizzare l’acqua piovana e recuperare l’energia attraverso i pannelli solari, mentre la spesa viene ordinata dai contadini del territorio.

Al momento in diversi paesi si stanno progettando nuove “Maison de Babayagas”, oltre che in Francia, anche in Canada e Germania. E insieme a Thérèse Clerc l’idea è approdata anche in Italia.  

mercoledì 24 settembre 2014

I talenti delle donne: solo un valore aggiunto? di Lea Melandri


L’intervista, strumento abituale della ricerca sociologica, quando le interlocutrici sono donne riserva sempre delle sorprese. I cambiamenti profondi, che negli ultimi due secoli hanno interessato la condizione femminile – dall’ingresso nella sfera pubblica alla presa di coscienza del rapporto di potere tra i sessi-, si traducono in un racconto di sé che si muove nelle direzioni più diverse: dai legami più intimi ai problemi lavorativi e alle contraddizioni che si accompagnano all’assunzione di responsabilità dentro e fuori l’ambito famigliare. In un’epoca in cui sembra scomparsa la spinta a confrontare esperienze, a dare al vissuto del singolo una dimensione collettiva, le testimonianze su “Donne e Leadership” raccolte dall’Istituto di ricerche sociali Aaster di Milano per conto di Unicredit, nella rilettura che ne fa Anna Simone nel suo libro I talenti delle donne. L’intelligenza femminile al lavoro (Einaudi 2014) restituiscono sia pure in modo frammentario i percorsi che la riflessione femminile ha conosciuto nei gruppi di autocoscienza.
Pur trattandosi di voci “privilegiate”, “donne piene di talento e di passione per quello che fanno”, per il fatto stesso di appartenere ad ambiti diversi, permettono –come scrive l’autrice nell’Introduzione- di “comprendere il ‘passaggio’ di fase sociale, politico ed economico, che le donne e i discorsi sulle donne stanno attraversando nel paese (…) Non si tratta più solo di contraddizioni legate alle vecchie, tanto quanto dure a morire, abitudini basate sull’esclusione delle donne dalla sfera pubblica (il patriarcato), quanto di contraddizioni segnate dall’inclusione o dalle modalità, dagli strumenti che la determinano (il paternalismo).” Le conseguenze a cui va incontro l’integrazione delle donne in un ordine sociale che non viene messo in discussione nelle sue strutture portanti, nate sulla divisione sessuale del lavoro, erano già state lucidamente descritte dal femminismo ai suoi inizi. Nel “Manifesto programmatico del gruppo Demau” (1966) si leggeva:
Integrazione significa immettere la donna nella società così com’è, cioè una società di tradizione decisionale maschile, con degli accorgimenti che, non eliminando per questo l’inconciliabilità di due ruoli prefissati, ne permettono la coesistenza nelle sole donne. Per la donna integrazione non può voler dire conquista di una propria libertà a e autonomia poiché la obbliga a trovare un compromesso tra due sfere definite finora in modo nettamente separazionistico, e, poiché mai valutate intercambiabilmente, contro la donna stessa in quanto ad essa sola compete una di esse tutta intera.
La novità è che oggi -come rileva Anna Simone- accanto alle battaglie per la parità di genere, uguaglianza nei diritti e nei ruoli decisionali, l’emancipazione è andata assumendo forme impreviste: da un lato, la valorizzazione della diverstity -Fattore D, doti, talenti femminili riconosciuti come risorsa per l’economia e la politica proprio in virtù della loro “differenza”-, dall’altro la “neo oggettivazione del corpo femminile” come corpo erotico. In sostanza: “da un lato le donne oggetto del desiderio; dall’altra le donne incluse perché utili all’aumento del Pil”. Il movimento di liberazione delle donne -nato negli anni ’70 e ancora presente con le sue associazioni, la sua produzione di pensiero e di pratiche politiche- aveva posto al centro l’analisi del corpo, della sessualità e dell’immaginario su cui si sono costruite le identità e le differenziazioni di genere, muovendo dall’idea che si trattasse di venire lentamente a capo di complicità inconsapevoli con la propria oppressione. La libertà per le donne sembra oggi ispirarsi invece a una sorta di rivalsa, o capovolgimento delle parti: vengono impugnate attivamente e volte a proprio vantaggio quelle che sono state per secoli le ragioni del loro confinamento nella natura e nell’insignificanza storica, cioè la seduttività dei loro corpi e le doti materne (cura, amore, sensibilità).
Dell’inclusione delle donne e della valorizzazione di doti, “talenti” ritenuti complementari sulla base della differenziazione tra i sessi che abbiamo ereditato, hanno bisogno oggi la crisi che il maschile sta attraversando, come valore dominante, e la società che vi si è costruita sopra, svincolata dalle necessità primarie della conservazione della vita. Siamo dunque di fronte a un modello di mutamento sociale in cui –come scrive Anna Simone- “ le donne sono numericamente più consistenti senza avere la possibilità di apportare un loro specifico in grado di cambiare alla radice l’organizzazione della società e del potere. In sintesi, fare carriera equivale spesso ad accettare un modello maschile e patriarcale del lavoro, della società e della politica, nonché un modello di società ‘prestazionale’”. La conferma viene da molte delle donne intervistate:
La bravura non conta. Una può essere bravissima ma non conta nulla, quello che conta è giocare nello stesso modo in cui gioca il maschile, quindi scendere agli stessi compromessi. Per cui il problema è culturale (…) Siccome il sistema è maschile, le donne non riescono a farne parte, se non per motivi specifici che sono funzionali al mantenimento del potere, di ‘quel’potere. (Loretta Napoleoni)
Si usano le caratteristiche del modello maschile che non mettono in discussione le nostre vite. E’ questo il nodo. Ci si chiede di essere scisse (…) Il lavoro femminile entrato nel mercato è diventato lavoro povero. Anche questo conferma che esiste il pregiudizio di de valorizzazione. (Susanna Camusso)
Il potere ha caratteristiche soprattutto maschili: l’urlo, l’arroganza, il battere i pugni sul tavolo, nel sindacato accade e io, anche se ci provassi, non mi sentirei nei miei panni (…) Dopodiché molte donne si comportano come gli uomini. Usano quei metodi per autodeterminarsi. Credo, però, che accada solo perché a volte la prevaricazione nei confronti delle donne è talmente elevata da dover rispondere allo stesso modo. (Roberta Turi, segreteria nazionale Fiom)
Il problema di fondo è che sulle donne, a prescindere dai mutamenti sociali, cade la responsabilità maggiore della cura dei figli, della famiglia e della casa. Come si rileva da un rapporto recente di Manager-Italia, “alle donne viene ancora attribuita l’esclusiva sulla gestione della casa (77%), sui consumi e sugli acquisti (55%), sui rapporto coi figli (50%). Il lavoro domestico, in altre parole, è ancora appannaggio delle donne e solo delle donne.” Il rapporto è del 6 marzo 2013. Dunque –è la considerazione di Anna Simone- “una vita da equilibriste, vissuta in solitudine”, nello sforzo sempre meno sostenibile di una “conciliazione” vista ancora come problema femminile. Nonostante le delusioni a cui finora è andata incontro, l’emancipazione sembra aver bisogno oggi solo di un potere maschile meno conservatore, aziende disposte ad alleviare la fatica delle donne attraverso una maggiore flessibilità nella concessione di part-time e congedi parentali, affinché siano più produttive.
“Oggi si include più per retorica politically correct che non per reale attribuzione di senso e valore (…) In questo caso dovremmo parlare più di paternalismo che di patriarcato classicamente inteso (…) Oggi dobbiamo pensare le donne solo come un valore aggiunto utile alla crescita del paese?” Ma ci sono altri interrogativi che dovremmo porci: quanto le donne, forzatamente o meno, consapevolmente o meno, siano ancora legate al potere che viene loro dal rendersi indispensabili nella cura dei figli e dei famigliari, convinte che tale compito appartenga alla loro ‘natura’ materna, anziché essere responsabilità comune di uomini e donne; e, inoltre, perché, nonostante gli evidenti spostamenti di confine tra privato e pubblico, sia ancora così difficile mettere a tema la divisione sessuale del lavoro e il modello di sviluppo , oggi in crisi evidente di sostenibilità, che vi si è costruito sopra.


