giovedì 30 giugno 2016

Gaia e le altre minori violentate Così il branco sceglie le vittime di Andrea Pasqualetto

La procuratrice dei minori Maggia: sono sempre più giovani e in balia del gruppo. Le cause del fenomeno: la noia e la ricerca di nuove emozioni alimentate dal sesso facile della Rete. Charmet: «Il branco non arretra». Gaia: «Io non riuscivo nemmeno a urlare»


Gaia non urlava, non riusciva a urlare. «Ero talmente bloccata che non mi usciva nemmeno la voce». Loro erano in tre, tutti ragazzi, tutti minorenni come lei. Dissero in coro quel che dicono spesso questi giovanissimi che di colpo, una sera, obbedendo alla legge del branco diventano violentatori: «Pensavamo che Gaia (nome di fantasia, ndr) ci stesse».

La difesa degli aggressori
L’episodio lo ricorda bene la procuratrice capo del Tribunale per i minorenni di Genova, Cristina Maggia, che da ventitrè anni si occupa di ragazzi violenti, bulli, molestatori e piccoli criminali in genere. «Si difendono più o meno tutti allo stesso modo: ma il nostro era uno scherzo, un gioco, non pensavamo che avesse paura...», racconta il magistrato ligure che è anche vicepresidente della Aimmf, l’associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia. Maggia deve confrontarsi oggi con l’ennesimo caso di violenza sessuale di gruppo: tre diciassettenni di Savona, fino a ieri insospettabili giocatori della stessa squadra di calcio, peraltro di buon livello, nazionale giovanile, che decidono di stuprare la fidanzata di uno dei tre girando pure un video. Sconvolta dal comportamento del suo ragazzo, la vittima, straniera diciottenne, ci ha pensato un paio di giorni e li ha denunciati. Scattano l’indagine, i sequestri e gli arresti per tutti e tre. «Rapporti sessuali consenzienti», si sono affrettati a precisare gli avvocati dei calciatori.

«Pugnalata dagli amici»
Così va a Savona, dove molti si stupiscono per questi giovani insospettabili. Storia analoga in un paesino del Salernitano, San Valentino Torio. Domenica scorsa cinque adolescenti, dai quindici ai diciassette anni, per dare una scossa alla serata noiosa, avvicinano una sedicenne, la portano in un garage e la violentano. «Pugnalata da chi credevo fosse mio amico facendomi lasciare un segno indelebile che non dimenticherò facilmente, anzi, penso che mai dimenticherò», si è sfogata lei su Facebook, dopo il fermo dei cinque. Anche qui, nessun segnale di disagio, non apparente. Tutti figli di famiglie normali, esattamente come i loro coetanei liguri. Cosa sta succedendo, dunque? «Vedo un abbassamento delle barriere etiche, del pudore e un innalzamento delle promiscuità sessuali. Alla base c’è molta solitudine e tristezza e famiglie impreparate ad affrontare il superpotere della banda che agisce con una sola testa e un arretra, non si identifica con la sofferenza della vittima», prova a spiegare Gustavo Pietropolli Charmet, psicoanalista autore di ricerche proprio sul fenomeno che «trasforma i cosiddetti bravi ragazzi in criminali».

«Loro ridevano e scherzavano»
Il ministero di Giustizia sforna cifre impressionanti: lo scorso anno il sistema aveva in carico 532 ragazzi condannati per stupro e 270 per stupro di gruppo. «Cosa fa la polizia rispetto al fenomeno? Abbiamo sviluppato una particolare specializzazione che ha come cardine l’ascolto del minore», ricorda Vittorio Rizzi, capo della direzione anticrimine. Ma i giudici dei Tribunali per minorenni continuano a raccogliere decine di testimonianze disperate. Come quella di Claudia (nome di fantasia), quattordicenne studentessa di Molfetta che venne violentata all’Anfiteatro all’aperto della cittadina pugliese. Sul palco, come in uno spettacolo. «Andrea mi bloccava da dietro, Ninni ha fatto il resto e mentre lo faceva rideva e scherzava. Poi è salito su un altro e poi un altro ancora...». Giovanissima lei, giovani loro. «Notiamo un abbassamento dell’età degli autori delle violenze che si accompagna all’accelerazione della vita sessuale dei ragazzi — precisa Maggia —. Ci sono dodicenni che hanno vite sessuali che dovrebbero avere i trentenni. Aiutati in questo da internet che rende tutto molto visibile, facile, precoce, senza che sia accompagnato da una sufficiente maturità affettiva». Impreparazione, branco, noia. «E mettiamoci pure l’egocentrismo e l’estremo narcisismo dell’età adolescenziale. Queste situazioni di violenza esasperata sono paragonabili agli atti di bullismo e di cyberbullismo: nelle teste dei bulli e dei violentatori la vittima non esiste come sentimento».
Condannati solo i più soli
Poi ci sono i casi limite, che in queste stagioni di crisi sociale ed economica si moltiplicano. Lo scorso anno a Saronno tre ragazzi tra i 15 e i 16 anni sono stati protagonisti di una giornata da Arancia meccanica, iniziata con la devastazione di un treno di linea e chiusa con il sequestro e le molestie sessuali di una coetanea che è riuscita a scappare. «Mi avrebbero lasciato andare solo se facevo sesso con loro», dirà poi in lacrime. Per i tre ragazzi, tutti studenti e senza particolari problemi, il giudice ha disposto un processo di recupero attraverso la messa alla prova. «Nel 95 per cento dei casi si tenta questa soluzione — spiega la procuratrice —. Le condanne le prendono in pochi. Le prende chi non ha famiglia, chi è senza aiuti. Non sono i più cattivi. Sono i più soli». Ma i giovani calciatori di Savona hanno altre storie. Belli, aitanti, agiati. «Lì c’è un vuoto diverso da colmare».
http://www.corriere.it/cronache/16_giugno_29/gaia-altre-minori-violentate-sesso-branco-6d42211a-3d6d-11e6-922f-98d199acd386.shtml?intcmp=exit_page



mercoledì 29 giugno 2016

Lo stupro di gruppo non è una ragazzata di Michela Marzano

Quando una ragazza viene stuprata da un gruppo di coetanei - come accaduto nel Salernitano - in Francia si utilizza il termine tournante che, letteralmente, significa "far girare". Espressione forse brutale per designare uno stupro, ma anche molto efficace. Visto che ciò che accade quando un branco di maschi violentano a turno una ragazza è proprio questo: la si fa "girare" tra amici come se fosse una sigaretta o una lattina di birra.

La si condivide e ce la si spartisce come se si trattasse di un semplice oggetto; la si utilizza e la si butta via come se fosse solo una cosa che appartiene a tutti e che quindi, di fatto, non appartiene a nessuno. Che problema c'è mai, sembrano pensare questi ragazzi convinti di non far altro che divertirsi tra compagni, nel "servirsi" di una donna-oggetto? Chi lo dice che una ragazza che viene "fatta girare" soffre? "Che c'è di male?", si chiedeva già il Marchese de Sade accusato di aver violentato una prostituta. "Non è lì per questo?"

La filosofa statunitense Susan Brison, raccontando la violenza sessuale di cui lei stessa era stata vittima da giovane, definisce lo stupro come un "assassinio senza cadavere". Una violenza devastante che distrugge ogni riferimento logico e da cui è estremamente difficile riprendersi anche dopo molti anni; anche quando le tracce esterne sono ormai quasi del tutto scomparse. Quando si viene violentate, spiega Susan Brison, l'abisso della disintegrazione interna resta talvolta per sempre. Esattamente come restano la paura e la sensazione di impotenza, la difficoltà di incollare i cocci di un'integrità sbriciolata e l'impossibilità di raccontare agli altri quello che si è veramente vissuto. Ci vogliono anni per poter riuscire a integrare questo "pezzo di vita" all'interno di una narrazione coerente. E, per poterlo veramente fare, c'è bisogno che qualcuno ascolti, anche quando i ricordi sembrano incongrui; che qualcuno accompagni, senza domandare nulla. Anche perché l'umiliazione subita viene spesso rinforzata dal sentimento di impunità di quegli aggressori che faticano a rendersi conto della gravità del proprio gesto.

