lunedì 31 agosto 2015

Le politiche educative attente al genere sono un’arma per combattere le disuguaglianze di Francesca Brezzi* e Laura Moschini**

Educazione di genere? Cosa è? E perché tante polemiche? Saremmo tentate di rispondere: lo chiede l’Europa, e non sarebbe solo una battuta o una risposta evasiva perché con questo termine recepiamo le indicazioni che provengono dall’Unione europea che considera la Gender Equality, vale a dire una partecipazione equa e non discriminatoria di ognuno/a alla vita familiare e sociale, il presupposto fondamentale per la cittadinanza democratica.
Conseguentemente, educare in ottica di genere secondo l’Unione europea vuol dire utilizzare una categoria d’interpretazione che consente di comprendere come l’organizzazione sociale delle relazioni tra i sessi abbia stabilito le attività più adatte a uomini e donne in base alla loro “natura” dando vita a ruoli e spesso a gerarchie sessuali all’interno della famiglia e della società. Gli studi di genere permettono quindi di scoprire l’origine sociale, culturale e non biologica/naturale dei ruoli sessuali caratteristici del sistema patriarcale, che assegna agli uomini l’ambito pubblico e alle donne la sfera del privato con tutte le attività connesse. I rapporti di potere tra i sessi si sono codificati in norme e leggi in base alle quali, fino a tempi molto recenti, alle donne sono stati negati i diritti che caratterizzano la cittadinanza. Norme che è molto difficile scardinare anche ora che la parità formale dei diritti è stata raggiunta perché continuano ad influenzare la nostra cultura attraverso modelli e stereotipi che si trasmettono soprattutto attraverso l’educazione. Pregiudizi che generano tuttora disuguaglianze sociali ed economiche alle quali gli organismi internazionali cercano di porre rimedio anche attraverso politiche educative attente al genere.
Per quanto riguarda poi l’espressione genere/gender, oggi oggetto di forti polemiche, dai documenti ufficiali di Onu, Ue, Eige (European Institute for Gender Equality) e da ultimo dalla Convenzione di Istanbul emerge che «con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività, attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini»; pertanto laddove “sesso” indica la differenza naturale - secondo alcune scuole filosofiche definibile anche ‘ontologica'- gender fa riferimento alla differenza di ruoli sociali, politici, economici e familiari.
L’ottica di genere come metodologia d'indagine e analisi dell'esistente pertanto non comporta “nessun rischio” se non quello di stimolare il pensiero critico verso una comprensione più libera perché basata sulla conoscenza (massima tra le virtù fin dall’antichità e oggi obiettivo Ue) e non sul pregiudizio. Il genere non interviene sugli aspetti biologici (gender/transgender) e non facilita fenomeni di omosessualità, trans-sessualità o omogenitorialità; è quindi infondato sostenere che il genere annulli la differenza tra uomo e donna in nome dell’uguaglianza, dove per uguaglianza s’intende esclusivamente la parità dei diritti. Il genere consente invece di restituire valore alle differenze, smascherando i pregiudizi e gli stereotipi e restituendo dignità a ogni individuo senza esclusioni.
Vorremmo quindi sottolineare la fecondità dell'ottica di genere nei corsi universitari e nell’educazione scolastica, dal momento che essa, indagando oltre le ”evidenze”, consente di riportare alla luce e all’attenzione pubblica studi e ricerche autorevoli che permettono un’analisi più realistica e veritiera dei fatti e delle situazioni. “Evidenze” basate su “leggi di natura” e quindi sulla “naturale” inferiorità della donna rispetto all’uomo come quelle che portarono fino al XX secolo molti uomini “di ingegno” ad affermare che a causa del loro cervello più piccolo le donne fossero meno intelligenti e incapaci di svolgere certi compiti e professioni. Tale pregiudizio -che stenta ancora a essere rimosso- ha impedito dapprima alle donne di accedere ai diritti tra i quali quello allo studio, poi di impegnarsi in attività considerate “maschili” e oggi ostacola la condivisione dei compiti di cura alla casa e alla famiglia -“per natura” a loro carico- impedendo di fatto la loro affermazione professionale o almeno la loro indipendenza economica. 
Gli studi di genere costituiscono un approccio radicalmente innovativo, diremmo rivoluzionario, che consente di indagare su aspetti sociali inesplorati o non considerati e sul persistere anche nelle società più “aperte” di stereotipi e pregiudizi. Innovatività che produce opposizioni più o meno esplicite da parte di chi vuole mantenere lo status quo nei ruoli e nelle gerarchie in famiglia e nella società. Se ne deve invece cogliere l’enorme portata educativa comprendendo il significato preciso dei termini per evitare polemiche o contrapposizioni ideologiche basate su una non corretta o almeno non coerente rispetto a quella adottata dagli organismi internazionali concezione di genere. Polemiche come quelle a cui assistiamo in questi giorni contro l’educazione di genere nelle scuole. 
Facendo riferimento alla nostra esperienza, da molti anni, noi adottiamo l’ottica di genere in sintonia con altri atenei europei per sollecitare in chi studia con noi il pensiero critico, proprio dell’educazione liberale cara a Socrate e agli Stoici, e la consapevolezza del valore di ogni differenza come presupposto per una vera parità dei diritti e delle opportunità.
A tutto ciò vorremmo aggiungere che in tanti anni di docenza la risposta da parte di studentesse e studenti è stata oltremodo positiva. Avvicinarsi a quei contenuti ha rappresentato un momento di crescita e questo non solo nel master in Pari opportunità che Roma Tre da 12 anni organizza e arricchisce in ogni edizione di contenuti e itinerari, ma in tanti convegni, corsi, seminari che si svolgono con grande partecipazione (e serenità) nel nostro paese. 
Riteniamo quindi che l’ottica di genere sia necessaria negli insegnamenti scolastici e universitari perché, come abbiamo detto, anche se per legge donne e uomini sono ormai pari, nell’ambito familiare e lavorativo le donne continuano a essere emarginate, spesso doppiamente penalizzate se appartengono ad altre categorie oggetto di discriminazioni. La discriminazione di genere, infatti, presenta una sua specificità che attraversa e può combinarsi con tutte le altre forme di discriminazione.
La potenzialità formativa se compresa e svolta da competenti è grande: introdurre l’educazione di genere a tutti i livelli scolastici significa non solo formarsi alle tematiche attinenti le pari-eque opportunità tra uomo e donna, ma altresì focalizzare l’attenzione e la prassi all’effettiva parità tra persone. Ciò consente, oltre la lotta agli stereotipi già indicati, di opporsi alla violenza (la Convenzione di Istanbul considera l’educazione di genere uno strumento indispensabile per contrastarla) e al bullismo che affligge le scuole, di rifiutare le discriminazioni sociali e politiche, di riconoscere il valore e la dignità di persone diverse dai modelli tradizionali per affermare una mentalità inclusiva. 
Gli studi di genere, per loro natura interdisciplinari, non possono costituire un capitolo a parte, ma riguardare trasversalmente ogni ambito e materia. Attraverso di essi si riesce a scoprire, per esempio, che se l’intelligenza non è legata alle dimensioni del cervello, al contrario, sono le pluralità di interconnessioni che consentono le capacità multitasking alle donne tanto utili nella nostra società (e tanto sfruttate quanto sottovalutate); in economia che i bilanci e il modo in cui vengono spesi i soldi pubblici non sono affatto neutri, ma riproducono le gerarchie esistenti tra i generi, che la raccolta e l’analisi dei dati disaggregati per genere restituiscono la vera realtà delle condizioni di vita e lavoro e i bisogni delle persone tutte, uomini e donne, nella quotidianità.
Ancora si può ricordare come gli studi sulla storia delle donne, dai quali l’ottica di genere deriva, costituiscono una base di partenza, ma non esauriscono il discorso che s’intreccia positivamente con tanti altri ambiti tra i quali la filosofia soprattutto morale, l’economia, le scienze politiche e sociali, architettoniche, urbanistiche, i saperi scientifico-tecnologici e quelli riguardanti la comunicazione e i mass media. Un tale approccio favorisce una collaborazione interdisciplinare fra docenti ed esperti/e di differenti discipline, e un confronto nelle diverse aree umanistiche e scientifiche anche nelle scuole che può portare a una riformulazione del sapere dato.
Se lo scopo dell’educazione e della formazione è l’insegnamento di un pensiero critico e l’apertura alla realtà che ci circonda, crediamo –come docenti - che tali tematiche debbano essere presenti nella scuola, anche per evitare distorsioni, fanatismi e intolleranze.
L’educazione in ottica di genere può quindi efficacemente contribuire all’educazione di un buon cittadino e di una buona cittadina, dotati di senso critico, di autostima e consapevoli del valore delle proprie differenze e del proprio punto di vista anche se diverso da quello dominante.
Il nostro auspicio (seguendo del resto due recenti determinazioni del Miur del 2011 e del 2013 e i richiami presenti nella legge sulla Buona scuola) è che si realizzi l’inserimento dell’ottica di genere nei programmi scolastici, per promuovere quel cambiamento radicale nella nostra cultura che disegnerà una nuova idea di cittadinanza, attiva, responsabile, nella quale il valore di ogni individuo può essere riconosciuto e perché no utilizzato per il progresso dell’intera società.