martedì 23 settembre 2014

Emma Watson per #HeForShe, il suo discorso all’ONU

Vostre eccellenze, Segretario generale dell’ONU, presidente dell’Assemblea Generale , direttore esecutivo di ONU Donne, distinti ospiti…

Oggi lanciamo una campagna chiamata #HeForShe. Mi sto rivolgendo a voi perché abbiamo bisogno del vostro aiuto. Vogliamo porre fine alla disparità di genere e, per farlo, abbiamo bisogno del coinvolgimento di tutti. Questa è la prima campagna nel suo genere all’ONU, vogliamo spronare tanti più uomini e ragazzi possibili ad essere dei sostenitori del cambiamento… e non vogliamo solo parlarne. Vogliamo assicurarci che sia tangibile.
Sono stata eletta ambasciatrice di buona volontà dell’ONU Donne sei mesi fa, e più ho parlato di femminismo e più mi sono resa conto che troppo spesso combattere per i diritti delle donne diventa sinonimo di odiare gli uomini. Se c’è una cosa che so con certezza è che questo deve finire. Per la cronaca, il femminismo per definizione è la convinzione che uomini e donne debbano avere pari diritti, pari opportunità. E’ la teoria dell’uguaglianza politica, economica e sociale dei sessi.
Ho cominciato a mettere in dubbio le supposizioni basate sul genere tanto tempo fa. Quando avevo 8 anni ero confusa dal fatto che mi definissero dispotica perché volevo dirigere le recite che allestivamo per i nostri genitori; ma ai maschi non succedeva. Quando a 14 anni, ho cominciato ad essere sessualizzata da certi elementi dei media. Quando a 15 anni, le mie amiche hanno cominciato ad abbandonare le squadre degli sport che amavano perché non volevano apparire muscolose. Quando a 18 anni, i miei amici [maschi] non erano capaci di esprimere i loro sentimenti… ho deciso che ero femminista e la cosa mi sembrava tutt’altro che complicata. Ma le mie ricerche più recenti mi hanno dimostrato che “femminismo” è diventata una parola impopolare. Le donne si rifiutano di identificarsi come femministe. A quanto pare, [io] sono tra le schiere di donne le cui parole sono percepite come troppo forti, troppo aggressive, isolanti e anti-uomini, persino non attraenti. Perché è diventata una parola tanto scomoda?
Provengo dalla Gran Bretagna e penso che sia giusto che io sia pagata tanto quanto le mie controparti maschili; penso che sia giusto che io sia in grado di prendere delle decisioni che riguardano il mio corpo; penso che sia giusto che le donne vengano coinvolte in mia vece [nella politica] in quelle decisioni che influenzeranno la mia vita; penso che sia giusto che socialmente mi sia garantito lo stesso rispetto che è garantito agli uomini. Ma sfortunatamente, posso dire che non c’è neanche una nazione al mondo in cui le donne possono aspettarsi di ricevere questi diritti. Nessuna nazione al mondo può dire di aver raggiunto la parità dei sessi. Considero questi diritti dei diritti umani.
Ma io sono una delle [donne] fortunate. La mia vita è un vero e proprio privilegio perché i miei genitori non mi hanno voluto meno bene perché sono nata femmina; la mia scuola non mi ha limitata perché ero una ragazza; i miei mentori non hanno presupposto che sarei andata meno avanti [nella vita] perché un giorno avrei potuto avere un figlio. Queste influenze, sono stati gli ambasciatori per la parità dei sessi che mi hanno resa chi sono oggi. Potrebbero non esserne consapevoli, ma sono quei femministi involontari che stanno cambiando il mondo oggi. Ne abbiamo bisogno in numero maggiore. E se ancora odiate la parola: non è la parola che è importante, ma l’idea e l’ambizione che ci sta dietro. Perché non tutte le donne hanno ricevuto i miei stessi diritti. Infatti, statisticamente, sono molto poche ad averli ricevuti.
Nel 1997, Hilary Clinton fece un famoso discorso a Pechino sui diritti delle donne. Tristemente, molte delle cose che voleva cambiare allora, sono ancora vere oggi. Ma quello che mi ha colpito di più, è che meno del 30% del pubblico era composto da uomini. Come possiamo influire sul cambiamento nel mondo quando solo la metà di esso è invitato o si sente benvenuto a partecipare alla conversazione?
Uomini. Vorrei cogliere quest’occasione per estendervi un invito formale. La parità di genere è anche un problema vostro. Perché fino a questo momento, ho visto il ruolo di mio padre considerato meno importante dalla società, nonostante da piccola avessi bisogno della sua presenza tanto quanto quella di mia madre. Ho visto giovani uomini affetti da malattie mentali, incapaci di chiedere aiuto per paura di apparire meno virili, o meno uomini. Infatti, nel Regno Unito il suicidio è la prima causa di morte degli uomini tra i 20 e i 49 anni, eclissando incidenti stradali, cancro e malattie cardiache. Ho visto uomini resi fragili ed insicuri dalla percezione distorta di cosa sia il successo maschile. Neanche gli uomini beneficiano dei diritti della parità di genere. Non parliamo molto spesso di come gli uomini siano imprigionati dagli stereotipi di genere, ma riesco a vedere che lo sono. E quando ne saranno liberati, come conseguenza naturale le cose cambieranno anche per le donne. Se gli uomini non devono essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno in dovere di essere sottomesse. Se gli uomini non devono controllare, le donne non dovranno essere controllate. Sia gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere sensibili. Sia gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere forti. E’ tempo di concepire il genere su uno spettro, e non come due serie di valori opposti. Se smettiamo di definirci l’un l’altro in base a cosa non siamo, e cominciamo a definire noi stessi in base a chi siamo, possiamo essere tutti più liberi. Ed è di questo che si occupa He For She. Di libertà.
Voglio che gli uomini prendano su di sé questo impegno, così che le loro sorelle, madri e figlie possano essere libere dai pregiudizi, ma anche perché anche i loro figli possano avere il permesso di essere vulnerabili e umani. Rivendichiamo quelle parti di loro che hanno abbandonato e così facendo permettere loro di essere una versione più vera e più completa di loro stessi.
Magari starete pensando: chi è questa tipa di Harry Potter? E che diavolo ci sta facendo a parlare all’ONU? E’ una buona domanda. Mi sono chiesta la stessa cosa. Tutto quello che so è che mi importa di questo problema e che voglio far sì che le cose migliori. Avendo visto quello che ho visto e avendone l’opportunità, credo che dire qualcosa sia una mia responsabilità.
Lo statista Edmund Burke ha detto che per far sì che il male trionfi, tutto ciò che serve è che bravi uomini e brave donne non facciamo niente. Nella mia agitazione per questo discorso, e nei miei momenti di insicurezza, mi sono detta con fermezza: se non io, chi? Se non ora, quando? Se avete dei dubbi simili, quando vi si presentano delle opportunità, spero che queste parole vi siano d’aiuto. Perché la realtà è che se non facciamo niente, ci vorranno 75 anni, o che io compia quasi 100 anni, prima che le donne possano aspettarsi di essere pagate tanto quanto gli uomini per lo stesso lavoro. 15 milioni e mezzo di ragazze si sposeranno nei prossimi sedici anni e lo faranno da bambine. E con questi ritmi, non sarà prima del 2086, che tutte le ragazze della campagna africana potranno ricevere un’educazione di livello secondario.
Se credete nella parità, potreste essere uno di quei femministi involontari di cui ho parlato prima e per questo, mi complimento con voi. Stiamo facendo fatica a trovare una parola che ci unisca, ma la buona notizia è che abbiamo un movimento che ci unisce. Si chiama He For She. Vi invito a farvi avanti, a farvi vedere e a chiedervi: se non io, chi? Se non ora, quando?