Se l'uomo, "per natura", penetra, perché la donna dovrebbe soffrire nell'essere penetrata? Se l'uomo, "per natura", è predatore, perché la donna si dovrebbe rifiutare di essere trattata come una preda? Tanto più che, quando ci si ritrova in gruppo, sembra evidente seguire il movimento collettivo e comportarsi come gli altri: se lo fai tu, allora lo posso fare anch'io; se lo facciamo tutti, non c'è niente di male. E poi non si tratta, in fondo, di una semplice ragazzata? Non è un solo un gioco? Perché non ci si dovrebbe poter divertire almeno quando si è giovani?

E allora, ancora una volta, si spalanca il capitolo della prevenzione e della decostruzione degli stereotipi di genere, dell'educazione all'affettività e della cultura del rispetto. Gli stupri continueranno ad esserci non solo finché non sarà chiaro a tutti che il corpo della donna non è a disposizione di chiunque e che ogni atto sessuale si giustifica e si fonda sempre e solo sul reciproco consenso, ma anche fino a quando ci sarà chi continuerà a banalizzare questi episodi di violenza estrema parlando di "ragazzate" o di "momenti di debolezza", come purtroppo accade ancora oggi, giustificando così l'ingiustificabile.

Il sesso non è un gioco. Cioè sì, è anche un gioco. Ma solo se a giocare non sono solamente alcuni; solo se tutti sono d'accordo sulle regole; solo se una ragazza può divertirsi esattamente come si diverte un ragazzo. Altrimenti il gioco cessa, e si tratta solo di violenza e di brutalità, di dominio e di prevaricazione. Una violenza e una brutalità che non rispettano la persona che si ha di fronte, riducendola a mero oggetto. Un dominio e una prevaricazione che possono cessare solo a patto che si capisca che nessuno è a disposizione di nessuno e che ogni azione che si compie ha delle conseguenze sulla vita degli altri. Soprattutto quando si parla della violenza sessuale perpetrata su una ragazza che si "fa girare" tra amici come se si trattasse di una sigaretta o di una lattina di birra pensando che non si stia facendo niente di male.

Dimenticando (o non avendo mai imparato) che le frontiere del corpo sono le frontiere dell'io.
E che l'io è sempre inviolabile.
A meno di non cancellarne per sempre l'irriducibile umanità.


http://www.repubblica.it/cronaca/2016/06/28/news/lo_stupro_di_gruppo_non_e_una_ragazzata-142965434/

martedì 28 giugno 2016

Brexit: dove erano le donne? di Serena Sapegno

…le donne inglesi hanno dato la giusta importanza alla loro forza/debolezza sulla scena politica? Hanno preso parola su quanto era in gioco in modo chiaro e specifico?

Mi arrivano missive dall’Inghilterra, messaggi disperati di care amiche inglesi che hanno bisogno di trovare un contatto perché si sentono come se gli avessero tagliato un braccio.
Siamo tutti/e sconvolti/e.
La generazione dei babyboomers che ha vissuto la cultura europea come appartenente a tutti: i Beatles, i Rolling Stones, il viaggio, l’incontro e l’apertura. Siamo cresciuti/e dando per scontato il bisogno di ricucire legami tra paesi che si erano combattuti, di affermare che non sarebbe più potuto accadere perché appartenevamo allo stesso mondo di valori e di abitudini di vita.

Il femminismo degli anni Settanta ha accentuato questo senso di comunità e di vicinanza: il movimento è nato internazionale, era normale viaggiare in Europa e andare a conoscere altre donne, altre esperienze.
La folgorante riscoperta del pensiero e dell’arte di Virginia Woolf e di tutta la grande tradizione delle scrittrici inglesi, da Jane Austen passando per le Bronte fino a Ivy Compton-Burnett e a Doris Lessing, abbiamo pensato che ci appartenessero, fossero le nostre comuni progenitrici, ci dessero forza e lucidità.

E ora la crisi, la globalizzazione, le paure per un mondo insieme troppo grande e troppo piccolo, hanno portato a questa profonda spaccatura, dentro la Gran Bretagna e in Europa. L’una è impensabile senza l’altra, per mille motivi.
Eppure dentro le popolazioni europee si sono prodotte fratture poco comprese e analizzate: i giovani non capiscono e non accettano che si alzino nuovi muri.
Le generazioni dell’Erasmus hanno amici e amiche in tutte Europa, pensano di vivere una parte della vita nel nord e un’altra nel sud del piccolo continente.
Ma troppi anziani hanno paura e si voltano indietro alla ricerca di una vecchia identità che sentono in pericolo.
Se è la strada sbagliata bisogna offrirne altre.

E ancora un’ultima considerazione: dov’erano le donne?
Una furente giornalista della BBC osservava giustamente, il giorno dopo i risultati, che questa vicenda rivela anche i lineamenti di una ‘boys competition’, un gioco tra leader maschi sulla pelle del paese.
Ma ci vogliamo chiedere se le donne inglesi hanno dato la giusta importanza alla loro forza/debolezza sulla scena politica?
Hanno preso parola su quanto era in gioco in modo chiaro e specifico?
Non lo so, ma credo che sia giusto chiederselo.
http://www.cheliberta.it/2016/06/27/brexit-dove-erano-le-donne/



lunedì 27 giugno 2016

Le mamme di Save The Children 2016 (a cura di Ladynomics) Giovanna Badalassi

Le mamme di Save The Children 2016 (a cura di Ladynomics)

Ebbene si, care amiche e amici, dopo lunga, estenuante (e a tratti furiosa) gestazione è finalmente nato il primo lavoro congiunto Ita-Usa di Ladynomics!!
Grazie alle amiche di Save The Children, che ci hanno dato questa bella occasione, ci siamo cimentate nel nuovo report 2016: Le Equilibriste – Da scommessa a investimento: la sfida della maternità in Italia.
Abbiamo già avuto occasione di curare diversi lavori di questo tipo nella nostra storia professionale, ma siamo molto contente di averlo potuto fare come gruppo di lavoro Ladynomics, e soprattutto su un tema, quello della maternità in Italia, che ci sta particolarmente a cuore.
Quali risultati escono da questo rapporto? Quelli che possiamo immaginare.
L’Italia è una repubblica fondata sulle mamme, altroché. Pure troppo. Le nostre mamme pagano un prezzo personale e professionale importante per tutto quello che fanno, un impegno quotidiano da saltimbanche che prima o poi chiede il conto a tutte.
Se leggete il report (eddai, si che lo leggete, fatelo perché ci volete bene!) troverete descritta con una dose ragionevole di dati una realtà che molte di noi conoscono già personalmente ogni giorno, ma che a molti altri, forse, deve ancora essere raccontata.
Una realtà intensa, sofferta, un impegno spesso ai limiti del sopportabile, un contributo alle famiglie, e, sì, anche allo Stato, che oggi non viene ancora adeguatamente riconosciuto.
Il report non si preoccupa però solo di mettere in luce questa fatica, ma anche di evidenziare le capacità e i talenti che le mamme sviluppano grazie alla loro esperienza così forte e intensa. Delle abilità, o, come piace dire agli aziendalisti, delle skills, che significano gigantesche capacità di relazione, leadership, problem solving, visione d’insieme.
​Un insieme di talenti che sarebbero preziosi per le aziende e per il paese se solo si sapesse sostenere le mamme e favorire i loro percorsi lavorativi, se si creasse finalmente un sistema di servizi per l’infanzia, per gli anziani e per il sociale in grado di corrispondere agli effettivi bisogni.
Insomma, date alle mamme il dovuto sostegno e spaccheranno il mondo!

sul seguente link trovate il report per leggere e scaricare il rapporto 2016
http://www.ladynomics.it/home/-le-mamme-di-save-the-children-2016-a-cura-di-ladynomics

venerdì 24 giugno 2016

Virginia Raggi e Chiara Appendino vincono e subito si scatena lo stupidario sessista di Nadia Somma

Sono trascorse poche ore dalla elezione a sindaca di Virginia Raggi a Roma e di Chiara Appendino a Torino e già leggiamo sulla stampa italiana tutti i sintomi dello stupidario sessista. La febbre è alta. Altissima. Riferimenti all’abbigliamento e all’avvenenza, linguaggio informale (per molti giornalisti e giornaliste sono “le ragazze” e  Raggi è “a moretta”) o smaccatamente sessista (bambola, bambolina, fatina). Alcuni articoli sono irritanti altri involontariamente comici. Ecco un breve estratto dalla rassegna stampa di due giorni.
Il tempo
Il tempo



Sul Tempo, lunedì,  in prima pagina,  un fotomontaggio della testa di Virginia Raggi sul corpo di una barbie che con le gambe straccia il logo del Pd, e siccome non era abbastanza ecco l’editoriale di GianMarco Chiocci, dal  titolo “Roma In Bambola” che comincia così: “Dal marziano alla fatina, via il chirurgo Marino arriva la bambolina Raggi“. Lui è il chirurgo, lei non è avvocata ma bambolina!