*Delegata del Rettore di Roma Tre per le Pari opportunità
** Coordinatrice del Master in Pari opportunità di Roma Tre

domenica 30 agosto 2015

Il corpo delle donne

Vi chiedo una riflessione:
esiste ora una legge per cui si viene perseguiti se si insulta qcuno online. Si è colpevoli anche se si mette un "like" ad un insulto verso qcuno/a.
Bene, dico io.
La violenza, la maleducazione, la volgarità, le offese sui social network hanno raggiunto livelli insopportabili: chi insulta danneggia non solo il ricevente gli insulti, ma tutti noi che leggiamo.

Poi leggo l'articolo di Repubblica di qualche giorno fa: in prima pagina la foto, grande, di una 16 enne trovata morta sulla spiaggia. Foto presa dal suo profilo fb.
Lei che fuma.
La giornalista descrive la ragazza morta,Ilaria:
"Ilaria domenica sera cercava pasticche di ecstasy. Un paio di birre con gli amici in centro, nei pressi di piazza Duomo, la solita “canna” e poi la proposta: «Dai,andiamo a farci una pasticca». Era particolarmente inquieta questa ragazzina di 16 anni con il viso sfigurato da cinque piercing, compreso una perla sulla lingua, il lobo dell’orecchio destro sfondato, i capelli cortissimi rasati alle tempie a darle un aspetto ancor più mascolino così come l’abbigliamento, jeans larghi, maglietta nera e scarpe da tennis."
Questa non è una descrizione come il giornalismo imporrebbe. Questo è un giudizio negativo su di una sedicenne appena morta.
Il fratello non ha permesso ai giornalisti di entrare in Chiesa, sostenendo che la descrizione che di Ilaria era stata fatta era falsa e terribilmente offensiva. 
Fino a qualche tempo fa articoli così apparivano sui giornali di gossip. Ora sono in prima pagina di uno dei maggiori quotidiani.
Chi legge non ha la consapevolezza di molte di noi qui.
Quindi si "fiderà" di Repubblica e si farà un'idea di Ilaria e degli adolescenti sulla base di quanto ha letto.
ALLORA:
Se io scrivo sulla pagina FB di Repubblica un insulto ad un giornalista, giustamente, molto giustamente, potrei essere denunciata.

La mia domanda è: fa più danno scrivere un insulto su facebook, o scrivere un articolo come quello qui sopra?
Rispondo per me : l'articolo qui sopra fa danni peggiori, enormi e nel tempo, contribuisce a formare un'idea di mondo errata, stigmatizza gli e le adolescenti e interrompe il patto intergenerazionale.
L'altra domanda è : COSA FA L'ORDINE DEI GIORNALISTI?

mercoledì 26 agosto 2015

Gender, come nasce la teoria che non c’è di Dario Accolla

La polemica sul “gender” animerà la cronaca politica dei prossimi mesi. Il campo di battaglia sarà la discussione sulle unioni civili. Occorre fare chiarezza e, a tal proposito, credo sia illuminante ripercorrere il saggio di Sara Garbagnoli (dottoranda presso il Centre de Sociologie Européenne – École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi), pubblicato sulla rivista About Gender e intitolato “L’ideologia del genere”: l’irresistibile ascesa di un’invenzione retorica vaticana contro la denaturalizzazione dell’ordine sessuale.
Ad un certo punto, ci rivela la studiosa, il Vaticano si accorge che esistono i Gender Studies, le cui acquisizioni sono pericolose per il mantenimento della sua autorità sulle persone. Si pubblica il Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche (2003) e compare il termine “gender”, descritto come un bel mix di marxismo, estremismo femminista e perversione gay: “et voilà la misteriosa ‘teoria’: un blob di slogan senza alcun senso teorico e di pregiudizi sessisti e omofobi che non hanno niente a che spartire con le ricerche prodotte nel campo degli studi di genere, né poggiano su alcun fondamento scientifico”. D’altronde si sa: se agiti lo spettro del comunismo, dai la colpa alle donne e ci metti il “frocio” in mezzo, il successo è garantito.
Ma perché questi studi disturbano il sonno di chi vive oltre Tevere? Facciamo un po’ di storia. Categorie sociali un tempo discriminate dal potere maschile hanno cominciato a interrogarsi sul perché “essere femmina” o “non essere eterosessuale” dovesse coincidere con una patente di inferiorità. Si sviluppano riflessioni e acquisizioni scientifiche. E si arriva, nel lungo periodo, ad un’evoluzione culturale che ha introdotto maggiore uguaglianza sociale tra generi (uomini e donne) e tra categorie sessuali (etero e persone Lgbt). Ciò ha portato a politiche su diritti civili, interruzione di gravidanza, pari opportunità sul lavoro, leggi a favore della gay community, ecc. Far capire alla società che non si è inferiori se si nasce al di fuori dall’etichetta “maschio ed eterosessuale” ha portato maggiore equità sociale.
Poteva forse un potere di tipo confessionale, che si basa sulla negazione di tutto questo, starsene buono? Ovviamente no. E ha creato così il “dispositivo retorico reazionario” del “gender”, come lo definisce Garbagnoli, per spaventare le coscienze con un fine politico ben preciso: tornare indietro rispetto al progresso raggiunto. Se la gente è meno libera, obbedisce meglio… Tali evidenze ci permettono di fare tre ordini di considerazioni.
In primis, citando ancora la studiosa, “emerge che ciò che disturba il Vaticano […] non è il genere in sé ma il potenziale critico […] di una categoria analitica che denaturalizza l’ordine tra i sessi, iscrivendolo nell’ambito dei rapporti sociali di dominio”. Ovvero: prima si credeva che l’uomo fosse naturalmente superiore alla donna, i Gender Studies hanno dimostrato l’inconsistenza di tale assunto, con rigore provato.
Secondo poi: chi si oppone al “gender” è contrario al fatto che uomini e donne siano uguali e che le persone Lgbt abbiano gli stessi diritti della maggioranza eterosessuale. Un paio di esempi, in merito. Costanza Miriano, autrice ancora à la page presso certi movimenti fondamentalisti cattolici, ha scritto il libro Sposati e sii sottomessa, rivolto appunto alle donne. La piazza del Family Day, aizzata contro il “gender” a scuola ha poi prodotto lo slogan “stop Cirinnà”, contro la legge che dovrebbe regolamentare le unioni tra persone dello stesso sesso e che non è certo disciplina di studio nelle nostre aule.
Ancora, citando Garbagnoli: il gender “esiste, ma non è ciò che dice di essere”. Le forze del regresso, tra una scampagnata a piazza San Giovanni e qualche veglia silenziosa in giro per l’Italia, ci dicono che è una tirannide che vuole obbligarci tutti a cambiar sesso e a far masturbare i bambini a lezione. La realtà delle cose è diversa: sono studi che hanno prodotto maggiore democrazia. Ciò dà molto fastidio a qualcuno. E cercherà di far pesare questa insofferenza all’uguaglianza con la prossima discussione sulle unioni civili.
Dulcis in fundo: riprendiamoci la parola “gender” nella sua unica accezione.
Alla domanda “vuoi introdurre la teoria del genere a scuola?” risponderemo con: “sì, voglio un mondo in cui le persone (maschi e femmine, etero e persone Lgbt, ecc) siano educate al rispetto reciproco”.

martedì 25 agosto 2015

Il corpo delle donne è ancora terreno di conquista per giudici e stupratori Lea Melandri