Vi ringraziamo tantissimo.

lunedì 22 settembre 2014

L’autostima di genere: come la principessa malvestita di Luisa Muraro

Che difficile parlare della differenza femminile, c’è sempre il rischio di cadere negli stereotipi e di supportare culture ostili alle donne.
Nonostante tutto, se ne parla ed è bene, perché gli uomini fanno fatica ad ammettere la differenza maschile e insistono a presentarsi come modello unico di umanità, anche nella trasformazione dell’esistente. Succede di conseguenza che le donne siano misurate e si misurino loro stesse con un metro non fedele a loro e per giunta difettoso di suo. Oggi questo rischio è diventato più grande del primo, tanto che alcune si sono dette (semplifico): siamo inadeguate? meglio essere inadeguate che brutte copie degli uomini.
Nel giugno scorso Internazionale ha pubblicato un lungo articolo di provenienza Usa (The Atlantic) sulla scarsa fiducia che le donne hanno in sé stesse per cui, pur essendo tanto brave, restano indietro nelle carriere. L’articolo era “americano” nel senso peggiore, tanto nell’analisi del problema quanto nelle ricette, e ci sono state proteste di lettrici, in Italia come altrove, America compresa. Nessuna però ha negato che un problema esista e la discussione è continuata. E ha ritrovato spontaneamente i suoi termini femministi originari: siamo combattute tra voglia di vincere e paura di fallire. Trovo questa ripresa sorprendente e positiva, spiegherò il perché.
“La paura di fallire che blocca molti talenti femminili su posizioni di retroguardia va affrontata a viso aperto”, ha affermato recentemente Jessica Bacal. Viene citata in un articolo firmato da Maria Luisa Agnese e Daniela Monti (Corriere della sera, 26.8.2014) che già nel lungo titolo è tutto un programma: Il coraggio di rispondere “non so”. L’insicurezza (buona) delle donne. Siamo portate a dubitare, anche di noi stesse. E se fosse una possibile risorsa? Tutto sul filo del rasoio.
Voglia di vincere, paura di fallire, diceva il Sottosopra verde intitolato Più donne che uomini, che risale al 1983, un testo di grande risonanza anche all’estero, soprattutto in Germania. Non finisce qui. Anche la risposta che dava il Sottosopra risuona, con parole diverse, nella risposta di oggi.
Nell’articolo del Corriere Maria Luisa e Daniela presentano il caso esemplare di Teresa B., laureata della Bocconi che, nel suo primo stage di lavoro a Londra, ritrova una nuova fiducia in sé facendo riferimento a donne che si sono affermate grazie alle loro qualità. E così lo commentano: “Ridurre tutto all’individuo, alle insicurezze che ciascuna si porta dentro, è dunque un errore di prospettiva. Perché, come dimostra il racconto di Teresa, l’autostima personale può di più se poggia su un’autostima di genere, come un nano sulle spalle di un gigante”.
Il Sottosopra fu scritto che la ventiseienne Teresa B. non era ancora nata e le autrici dell’articolo probabilmente erano bambine, ma nel Sottosopra la loro scoperta si trova esattamente anticipata e poi articolata nella proposta di un nuovo tipo di relazione tra donne, quella di fare affidamento, presentata come una pratica per uscire dalla stretta fra voglia di vincere e paura di fallire, e andare nel mondo senza fare torto alle proprie qualità.
La coincidenza è evidente così com’è evidente che le parole usate sono molto diverse tra loro. Da dove venga tanta diversità, può sembrare una questione secondaria ma attenzione che è collegata a una questione più grande, quella della frequente cancellazione (o meglio: obliterazione, che vuol dire: rendere illeggibile) delle idee giuste nel corso della storia, un fenomeno che colpisce specialmente la storia politica delle donne. (Non sono la prima a interrogarmi in proposito, lo ha fatto ben prima di me Simone Weil per la civiltà occitanica.)
Le formule, “pratica di relazione e di affidamento”, da una parte, “autostima di genere” dall’altra, rispecchiano una difformità di percorsi mentali e politici che il cambio generazionale non basta da solo a spiegare. Tanto più che si tratta di idee che si formano in circostanze e contesti simili, concepite da persone che parlano la stessa lingua. Tra il linguaggio del 1983 e quello del 2014 non c’è un rapporto di sviluppo del tipo che può accompagnarsi al passaggio di un’eredità, pacifico o conflittuale che sia. A me pare una discontinuità allo stato puro, che risalta tanto più che le parole tendono a coincidere nella sostanza di quello che vogliono dire.
Nascono delle domande. Che cosa è capitato tra oggi e i primi anni Ottanta del secolo scorso che spieghi la discontinuità?
Rispondo con un’ipotesi dettata dalla storia più nota e risaputa: è capitata la caduta del muro di Berlino (1989) con tutto quello che ha voluto dire, in primis il trionfo dell’economia capitalistica di mercato e l’egemonia mondiale degli Usa, che diventano l’orizzonte ideologico globale, l’unico presente alle nuove generazioni. Tramonta così il comunismo portandosi dietro la sua vasta e varia costellazione di entità politiche, economiche e ideali che ne avevano fatto la storia per cento e passa anni.
Il femminismo che conosciamo oggi come femminismo radicale, nasce negli anni Sessanta insieme ad altri movimenti giovanili rivoluzionari. Nasce, come noto, in posizione di rottura rispetto a questi, senza collocarsi né a destra né a sinistra, né sopra né sotto. Altrove. Per capirlo, basta leggere Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. Che fa capire anche un’altra cosa e cioè che il paesaggio politico allora era molto diverso da ora. Voglio dire che il tramonto del comunismo ha privato il femminismo radicale di un tratto non dico unificante ma collegante con il suo più grande intorno storico e culturale. Un altrove non è un’alterità assoluta, ha dei termini di confronto. Con il tramonto della costellazione comunista alcuni di questi termini sono spariti. L’espressione stessa di “pratica politica”, che una come me continua a usare parlando di relazioni e di fiducia nei rapporti donna con donna, questa espressione proviene da allora e aveva una pregnanza semantica che prendeva anche da un contesto che non c’è più. Il femminismo ha attraversato non dico indenne ma vivo il 1989 perché non era solidale dei progetti rivoluzionari o riformatori, tutti d’impronta maschile. Li ha infatti criticati dalla prima ora, come sa chi ha letto Il maschile come valore dominante, del gruppo Demau, apparso nel 1969, documento inaugurale e al tempo stesso maturo del femminismo italiano. Il femminismo radicale ha attraversato anche altri tentativi di obliterazione (la parola è rara, mi scuso, ma non ce n’è una migliore), per arrivare fino a noi.
Ora, secondo la mia ipotesi, il passaggio non poteva farsi senza un giro di boa, in altre parole, senza portarsi fino alla cultura egemone per aggirarla. Che non vuol dire negarla, al contrario, ma farci i conti. La formula dell’autostima di genere coniata per leggere l’esperienza di Teresa B., ci parla di questo movimento, di questo che potrebbe essere, dal punto di vista delle circostanze storiche e dello stato dei rapporti di forza, un necessario giro di boa. Ci parla anche di un prezzo pagato, perché il concetto di genere, nato in una fase d’inserimento del pensiero femminista nella cultura accademica, si è diffuso oltre misura come un surrogato della differenza sessuale, e come tale si presta alla obliterazione del pensiero politico femminista.
Tuttavia, la formula si è presentata in un contesto che ne fa riconoscere il significato più profondo e la rende accettabile anche da una come me che discende direttamente dal femminismo radicale degli inizi. È come la principessa malvestita di cui raccontano le fiabe, che, salva grazie al travestimento, resta tuttavia riconoscibile.
Per me è molto positivo costatare come il potente dispositivo dell’obliterazione venga talvolta sconfitto. Dunque, si può sconfiggerlo. A questo risultato ha contribuito, bisogna dirlo, che, nel paesaggio mutato dal terremoto del 1989, in Italia ma non soltanto, anche in altri paesi europei e sicuramente anche negli Usa (sebbene gli elementi probanti siano frammentari in quest’ultimo caso), il femminismo radicale delle origini non è mai venuto meno. C’è di mezzo una continuità. Non mi riferisco soltanto alla memoria: non è venuto meno nelle esistenze di persone in carne e ossa, alcune sempre più vecchie e man mano altre, più giovani, e nelle loro usanze (le pratiche!), discorsi, scritti, luoghi, iniziative e progetti.