Sul Giornale di ieri a firma di Massimiliano Scafi si può leggere una acuta analisi politica sul colore dei capelli di Virginia Raggi, sul suo abbigliamento e sulla sua avvenenza:”Non è alta, e non è bassa. Non è bella ma nemmeno brutta. Occhi e capelli neri, come tante, abbigliamento discreto ma non dimesso. Tacchi si ma senza esagerare“.

Su Repubblica, ieri, Chiara Appendino veniva presentata come “La neomamma che ha battuto Fassino“. Ci si domanda se lo abbia battuto in fertilità (ma Fassino ha figli e nipoti?).

Su Twitter circola la foto  del titolo di un giornale del 1965 che titolava “Le donne nella diplomazia – Speriamo che tengano il segreto” accanto a quella di Libero che oggi titolava le foto di Raggi e Appendino con: “Ma saranno capaci?’ E’ lecito domandarsi se cinquantun anni siano trascorsi invano in questo Paese rispetto alla relazione con le donne.

E ancora articoli dove è rarissimo trovare il sostantivo “sindaca” nemmeno fosse una bestemmia. Si può leggere “sindaco”, “signora sindaco”, “sindaco donna” e persino “signora”. Da tempo l’Accademia della Crusca ha detto chiaramente che se un incarico o una professione sono esercitati  da una donna  è opportuno modificare al femminile la forma, eppure, trovare la definizione sindaca è quasi impossibile (il Fatto quotidiano on line  ieri l’ ha finalmente adoperata ma non il Fatto quotidiano cartaceo che ha scelto invece “sindaco”). Cecilia Robustelli esperta di linguistica italiana e del linguaggio di genere, ha curato qualche anno fa, il manuale Donne, grammatica e media  scaricabile sul sito dell’Accademia della Crusca. Il testo segue una prima pubblicazione Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo anche questo scaricabile sullo stesso sito. Leggetelo e fate pace una volta per tutte  con sindaca, ingegnera, prefetta, ecc.

Su Affaritaliani.it ancora le foto di Raggi e Appendino e il titolo: “Niente tacchi, zero trucco. Avanti Virginia & Chiara”.  L’ombretto è indice di cattiva politica? E il rossetto? Andando a leggere l’articolo ecco un’altra analisi politica: “Virginia Raggi primo sindaco donna  sta cordialmente sulle scatole a molti perché parla chiaro, non si lascia intimidire, è solida ma anche molto poco sexy esattamente come Chiara Appendino, occhi intensi e look iper-sobrio altro che smalto semi-permanente di Maria Elena Boschi, boccoli sempre inanellati, manicure perfetta“. Ma  l’articolista fa la giornalista o in realtà fa la parrucchiera o l’estetista? Se Hillary Clinton sarà eletta  alla presidenza degli Stati Uniti, ci vorranno dei Tso.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/21/due-sindache-elette-e-si-scatena-lo-stupidario-sessista/2848219/

mercoledì 22 giugno 2016

2 Giugno 1946 – Le donne diventano cittadine

2 Giugno 1946 – Le donne diventano cittadine
Un incontro per ripercorrere il lungo e difficile cammino per la conquista del voto femminile


70 anni fa  le donne italiane votarono per la prima volta.  Fu un percorso lungo e difficile quello  che portò le donne, fino ad allora  sottoposte  all'autorizzazione maritale  e quindi completamente soggette alla tutela dell'uomo, all’emancipazione politico-giuridica.
Ventunesimodonna e ANPI hanno voluto ripercorrere questo faticoso cammino  ricostruendone  le tappe salienti e presentandone le coraggiose protagoniste in un incontro pubblico tenutosi Martedì 21 Giugno al Bem Viver –Corsico.

Innanzitutto le prime suffragette italiane come Maria Mozzoni, Anna Kulishoff, Maria Montessori  che, tra la fine dell’ ’800 e gli inizi del ‘900, rifacendosi alle esperienze inglesi e americane, sfidarono i pregiudizi maschili sulla  presunta “incapacità ” delle donne ad occuparsi di politica. Firmarono  proclami e petizioni per chiedere l’estensione del diritto di voto alle donne animando  il dibattito  nel Parlamento e all’interno dei partiti politici ma  i loro appelli rimasero sostanzialmente inascoltati.  Ci fu anche un gruppo di maestre che,  nella provincia di Ancona,  sfruttando l’ambiguità di una norma giuridica , chiesero ed ottennero dal giudice Ludovico Mortara l’iscrizione alle liste elettorali ma non esercitarono mai il loro diritto- un ricorso in cassazione  bocciò il giudizio del Tribunale. La storia del tutto sconosciuta  delle maestre di Senigallia è raccontata  da Maria Rosa Cutrufelli nel libro “Il giudice delle donne”.


Il fascismo, rimpiazzando i sindaci con i Podestà nominati dal Governo, eliminò il voto amministrativo  e,  cancellando i partiti politici ,  svuotò  di valore anche il voto maschile. Le donne furono  escluse dal mondo del lavoro, relegate per legge tra le mura domestiche, costrette ad una sudditanza culturale ed economica,  esaltate solo in quanto madri prolifiche, “fattrici”  di figli per lo stato fascista.   
Il grande salto avvenne con la lotta partigiana . Schierate fianco a fianco con gli uomini  nella lotta di Liberazione,  le donne si affacceranno nell’Italia del dopoguerra con una nuova consapevolezza e il 31 gennaio 1945 con l’estensione del diritto di voto diventarono  per la prima volta cittadine a tutti gli effetti.
Alle elezioni del 1946  le donne parteciparono  in massa  con un’affluenza che superò l’89% , erano il 52% dell’intero elettorato.  Le  elette nell’Assemblea Costituente furono 21, erano tutte giovani, alcune giovanissime, tutte avevano studiato molte erano state partigiane ed avevano pagato a caro prezzo la loro militanza col carcere, il confino  o l’esilio.





L’apporto delle Madri Costituenti fu determinante per competenza, professionalità, idealità e coraggio.  Seppero fare da baluardo contro le forze reazionarie  ma anche contro i pregiudizi ancora vivi nei loro stessi colleghi e compagni di partito,  creando una unità di genere assolutamente  straordinaria per l’epoca.
Alle 21 donne dell’Assemblea costituente (di cui solo 5 parteciparono alla commissione ristretta dei 75  che elaborarono la proposta della Carta ) dobbiamo gli articoli che parlano della parità uomo-donna - Artt. 3-29-30-31-37-48-51- alla socialista Merlin si deve la parità di genere inserita all’art.3.
Molto di ciò  che le  Madri   costruirono sul piano costituzionale  fu realizzato a livello legislativo solo nel  decennio 55-65 con l’apertura a tutte le carriere, la parità salariale, la tutela della lavoratrice madre.  
Negli anni ’70,   il movimento femminista, con le sue battaglie per la parità di genere , impose nuovi modelli sessuali, culturali sociali e politici, permettendo il  raggiungimento di  diritti  che costringeranno uomini e donne a ridefinire la propria identità . Sono  di quegli anni  la legge sul divorzio, la depenalizzazione dell’aborto, il  nuovo diritto di famiglia.
Grazie alle suffragette di inizio ‘900, alle partigiane, alle Madri Costituenti , alle femministe e alle donne elette nelle legislature che si sono susseguite dal 46 ad oggi , la condizione della donna è oggi sicuramente migliorata.
L’Italia tuttavia, in una classifica di 136 Paesi sulla parità di genere,  occupa solo il 71esimo posto: le donne italiane  continuano ad essere discriminate nella vita politica ed economica , la violenza sulle donne è  una emergenza sociale pressante.
La scarsa rappresentanza parlamentare  femminile  e una  sempre crescente disaffezione delle donne alla partecipazione  politica è  la spia più evidente di problemi irrisolti.
Le donne  compresse tra il “familismo” riemergente  e nuove forme di precarietà che le vedono tra i soggetti più deboli nel mondo del lavoro,  rifuggono dalla politica, e, astenendosi  dal voto, dimostrano  di    sottovalutare  e sprecare un diritto  fondamentale  faticosamente conquistato.  