Nel 1979 la televisione italiana trasmette il documentario di Loredana Rotondo Processo per stupro. Un evento sorprendente, a cui assistono milioni di spettatori e che per la prima volta fa uscire dalle aule di un tribunale un fatto di violenza contro una donna, legato a quello che c’è di più intimo: la sessualità.
Tina Lagostena Bassi, difensora di parte civile o, come preferì definirsi “accusatrice degli imputati”, in un’intervista di molti anni dopo fece rilevare quello che già era emerso con chiarezza dal filmato: in un processo per stupro è facilmente prevedibile che l’attenzione si sposti sulla vittima, sui dettagli della sua vita privata, sulla sua moralità, sul suo possibile consenso o sul contegno che può avere provocato i “peggiori istinti” dell’aggressore.
In sostanza, si trattava di prendere atto che l’approvazione della legge che aveva trasformato la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona (definitivamente nel 1996), non solo non aveva impedito che episodi analoghi si ripetessero, ma non aveva neppure scalfito l’ideologia insita nella conduzione dei processi, nella mentalità di giudici e avvocati.
Le culture ancora dominanti
La sentenza di assoluzione dei sei imputati per lo stupro avvenuto alla Fortezza di Basso a Firenze, le proteste, gli appelli, le manifestazioni che vi hanno fatto seguito, ripropongono perciò un “già visto” che interroga per un verso la cultura maschilista ancora dominante nel nostro come in altri paesi, per l’altro la scarsa incisività delle consapevolezze nuove e del cambiamento che il femminismo è venuto portando sulla relazione tra i sessi.
Il legame tra sesso e potere nella costruzione della sessualità maschile non è stato analizzato a fondo
Un grande passo avanti è stato riconoscere che la violenza maschile contro le donne è un “fatto strutturale” e non un’emergenza, un caso di cronaca nera, o la patologia di un singolo. Ma su quali siano le “strutture”, i “fondamenti” a cui deve la sua durata, la tendenza a ripetersi nell’indifferenza di tempi, luoghi, generazioni, poco si è detto, se non che rimandano a una “normalità” ancora da indagare nei suoi risvolti “perturbanti”.
 La manifestazione a Firenze, il 28 luglio 2015. - Aleandro Biagianti, Agf La manifestazione a Firenze, il 28 luglio 2015. (Aleandro Biagianti, Agf)
Per cominciare, si potrebbe partire allora da due domande semplici: che cosa fa pensare a un giovane stupratore, così come a un attempato, severo custode della legge, che una ragazza o una donna possa “desiderare e godere del fatto che l’altro eserciti una violenza fisica e mentale su di lei”?
Marina De Carneri, che ha pubblicato di recente un saggio di rara lucidità sull’“inconscio patriarcale della psicanalisi” (Il fallo e la maschera, Mimesis 2015), scrive:
Attraverso la mitologia, come oggi attraverso il cinema o la televisione, gli uomini greci e romani trasmettevano ai figli l’etica della virilità che era una etica del potere e del dominio espressa attraverso l’esercizio dello stupro. La mitologia greca è piena di stupri su donne e fanciulli, chiamati eufemisticamente ‘seduzioni’ o ‘ratti’ (…). Per i romani, come per noi fino a pochi decenni fa, lo stupro non era un reato contro la persona, ma contro la morale. Di conseguenza, tutti gli uomini e le donne delle classi inferiori (stranieri, schiavi, liberti) potevano essere liberamente stuprati.
Il legame tra sesso e potere nella costruzione della sessualità maschile non è stato evidentemente analizzato a fondo, né si è riflettuto abbastanza sulla sorprendente verità contenuta nell’affermazione di Freud: “Che la crudeltà e la pulsione sessuale siano intimamente connesse ce lo insegna senza dubbio la storia della civiltà umana”.
Che altro ci insegna la storia della civiltà umana?
In quella summa visionaria della cultura greco-romano-cristiana che è Sesso e carattere – il libro del filosofo viennese Otto Weininger suicida a soli 23 anni, che attribuisce alla donna, alle sue profferte sessuali, o semplicemente al suo essere un “corpo erotico” la molla prima dell’incontenibile aggressività maschile – trovano il loro fondamento culturale e nobilitante il senso o il pregiudizio “comune”, e insieme quell’ideologia che ha diviso, insieme al destino dei sessi, il bene dal male, la virtù dal peccato, lo spirito dalla materia.
Scrive Weininger:
Quando l’uomo divenne sessuale creò la donna. Che la donna esista non significa dunque altro se non che l’uomo affermò la sessualità. La donna è solamente il risultato di tale affermazione, è la sessualità stessa. La donna è la colpa dell’uomo, è l’oggettivazione della sessualità maschile, la sessualità incarnata, la sua colpa divenuta carne (…). Si sottoporrà la donna all’idea morale, all’idea dell’umanità? Questa soltanto infatti sarebbe emancipazione della donna.
Se si vogliono scalzare gli stereotipi di genere, che sono alla base dei rapporti di potere tra uomo e donna, ma anche del perverso legame tra amore e violenza, è alla cultura alta e alla sua presunta “neutralità” che bisogna guardare con coraggio e senso critico.
Dopo la provocazione liberatrice di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, sembra che anche gran parte del movimento delle donne abbia preferito volgere gli occhi altrove, rivisitare in chiave di positività la tradizionale “differenza” femminile, ricostruire “genealogie” del proprio sesso, anziché continuare a scalfire l’immaginario che ha permesso ai padri di trasmettere ai figli la consegna di un potere inscritto nelle istituzioni pubbliche quanto nelle relazioni più intime, come la sessualità.


mercoledì 19 agosto 2015

Ekin Van, donna, curda, combattente del PKK. E' stata brutalmente torturata e ammazzata dall'esercito turco.

Ekin Van, donna, curda, combattente del PKK. E' stata brutalmente torturata e ammazzata dall'esercito turco. Il suo corpo è stato abbandonato per strada, nudo, come se fosse un rifiuto da gettare via, come se dovesse essere un monito perenne, pubblico, per chi osa sfidare Erdogan e lo strapotere militare della Turchia e della Nato in questo fazzoletto di terra.
Niente di troppo diverso dalle immagini che diffonde l'Isis sulla fine che fanno i suoi prigionieri.

A Ekin e alle donne coraggiose e rivoluzionarie come lei, alle sue compagne che sono state le uniche a impedire davvero l'avanzata dello Stato Islamico, fino a qualche mese fa osannate dai nostri viscidi governanti e dai loro mezzi di comunicazione e ora tornate a essere le "terroriste" del PKK, a loro vogliamo dedicare alcuni versi che Pablo Neruda scrisse per un'altra sorella della rivoluzione
Perché il loro sacrifico muoverà la storia, perché non sono passate invano, ne siamo certe.

Perché non muore il fuoco.

"Verranno un giorno sulla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri si disperdano,
verranno a vedere quelli d'una volta, domani,
là dove sta bruciando il tuo silenzio.

Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.
Avanzano ogni giorni i canti della tua bocca
nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.
Valoroso era il tuo cuore.

Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.

Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,
quelli che da tutte le parti, dall'acqua, dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché non muore il fuoco".

martedì 18 agosto 2015

BabaYaga House: la Casa delle Streghe per Invecchiare Insieme di Valeria Bonora

“Vivere a lungo è una buona cosa, ma invecchiare bene è meglio” ~ Thérèse Clerc
Si chiamano “streghe”, si perchè BabaYaga nel folklore slavo significa proprio questo, ma di streghe hanno solo il nome, sono un gruppo di circa 20 anziane ma dinamiche femministe che hanno preso in mano la propria vita e hanno dato il via ad un progetto di housing sociale autogestito.
La BabaYaga House francese è stata fondata da Thérèse Clerc. Lei ha ricevuto da otto diverse fonti pubbliche, tra cui il consiglio comunale di Montreuil, 4milioni di euro, sorta nel sobborgo parigino di Montreuil, proprio a due passi dalla metropolitana, negozi e cinema, permette alle anziane signore di mantenere la loro indipendenza e di sostenersi a vicenda; il governo ha stanziato questi soldi perchè pensa di recuperare l’investimento in una riduzione dei costi relativi alla salute delle donne.
La Fondatrice Thérèse Clerc durante la realizzazione del progetto spiegava il suo sogno:
“Il sogno ha preso forma, e ogni volta che passo davanti questo cantiere e vedo la mia futura casa, mi viene un brivido. Ho 84 anni, ma il tempo che mi rimane lo trascorrerò felice e soddisfatta. Sono sicura di questo. La vecchiaia non è come essere naufragato. Non è una malattia. Può essere bella, e ho intenzione di viverla in questo modo, con i miei amici e colleghi.”
L’edificio di cinque piani ospita 25 appartamenti di 40 metri quadrati circa. I residenti sono solo donne di età superiore ai sessanta anni e vivono insieme guardandosi l’un l’altra.
C’è anche uno spazio di circa 120 metri quadrati al piano terra per un’università aperta, dove si possono organizzare corsi e gruppi di discussione, scrittura creativa, concerti e qualsiasi altra cosa possa aiutare un invecchiamento sano. C’è anche un appartamento di 20 metri quadrati per i visitatori e nel caso in cui qualcuna abbia bisogno di cure sul posto, in futuro, ci sarà anche uno spazio a disposizione per le visite di medici e infermieri.
Il sogno di Clerc è iniziato nella metà degli anni ’60, le visite a residenze statali degli anziani la convinsero che non poteva sopportare di trascorrere così la sua vecchiaia. Così lei e il suo gruppo di amiche femministe ha iniziato un’attività di lobbying per una alternativa.
Come spiega Thérèse Clerc, l’idea ha avuto origine in ragioni personali:
“Mia madre è stata costretta a letto per 5 anni e io non voglio che i miei figli passino attraverso questo. Considerando i rischi di essere curati a casa o di essere da soli, mi sono detta perché non vivere con gli amici? Dopo tutto, avevo imparato l’autogestione. Lo statuto dell’associazione è stato registrato nel 1999. Le cose stavano andando a rilento poi l’ondata di caldo del 2003 e un articolo su Le Monde hanno attirato l’attenzione al nostro nuovo progetto”.
Il loro scopo è quello di vivere in una situazione dignitosa a prezzi accessibili (pagano circa 420 euro), circondate da persone con le quali si è compatibili e sulle quali sanno di poter contare.
I residenti vengono selezionati anche in relazione a quello che potrebbero dare alla “comunità” e la misura in cui condividono la filosofia Babayaga, (qui il pdf in lingua inglese che spiega i principi della babayaga house).
Due progetti analoghi sono in corso in Palaiseau e Bagneux, e altre autorità locali sono interessati a seguire l’esempio di Montreuil, dopo tutto, un quarto della popolazione francese (17 milioni), sono attualmente persone di oltre 60 anni di età, ed entro il 2050 aumenterà ad un terzo.
Esistono altre opzioni, come ad esempio il Abbeyfield Case, che si trova in paesi di tutto il mondo. Alcuni sono ancora in fase di progettazione, come la Casa di Baba Yaga a Toronto e l’idea di Janet Torge di radicali Resthomes.
Questo è un nuovo modo di pensare alla vita degli anziani, dove possono condividere, aiutarsi, sentirsi ancora utili e giovani, dovrebbero nascere più “case delle streghe”, chissà se un progetto simile potrà prendere piede anche in Italia.