Per concludere e restare al nostro esempio: tra la riflessione delle due giornaliste del Corriere e il testo del 1983, “Più donne che uomini”, c’è un rapporto asimmetrico ma reciproco: l’autostima di genere traduce e conferma il Sottosopra, mentre questo dà a quella uno sfondo illuminante.

domenica 21 settembre 2014

So che non potrò mai fare carriera come un uomo, crescere figli perfetti fare sesso e stare in forma come Beyoncé di Viviana Mazza

«La ricerca della perfezione deve finire». L’anno scorso Debora Spar, la presidente del Barnard College, prestigiosa scuola femminile di New York, ha confessato nel suo libro Wonder Women che la sua generazione ha frainteso l’appello del femminismo alla liberazione delle donne, scambiandolo con l’imperativo a fare tutto, ad essere superdonne: far carriera come gli uomini e intanto diventare madri, crescere figli perfetti, continuare a restare sveglie per far sesso e mantenersi in forma come Beyoncé.
Oggi, al telefono da New York, Debora Spar descrive quest’ansia come una specie di dipendenza da cui bisogna riabilitarsi, imparando ad essere imperfette.
«Devi ricordare a te stessa che è okay dire di no, devi individuare intere categorie di cose che non cercherai di fare bene. Cucinare per esempio: è una cosa che adoro, ma ho dovuto accettare che lo farò male e mai come Martha Stewart. Come la corsa: ho fatto jogging per tutta la mia vita, ma non ho alcuna ambizione competitiva. Ci sono una serie di attività che ho tolto dalla lista delle cose-da-fare e ho inserito in una lista delle cose-da-fare-meno-bene».
Gran parte delle aspettative della generazione post-femminista di Spar erano dovute al fatto che le madri non avevano potuto fare tutto.
«Quelle ragazze degli anni Quaranta e Cinquanta, cresciute per essere madri, volevano che le figlie avessero qualcosa di più delle lavatrici, delle asciugatrici e dei ferri da stiro, volevano che facessero carriera e che partecipassero più attivamente alla società». L’idea di poter fare tutto nello stesso tempo e alla perfezione, secondo Spar, è stata promossa dai media con immagini e prodotti come Barbie astronauta, che riusciva ad essere sexy mentre orbitava intorno alla luna, oppure la pubblicità del profumo «Charlie» in cui una donna con i capelli lunghi e fluttuanti, una tuta blu aderente e i tacchi a spillo teneva in una mano una valigetta da ufficio e nell’altra una bambina bellissima.
Dodici anni fa, a 38 anni, dopo aver avuto due figli maschi, Debora Spar andò col marito fino in Russia per adottare una bambina. Kristina aveva sei anni e non parlava una parola d’inglese, ma prese la mano del futuro papà e gli chiese: « Kupi mnye Barbi?», «Mi compri una Barbie?» L’hanno portata in America, Debora l’ha educata con grande attenzione agli stereotipi di genere («Non potevo fare altrimenti, considerato il mio lavoro») ed è cresciuta con un papà che fa i lavori di casa (il che secondo uno studio recente aumenta le probabilità che diventi astronauta). La mamma la portava avanti e indietro a corsi e attività d’ogni tipo, inclusi calcio e balletto, finché un giorno non si è schiantata contro un palo del telefono e si è resa conto che la cosa più importante non è riempire la vita dei figli ma aiutarli a conoscere se stessi e a scegliere ciò che li appassiona.
«La loro generazione è più realista della nostra. Sanno che non possono fare tutto alla perfezione». Pochi giorni fa Kristina, che ha compiuto 18 anni, è andata a frequentare l’università. Quel giorno, sua madre ha notato che si è soffermata davanti allo specchio e ha scelto con cura la biancheria da portare al campus. «È molto femminile ma va bene così perché è sicura di sé». Come molte ragazze tra i 18 e i 22 anni, spiega Spar, pensa che il mondo che l’aspetta sia paritario. «Si scontreranno con una realtà diversa, più avanti, nel mondo lavoro. Anche se in alcuni settori le chance delle donne oggi sono le stesse degli uomini, non è ancora così dappertutto».
Anche in casa i ruoli di uomini e donne sono cambiati rispetto agli anni Settanta. In America, nel 1965 le ore settimanali dedicate dai padri ai lavori domestici erano quattro, oggi sono 18 – secondo un rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo – ma le ore impiegate dalle donne continuano ad essere di più (27). In Italia la differenza è la più grande di tutti i paesi industrializzati: 36 ore le donne, 14 ore gli uomini. La ragione, sostiene Spar, è in parte che gli uomini sono più disponibili a contribuire alla cura dei figli piuttosto che ai lavori domestici, ma anche che le donne sono restie a cedere certi spazi e responsabilità. «Ma anche se la coppia si divide i compiti equamente, quando entrambi i partner lavorano non ci sono semplicemente abbastanza ore in una giornata».