La sfida  per tutte noi  è ritrovare la consapevolezza  della necessità di un  impegno nella difesa di  diritti che oggi  diamo per  acquisiti e  scontati  ma che in realtà non lo sono  e  l’entusiasmo nella ridefinizione di nuovi modelli  di partecipazione  più confacenti alla nostra identità di donne  e ai nostri bisogni .

Ecco come il maschilismo dei media racconta la vittoria delle sindache "Ragazze", "super mamme", "acqua e sapone", "della porta accanto", "sindaco o sindaca?" La discriminazione di genere inizia da un vocabolario obsoleto.di Claudia Sarritzu

Le parole sono importanti gridava disperato un Moretti di fine anni “80 in Palombella rossa.

Così importanti che ancora oggi, nel 2016, continuiamo a litigare sull’uso al femminile di alcuni termini come sindaco-sindaca. I più tradizionalisti affermano che la regola lessicale non prevede il sostantivo al femminile, perché si rifiutano di capire che quando il termine è nato non era prevista proprio una donna sindacA. Per molti questa polemica è inutile e sterile, dopo tutto “sono solo parole” conta la sostanza. E invece è qui che l’italiano medio, e purtroppo anche l’italiana media che non lotta per le parole che le spettano, compiono un grande errore. Tramite la lingua di un Paese si capisce la mentalità e la cultura di quel determinato popolo. Il nostro è un popolo che continua a dare nomi maschili a incarichi che per fortuna oggi con tanta fatica raggiungono anche le donne. Questo perché per pigrizia concepire la parola “sindaca” è per troppi quasi un capriccio visto che sono in minoranza. Le nostre conquiste sociali vengono ancora considerate in italia “eccezioni”, rarità per cui è inopportuno stravolgere una regola maschilista e cambiare una o con una a.

Ma siccome il maschilismo si sradica solo estirpando la mentalità attraverso la cultura dell’uguaglianza dobbiamo partire necessariamente da questa se vogliamo avere un ruolo nella società. Chiamare Raggi e Appendino (neo sindachE di Roma e Torino) “sindaci” consolida la convinzione errata che la loro posizione è solo un inciampo in un Paese che generalmente sforza primi cittadini maschi.

Ma non è l’unica oscenità che ieri abbiamo dovuto leggere sui quotidiani nazionali. Le sindachE sono state definite “Ragazze” e “Mamme”. Non si tratta di offese, è logico che essere ragazze e madri non è una cosa spiacevole, per molte di noi è uno stato apprezzabile, ma il loro incarico non ha nulla a che fare con la maternità e l’essere “ragazze”. Una cosa è definirle giovani, per sottolineare il ricambio generazionale in politica ma “ragazze” è un modo per screditarle, far passare il messaggio che sono inesperte, immature “ragazza delle commissioni, "ragazza alla pari", "ragazze della porta accanto”. Ancora "ragazza acqua e sapone" per definire il loro trucco delicato. Avete mai letto (se non per screditare appunto) questo aggettivo affidato a un giovane sindaco? No! Perché Sala è Sala e invece queste due donne sono sempre accompagnate da carattersiste fisiche?

Sulla maternità ci risiamo, una qualifica aggiunta come pregio quando la maternità non è una laurea che se ci si impegna si raggiunge. La maternità è una scelta privata che la società non deve considerare come un punto in più, sia perché una donna sarà una sindacA capace anche se non ha figli (se no si continua a considerare una donna senza figli una donna a metà come nel secolo scorso), sia perché è discriminatorio nei confronti di chi i figli li desidera ma non ne può avere.

Non è finita qui. I giornali nazionali hanno pubblicato la lettere dell’ex marito della Raggi che nonostante si siano lasciati continua a fare il maschio Alfa che protegge “la sua dolce ex metà”. Ecco come si sviluppano i rapporti malsani fra uomo e donna, proprio facendo passare attraverso i media il messaggio che un uomo sia il principe azzurro che corre in soccorso del nostro “corpo e della nostra mente fragile”. Vorrei spiegare al signore in questione e ai giornalisti che hanno dato spazio a questa letterina delle elementari che Virginia Raggi non ha bisogno di essere difesa da nessuno, soprattutto da un ex compagno e che in quanto ex non fa più parte della vita della sindacA. Noi donne non siamo di nessuno, di un uomo di cui ci siamo liberate tanto meno. I Femminicidi non si sconfiggono solo con le leggi ma anche facendo cambiare atteggiamento ai tanti titolisti sparsi per il Paese e ai direttori di giornale che continuano a scrivere con un linguaggio da romanzo d’appendice.

Il femminismo di oggi deve passare attraverso i media. Guerra su ogni fronte finché il nostro genere non sia parte integrante del vocabolario italiano.
http://www.globalist.it/politics/articolo/202353/ecco-come-il-maschilismo-dei-media-racconta-la-vittoria-delle-sindache.html

martedì 14 giugno 2016

Femminicidio: la strage delle donne Da Sara a Debora, bollettino di guerra.Telefono Rosa, quante ancora?

Le foto delle vittime di femminicidio dall'inizio del 2016 © ANSA

Le foto delle vittime di femminicidio dall'inizio del 2016 © ANSA

E' un vero 'bollettino di guerra': dall'inizio dell'anno, oltre 50 donne sono state uccise in Italia dal partner o, più spesso, da un ex. Oltre 155 da gennaio 2015. Due solo nell'ultima settimana: una ragazza a Pordenone, ammazzata con quattro colpi di pistola dal suo ex fidanzato che poi si è tolto la vita con la stessa arma, e oggi la maestra di 46 anni uccisa anch'essa dal suo ex convivente.

In entrambi i casi, a scatenare la furia omicida è la fine del rapporto, l'incapacità dell'uomo di accettare che la donna lo lasci e che l'amore finisca. Ma il caso che ha suscitato sicuramente più clamore è quello di Sara Di Pietrantonio, la studentessa universitaria romana di 22 anni strangolata e poi bruciata dal suo ex fidanzato, Vincenzo Paduano, che non accettava che la ragazza si fosse rifatta una vita con un altro e che per settimane, prima dell'incontro fatale per il destino di Sara, l'aveva minacciata e perseguitata.

Un altro caso emblematico è quello di Debora Fuso, venticinquenne uccisa a coltellate nel milanese da Arturo Saraceno. "Mi è partito un embolo" ha confessato l'uomo. Ancora una volta, a muovere la mano dell'assassino è stata l'incapacità di accettare la fine della relazione. E come Sara, anche Debora aveva accolto la richiesta del suo ex di vedersi e di parlare. Ma non c'è solo il femminicidio.

Da gennaio 2015, dati di Telefono Rosa, almeno 8.856 donne sono state vittime di violenza e 1.261 di stalking. Ed è solo la punta dell'iceberg, visto che il 90% delle donne non denuncia. La storica associazione chiede al Governo risposte: "Quante ancora ne devono morire perché il Governo si renda conto che le risorse economiche, i mezzi e le attività di contrasto alla violenza di genere sono del tutto insufficienti? Quante donne, ragazze, madri, figlie, sorelle, amiche dobbiamo vedere massacrate da ex, diventati mostri e assassini, prima che vengano prese decisioni e attuate politiche 'attive' idonee ad un problema sociale enorme come quello della violenza sulle donne?" denuncia Gabriella Moscatelli, presidente di Telefono Rosa, che lancia l'hashtag #quanteancora.