lunedì 17 agosto 2015

Maschilismo di Fatto (quotidiano) di Michela Murgia

Su Il Fatto Quotidiano c'è stata una mia lunga intervista sulla violenza sulle donne per mano maschile a firma dell'ottima Silvia Truzzi. Rileggerla mi ha suscitato una riflessione un po' amara. Sono stata una lettrice del Fatto dalla prima ora, stimo i giornalisti che ci lavorano e ho collaborato a lungo con le scomparse pagine culturali, ma questo non mi impedisce di dire che sul tema del femminicidio e della cultura che lo produce Il Fatto Quotidiano è in ritardo netto su tutti gli altri quotidiani, che pure in materia non sono stati certo avanguardisti. I motivi sono diversi e vorrei provare ad analizzarli con spirito costruttivo.
-Il primo motivo è che i fenomeni sociali richiedono un approccio complesso anche nel dare le notizie e purtroppo il Fatto Quotidiano riserva questo sguardo analitico quasi esclusivamente alle vicende giudiziarie dei politici. Fuori dalla politica agita e dall'economia, sul Fatto il mondo appare come uno scenario in bianco e nero.
-Il secondo è che la direzione del Fatto (sia quella web di Gomez che quella cartacea di Padellaro) sul femminicidio non ha una linea precisa e quindi concede spazi paritari sia a chi lo combatte tutti i giorni che a chi ne nega grossolanamente l'esistenza. In una domanda dell'intervista questa compresenza contraddittoria viene rivendicata dalla giornalista come un'espressione di pluralismo, ma è una foglia di fico: mai Padellaro o Gomez concederebbero di scrivere sulle pagine del Fatto un editoriale a favore dell'inciucio PD-PdL in nome del pluralismo, perchè sulla questione del governo la linea del Fatto è nettissima; non è così sul femminicidio, evidentemente. 
-Il terzo motivo è di natura culturale e, benchè riguardi tutti i giornali, tocca il Fatto in maniera molto più evidente, se non altro perchè la sua ambizione iniziale era di interpretare una sensibilità progressista. Lo snodo è questo: la questione femminile non è percepita come un tema politico, ma come un fatto di costume che riguarda marginalmente una parte della società, piuttosto che le radici stesse del vivere civile. Perciò si tende a delegare la trattazione del tema a opinionisti esterni e così oggi vengo intervistata io e domani un'altra, ma sul femminicidio e sulla cultura sessista non abbiamo mai avuto il piacere di leggere nessun editoriale di Padellaro, nessun fulminante corsivo di Travaglio, nessuna lucida analisi di Gomez. In questo modo nel lettore viene confermata la convinzione che il divario sociale di genere o le decine di donne morte per mano d'uomo possessivo siano un tema marginale rispetto, che so, a snodi sociali fondamentali come la bagarre grillina sui rimborsi del taxi privi di ricevuta. Così in prima pagina ci vanno i rimborsi e invece la questione femminile finisce nel ghetto web (Donne di Fatto) dove per giunta deve contendersi lo spazio col presunto "pluralismo" in contraddittorio di un Massimo Fini, di un Mazzola o di un Tonello
-Il quarto motivo è, banalmente, che al Fatto Quotidiano nessun caporedattore è donna e nessuna firma femminile si occupa di temi politici in prima pagina: la linea decisionale del giornale è esclusivamente maschile. Incapacità delle donne a ricoprire ruoli direttivi nel giornalismo? Inettitudine all'analisi sui fatti che contano? Il gender gap, al Fatto come ovunque, non influenza solo la scelta dei temi e del linguaggio, ma anche il grado interno di tolleranza verso i commenti violenti e insultanti e verso le posizioni evidentemente sessiste di alcuni opinionisti e blogger.

C'è tanto ancora da fare.

domenica 16 agosto 2015

"Siamo donne, e allora..." Riflessioni sul nostro tempo di Manuela Manera

Valorizzare le differenze tra le persone, sovvertire i paradigmi dominanti, auspicare una partecipazione maschile, usare le parole adatte. Una riflessione personale su quattro questioni urgenti del nostro tempo
Assisto a incontri, convegni, giornate di studio: di fronte ai dati offerti su slide frettolose come su vassoi d’argento mal lucidati e a relazioni che, senza i microfoni, sarebbero poco più che solite chiacchiere tra amiche, a colpirmi è l’incapacità, o la non volontà, di focalizzarsi su alcuni snodi oggi fondamentali.
Le differenze tra le persone (ovvero tra le storie complesse che le costituiscono come identità individuali e sociali)
È necessario valorizzare le differenze tra le persone, più che tra i sessi. C’è una tendenza a 'genderizzare' tutto e tutti: ci si sforza di ritagliare ed esaltare a tutti i costi la specificità femminile. Le argomentazioni che vogliono mettere in luce le buone pratiche portate avanti dalle donne (da tutte?) rischiano di assumere i toni di una giustificazione della presenza femminile (“è una donna, ma lavora bene”) e tendono a inserire le persone all’interno di giochi di forza conflittuali (“è una donna, ma lavora meglio di un uomo”). Imperniare un’argomentazione sull’asse oppositivo maschio-femmina, su cosa una fa meglio dell’altro, su quali sono le caratteristiche dell’uno rispetto all’altra, significa rafforzare ancora di più gli stereotipi, o abbattere quelli tradizionali per crearne di nuovi. Invece: quale modo migliore per contrastare la stereotipizzazione dei generi che smettere di leggere il mondo in un’ottica dicotomica e considerare le persone nella loro singolare differenza? 
Implementare nuovi modelli di organizzazione del lavoro extradomestico organizzati intorno agli affetti
È necessario sovvertire il paradigma dominante. La stragrande maggioranza delle donne per raggiungere posizioni apicali rinuncia (consapevolmente?) al proprio sé e alla propria voce scomparendo dietro a una pseudo neutralità (maschile) e omologandosi ai desideri e alle richieste dell’establishment culturale. Ma c’è una sottomissione al sistema ancora più ancestrale. Nel percorso formativo e lavorativo di ciascuna/o si pone a un certo punto la scelta di come gestire il tempo della famiglia e il tempo del lavoro. Se la società in questi ultimi cento anni è profondamente cambiata, non è cambiata di molto invece l’organizzazione degli spazi e dei tempi lavorativi extradomestici: questi sono ancora improntati a una netta divisione dei compiti, tale per cui la persona che gestisce gli affetti non deve essere la stessa che intraprende un percorso professionale retribuito. È proprio qui, nell’accettare la partizione netta e dicotomica tra professione da un lato e cura dall’altro, che si stringe un patto di fedeltà al sistema così tanto radicato nella nostra storia da parere 'naturale' e dunque non modificabile. Sovvertire il paradigma dominante significa: riconoscere l’importanza del tempo gli affetti; riconoscere, anche da un punto di vista economico, il ruolo, fondamentale per la società, di family caregiver; conciliare i tempi famiglia-lavoro in modo che la cura degli affetti non implichi la rinuncia al lavoro extradomestico o alla carriera. Dobbiamo uscire da questa ottica oppositiva e dicotomica tipica dell’attuale sistema dominante che impone un aut aut tra cura/famiglia/affetti da un lato e carriera dall’altro; e si deve superare l’idea che questo sia un problema delle donne: se oggi, ad esempio, la maternità mette a rischio la carriera - e, prima ancora, l’accesso a un lavoro retribuito - la carriera sottrae agli uomini la paternità.
Più diritti per tutti e tutte nell’ambito degli affetti e del lavoro
È necessaria la partecipazione degli uomini. Anche gli uomini sono condizionati da forti stereotipi, con cui non hanno ancora fatto pienamente i conti (interessante la differenza semantica e storica tra i termini maschilismo e femminismo): ad esempio, a loro la tradizione nega la possibilità di vivere appieno, e manifestare, affetti e certe emozioni. Consideriamo, poi, la nascita di un/a figlio/a. Il discorso riguarda in primis le donne che, fisiologicamente, vivono la gravidanza, la nascita, la maternità, l’allattamento - e per ognuno di questi punti sarebbe interessante interrogarsi sul modello imposto: la maternità è spesso presentata come un problema sotto molti punti di vista: da quello estetico a quello economico. Il discorso, però, riguarda anche, e profondamente, gli uomini che hanno gli stessi diritti, oltre che doveri, delle donne nell’accudire, educare, stare con i propri figli e le proprie figlie; hanno il diritto, oggi negato o difficilmente goduto, di vivere la felicità degli affetti. Quanti uomini, e donne, però, si accorgono di essere discriminati da questo punto di vista? Quanti di loro lottano per ottenere più tempo da trascorrere con la famiglia e gli affetti?
Siamo donne, diciamolo senza paura
È necessario non vergognarsi di essere quel che si è. Quando le donne arrivano a occupare una posizione apicale spesso ribadiscono anche attraverso il linguaggio la loro fedeltà al sistema, ad esempio ricorrendo al cosiddetto 'maschile neutro', che le dovrebbe mettere al riparo da critiche sessiste preservando al contempo l’autorità legata alla carica finalmente raggiunta. Tanto più in alto e prestigiose sono le cariche raggiunte, tanto più facilmente scompaiono i nomi declinati al femminile. Nonostante alcuni buoni esempi e le parole spese a favore di un uso corretto della grammatica italiana da parte dell’Accademia della Crusca, è ancora raro trovare nei documenti burocratici, nei giornali, in televisione il ricorso a un linguaggio di genere corretto. Esplicitare la presenza di uomini e donne nei vari settori professionali, parlare a tutte e tutti, fare attenzione a un linguaggio rispettoso delle differenze è una scelta che va al di là della auspicabile correttezza grammaticale: è una scelta politica con la quale si intende ribadire (o creare) un modello paritario rispettoso delle differenze e un immaginario non discriminatorio che non è ancora, purtroppo, scontato. 
Alcune discriminazioni sono lampanti, altre – le più difficili da estirpare – sono subdole, corrono nei sottotesti, nelle pieghe delle vesti, nei sussurri biascicati, nelle banalizzazioni e nei modi di dire, nelle narrazioni. La libertà di scelta è in molti casi solo apparenza e al discorso imperante soggiace un non detto che è 'naturalmente', e per questo più pericolosamente, accettato. Tutte e tutti dobbiamo costruire nuove storie e modelli di organizzazione del tempo, dello spazio, del lavoro e degli affetti. 