Per fortuna, dice la studiosa, il mondo del lavoro sta un po’ cambiando. «Oggi Silicon Valley è diventato il posto più desiderabile dove i giovani più brillanti cercano il primo impiego, incluse molte ragazze. Aziende come Google e Facebook cercano di creare un ambiente più piacevole per tutti, con cibo gratis, tavoli da ping pong, e anche una riduzione delle ore lavorative. E anche alcune banche e agenzie di consulenza, proprio per contrastare la competizione delle aziende high-tech, stanno iniziando a cambiare, riducendo le ore di lavoro e aumentando gli eventi sociali». Un cambiamento, questo, che potrà aiutare a conciliare lavoro e famiglia senza richiedere doti di superdonne.



sabato 20 settembre 2014

Sei donna, quindi ti insulto di Giulietta Ruggeri

Quando a inizio estate è scoppiata la polemica innescata dalle giovani americane contro il femminismo, pur apprezzando le risposte delle columnist o delle intellettuali che si sono cimentate in una sorta di difesa dei femminismi anni ‘70, ho avuto la sensazione che mancasse qualcosa di fondamentale importanza, che continua a sfuggire. Dopo avere incrociato l’ultimo libro della sociologa Graziella Priulla mi sembra di averla trovata. Titolo, per me molto accattivante: Parole tossiche. Ecco esposto e analizzato un “fatto” che è sotto gli occhi di tutti/e: quelle ragazze e chi loro risponde sono, siamo, sommerse da una enorme quantità di parole che intossicano la relazione tra i sessi e tra le donne stesse: «Da sempre, attraverso il linguaggio, le donne interiorizzano una cultura patriarcale che sancisce la loro subalternità», scrive Priulla. E, se negli anni ‘70 era facile individuare rispetto a chi, noi donne eravamo subalterne, oggi, in pieno emancipazionismo, specie delle ragazze nordamericane, ha probabilmente la meglio la complicità con il maschile.
Per le femministe anni ‘70 si trattava di conquistare diritto di parola, per esempio, attraverso la rielaborazione di un classico di quei tempi: Noi e il nostro corpo, sui nostri corpi di donne; oggi, più che mai il corpo delle donne viene troppo spesso esplicitamente identificato nei singoli organi sessuali, il che riduce, tra l’altro proprio la sessualità, il far l’amore, a prestazioni meccaniche tese alla performance, e, salve ovviamente le eccezioni, a «cronache di ordinario sessismo». Infatti, «Alla perdita di riferimenti nella comunità, alla debolezza dell’offerta educativa, alla scarsa competenza riflessiva e comunicativa si accompagna una spersonalizzazione dei rapporti tra i sessi cui molte affidano una paradossale valenza emancipatoria»(p. 33).
Attualmente l’insulto, tollerato da insegnanti e genitori, più frequentemente rivolto alle ragazze, da ambo i sessi, è troia, mentre quello rivolto ai ragazzi è figlio di troia. Rileva Priulla che, secondo le regole del politically correct si deve dire «ottimizzazione delle dimensioni aziendali» e non licenziamenti di massa, ma per qualunque dissenso con una donna che esercita una funzione politica pubblica si dice troiazza e, se nera, sporca troia.
Nelle relazioni amicali di gruppo come anche in Parlamento gli insulti sessuali sono al top. Quando Berlusconi ragionava con i suoi di cambiare il nome del partito che sperimentava una caduta libera, in «forza gnocca», Daniela Santanchè rispondeva che era «un’idea del cazzo».
Da un sondaggio lanciato da Snoq Genova sul web dall’8 marzo al 5 aprile 2014, che ha raccolto 411 risposte di cui 329 donne (pari all’80%), 77 uomini (18,8%) e 5 transgender è emerso che il 48,5% , cioè quasi la metà dei/delle rispondenti, si esprime con esclamazioni di uso comune che contengono offesa per le donne. L’altra metà sostiene di non usare mai tali interiezioni. Dai commenti è emersa in numerosi casi, soprattutto da parte degli uomini, la negazione che tali espressioni contengano un’offesa per le donne, mentre molte donne, quando si rendono conto di subire un’offesa, riconoscono che è un’abitudine da cambiare. Un uomo over 60 commenta così: «A Roma ‘figlio di mignotta’ non è un’espressione sessista, infatti è considerato un complimento. Significa che quella persona è un furbo». Un ragazzo della fascia di età 21/30 scrive: «nella mia città, Mantova, è comunque uno slang, non è un’offesa»; sulla stessa linea un uomo over 60: «si tratta di esclamazioni/interlocuzioni mai rivolte direttamente ad una donna». Una donna, anch’essa over 60 riconosce il problema dell’abitudine: «fa parte di un’abitudine, lenta a sparire»; mentre un’altra, più giovane scrive: «cerco di starci attenta, ma è un automatismo culturale difficile da scardinare». Una ragazza under 30 sta cercando di eliminare queste espressioni dal suo modo di parlare e c’è chi cerca di contrastare sostituendo a mignotta (o troia) il mestiere di «parlamentare» intendendo, per l’appunto, «categorie che, in linea di massima, sono poco stimabili».
Se siamo diventati/e più sensibili alle differenze di razza (neri, extracomunitari), di classe (operatore ecologico) e persino religiose (culti acattolici, non cristiani), siamo invece talmente immersi/e nella cultura sessista, misogina che neppure ci accorgiamo delle mille situazioni di prevaricazione e di disparità nella vita quotidiana. D’altra parte, nel linguaggio comune parolacce, insulti, imprecazioni, invettive, persino anatemi, oltraggi, improperi, contumelie (e per ognuna delle categorie Priulla offre una definizione) sembrano essere diventate elementi quasi indispensabili, rendendoci appena appena conto che sono parole che caratterizzano discorsi violenti che inducono l’odio. Eppure se ne fa pieno uso per esempio nei talk show, dove siedono fra i “moderatori” veri professionisti del battibecco. In questo contesto generale, il richiamo alle parti anatomiche e alle attività sessuali ha un ruolo di particolare rilievo e, secondo Priulla che lo argomenta, al centro, il motivo conduttor, è l’attrazione/odio per le donne. Anche i verbi usati troppo spesso per indicare l’atto sessuale, e l’Autrice li elenca ricercandone il senso linguistico, sono di per sé violenti e oggettivanti. E non può stupire più di tanto se (p. 97) sul sito Pontifex.roma.it, Bruno Volpe scrive «Finiamola con la litania del femminicidio […]. Le donne diventano libertine e gli uomini già esauriti, talvolta esagerano […]. Le donne provocano gli istinti peggiori e se poi si arriva anche alla violenza o all’abuso sessuale facciano un sano esame di coscienza…».Risultato? Cinquantamila Mi piace.
Parole tossiche, dunque, parole che intossicano i rapporti e le relazioni. Graziella Priulla si è addentrata con polso fermo in tutto ciò da cui sono banditi gentilezza e pudore ma ci dà anche l’indicazione di un sito gentilezza.org, che è una sezione del Movimento mondiale per la gentilezza, nato a Tokyo nel 1988, utile anche per re-imparare un uso consapevole della lingua c.d. madre.