Nella foto le vittime di femminicidio dall'inizio del 2016 in base al conteggio, ancora provvisorio, effettuato da Telefono Rosa. Da sinistra in alto, Gloria, 49 anni, Kamajit, 63 anni Nelly, 77 anni, Valentina, 29 anni, Loredana, 41 anni, Slavica, 37 anni, anonima turista coreana gettata dal balcone di un hotel dal marito a Cardano al Campo, Mariana, 20 anni, Samantha, 3 anni, Giuseppina, 41 anni, Ashley, 35 anni, Annamaria, 55 anni, Annalisa, 67 anni, Emilia, 66 anni, Larisa Elena, 12 anni, Fiorella, 66 anni, Elena 72 anni, Alessandra, 46 anni, Federica, 30 anni, Michela, 29 anni, Maria Teresa, 40 anni, Sara, 22 anni, Anna, 69 anni, Deborah, 25 anni, Natalia, 38 anni, Michela, 31 anni, Assunta, 50 anni, Liliana, 51 anni, Moira, 43 anni, Franca, 81 anni, Monica, 47 anni, Sabina Iuliana, 29 anni, Rosa, 59 anni, Laura, 67 anni, Mirella, 64 anni, Mariana, 24 anni, Gisella, 58 anni, Maria, 51 anni, Rodica, 31 anni, Anna Maria, 55 anni, Mirela, 41 anni, Esterina, 73 anni, Marinella, 55 anni, Luana, 41 anni, Anna, 53 anni, Patrizia, 54 anni, Isabella, 55 anni, Nadia, 45 anni, Bonaria, 80 anni, Katia, 4 anni, Marina, 30 anni, Genna, 68 anni.
http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2016/06/09/femminicidio-58-donne-uccise-da-inizio-anno-_6ac0e87a-e2c4-4e5d-aca5-b493ea13fff6.html

lunedì 13 giugno 2016

Le giustificazioni degli uomini in cura: “Se sono qui è perché lei mi ha denunciato” di Maria Corbi

In Italia 9 istituti si occupano del recupero di quegli uomini che maltrattano le donne. Ma i centri antiviolenza delle donne sono critici: “Inutili in molti casi e drenano soldi”

Lo chiameremo Andrea, nome di fantasia, per raccontare una storia atrocemente vera, simile ad altre. A troppe altre. Uomini che maltrattano le donne, fino ad ucciderle e che sembrano moltiplicarsi. La prima parola che ti viene in mente quando parli con Andrea è «inconsapevole». Ti dice che è terribile quello che è successo alle ultime due donne ammazzate dai loro compagni. Non si sente parte del giro. «Io non ho ammazzato nessuno». Ma sua moglie è finita al pronto soccorso diverse volte prima di capire che doveva denunciarlo. «Io l’ho solo strattonata, spinta, certo questo lo facevo», ammette Andrea che ha iniziato a curarsi presso un centro di aiuto per uomini maltrattanti. Non una sua spontanea decisione, ma un consiglio del suo avvocato che lo sta assistendo dopo la denuncia. «Voglio cambiare», assicura. «Perché devo imparare a contenere la rabbia».
 Il suo racconto procede per ammissioni e giustificazioni. Troppo doloroso ammettere quello che si è e che non si vuole più essere. «Io non ammettevo che lei uscisse con le amiche, diventavo pazzo. Immaginavo che parlassero di altri uomini, che lei venisse spinta a tradirmi. E quando scoprivo che aveva visto la sua migliore amica senza dirmelo, impazzivo. Non sopportavo il timbro della sua voce che si giustificava. E dovevo spaccare qualcosa, ma lei al massimo l’ho spinta. Non ho alzato le mani». Quando gli fai notare che spingere è alzare le mani, e che spesso dopo una spinta si finisce a terra o addosso a qualcosa, sta zitto. «Un anno fa lei è andata al pronto soccorso e ha detto che quella ecchimosi alla tempia se l’era fatta cadendo durante una nostra lite ed eccomi qui». In realtà chi lo segue ci spiega che la storia è un po’ diversa, che Andrea cerca di giustificare le sue azioni prima di tutto a se stesso. Lui considerava la sua donna una proprietà e non voleva condividerla con nessuno, neanche con la famiglia. Per trattenerla ha abusato di lei prima di tutto moralmente, facendola sentire una nullità, senza speranza. «Le contavo i soldi nel portafogli», racconta Andrea. «Volevo sapere come li aveva spesi». Tasselli di un rapporto malato, di un’ossessione, di una debolezza. «Spero tanto che mi perdoni», dice.

ITALIA VIOLENTA
Secondo i dati raccolti dall’Istat le regioni dove gli uomini sembrano più violenti sono quelle del centro Italia. La regione più violenta risulta essere la Liguria
 E il problema è che sono molte le donne che perdonano. «Molte compagne di uomini che sono in cura nei centri decidono di restare con loro», dice Alessandra Pauncz, psicoterapeuta, fondatrice del primo centro per uomini violenti, il Cam di Firenze. «La terapia di recupero è fatta di incontri individuali e di gruppo». «L’esperienza ci dice che alla fine del percorso la violenza fisica si interrompe, mentre è più complicato per il maltrattamento psicologico
 Oggi esiste «Relive», la prima associazione nazionale italiana che riunisce nove centri che attuano programmi per uomini autori di violenza di genere. «Circa l’85 per cento degli utenti arriva volontariamente, gli altri in seguito all’esecuzione di una misura penale», spiega la Pauncz. «Non è facile il cambiamento», ammette. «C’è un alto tasso di abbandono di uomini che non sono motivati».
Ed è per questo che dalla rete dei centri antiviolenza dedicati esclusivamente alle vittime monta il malcontento per queste esperienze che rischiano di competere con loro per la raccolta dei fondi. «Sappiamo che c’è questo tipo di obiezione - ammette la Pauncz - ma non ve n’è motivo visto che non esiste alcuno stanziamento a favore di questi centri dedicati al recupero di uomini violenti».
Sono tanti anche i giovani che chiedono aiuto, anche under 30 anni, rivela la psicoterapeuta: «Ragazzi che non riescono a tenere il confronto con le loro fidanzate, e che non sanno quello che fanno». Anche loro pericolosamente inconsapevoli.
http://www.lastampa.it/2016/06/10/italia/cronache/le-giustificazioni-degli-uomini-in-cura-se-sono-qui-perch-lei-mi-ha-denunciato-j8W8pM8pdYgYpkZPcxyWuJ/pagina.html

venerdì 10 giugno 2016

Uomini violenti, non sanno chiedere aiuto ma l’aggressività si può curare di Sara Gandolfi e Marta Serafini


Drappi rossi

Ai balconi, alle finestre, alle cancellate, sugli alberi e sulle terrazze. Drappi rossi contro il femminicidio, e non importa se sono vestiti, sciarpe, pezzi di tessuto, o lenzuola. Ne sono appesi ovunque . Sono in memoria di Sara, la ragazza strangolata e poi bruciata a Roma settimana scorsa. Ma anche per ricordare tutte le Sara che sono state uccise
«Sono un mostro», ha detto Vincenzo dopo la confessione. Ed è la frase peggiore che potesse pronunciare, per chi segue gli autori di maltrattamento. «È un meccanismo di difesa per non entrare in contatto con la “parte oscura” di sé. Come fa chi, da fuori, lo chiama mostro e vuole soltanto buttare via la chiave, allontanare il problema invece di affrontare tutte le sue complessità», spiega la criminologa Francesca Garbarino. Da dieci anni lavora nel progetto di trattamento per sex offender al carcere di Bollate e dal 2009 al Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano. E di una cosa è certa: «È difficile che l’uomo chieda aiuto da solo».
Ricardo è un pasticcere di origini latino-americane. Ha trascorso un’infanzia traumatizzante in patria, il padre alcolista lo maltrattava pesantemente, la madre era lontana. Ha difficoltà a gestire la collera e l’impulsività. Quando la compagna minaccia di togliergli i figli, tira fuori il coltello e poi tenta di strangolarla. «Stringevo, stringevo. Quando ho visto che cambiava colore ho capito che dovevo fermarmi». Lei non lo ha denunciato stanno ancora insieme. Ricardo va regolarmente al Presidio (servizio gratuito, numero verde 800667733) dove una volta a settimana una decina di uomini come lui, autori di maltrattamenti, si incontra. Parlano, seduti in cerchio, ascoltandosi l’uno con l’altro. E così si aiutano.
Peccato che in Italia i centri per gli autori di maltrattamenti siano appena 15. Nessuno al di sotto del Lazio. A Torino è in corso un progetto sperimentale, «Opportunity», per ora unico in Italia. Con il sostegno della Tavola Valdese, il Gruppo Abele organizza un percorso residenziale per uomini «che intendono interrogarsi sulla propria aggressività». Si sono alternati finora in cinque nell’alloggio da tre posti letto, seguiti almeno per sei mesi da un’équipe tutta maschile. Francesco era in dormitorio perché su consiglio dell’avvocato aveva dovuto lasciare la casa. «La priorità resta la tutela delle vittime», chiarisce Ornella Obert, referente del gruppo area vulnerabilità del Gruppo Abele. Il progetto però ribalta l’abitudine che vuole la messa in sicurezza della donna, e non l’allontanamento dell’uomo.
Anche Marina Valcarenghi, psicoanalista, da anni lavora sul fronte della prevenzione e del recupero. «In alcune carceri si lavora già da tempo su questi problemi e le amministrazioni e i magistrati autorizzano in alcuni casi i detenuti a recarsi negli studi professionali», spiega. In Italia non esistono dati sulle «ricadute». Da Oltreoceano però arriva la conferma: i programmi di recupero funzionano. Secondo una ricerca condotta nel 2008 dall’Università di Toronto, la recidiva tra i sex offender che avevano ricevuto un trattamento è pari al 14.5 per cento dei casi. E la ricaduta diminuisce con il passare degli anni (i test sono stati condotti a 3,5 e 10 anni). Nel caso dei detenuti che non si erano sottoposti al trattamento la percentuale saliva al 33 per cento.
Al di là della teoria, per prevenire la violenza sono molti i campanelli di allarme da non sottovalutare: «Il comportamento manesco, la mancanza di controllo pulsionale, gli scatti di rabbia improvvisi e imprevedibili, la gelosia ossessiva e opprimente, un forte sentimento di supremazia maschile, la detenzione di armi per la difesa personale, la legittimazione ideologica della violenza fisica sono solo esempi», continua Valcarenghi.
I più difficili da trattare sono gli stalker, che non sopportano il lutto del rifiuto e si illudono di mantenere il contatto con la ex perseguitando la vittima. Un’escalation. Ma se la si intercetta per tempo si può bloccare. Come racconta la storia di Dino. Si apposta fuori dalla palestra della sua ex, si iscrive allo stesso corso di ballo, colonizza ogni momento della sua giornata. Alla fine lei lo denuncia.
In Francia la «presa in carico» dell’autore di maltrattamenti è obbligatoria, o meglio è spesso la solida alternativa al carcere. In Italia l’intervento non è così programmatico, ma l’articolo 282 quater della legge 199 del 2015 prevede la concessione degli arresti domiciliari con l’obbligo di trattamento. Dino va in terapia per due anni. Entra in un’altra relazione, viene lasciato e inizia a perseguitare anche la nuova ex. Ma questa volta riconosce i segnali. E torna al Presidio del Comune di Milano.
Ma ci sono anche quelli per cui bisogna davvero buttare via la chiave? «Ci sono gli psicopatici puri che godono nel far male all’altro. Ci hanno chiesto di prendere in carico uno stalker sadico e recidivo, uno che rovina il gruppo, intrattabile. Abbiamo detto no e ne abbiamo segnalato la pericolosità», ammette la Garbarino. Vincenzo si poteva fermare? «Difficile dirlo, del passato di questo ragazzo non si sa nulla. Ma non bisogna mai smettere di provare a cercare strade nuove», conclude Ornella Obert.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/uomini-violenti-non-sanno-chiedere-aiuto-ma-laggressivita-si-puo-curare/