sabato 15 agosto 2015

Ferragosto origini pagane di un’antica festività sacra Da Cristina Nidawi

Le radici sacre del Ferragosto si perdono nella notte dei tempi e sono legate ai cicli della natura e in particolare ai doni raccolti dalla terra. Momento culmine dell’estate infatti, questo periodo porta la consapevolezza di trovarsi nella parte dell’anno in cui si può riposare, ringraziare dei frutti e celebrare la ricchezza elargita dalla Terra. Ora i campi coltivati hanno premiato il lavoro con i loro raccolti. Dunque è una festività relativa alla stretta connessione tra la vita e il nutrimento che trae dalla terra e il riposo festoso dopo aver lavorato la terra e tratto da lei i preziosi tesori. Oggi, tutta questa connessione tra la terra e la vita è nascosta ai nostri occhi, perlomeno per coloro che vivono nei centri urbani e non partecipano ai ritmi lavorativi delle campagne. Oltretutto, la modalità con cui avviene la produzione agricola è fortemente cambiata rispetto al passato ed il ciclo agricolo è stato molto snaturato. Quasi è andato perso questo senso di connessione con la terra, non ce ne rendiamo quasi più conto… e i cicli stagionali son vissuti in maniera superficiale e poco consapevole. Eppure, per fortuna ancora oggi tutti festeggiamo il Ferragosto!
Questa festività fin dai tempi più antichi designa quel periodo di feste che si svolgevano nel periodo di agosto e che avevano il loro momento di massima espressione a metà mese quando il popolo ringraziava per i buoni raccolti. I coltivatori, avendo raccolto i frutti del loro lavoro, finalmente potevano riposare e festeggiare. In un clima di gratitudine e gioia ci si dedicava non più a lavorare, ma a giocare, banchettare, celebrare e ringraziare per i beni ricevuti dalla terra.La-spiga-più-bella_favola
Ancora non ho però spiegato da dove nasce il nome “Ferragosto”. Deriva dal latino, “Feriae Augusti” che significa “Riposo di Augusto”.
Seppure la festa certamente abbia origini ben più antiche, il nome “Ferragosto” ha origine nell’anno 18 a.e.v. (avanti era volgare) ed è dovuto a Ottaviano, il primo imperatore romano insignito appunto con il titolo di “Augusto” ossia venerabile, sacro. Questi infatti istituì che tutto il mese di Agosto fosse una festa in cui si susseguivano celebrazioni sacre in onore di divinità legate in qualche modo alla fertilità della terra e al raccolto. L’usanza di festeggiare a fine raccolto era ovviamente già esistente… ma quella dell’imperatore fu un’abile manovra di auto propaganda. Legò così il culto della sua figura ad un periodo di felicità, di festa e di meritato riposo, che ora portava il suo nome: il riposo di Augusto.
Il momento era ovviamente ideale per celebrare oltre all’imperatore anche le divinità romane in qualche modo legate al quel particolare momento del ciclo agrario.
Il 13 Agosto, ricorrenza molto importante, si celebrava la Dea Diana, Signora delle selve e della caccia, ma anche Signora della Luna e delle acque, patrona della maternità, divinità che proteggeva il parto. Dea legata quindi ai cicli  delle donne e della natura, perciò connessa ai riti della crescita e della vegetazione. A volte Diana è raffigurata su alcune gemme con una fronda in una mano e una coppa ricolma di frutti nell’altra. Ci riporta Robert Graves in “La Dea Bianca” che durante la sua festa il 13 agosto si beveva sidro e c’erano rami con mele appese a grappolo.
Altre celebrazioni riguardavano la Dea Opi, arcaica Dea romana il cui simbolo era la cornucopia con la quale viene spesso raffigurata. A volte tiene anche un fascio di grano in mano. Opi rappresenta la terra ed è legata alla fertilità dei campi e all’abbondanza agricola. E’ il 25 del mese di agosto che si celebravano gli Opiconsibia, le feste tradizionali in suo onore. A lei era dovuta l’abbondanza dei raccolti e  a lei era affidata la protezione delle messi riposte nei depositi.
Ci troviamo ovviamente in epoca patriarcale e quindi nel pantheon accanto alle varie manifestazioni del femminino sacro ormai smembrato in mille parti e depauperato rispetto alla forma originale, si erano già da tempo affiancate figure di divinità maschili. Venivano quindi celebrati anche degli dei maschi. Però sempre legati alla capacità della terra di donare i propri frutti! Come Vertumno, divinità romana di origine etrusca, personificazione del mutamento delle stagioni e dio della maturazione dei doni prodotti dalla terra. Anche Conso, divinità dei campi e dei frutti della terra, in particolare divinità del seme del grano deposta alla protezione dei depositi di grano che a quei tempi erano sotto terra. Le feste a lui dedicate, i consualia, si celebravano il 21 agosto. Più tardi a queste celebrazioni si unirono anche quelle legate a divinità di origine orientale, come la Dea Madre siriana Atargartis. Insomma, tutto il mese era caratterizzato da una particolare concentrazione di manifestazioni che a loro volta si rifacevano a tradizioni più antiche, addirittura preistoriche. Fino a rendere quel giorno di metà agosto una ricorrenza in omaggio di tutti i numi in qualche modo legati ai concetti della crescita, del concepimento e della nascita
Ovviamente le radici sacre di questa festa affondano molto più in profondità! Nella consapevolezza forte nell’uomo preistorico dello stretto legame con la natura di cui si sentiva parte integrante e dell’importanza delle elargizioni della terra per la sua vita. Nella percezione della sacralità della terra e del naturale svolgersi delle stagioni che così tanto influenzavano la sua vita. Quindi il riferimento più antico di questa festività, va certamente fatto risalire alle culture della Grande Dea, a cui tutte le divinità che ho sopra elencato hanno fatto seguito.
Dea è la forma in cui il divino veniva percepito in modo del tutto naturale e spontaneo dai nostri avi, prima che altre forme contaminassero questa percezione pura e originaria dello spirito umano. Dea era venerata da popoli che ci precedettero nella preistoria, molto diversi da come siamo noi oggi e da come siamo abituati a considerarli! Quelle dell’Europa antica, ampiamente studiate dalla mito-archeologa Marija Gimbutas, erano popolazioni culturalmente evolute, matrifocali che tendevano alla pace, alla non violenza, alla bellezza, al rispetto delle differenze tra uomini e donne. gimbutasQuindi popolazioni non gerarchiche ed ugualitarie che ponevano la vita al centro del loro sistema di valori e quindi della loro spiritualità. Ciò lo si deduce dai reperti archeologici. Le forme divine erano al femminile e spesso venivano raffigurate nell’atto di partorire la vita. Questa era concepita come un armonioso ciclo naturale di vita morte e rigenerazione. Dalle loro tombe emerge l’assenza di gerarchie, di disparità tra ricchi e poveri, o tra i sessi. Che fossero pacifiche e vivessero in un clima di armonia con i popoli vicini è facile dedurlo dal loro modo di edificare i centri abitati, alcuni dei quali raggiunsero dimensioni decisamente notevoli in rapporto al periodo, basti pensare ad es. a Çatal Huyuk. Sceglievano i luoghi dove costruire i loro centri abitati, secondo criteri basati sulla bellezza del paesaggio e la piacevolezza nel vivere che poteva offrire. Quindi edificavano in posti essenzialmente belli, in pianura, vicino all’acqua che serve alla vita e non innalzavano intorno cinta murarie, come invece è uso fare nei popoli patriarcali e belligeranti che li hanno gradualmente soverchiati. Quelli che fino alla modernità hanno prediletto alture e luoghi più facilmente difendibili o, comunque sia, almeno strutture atte a contrastare gli attacchi esterni come appunto le mura di cinta. Insomma per almeno 25.000 anni questa cultura preistorica della Dea, pacifica ha praticato l’uguaglianza e una vita armoniosa tra gli esseri umani e tra questi e la Natura fino a raggiungere un alto grado di cultura. Consiglio di leggere a chi interessa l’argomento il libro “Il calice e la spada” di Riane Eisler e ovviamente i libri di Marija Gimbutas.
Tornando al discorso sul ferragosto, certamente i nostri avi, le popolazioni dell’Europa antica, vivendo così in simbiosi con la Natura e riverendola così profondamente, celebravano con un ciclo di feste e cerimonie sacre lo svolgersi delle stagioni, onorando la ruota sacra su cui si dispiegava la loro vita in stretta connessione con la Natura. Il tempo passa e il sentire sacro resta vivo e, seppur trasformato dagli eventi della storia, si manifesta in forme diverse.
La festa di Ferragosto è dunque una festa pagana le cui radici affondano in quella che è ingiustamente definita Preistoria cioè prima della storia. Ricorrenza “pagana” legata alla generosità della Terra fertile, alla divinità che dispensa i suoi frutti e quindi vita e nutrimento. Anche alla maternità dunque. Una festività talmente radicata nella psiche dell’umanità che ha celebrato questo periodo dell’anno fin dagli albori. Qualcosa di impossibile da sradicare insomma!
Come è avvenuto sempre nel caso di festività pagane molto sentite, la Chiesa cattolica ha cercato dapprima di abolirla. Ma, come ovvio, senza riuscirci. Allora, l’abilità della nuova religione è sempre stata quella di compiere un’operazione di auto appropriazione di ciò che di pagano non è riuscita a cancellare (come ad esempio è avvenuto anche per il Natale e la Pasqua anch’esse festività pagane divenute in seguito cristiane… e i simboli pagani sono tutt’ora in uso a dimostrarlo!) Anche stavolta ha attribuito nuovi significati legati al proprio culto all’originaria festività pagana le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
L’antica festa legata alla prosperità elargita da Dea attraverso il raccolto dei frutti della terra, in seguito rappresentata da varie divinità femminili e maschili pagane, acquisisce in epoca moderna un significato del tutto diverso. Al 15 di agosto viene infatti legata dalla Chiesa cattolica l’assunzione in cielo della Vergine Maria. Questo è avvenuto in epoca recente: l’idea ha cominciato a diffondersi nel 18esimo secolo e solo nel 1950 l’assunzione in paradiso della Madonna fu riconosciuta come dogma dal papa Pio XII.
Oggi le persone festeggiano questo momento di gioia come hanno sempre fatto. Possibilmente all’aperto, vanno per prati a fare pic nic, giocare, festeggiare insieme. Oppure nelle case, o nei ristoranti, si riuniscono con gli amici, con i parenti, con le persone care. Nei paesi invece si organizzano sagre, gare, processioni, pali, sfilate, addobbi, infiorate… ora, come è sempre stato, riposo, gioia e festosità caratterizzano questa bella festività che è il Ferragosto!