Graziella Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo, Settenove Edizioni, 2014, pp. 176, euro 15,00.

giovedì 18 settembre 2014

La bicicletta da cross di Amy di Liz Smith*

Amy, una bimba inglese di nove anni, è stata di recente ad un festival estivo per la gioventù, dove ha visto alcune dimostrazioni di Bmx (Ndt. la sigla sta per “Bicycle Motocross”. Le bici da cross sono diverse dall’usuale per struttura, peso e dimensioni).
Ha quindi deciso che voleva una Bmx per il suo compleanno e la madre l’ha portata a dare un’occhiata a quelle disponibili in negozio. Le due sono state avvicinate da una commessa non appena hanno messo piede nella sezione per bambini. Dando un’occhiata ai lunghi capelli biondi di Amy, la commessa le ha dirottate immediatamente nell’angolo a colori caramellati del reparto.
Là c’era una sola Bmx “per femminucce”, nera e rosa acceso. Amy l’ha guardata ed è tornata a passo svelto dall’altra parte. “Penso che queste mi piacciano di più”, ha detto.
La commessa non si è arresa: “Queste sono biciclette da maschi, tesoro. Non preferiresti una bici da femmine?” Ho amato la risposta di Amy: ha fissato la commessa con uno sguardo interrogativo e beffardo al tempo stesso, una specialità da “novenni”, e ha detto: “Cosa importa?”
La mamma di Amy ha fatto un veloce confronto fra le biciclette per bambine e quelle per bambini. Per lo stesso prezzo, molte di quelle per maschi avevano funzionalità e componenti migliori delle altre: forcelle con sospensioni e ingranaggi, per esempio. Le biciclette per bambine si concentravano invece sull’apparenza e il comfort – sellini più larghi, canna più bassa e colori pastello con cascate di motivi floreali, e accessori come cestini, stelle filanti e copri-manubri a lustrini. Gli abiti e gli oggetti relativi al cross in bicicletta per bambine erano per la maggior parte rosa, con occasionali flash di bianco e porpora, e – di nuovo – si concentravano sull’essere graziosi anziché sull’avere una funzione.
Secondo i rivenditori, alla fine, i maschietti sono rudi e disordinati, guideranno le loro bici nel fango e il loro set di accessori dovrà essere lavato spesso dalle madri, mentre le femminucce faranno giretti oziosi, con le loro bambole nel cestino frontale. Se l’industria vuole davvero sostenere il ciclismo femminile, deve fare lo sforzo di andare oltre i sellini color gelatina e gli aggeggi in sfumature di rosa e pastello. Le bambine devono sapere che va bene sporcarsi e che c’è abbastanza detersivo al mondo per lavare le loro cose e quelle dei loro fratellini. Devono sapere che saranno le benvenute in qualsiasi associazione o club di ciclismo e che sono libere di scegliere qualsiasi disciplina vogliano apprendere o in cui vogliano competere.
Mi chiedo quante Amy ci siano che non hanno l’assertività o il sostegno necessari a dire al mondo che non vogliono essere inzuppate di rosa. Mi chiedo quante Amy, anziché avere quel che realmente volevano e che rifletteva ciò che erano, hanno finito per avere una bicicletta o altri oggetti – e invero a fare scelte – perché gli si è detto che quelle cose o quelle scelte dovevano piacere loro, e loro non volevano essere giudicate negativamente come differenti.

Sono felice però di ragguagliarvi sul fatto che Amy ha la sua nuova Bmx verde e blu – non dirò “smagliante”, perché lei sta passando così tanto tempo al parco per ciclisti locale che probabilmente “smagliante” non lo è più… Amy ha anche imparato ad usare la lavatrice.

mercoledì 17 settembre 2014

Wassyla Tamzali: il femminismo in Italia è virtualmente scomparso

Scrittrice, giornalista, ex avvocato. Soprattutto femminista. Wassyla Tamzali, 74 anni, nata in Algeria, è la “voce” delle donne arabe, di quelle donne che sognano una società dove pari diritti e pari dignità (con gli uomini) non debbano nascondersi sotto il velo islamico. «La parola femminismo – dice in un francese senza inflessioni la signora Tamzali, un’intellettuale che ha vissuto da protagonista la lotta di liberazione del suo Paese – può apparire desueta in Occidente. Ma nei Paesi arabi è più che attuale, ed è capace di mettere in pericolo chi la pronuncia». Certo, aggiunge Wassyla, anche nei Paesi più avanzati le donne hanno ancora molto da conquistare quanto a posizione e rivendicazioni. Però «è un fatto che in Italia il movimento è virtualmente scomparso».
La pasionaria dei diritti femminili («ma io parlo di liberazione della donna»), è molto chiara sul valore intrinseco delle definizioni: «Io rifiuto il termine neo femminista. Sono solo femminista, punto. Perché la parola nel mondo arabo può acquistare significati differenti a seconda di quali termini le vengono accostati. Per esempio, c’è chi professa il femminismo islamico. Che è una copertura per annacquare la nostra lotta per l’emancipazione. Insieme a tutte le altre donne abbiamo sentito la necessità di tornare all’inizio del femminismo. Che è un’ideologia della liberazione. Non è solo una questione di diritti. No, è soprattutto un veicolo per ottenere la liberazione delle donne in quanto individui. Dunque, se me lo chiede le dico che non è ancora finito il suo scopo».
Wassyla Tamzali conosce il mondo arabo e conosce l’Europa e oltre. È conscia della differenza fondamentale tra la condizione femminile nei Paesi più avanzati e nei Paesi arabo-islamici. Ma non si lascia ingannare dalle apparenze. «La condizione delle donne è carente anche in Occidente – spiega -. La violenza, l’ineguaglianza c’è anche da voi. Certo, le donne sono più libere, possono uscire sole, lavorano. Perché le società da voi sono più avanzate, la Chiesa non ha più il ruolo di freno che aveva un tempo».
«Ma – prosegue – la morale sessuale, ovvero il rapporto tra uomini e donne è tutt’altro che paritaria». Eppure nel mondo arabo-islamico il ruolo della donna è continuamente minacciato, le conquiste sono neglette… «È così. Nei Paesi arabi, in Algeria, in tutto il Maghreb, la dominazione sulle donne è una parte integrante della politica. Dipende della struttura delle società. Lottiamo per i nostri diritti da 50 anni, e se non riusciamo a progredire è perché dovremmo riuscire a cambiare l’intera società. Il potere politico, da noi, è militare e fondato sui clan familiari. La piramide resta intatta se agli uomini, ai maschi, è garantito il diritto di vita e di morte sulla famiglia».
L’oppressione della donna come mezzo per la sopravvivenza politica, insomma. «In tutti questi Paesi il potere economico, l’amministrazione, la diplomazia sono nelle mani dei clan politici, non dei partiti. Sono tutti governi totalitari: per garantirsi l’acquiescenza del popolo, è garantito all’ultimo dei cittadini maschi il potere sulle donne».
Dopo decenni di lotta per il proprio genere, Wassyla Tamzali, che ha letto con attenzione Pasolini, parla dell’enigma della condizione delle donne. «Noi non viviamo in Paesi primitivi: sono moderni, hanno tutti vantaggi della modernità, si può viaggiare, studiare, istruirsi. Tutti tranne le donne. Questa differenza – secondo Wassyla è il punto nodale della questione – è basata sulla superiorità della mascolinità, vista come un totem dalla società. La religione non c’entra. L’Islam è la maschera di questa deriva verso una fallocrazia fiera della propria condizione. Prendiamo il velo: perché occorre metterlo? Perché gli uomini non abbiamo desiderio sessuale, cioè si suppone che il desiderio dei maschi valga più di ogni cosa. Non è una condizione genetica, non è perché siamo arabi. È una questione politica. Il velo è collegato alla gestione del potere».
Certo, la strada è ancora lunga perché si possa parlare di donne protagoniste della loro esistenza. anche nei Paesi arabi. «Le donne sono deboli, non solo fisicamente: se una donna non ha un uomo nella sua vita (perché ha perso il marito, o magari perché ha divorziato) cessa di esistere socialmente, e perciò è molto fragile. Quando mette il velo accetta il sistema, perché fuori da questo sistema non si esiste. Ecco perché sono contro il femminismo islamico: una dottrina che sostiene come noi laiche non avremmo legittimità a occuparci delle donne musulmane».
D’altro canto, dice ancora Wassyla Tamzali – che domenica 14 settembre sarà sul palco del Teatro Franco Parenti, a Milano, accanto a Lizzie Doron, Aliza Lavie e le altre protagoniste del Festival Jewish and the City all’incontro Condotte e condottiere, libere di essere donne - si può essere musulmane e femministe. «Io sono una libera pensatrice. Ma ho molte amiche profondamente devote. Praticano la religione e chiedono libertà, come si può essere cristiane o ebree e femministe. Ci sono Imam donne a New York. E io credo che la religione debba evolversi dal di dentro. Mentre noi non abbiamo impatto sulla dottrina, siamo laici, siamo fuori. Femminista islamica? Un ossimoro. Il movimento è solo propaganda. L’obiettivo non è liberare la donna ma attribuire solo qualche diritto».
Non c’è molto spazio per l’ottimismo, dunque, per vedere un futuro dove le donne musulmane saranno padrone del proprio destino. «Al contrario, le cose miglioreranno. È successo in Tunisia e, anche, a suo modo, in Marocco. Pr quanto ci sia ancora molto da fare. Certo, i mostri che dobbiamo affrontare sono potenti e tutti figli della dittatura, dai salafiti agli integralisti di Iraq e Arabia Saudita. Ma c’è sempre chi crea, le donne sono artiste, scrivono, fanno film, dipingono. Siamo come le lucciole di Pasolini, rappresentiamo il mondo come era, con i suoi valori morali. Non dobbiamo essere disperate. Sì siamo le lucciole del mondo arabo».