giovedì 9 giugno 2016

Telefono Rosa - Pagina Ufficiale

Ieri altri due femminicidi:
 a ‪#‎Taranto‬, Federica De Luca e il suo piccolo di 4 anni e poi,
 a ‪#‎Pordenone‬, un'altra vittima, di soli 29 anni, Michela Baldo.
Numeri da vergogna, silenzi che non possiamo che commentare così. ‪#‎quanteancora‬















Mentre le donne muoiono e la Convenzione di Istanbul è lettera morta, mentre la Boschi tace e le
associazioni vengono umiliate da ritardi e sfratti, ci sarebbe tutto da fare.
Hanno smantellato i tavoli interministeriali, hanno stanziato 30 milioni per TRE anni e finora ne hanno assegnati pochissimi. I soldi che hanno dato, li hanno erogati alle Regioni contro la volontà di tutte le associazioni. Ora quei soldi noi sappiamo dove sono (forse agli amici degli amici degli amici?..).
Non esiste UNA sola campagna informativa del 1522 (numero nazionale antiviolenza attualmente gestito proprio dal Telefono Rosa).
Non esiste un sito e nemmeno un profilo social network dedicato.
Non esiste un osservatorio nazionale.
Hanno approvato un codice "rosa" (la Lorenzin e Alfano lo hanno fortemente voluto...) inutile e inutilizzabile, ma che in compenso può fare arrivare tanti bei soldini a certi Poli sanitari.

Luisa Garribba Rizzitelli

mercoledì 8 giugno 2016

Michela Marzano #Isis #barbarie #donne #Mosul

Si erano rifiutate di divenire schiave sessuali dei miliziani dell'Isis e loro, dopo averle rinchiuse in
una gabbia di ferro e averle portate al centro di una piazza di Mosul, le hanno bruciate vive.

Trattate come semplici cose - quelle che si possono anche distruggere o buttare via quando non ne se
ne ha più bisogno, proprio in quanto semplici cose.

Massacrate come se nulla fosse - qual'è d'altronde il valore di una donna che non accetta di
sottomettersi?

Dimenticate da tutti - chi ne sta parlando oggi, in Italia, dopo che la notizia è apparsa sull'Huffington
Post?

E se cominciassimo a parlarne e a indignarci come se si trattasse delle nostre amiche e delle nostre
sorelle?

L'articolo  http://www.huffingtonpost.it/2016/06/07/isis-brucia-ragazze-curde-a-mosul_n_10331944.html

martedì 7 giugno 2016

A cosa serve chiamarlo femminicidio? La parola omicidio comprende già i morti di tutti i sessi!" Michela Murgia

No.

La parola "femminicidio" non indica il sesso della morta.

Indica il motivo per cui è stata uccisa.

Una donna uccisa durante una rapina non è un femminicidio.

Sono femminicidi le donne uccise perché si rifiutavano di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne. 

Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto.

Dire femminicidio ci dice anche il perché.

lunedì 6 giugno 2016

Nascemmo orfane pubblicato da Cecilia D'elia

In occasione del settantesimo anniversario della Repubblica e del voto alle donne pubblichiamo la prima parte di un intervento di Miriam Mafai, scritto in occasione dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia*

Per la prima volta il 2 giugno del 1946 le donne italiane votarono, per eleggere, dopo il disastro della guerra e del fascismo, l’assemblea che avrebbe dato all’Italia la nuova Costituzione.
Votarono con preoccupazione, con orgoglio, con speranza, con emozione.

Non avendo ancora ventun’anni (età alla quale allora si diventava maggiorenni) non avevo potuto votare, ma poche settimane dopo andai, con un gruppo di amiche, in piazza Montecitorio, per vedere e riconoscere, con una punta d’orgoglio, le prime donne che entravano, da deputate, nello storico palazzo. Vivemmo insieme quel giorno come un nostro grande successo, non solo delle donne che nell’Italia liberata avevano potuto partecipare agli incontri, alle petizioni, alle manifestazioni per il diritto di voto ma anche di quelle che nell’Italia occupata dai fascisti e dai tedeschi, per anni si erano battute anche per il riconoscimento di questo diritto.

Vale tuttavia la pena di fare subito una considerazione. Il nostro movimento, il movimento femminile del dopoguerra, per l’irrisione che dal fascismo era stata distribuita a piene mani sul vecchio movimento delle “suffragette” e per le riserve espresse nei loro confronti anche da gran parte del movimento operaio, nacque in qualche misura orfano.
Solo più tardi scoprimmo i nomi e ricordammo l’azione di coloro, donne e uomini che si eran battuti invano nei Parlamenti dell’Italia liberale, perché alle donne venisse riconosciuto il diritto di voto: il nome di Anna Maria Mozzoni, di Anna Kuliscioff, di Linda Malnati, di Maria Montessori, per non citarne che alcune. O il nome del socialista Salvatore Morelli e del repubblicano Mirabelli che invano avevano chiesto nei parlamenti liberali il suffragio universale e la completa parificazione tra uomini e donne di fronte alla legge.

Nascemmo dunque orfane, ma questo non ci impedì di irrompere adesso sulla scena politica e sociale italiana non tanto con la prudenza e l’incertezza dei new comers, ma piuttosto con l’audacia e la spregiudicatezza di coloro che da troppo tempo sono stati esclusi.
La nostra presenza, imprevista e coraggiosa nella richiesta di nuovi diritti, inciderà profondamente sui vecchi assetti consolidati e sui tradizionali pregiudizi della nostra società.

*Miriam Mafai “Le donne dopo il voto” in Le donne che hanno fatto l’Italia, Gangemi editore, Roma, 2011, pp. 47-51.
https://femministerie.wordpress.com/2016/06/01/nascemmo-orfane/

domenica 5 giugno 2016

Festa della Repubblica: una giornata molto particolare per le donne inserito da Maddalena Robustelli


Il femminicidio di Sara, concomitante con il 70° anniversario del voto politico alle donne, ha costituito la giusta sprone per fare il punto della situazione su quanto in Italia predisposto in tema di contrasto alla violenza di genere.