Allora tanti auguri a tutti, trascorrete un buon Ferragosto! ^_^



venerdì 14 agosto 2015

Perché sono un uomo femminista di Byron Hurt*

Come un uomo  è  passato da aggressore a difensore dei diritti delle donne.
Quando ero piccolo, mio padre e mia madre discutevano molto. Certe mattine mi svegliavo al suono allarmante delle grida dei miei genitori.La discussione continuava fino a quando mio padre urlava: "E' questo è tutto!Non voglio continuare più a parlare di questo". La disputa finiva lì. Mia madre non ha mai avuto l'ultima parola. Le urla di mio padre facevano rabbrividire mi madre; io volevo fare qualcosa per fermare la furia contro di lei. In quei momenti, mi sentivo impotente perché ero troppo giovane per affrontare mio padre. Ho imparato presto che la forza e il potere intimidivano mia madre. Non ho mai visto mio padre colpirla, ma ho assistito ai dannosi colpi verbali che cadevano sulla psiche di mia madre.
Mio padre non maltrattava sempre di mia madre, ma quando lo faceva, mi identificavo con il suo dolore,non con l'aggressività di lui. Quando le faceva male, faceva male anche a me. Con mia madre avevamo un legame molto speciale. Era divertente, intelligente, amorevole e bella. Era un'ottima ascoltatrice e mi faceva sentire importante. Ogni volta che le cose si mettevano male, lei era la mia roccia e il mio pilastro.
Una mattina, dopo le grida di mio padre durante una discussione,lei ed io, ci siamo chiusi in bagno, soli, preparandoci per il giorno davanti a noi. La tensione nella casa era spessa come una nube di fumo nero. Sapevo che mi madre era nauseata. " Ti voglio bene mamma,ma vorrei che tu avessi un pò più di coraggio quando discuti con papà", le dissi a voce bassa, perché non potesse sentirmi.Lei mi guardò, mi accarezzò la schiena e si sforzò di sorridere.
Avevo tanto desiderio che mia madre difendesse se stessa...Non capivo perché doveva arrendersi ogni volta che discutevano. Chi era lui per mettere le regole in casa? Che cosa lo rendeva tanto speciale?
 Sono cresciuto risentito del dominio di mio padre in casa, anche se gli volevo tanto bene quanto ne volevo a mia madre. La sua rabbia e la sua intimidazione impedirono che mia madre, mia sorella ed io, potessimo esprimere la nostra opinione ogni qualvolta fosse in contrasto con la sua. Qualcosa nella disuguaglianza della loro relazione  mi sembrava ingiusta, ma in un'età  così giovane,non sapevo dire cosa.
Un giorno, mentre eravamo seduti al tavolo della cucina dopo una delle loro discussioni, mia madre mi disse: "Byron mai, trattare una donna come tuo padre tratta me." Vorrei averla ascoltata.
Quando  sono diventato grande ed ho avuto le mie relazioni con le ragazze e le donne,a volte, mi sono comportato come ho visto comportare mio padre. Anch'io sono diventato verbalmente aggressivo ogni volta che una ragazza o una donna con le quali uscivo, mi criticava o sfidava. Screditavo le mie compagne controllando il loro peso o l'abbigliamento che avevano scelto di indossare. In una relazione in particolare, ai tempi dell'università, usavo spesso la mia corpulenza per intimidire la mia ragazza, gettandomi su di lei e urlandole per difendere il mio punto di vista.
Avevo assimilato ciò che avevo visto a casa e mi stavo lentamente trasformando in ciò che avevo disprezzato fin da piccolo. Anche se mia madre aveva cercato di insegnarmi  il meglio io, come molti ragazzi ed uomini,mi sentivo in diritto di maltrattare il genere femminile.
Dopo la laurea,avevo bisogno di un lavoro. Seppi di un nuovo programma di sensibilizzazione che si stava lanciando. Si chiamava i Mentori  nel Progetto di Prevenzione della Violenza. Essendo uno studente-atleta avevo fatto sensibilizazione comunitaria in precedenza e questo Progetto mi sembrava un buon piano,mentre aspettavo di lavorare nel mio campo, il giornalismo.
Fondato da Jackson Katz, il progetto MPV fu creato per usare il prestigio degli atleti nel  rendere inaccettabile la violenza di genere. Quando mi incontrai con Katz non sapevo che il progetto era un programma di prevenzione della violenza di genere. Se lo avessi saputo, probabilmente non sarei andato al colloquio. 
Così quando Katz mi spiegò che stava cercando un uomo per aiutarlo ad istituzionalizzare il progetto  basato sulla prevenzione della violenza di genere, nelle scuole ed università di tutti i paesi, quasi me ne stavo andando da dove ero venuto. Però durante l'intervista,Katz, mi pose una interessante domanda: “Byron, secondo te,quali vantaggi può ricevere la nostra comunità,dalla violenza degli afro-americani sulle afro-americane?"
Nessuno mai  mi aveva posto questa domanda. Come uomo afro-americano profondamente preoccupato delle questioni di razza, non avevo mai pensato del come l'abuso emotivo, le percosse, le violenze sessuali, le molestie per strada e le violazioni, colpissero un'intera comunità così come il razzismo.
Il giorno dopo, partecipai ad un seminario sulla prevenzione alla violenza di genere organizzato da Katz, il quale pose agli uomini in sala, la seguente domanda: " Che cosa avete fatto per proteggervi dall'essere violentati o aggrediti sessualmente?"
Non un solo uomo, me compreso, potè rispondere prontamente alla domanda. Infine,un uomo alzò la mano e disse: "Niente." 
Poi,  Katz domandò alle donne: " Che cosa avete fatto per proteggervi dall'essere violentate o aggredite sessualmente? Quasi tutte le donne in sala alzarono la mano. Una dopo l'altra ciascuna donna testimoniò:
"Non stabilisco nessun contatto visivo con uomini, quando cammino per la strada" disse una.
"Non lascio incustodito il mio bicchiere alle feste" disse un'altra.
"Attraverso la strada quando vedo un gruppo di ragazzi che vengono verso di me" 
"Uso le mie chiavi come una potenziale arma" 
" Porto con me uno spray da difesa"
" Guardo ciò che mi metto".
Le donne hanno continuato per qualche minuto, fino a quando la parte della loro lavagna era  completamente riempita. Mentre il lato della lavagna degli uomini era totalmente bianco.
Ero sbalordito. Non avevo mai sentito un gruppo di donne dire queste cose. Ripensai a tutte le donne della mia vita (compresa mia madre, mia sorella, la mia fidanzata) e mi resi conto che avevo molto da imparare riguardo al genere.
Giorni dopo, Katz mi offrì il lavoro di specialista consigliere-formatore ed io lo accettai. Anche se non ero ben informato, da un punto di vista professionale, imparai rapidamente sul lavoro. Lessi libri e saggi di Bell Hooks, Patricia Hill Collins, Angela Davis ed altre scrittore feministe.
Come la maggior parte degli uomini avevo assorbito lo stereotipo che tutte le femministe erano bianche, lesbiche, attacca-maschi, poco attraenti, che odiavano gli uomini. Ma dopo aver letto le opere di tutte queste femministe nere, mi resi conto che ciò era lontano dalla realtà. Dopo aver indagato a fondo il loro lavoro, arrivai a rispettare davvero l'intelligenza, il coraggio e l'onestà di queste donne.
Le femministe non odiavano gli uomini. Infatti li amavano. Ma,come mio padre aveva messo a tacere mia madre durante le loro discussioni per non sentire le sue lamentele, gli uomini avevano messo  a tacere le persone femministe screditandole e facendo orecchie da mercanti su chi siamo realmente.
Ho imparato che le femministe hanno prodotto una critica importante di una società dominata dagli uomini che normalmente  e universalmente trattavano le donne come cittadine di seconda classe. 
Esse dicevano la verità e, pur essendo un uomo, la loro verità mi stava parlando. Attraverso il femminismo, ho sviluppato un linguaggio che mi ha aiutato ad esprimere meglio cose che avevo sperimentato crescendo come uomo.
Gli scritti femministi sul patriarcato, sul razzismo,capitalismo e sessismo strutturale si relazionavano con me, perché ero stato testimone in prima persona del dominio maschilista, che esse sfidavano. L'ho visto da bambino in casa mia e l'ho perpetuato da adulto. Le loro analisi della cultura e comportamento degli uomini mi ha aiutato a porre il patriarcato di mio padre in un più ampio contesto sociale e, al contempo, mi ha aiutato a capire meglio me stesso.
Decisi che mi affascinavano le femministe ed abbracciai il femminismo. Il femminismo non solo dà voce alle donne, ma apre la strada agli uomini per liberarli dal dominio della mascolinità tradizionale. Quando feriamo le donne nelle nostre vite, noi ci feriamo e feriamo anche la nostra comunità.
Una volta diventato adulto, il comportamento di mio padre  nei confronti di mia madre cambiò. Si addolcì e smise di essere irrazionale e verbalmente aggressivo. Mia madre arrivò a farsi valere quando erano in disaccordo.
Mi stupì  nel sentirla dire l'ultima parola che mio padre ascoltava senza infuriarsi. E' stato un grande cambiamento. Nessuno di loro si considerava femminista,ma credo che entrambi hanno imparato con il tempo a diventare individui più completi, che si trattavano con reciproco rispetto. Quando mio padre morì di cancro nel 2007,portava orgogliosamente per la città un cappellino da baseball che gli avevo regalato e sul quale c'era scritto: " Basta con la violenza sulle donne".
Chi dice che gli uomini non possono essere femministi?