martedì 16 settembre 2014

CONCORSO 2014 - "Concilia? Tra lavoro, cura e tempo per sè"


SIAMO PROSSIME ALLA SCADENZA... FORZA!!

Come condividere la vita, senza percorsi obbligati, è il tema “europeo” di questa seconda edizione del premio fotografico Lo sguardo di Giulia, per contribuire a cambiare i linguaggi dell’informazione. Ai fotografi, professionisti e dilettanti, si chiede di raccontare in positivo, ovvero con denuncia o con ironia, la Conciliazione fra Lavoro e Vita familiare. Di donne e uomini soprattutto, con uno sguardo ampio che comprenda coppie eterosessuali e omosessuali, singoli, famiglie tradizionali e di fatto, nuclei conviventi di parenti o di amici: insomma persone che stanno assieme perché, insieme e paritariamente, impegnate a costruire un futuro. Per sé e per i propri figli.
Sotto il titolo "Concilia?", che sembra il tormentone di un vecchio Carosello, c'è la convinzione che uno scatto fotografico azzeccato spesso vale più di mille parole. Dimostriamo quindi, attraverso un'immagine, che la convivenza pacifica e paritaria è possibile. Nella società ed in famiglia. E che l'impegno della cura di prole e anziani non è "roba da donne", ma dev'essere fatica comune. Perchè costruire rapporti di sostegno reciproco e solidale, tempi di lavoro flessibili e scuole più accoglienti, ruoli intercambiabili e infrastrutture intelligenti..., non è un’utopia, ma un obiettivo cui mirare in tempi stretti.
Come? Con foto simboliche, o realistiche, foto di cronaca, serie fotografiche, minivideo, racconti animati. Un premio aperto ad ogni forma di creatività e sensibilità. cui possono accedere sia professionisti sia appassionati, anche minorenni (col consenso dei genitori). Le prove andranno inviate - sotto forma di file in alta definizione all’indirizzo sguardodigiulia@gmail.com, allegando le liberatorie, i dati anagrafici e irecapiti, nonché una breve spiegazione - entro e non oltre la mezzanotte del 27 settembre 2014. Il bando completo è scaricabile su www.giuliagiornaliste.it , oppure scrivendo a giulia.lombardia@gmail.com . A tutti andrà un attestato di partecipazione, mentre i quattro vincitori (professionisti, non professionisti, under 18, video) riceveranno macchine fotografiche e videocamere offerte da aifoto (www.aifotoweb.it) e un abbonamento ad una rivista specializzata.

Il concorso - "Chiamala violenza, non amore" nel 2013 e "Concilia? Tra lavoro, cura e tempo per sè" nel 2014 - è bandito da un'associazione di giornaliste democratiche ("Giulia Giornaliste") stufe di vedere l'informazione ancora soggetta ad un'iconografia di genere stereotipata. L'anno scorso il tema era la violenza sulle donne "travestita" da amore. Quest'anno la sfida sulla conciliazione è più ardua e simbolica, ma proprio per questo ancora più interessante. Il concorso, che ha ottenuto i patrocini non onerosi di Regione Lombardia, Provincia di Milano, Comune di Milano, Comune di Sesto San Giovanni e Ordine dei giornalisti della Lombardia, si svolge quest'anno nell’ambito del progetto Così sono, se mi pare. Oltre gli stereotipi, la sfida della parità, promosso dal Comune di Sesto San Giovanni e realizzato nell’ambito dell’iniziativa regionale «Progettare la parità in Lombardia 2014».