Il 70° anniversario del voto politico alle donne ha connotato in maniera specifica la Festa della Repubblica, commemorata ieri nel Paese. Senonchè al momento celebrativo della prima volta in cui le donne italiane hanno esercitato il voto politico al referendum istituzionale del 2 e 3 giugno del 1946, si è aggiunta una forma particolare di mobilitazione, ossia la protesta contro la violenza di genere ed i femmincidi.
Due sono state le modalità con cui questo malcontento si è appalesato: la prima in forma collettiva è consistita nello scendere in piazza con cortei, sit-in e flash mob condividendo l’appello scritto dalla blogger Simona Sforza, appello che ha dato vita a veri eventi accomunati dalla medesima denominazione “Chi colpisce una donna, colpisce tutte”; la seconda in forma individuale è constata nel rendere visibile un drappo rosso ai propri balconi, così come sollecitato da un tweet lanciato in rete. Entrambe le modalità di mobilitazione erano, però, accomunate da #saranonsarà, coniato da Stefania Spanò che in una sua vignetta con protagonista Anarkikka aveva così scritto “Perché ora abbiamo la parola per dirlo, ma facciamo poco per evitarlo: femminicidio”.
Così mentre in molte città italiane si svolgevano iniziative per festeggiare la Repubblica, in altrettanti centri urbani le donne si riappropriavano degli spazi pubblici per sensibilizzare le proprie comunità di riferimento sulla necessità di un contrasto forte alla violenza di genere. “Chi colpisce una donna, colpisce tutte noi” è diventato in tal modo lo strumento “per rompere l’indifferenza, per chiedere alle donne che siedono nelle istituzioni di mettere questo tema al primo posto dell’agenda politica nazionale e locale”.
Grandi città, come Roma, Milano, Napoli, Torino, Ancona, Ravenna, nonché altre come Bergamo, Reggio Emilia, Potenza, Castiglioncello, Cava dei Tirreni, San Benedetto del Tronto, sono così diventate quell’unica piazza ideale che protestava con una condivisa parola d’ordine: Stop femminicidi. Dopo l’imponente manifestazione di Se non ora quando? dell’11 febbraio 2011 le donne italiane si sono nuovamente affacciate da protagoniste sulla scena politica nazionale.
C’era un gran bisogno di un momento del genere, perché da tempo si auspicava un segnale forte che in tante, troppe, aspettavano, soprattutto quelle donne oppresse dalla rassegnazione di una vita fatta di soprusi e violenza, fino al punto di morirne. Come c’era altrettanta necessità di consapevolezza nuova sulla violenza sessuata, nuova perchè bisognosa di un proprio impegno personale, anche se solo per il tramite di un drappo rosso esposto alla finestra. Gesto non di poco conto, anzi fondamentale primo passo per continuare a percorrere insieme ad altre la stessa strada, quella della mobilitazione collettiva contro i femminicidi ed ogni altra forma di sopraffazione legata al proprio genere d’appartenenza. In fondo entrambe le forme di protesta, la pubblica e l’individuale, assumono una valenza particolare perché le donne italiane diventano, anche se per un solo tema, soggetto politico univoco. Elemento di per sé rilevante, visto che alle istituzioni pubbliche di riferimento è stata avanzata la specifica richiesta di predisporre un altro genere di misure per debellare la violenza di genere, nella piena consapevolezza che quelle attuali non sortiscono i risultati auspicati.
Sarà che ora, dopo un’assenza di quasi tre anni, è stata designata la nuova ministra alle Pari opportunità, a cui rivolgere le proprie istanze. Sarà che oggi come oggi si avverte la necessità di una sinergia tra le varie titolari di dicasteri che, ad esempio, consenta il decollo nelle scuole italiane di corsi di educazione alla sentimentalità, alla sessualità, al rispetto del genere femminile. Sarà che il femminicidio di Sara Di Pietrantonio, per i suoi particolari connotati, è uscito dalla sfera di una vicenda precipuamente individuale per assumere le vesti di un accadimento con rilevanti aspetti collettivi, come quelli legati alla mancanza di soccorso richiesto dalla giovane vittima. Oppure, sarà che proprio il 70° anniversario del voto politico alle donne ha costituito la giusta sprone per fare il punto della situazione e criticare quanto predisposto dai propri rappresentanti istituzionali in tema di contrasto alla violenza di genere, il cui approccio securitario si è dimostrato fallimentare. Ridurre il fenomeno a questioni private, in cui lo Stato ha il compito primario di punire il femminicida o lo stalker, significa rimandare nel tempo l’unica vera arma vincente contro la violenza sessuata. Quella della eliminazione, o per lo meno della parziale perdita di vigore della cultura machista, che vede nella violenza la cifra regolamentatrice dei rapporti tra i generi. Se fosse vera quest’ultima ipotesi, ben ha detto allora Chiara Pontremoli: “70 anni fa le donne conquistarono il diritto al voto. Ora vorremmo anche quello di lasciare il fidanzato senza rischiare di morire ammazzate”.

sabato 4 giugno 2016

Anna Maria Mozzoni, l'italiana che chiese il voto per le donne nel 1877

Signori Senatori, Signori Deputati.

il presidente del consiglio dei Ministri nel suo programma di Governo, il quale ebbe efficacia di commuovere a speranza tutti gli italiani, stigmatizzò alcune leggi che basandosi sopra nude persecuzioni legali infirmano la realtà. Ora una classe innumerevole di cittadini trovasi avviluppata in una veste giuridica, la quale, emanazione di tempi disparati, reliquia di tradizioni antiquate, che il progresso delle scienze sociali ha demoliti da ogni altra parte, rappezzatura di Diritto Romano e di diritto consuetudinario straniero, astrae dalla realtà presente e si afferma come un fatto isolato nel corpo delle istituzioni moderne.

Ora questa massa di cittadini che ha diritti e doveri, bisogni e interessi, censo e capacità, non ha presso il corpo legislativo nessuna legale rappresentanza, sicché l'eco della sua vita non vi penetra che di straforo e vi è ascoltata a malapena.

Noi italiane ci rivolgiamo perciò a quel Parlamento, che col Governo ha convenuto doversi alla presunzione sostituire la realtà, affinché posti in disparte i dottrinarii apprezzamenti e le divagazioni accademiche sulla entità e modalità della nostra natura, e sul carattere della nostra missione, voglia considerandoci nei nostri soli rapporti con lo Stato, riguardarci per quello che siamo veramente: cittadine, contribuenti e capaci, epperò non passibili, davanti al diritto di voto, che di quelle limitazioni che sono o verranno sancite per gli altri elettori.

A questa parità di trattamento con i cittadini dell'altro sesso, non conoscendo noi altro ostacolo che la tutela della donna maritata, domandiamo che sia tolta, come non d'altro originata che dalla legale presunzione della nostra incapacità, facendo noi considerare agli onorevoli legislatori, che avendo il Governo italiano promosso con ogni cura l'istruzione femminile e trovandoci noi, perciò, al giorno d'oggi, alla eguale portata intellettuale di una quantità di elettori che il legislatore dichiara capaci, stimiamo che nulla costi acché venga a noi pure accordato il voto politico, senza del quale i nostri interessi non sono tutelati ed i nostri bisogni rimangono ignoti.

Fiduciose nella saviezza e giustizia dei legislatori, le sottoscritte insistono perché sia fatta ragione alla loro domanda.

Sono parole di Anna Maria Mozzoni pubblicate nel marzo del 1877 ("La voce del popolo"). Parole che ebbero eco fra le femministe italiane, ma non andarono molto oltre.
Le donne italiane dovettero infatti attendere altri settant'anni per ottenere il diritto di voto.

Il suffragio universale, si sa, è alla base di ogni democrazia (non che negli ultimi anni in Italia ne abbiamo avuto esempio). E quest'anno festeggiamo i primi settant'anni del diritto al voto delle donne italiane. Un'occasione da ricordare, a mio avviso, con le parole di una vera pioniera dei diritti delle donne, Anna Maria Mozzoni.