* Byron Hurt, regista, scrittore e produttore musicale. 

giovedì 13 agosto 2015

Come cambiare il mondo una bambina alla volta di Laura @LauriFrost ·

Mi capita di frequente di chiedermi cosa possa fare nella mia vita quotidiana per contribuire a rendere il nostro mondo un posto più equo, senza discriminazione di genere e stereotipi. Quali sono le piccole azioni che posso intraprendere per contribuire a creare un mondo dove ogni bambina cresca con l’idea che la cosa più importante nella vita non sia l’aspetto esteriore, e che anche loro posso essere apprezzate per le loro doti intellettuali.
La giornalista Lisa Bloom, autrice del libro: Pensare: il linguaggio corretto per le donne che vogliono restare intelligenti in un mondo che le vuole stupide (Think: Straight Talk for Women to Stay Smart in a Dumbed-Down World) ha suggerito di cominciare a cambiare il mondo una bambina per volta.
Vi proponiamo la traduzione di un suo articolo, apparso anche sul blog Latina Fatale, che illustra il suo metodo.
Lo scorso fine settimana sono andata ad una cena a casa di amici, ed ho incontrato per la prima volta la loro bambina di cinque anni.
La piccola Maya aveva i capelli ricci, occhi dolci e profondi, ed era adorabile nella sua camicia da notte rosa. D’istinto volevo dirle: “Maya sei così carina! Guardati! Vai in giro e sfila nella tua meravigliosa camicia da notte, sei meravigliosa!”.
Ma non l’ho fatto. Mi sono trattenuta. Come faccio sempre quando vedo delle bambine piccole, mi trattengo dal mio primo impulso, che è di dirgli quanto sono carine, belle, tenere, ben vestite, curate o pettinate.
Che c’è di male, vi chiederete? E’ il nostro rompighiaccio standard per parlare alle bambine, no? Perché non fargli un complimento per far crescere la loro autostima? Onestamente, sono così tenere che non riesco a trattenermi quando le vedo.
Ma sospendete questo pensiero solo per un minuto.
Questa settimana la Abc news ha mostrato un servizio che riportava che circa metà delle bambine dai tre ai sei anni si preoccupano di essere grasse. Nel mio libro rivelo che dal 15 al 18 per cento delle bambine sotto i dodici anni ora indossa regolarmente il mascara, l’eyeliner ed il rossetto; i disturbi alimentari crescono e l’autostima scende; ed il 25 per cento delle giovani donne americane preferirebbe essere la America’s next top model che vincere il premio Nobel per la Pace.
Anche le ragazze brillanti al college rispondono che preferirebbero essere belle piuttosto che intelligenti. A Miami recentemente una mamma è morta a causa di un intervento di chirurgia estetica, lasciando due adolescenti. Questo continua a succedere e mi fa disperare.
Insegnare alle bambine che la loro apparenza è la prima cosa che notiamo è insegnargli che l’aspetto fisico è più importante di qualsiasi altra cosa. Le fa cominciare a fare la dieta a 5 anni e ad usare il fondotinta ad 11 anni e a volere la chirurgia plastica al seno a 17 anni ed il botox a 23.
L’ imperativo culturale che le ragazze devono essere belle 24 ore su 24, sette giorni su sette, è diventata la nuova norma, e le donne americane sono sempre più infelici. Cosa manca? Una vita con del significato, una vita di idee, leggere libri ed essere giudicate per i nostri pensieri o successi.
E’ per questo che mi costringo a parlare così come segue alle bambine:
“Maya” le ho detto piegandomi al suo livello, e guardandola negli occhi, “è un piacere fare la tua conoscenza”.
“Piacere mio” mi ha risposto, in quella voce composta ed educata che le brave bambine usano per parlare agli adulti.
“Hey che leggi?” Le ho chiesto, con un barlume negli occhi perché amo i libri. Ne vado matta e lo lascio trapelare.
I suoi occhi si sono ingranditi e, la sua aria educata e composta, ha lasciato sfuggire un autentico eccitamento riguardo l’argomento. Poi però era titubante nel rispondermi, perché ero un’estranea.
“IO AMO I LIBRI – le ho detto – tu?”
La maggior parte dei bambini ama i libri.
“SI – mi ha risposto – ed ora posso leggerli da sola”.
“Wow, è grandioso”, ho detto, e lo è per una bambina di 5 anni.
“Qual è il tuo libro preferito?”, le ho chiesto.
“Vado a prenderlo – mi ha risposto – posso leggertelo?”
La scelta di Maya era Purplicious, una storia nuova per me, si è seduta vicino a me sul divano e con orgoglio mi ha letto ad alta voce ogni parola delle storia della sua eroina che ama il rosa ma è tormentata da un gruppo di bambine a scuola che vestono solo di nero.
Ahimè, parlava di bambine e di cosa vestono, e come le loro scelte di guradaroba definiscano le loro identità. Ma dopo che Maya ha chiuso l’ultima pagina, ho portato la conversazione sui temi profondi del libro: bambine cattive, pressione dei pari e non seguire il gruppo. Le ho detto che il mio colore preferito è il verde, perché mi piace la natura e le è piaciuta la risposta.
Neanche per un momento abbiamo discusso di vestiti, capelli, o corpi e di chi fosse carina. E’ sorprendente quanto difficile sia stare lontano da queste conversazioni con le bambine, ma io sono testarda.
Le ho detto che avevo appena scritto un libro e che speravo che un giorno ne scrivesse uno anche lei. Era abbastanza eccitata dall’idea. Eravamo entrambe tristi quando è dovuta andare a dormire, ma le ho detto di scegliere un altro libro da leggere e discutere la prossima volta. Oops: ciò l’ha fatta troppo agitare e ha fatto capolino più volte dalla sua camera!
Ecco una piccola opposizione a una cultura che invia messaggi sbagliati alle nostre bambine. Una piccola spinta per dare importanza al cervello delle nostre bambine. Un piccolo momento per creare modelli di riferimento intenzionali.
Avranno i miei pochi momenti con Maya contribuito a cambiare la nostra industria multimilionaria della bellezza, la realtà che sminuisce le donne o la nostra cultura maniaca degli idoli? No, ma sicuramente ha cambiato la prospettiva di Maya per almeno una sera.
Provate a farlo la prossima volta che incontrate una bambina piccola. Potrebbe essere sorpresa all’inizio, perché pochi le hanno chiesto di mostrare la propria mente, ma siate pazienti ed aspettate. Chiedetele cosa sta leggendo. Cosa le piace e cosa no, e perché. Non ci sono risposte sbagliate. State solo stimolando una conversazione intelligente che rispetta il suo cervello.
A una bambina più grande fate domanda sull’attualità: l’inquinamento, la guerra, i tagli all’istruzione. Cosa la disturba del mondo che la circonda? Cosa cambierebbe se avesse una bacchetta magica? Potreste ricevere delle risposte interessanti. Ditele delle vostre idee e successi e dei vostri libri preferiti. Mostratele un modello di cosa faccia e dica una donna che pensa.
Ecco come cambiare il mondo: una bambina per volta.