lunedì 15 settembre 2014

»"Dare a Santippe quel che è di Santippe" Giovanna Romualdi

GiULiA giornaliste rilancia il problema di un uso della lingua italiana corretto per quanto riguarda il genere con una guida per chi opera nel campo dell’informazione curata da Cecilia Robustelli.
Circa trent’anni fa la Presidenza del Consiglio dei Ministri, raccogliendo una proposta di Alma Sabatini alla Commissione delle Pari opportunità, commissionava e successivamente pubblicava una ricerca su Il sessismo nella lingua italiana, curata dalla stessa Alma Sabatini; l’Autrice anche allora vedeva il risultato di questa ricerca come "... suggerimenti rivolti in primo luogo alla stampa che massimamente contribuisce a coniare e far passare i neologismi e le mode linguistiche...".
L'11 giugno 2014) Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati (?), partecipa alla presentazione nella Sala Moro a palazzo Montecitorio di Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano" di Cecilia Robustelli , edito da GiULiA giornaliste [1]
Questi due fatti evidenziano non solo un salto ma anche una continuità istituzionale, come rileva Cecilia Robustelli che nella presentazione ricorda che in questi trenta anni si sono avuti molti atti istituzionali che raccomandavano proprio un’attenzione al linguaggio al fine della promozione della parità di genere. Non si riparte dall’anno zero perché si raccoglie non solo l’eredità dell’opera anticipatrice di Alma Sabatini, il cui valore è stato ricordato dalla stessa Cecilia Robustelli, ma anche il frutto della continua ricerca andata avanti sul tema ( come testimonia lo stesso percorso di ricercatrice di Cecilia Robustelli) - v. anche alcuni dei tanti testi che sono stati prodotti in quest’arco di tempo e che riportiamo in nota.
Questa breve e sicuramente incompleta nota ci conferma però che Il discorso viene da lontano; è un percorso lungo e impegnato che ha accompagnato questo "problema" negli anni anche con incontri nelle scuole, corsi nelle università, presso la Commissione nazionale Pari Opportunità dove, negli anni novanta, fu insediato il Tavolo delle Giornaliste (importante luogo di confronto libero sulla funzione, i contenuti e le forme del lavoro nel campo dell’informazione); un percorso molto in giro per l’Italia purtroppo senza Alma (morta nel 1988) ma ininterrottamente lo stesso, grazie alle Commissioni di parità. Anche grazie a quel lavoro costante si sono prodotte nel tempo le condizioni, che abbracciano anche il linguaggio, ma non solo, per arrivare ad avere oggi - speriamo - la giusta attenzione e forse un qualche cambiamento. Allora la stampa dedicò alla pubblicazione delle "raccomandazioni" poco spazio, quasi sempre in negativo perché evidentemente si toccava un nodo culturale forte, di potere. Oggi, la presenza di un maggior numero di donne anche sulla scena istituzionale rende - speriamo - di uso più immediato questo "libretto da bisaccia" ( così lo definisce - con citazione culturale - Cecilia Robustelli, per il suo formato tascabile).
Ben venga dunque questo Donne, grammatica e media, "libretto prezioso" in funzione di un problema che non è solo di conoscenza: per l’economista Fiorella Kostoris le donne sono spesso esse stesse responsabili dell’uso sessista delle parole perché hanno paura di sminuire la loro posizionew faticosamente raggiunta.
Ma l’avvio di quell’ampio dibattito pubblico auspicato da Laura Boldrini avrà bisogno di iniziative concrete per avere una attenzione di sostanza da parte dei media, perché finisca nelle tasche e sui tavoli di lavoro di giornaliste e - ci auguriamo tutte - di giornalisti. Perlomeno io, personalmente, ho così fatto con quell’altro "libretto da bisaccia" che esattamente venti anni fa pubblicava la rivista settimanale "Avvenimenti": il Dizionario sessuato della lingua italiana curato da Elettra Deiana, Bianca Madeccia, Silverio Novelli, Edgrado Pellegrini oltre a Marcella Mariani che aveva già collaborato alla ricerca di Alma Sabatini. Non so quale diffusione, od uso abbia avuto su altri tavoli ...
Oggi non viene presentato un "dizionario sessuato": Cecilia Robustelli dà al suo testo una forma di "proposte operative" partendo da esempi concreti di "come si parla nei media", dai "dubbi grammaticali e grafici" che insorgono quando si scrive o si rappresentano soggetti donna, accompagnandole con riflessioni, soluzioni attente alla correttezza lignuistica delle "’nuove’ forme.femminili", alle questioni morfosintattiche, ma anche alla comprensibilità/accettazione di chi oggi legge.
La "guida" si chiude con un "breve vocabolario delle professioni e delle cariche", curato da GiULiA
Nella prefazione, Nicoletta Maraschio presidente onoraria dell’Accademia della Crusca, ci dice che "la lingua non solo rispecchia una realtà in ’movimento’, ma può svolgere una funzione ben più importante: quella di rendere più visibile quello stesso movimento e contribuire così ad accelerarlo in senso migliorativo".
Ancora una volta l’obiettivo è politico, "dare a Santippe quel che è di Santippe", come dice l’economista Fiorella Kostoris nella presentazione a Montecitorio: dare visibilità anche attraverso il linguaggio alle donne perché "Ciò che non si dice non esiste " ricorda nell’introduzione Maria Teresa Manuelli, segretaria di GiULiA). Ma, richiama ancora Kostoris, si tratta di andare poi oltre il linguaggio, promuovere per le donne "tempi nuovi".
per informazioni e contatti: giuliagiornaliste@gmail.com; www.giuliagiornaliste.it



domenica 14 settembre 2014

Le donne e il sessismo nella lingua: intervista alla Prof.ssa Gabriella Alfieri dell’Università di Catania Alessia Costanzo

«Presidente della camera», «cittadino» e «cattolico»: in tal modo si definì Irene Pivetti quando fu eletta nel 1994 come Presidente della camera dei deputati. Ma se attualmente dovessimo riferirci ad una donna, che riveste una carica istituzionale, quali termini utilizzeremmo? Il presidente, la presidente o la presidentessa?
La lingua, soggetta a mutamenti, non sempre possiede dei confini ben definiti. Nell’incertezza linguistica, i parlanti compiono degli svarioni che non consistono solo nell’adottare forme deviate rispetto alla norma, ma anche nel servirsi delle tradizionali forme maschili, pur riferendosi ad una donna. Anche questa “messa in sicurezza” da parte del parlante, dovrebbe rappresentare un errore, che non è ancora stato riconosciuto chiaramente. Già nel 1993 nell’opuscolo “Il sessismo della lingua”, curato da Alma Sabatini, vi era un capitolo dedicato al campo delle professioni femminili. Si richiedeva di scegliere forme linguistiche femminili che avessero pari dignità rispetto a quelle maschili , e in seguito veniva elencata una serie di termini come “ingegnera, architetta, avvocata”, che avrebbe dovuto essere utilizzata. L’appello rimase però inascoltato. Ѐ difatti raro sentire l’uso di tali termini, e non solo da parte degli uomini, ma anche delle donne, che dovrebbero dare l’input per un cambiamento, anzi per il cambiamento.
In ambito filosofico la donna é stata definita «un vivente che ha un linguaggio nella forma dell’auto-estraniazione, non si autorappresenta nel linguaggio ma accoglie rappresentazioni di lei prodotte dall’uomo; così la donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé.». Definizione dalla quale ci mette in guardia la docente di Storia della lingua italiana all’Università di Catania, Gabriella Alfieri, che con molta disponibilità ha accettato di essere intervistata su una questione così rilevante. «Ѐ una citazione condivisibile. Se noi prendiamo tale osservazione come una storicizzazione di quello che finora è stato il ruolo della donna sono d’accordo, ma occorre contestualizzare: se la donna appartiene ad una classe sociale elevata, ha gli strumenti sociali, come l’istruzione, e si realizza socialmente, difficilmente questo tipo di donna si autorappresenterà con gli stereotipi ereditati. Se la donna appartiene ad ambienti socio-culturali dove c’è ancora la predominanza maschile assoluta, allora la citazione può essere accettabile»: in tal modo si è espressa a riguardo la prof.ssa Alfieri. Dunque se la donna non si nasconde dietro ad un linguaggio maschile, perché forme femminili per le professioni non sono state ancora accolte dai parlanti? Ciò è dovuto alla cacofonia di termini come “ingegnera”, o la società non è ancora pronta ad abbandonare una visione maschilista anche in ambito linguistico? La docente a tal proposito ci ha suggerito di prendere in considerazione la norma, non dettata dall’alto, ma come consuetudine sedimentata: difatti è un gruppo di parlanti che influisce fortemente sull’uso di un termine. L’esempio, è rappresentato da forme come “ministra”, che in passato non veniva utilizzata dalle donne che dovevano salvaguardare la propria dignità socio-professionale, perché era un espressione molto recente; oggi il termine ministra è invece entrato nell’uso, grazie alla presenza delle donne nei governi precedenti.
La prof.ssa Gabriella Alfieri sostiene difatti che forme come “ingegnera” potrebbero essere utilizzate in futuro, nel momento in cui le neolaureate vorranno essere chiamate o si firmeranno in tal modo, e aggiunge inoltre che «se le donne continueranno ad incrementare la propria presenza sociale e professionale, tali forme verranno utilizzate». Il sessismo della lingua non riguarda solo le professioni, ma coinvolge anche espressioni come “diritti dell’uomo”, che anche in questo caso escludono la donna dal punto di vista linguistico. Secondo la docente, sarebbe difatti corretto utilizzare forme alternative , come “diritti della persona”, che dovrebbero essere adottate dai legislatori. “Paternità dell’opera” si è diffuso invece perché la maggior parte degli scrittori sono sempre stati uomini. La prof.ssa propone di sostituire tali termini non con “la maternità dell’opera”, ma con “la genitorialità dell’opera”.
 Oggigiorno il ruolo della donna è sempre più determinante, soprattutto in ambito sociale, dunque perché mai dovremmo essere restii ai cambiamenti linguistici atti a rappresentarci nel migliore dei modi?