mercoledì 12 agosto 2015

I lavori dei maschi e i lavori delle femmine Pubblicato da Benedetta

Come cresciamo i nostri bambini? Diciamo loro che da grandi potranno fare tutto ciò che vogliono, oppure in fondo in fondo dentro la nostra testa esiste una distinzione in base al genere? Ci preoccuperemmo se nostro figlio facesse nuoto sincronizzato, e nostra figlia facesse l’idraulico?
Qualche anno fa ho avuto il piacere di conoscere una giovane donna, impiegata in uno dei settori più “maschili” che esistano: faceva la minatrice. Parlando con lei, ho avuto veramente la sensazione che quello fosse proprio un “mestiere per maschi”, ma non per le presunte limitazioni fisiche (per superarle basta un po’ di allenamento in palestra), quanto per la fatica, quella sì estenuante, di dimostrare ogni giorno di valere professionalmente quanto un uomo.
E questo è uno dei pochissimi casi in cui la differenza fisica tra maschi e femmine potrebbe obiettivamente farci pensare che esistano lavori che le donne non possono fare. Eppure anche questo dato è stato smentito dopo che abbiamo visto le donne arruolarsi nei Marines e raggiungere prestazioni fisiche in molti casi anche migliori degli uomini. Del resto, non è che proprio tutti gli uomini che ci circondano siano proprio fisicamente prestanti, eh…
Ma il problema non sta tanto nello stabilire se una donna possa fare la muratrice e sollevare chili di mattoni (anche se ho visto donne che per pulire casa spostano armadi a muro con la leggerezza di un balletto di Tchaikovsky), il problema sta in tutti gli altri mestieri del mondo, in cui non esiste alcuna differenza fisica, eppure le donne non sono comunque bene accette. Per esempio nei posti di comando delle aziende, in cui il ruolo da dirigente è ancora quasi totalmente appannaggio degli uomini.
Il fatto che ancora oggi esista lo stereotipo per cui un uomo sia mentalmente incapace di organizzare l’economia domestica o che una donna, in virtù del suo ciclo mestruale, non sia adatta a coordinare delle relazioni diplomatiche tra Stati, fa sì che si dubiti sulla virilità dei – rarissimi – casalinghi e sulla femminilità (o sull’integrità sessuale) delle rare ambasciatrici nel mondo.
Ci si domanda in effetti come sia possibile che gli uomini siano in grado di programmare shuttle che vanno nello spazio e non un lavaggio delicato. Che le donne siano effettivamente più intelligenti?! Allo stesso modo, le donne, che quotidianamente dirimono questioni di territorio e lotta per il predominio tra i propri figli, non si capisce quale handicap dovrebbero avere a livello internazionale.
Quel che è certo è che la maggiore esclusione delle donne dal mercato del lavoro, ci costa il 7% del PIL (fonte Bankitalia), ma ci costa soprattutto in termini sociali: le donne hanno meno accesso allo studio e al mondo del lavoro, hanno stipendi minori rispetto a quelli maschili, e sono ‘sacrificabili': se nasce un bambino, è la donna che resta a casa, perché il suo stipendio è spesso ininfluente.
Cosa possiamo fare per scardinare questo stereotipo di genere?
A casa, in famiglia: quello è il posto dove si combattono gli stereotipi, e dove si insegna ai figli che il futuro è nelle loro mani, e che potranno sentirsi realizzati e liberi. Liberi di essere se stessi, da piccoli e da grandi, e liberi di inseguire le proprie passioni.
In casa, insegniamo ai bambini con l’esempio
Non è più il tempo del padre padrone che porta a casa lo stipendio e non muove un dito. Davvero ci piace un marito che non sa nemmeno trovare i suoi calzini, o caricare la lavastoviglie, o cambiare un pannolino? 
Iniziamo dalle faccende domestiche: la casa appartiene a tutti coloro che ci vivono, grandi e piccoli. Dividiamoci i compiti, e che ognuno faccia la sua parte. In questo modo il marito sarà l’esempio concreto che si può restare veri uomini anche se si fa una lavatrice, o ci si stira una camicia.
Quando nasce un figlio, manteniamo il nostro lavoro
Non dobbiamo dare sempre per scontato che alla nascita di un figlio la madre resterà a casa in automatico. Iniziamo a pensare in modo diverso, a pensare a quanti anni abbiamo studiato, alla fatica che abbiamo fatto, e soprattutto ai nostri desideri per il futuro.
Cerchiamo soluzioni che ci permettano di mantenere il nostro lavoro, quando c’è, anche come modo per insegnare ai figli che si può diventare madre senza per forza interrompere la vita per cui abbiamo faticato tanto. A volte non sarà possibile (l’Italia certo non agevola le madri, e lo sappiamo bene), ma proviamoci: insegniamo soprattutto alle bambine che avere un figlio non significa perdere la propria autonomia.
Evitiamo la distinzione dei giochi da maschi e da femmine
I volantini pubblicitari e i negozi stessi di giocattoli ci infarciscono di stereotipi: giochi tutti rosa per le femmine, giochi tutti azzurri per i maschi. Giochi di avventura e movimento per i maschi, e mini lavatrici e ferri da stiro per le femmine. Già lì inizia lo stereotipo per cui esistono i lavori da maschio e da femmina: al maschio attraverso questi giochi diciamo che potrà diventare ingegnere ed astronauta; alla femmina diciamo che potrà fare la casalinga.
Impariamo a scegliere giochi migliori: giochi neutri, di qualità, senza connotazioni maschio e femmina. Per esempio giochi artistici, costruzioni, corde per saltare e arrampicarsi. Ma anche giochi di ruolo, giochi che servono ‘a far finta di essere grandi': la cucina giocattolo, che va benissimo sia per i maschi che per le femmine, le bambole, le macchinine.
Molti hanno paura a far giocare i maschi con la cucina giocattolo o con le bambole: da grande quindi questo bambino non cucinerà mai, e non accudirà mai suo figlio? Non cambierà mai un pannolino, non leggerà mai una favola della buona notte?
Accudire una bambola non rende gay: rende futuri buoni padri. Usare la cucinetta non rende gay: rende futuri cuochi.
Lasciamo scegliere ai figli il percorso di studi
Sin da piccoli, diciamo ai nostri figi che da grandi potranno fare ciò che desiderano, purché siano felici. Diciamo loro che gli vogliamo bene, e che li sosterremo. Non tarpiamo le ali ai figli a causa dei pregiudizi che hanno tarpato le ali a noi da piccoli. 
Anche a parole, non limitiamo i loro progetti futuri
Anche le parole sono importanti, insieme all’esempio di vita. Non ridicolizziamo una bambina che da grande vuole fare l’escavatorista, o un bambino che da grande vuole fare il maestro. Abbiamo bisogno di bambini nuovi, di bambini che possano davvero essere felici e realizzati in futuro: non ci sono già abbastanza problemi, in Italia, senza aggiungerne altri?
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lunedì 10 agosto 2015

Giulia Corsini Oggi porto la testimonianza di Michele Marzocchi, medico:

Capita molto spesso, in guardia medica, che vengano ragazze impanicate in cerca di una prescrizione per la "pillola del giorno dopo" dopo essere state respinte da diversi specialisti di pronto soccorso e, a volte, vergognosamente, anche dal proprio medico di base perché obiettori.
Io a tutte loro dico sempre che l'obiezione di coscienza sui contraccettivi di emergenza non solo non è consentita ma rifiutarsi di prescriverla costituisce, secondo la legge italiana, reato penale, in quanto trattasi di omissione di soccorso.
A tutte loro dico, dopo aver preso la pillola che gli prescrivo senza alcun problema, di tornare da chi si è rifiutato di aiutarle e di farsi mettere nero su bianco il motivo del rifiuto e poi spedire copia di tutto all'ordine dei medici e alla procura della Repubblica sperando che prendano provvedimenti contro quei colleghi che ancora oggi si ostinano a sfruttare erroneamente un diritto (secondo me discutibilissimo) come quello del l'obiezione di coscienza in materia sanitaria per sottrarre un diritto (questo si sacrosanto) a chi si rivolge loro in cerca di aiuto in nome di ideali medioevali e reazionari.
Purtroppo a fare questa cosa sono pochissime perché, a posteriori, la stanchezza prende il sopravvento sul desiderio di rendere giustamente diffuso questo diritto. 
Mi piacerebbe che questo mio messaggio potesse giungere prima a tutte coloro le quali potrebbero trovarsi un domani con questa necessità così che abbiano in mano le conoscenze utili da poter usare come arma per ottenere l'aiuto che la legge prevede gli venga fornito.

p.s.: sono veramente molto contenta che Michele non mi abbia chiesto l'anonimato. Tanta stima.