Le italiane furono abilitate al voto per la prima volta il 2 giugno 1946 in occasione del referendum Repubblica / Monarchia. Vinse la Repubblica, anche se di molto poco (poco più dell'8%), e la casa dei Savoia fu eliminata dopo meno di un secolo di regno. L'Italia usciva distrutta emotivamente, economicamente e nelle infrastrutture da vent'anni di dittatura fascista e da una guerra mondiale e in molti consideravano il re Vittorio Emanuele responsabile per non avere dimostrato leadership. La nascita della repubblica fu veramente, per la prima volta nei millenni di storia della penisola italiana, la scelta democratica di tutti i cittadini.
http://www.huffingtonpost.it/ombretta-frau/anna-maria-mozzoni-litaliana-che-chiese-il-voto-per-le-donne-nel-1877_b_10162764.html

venerdì 3 giugno 2016

LE RADICI DELLA DEMOCRAZIA NELL’IMPEGNO POLITICO DELLE COSTITUENTI DI LAURA CIMA

repubblica

Il primo articolato dibattito sul diritto alla cittadinanza e al voto delle donne risale alla proclamazione del regno d’ Italia e prima ancora alla repubblica cisalpina fine settecento il. Discorso agli italiani di un’anonima cittadina che si ribellava al fatto che le costituzioni giacobine non riconoscessero diritti alle donne: “è già più di un anno che noi nel ritiro delle nostre case andiamo considerando i vostri nuovi piani, le vostre nuove costituzioni…. “ e che concludeva lapidaria “Siccome con noi distruggereste tutti i nemici dell’uguaglianza, senza di noi non li distruggerete giammai “.

Anche oggi i nostri diritti sono a rischio, e con i nostri quelli di tutti a cominciare dal lavoro.

Le donne entrarono per la prima volta sulla scena politica come soggetti istituzionali, portandosi dietro una debolezza storica che pensavano di avere superato e si ritrovarono nella Consulta, nella Costituente e in Parlamento a misurarsi con i soliti pregiudizi e atteggiamenti maschilisti dei loro colleghi e dei loro dirigenti di partito.

Nella Consulta nazionale istituita il 5 aprile 1945 vennero designate dai partiti dodici donne e una, Adele Bei, dalla Cgil, ma nessuna fece parte dell’ufficio di presidenza: presidente, vicepresidenti, segretari e questori erano tutti uomini.

Angela Cingolani, designata dalla DC, fu la prima donna a prendere la parola nella storia italiana in un’aula parlamentare con un discorso politico generale tutto teso alla necessità della ricostruzione post-bellica e della definizione del nuovo stato democratico post-fascista, in cui non c’era spazio per rivendicazioni femministe, ma, invitò i colleghi uomini a smettere galanterie e a valutare le consultrici “come l’espressione di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha combattuto, sofferto, resistito e vinto con armi talvolta diverse e talvolta simili alle vostre e che oggi lotta con voi per la democrazia” . Nel marzo 1946 la Consulta corresse il primo Decreto luogotenenziale del 30 gennaio 1945 che riconosceva il diritto attivo al voto ma non quello passivo. A seguito di manifestazioni che si erano susseguite dall’estate del 1944 “Noi Donne” promosse un referendum rispetto al diritto di voto alle donne.

Durante il primo governo una delegazione del CNL l’8 ottobre 1944 presentò a Bonomi una mozione proposta dal Comitato unitario per il voto alle donne di cui facevano parte per la DC la Cingolani, per il PCI Rita Montagnana, per il PSI Giuliana Nenni , per il PLI Josette Lupinacci e per il P.d’Az. Bastianina Musu. La mozione rivendica “il diritto delle donne italiane di partecipare alle prossime elezioni amministrative su un piano di assoluta parità con gli uomini”. Nadia Spano fece parte, come rappresentante del giornale “Noi Donne” della delegazione del Comitato pro-voto che, all’inizio del 1945, si fece nuovamente ricevere dal Presidente del Consiglio. Ricevette da Bonomi la promessa che la questione sarebbe stata posta al primo consiglio dei ministri poiché De Gasperi e Togliatti erano d’accordo: “ il 30 gennaio mantenne la promessa e il voto passò. Non si accorsero però che non era passato il voto passivo e l’anno dopo, in fretta e furia, dovettero approvare un altro decreto per permettere alle donne non solo di votare ma anche di essere elette” Questa dimenticanza la dice lunga sulle resistenze maschili ma anche sulle disattenzioni o sulla troppa fiducia delle donne.

voto alle donne vademecum dell'elettore
voto alle donne vademecum dell'elettore
Verso il voto politico

Si arrivò così con il pieno diritto di voto riconosciuto alle donne al referendum del 2 giugno e contemporaneamente all’elezione dell’Assemblea Costituente. Le candidate e tutte le donne che parteciparono ad una appassionata campagna elettorale si preoccuparono innanzitutto di portare le donne italiane a votare ‘bene’, battere il voto monarchico e rafforzare il proprio partito. In una intervista Nadia Spano racconta come durante la campagna elettorale la principale preoccupazione era “convincere le donne ad andare a votare, e a votare bene, per il partito giusto e per la Repubblica, senza rischiare errori nelle preferenze, che era più sicuro non dare per non rischiare di invalidare la scheda. Per lo stesso motivo il consiglio era di non darsi il rossetto per non macchiare involontariamente la scheda”. Rimase così fuori dalle campagne elettorali e dalle riflessioni politiche il progetto di definirsi come persona in modo autonomo, non funzionale, non complementare rispetto all’uomo” che avrebbe potuto aprire la via verso la politica, con una forte autonomia dai partiti, a tante altre donne che si accontentarono di esercitare il diritto attivo di voto e di concorrere nei luoghi organizzativi misti o separati, a rendere poi concreti i principi costituzionali. Non si preoccuparono molto di fare eleggere le poche donne presentate nelle liste. Forti di una diversità che coglievano e che attribuivano all’essere per la prima volta rappresentanti delle donne in quei luoghi, trovarono semplice identificarsi nelle donne elettrici e quindi lavorare in modo trasversale pur mantenendo un forte appartenenza ai loro partiti. In realtà erano donne autorevoli, rappresentanti di uomini e donne che le avevano votate perché portassero il loro entusiasmo e la loro generosità a definire i nuovi valori comuni che dovevano fondare il nuovo patto sociale.

Dal 2 giugno alla Costituente

Grande festa delle donne quella delle prime elezioni politiche dopo la Liberazione. Tutti i giornali riportano i titoli e le foto di questo evento storico: nelle code per accedere ai seggi le donne, con l’abito buono della domenica e spesso con i bambini, sono la maggioranza più visibile. Vota infatti l’89% delle aventi diritto.

Nella Costituente entrarono solo 21 donne su 226 candidate: circa il 3,5% dei 556 deputati. Le amministrative che si erano tenute tra marzo ed aprile in più di sei mila comuni avevano visto eleggere duemila consigliere comunali con un’affluenza alle urne molto alta tra le donne e Rita Montagnana, dopo la campagna elettorale appassionata e difficile anche perché il PCI temeva un voto reazionario da parte delle donne, scrisse la sua soddisfazione su Noi donne: “Le donne sono accorse numerose alle urne, nelle città e nei villaggi ed hanno votato come noi prevedevamo. .” Alcune costituenti, come la Montagnana, la Merlin e la Noce, avevano iniziato a far politica nel vecchio stato liberale e con il fascismo erano state costrette all’espatrio, altre come la Iotti, la Spano, la Bianchi, la Delli Castelli erano giovanissime, nate quando il fascismo stava ormai dilagando.

Nadia Gallico Spano racconta: A noi, costituenti, toccava il compito di stabilire principi, di dettare norme e articoli: alle spalle non avevamo nulla, dovevamo prevedere e costruire il futuro…In altri paesi esistevano delle costituzioni che la guerra aveva sospeso e interrotto; si trattava di ripristinarle, aggiornandole e migliorandole. In Italia era diverso.. Ed è con speranza ed emozione che noi varcammo la soglia di Montecitorio, ma anche con un forte senso di responsabilità nei confronti delle donne. Avevano votato per la prima volta e per la prima volta delle donne le rappresentavano … La Costituente fu dunque veramente uno spartiacque nella condizione femminile del nostro paese.”
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Tre schieramenti

“Naturalmente, il prestigio dell’assemblea derivava soprattutto dalla sua composizione: vi si trovavano i più bei nomi dell’Italia prefascista, quelli dell’antifascismo militante e della Resistenza, esponenti elevati della cultura, della storia, del diritto, delle scienze; c’erano i giovanissimi che si aprivano allora alla vita politica e infine le donne, alcune con una dura esperienza di lotta contro la dittatura, altre più giovani, tutte decise a battersi per una nuova condizione femminile. In quel giugno del 1946, quando entrammo in ventuno all’Assemblea Costituente, ognuna con la carica ideale e politica del proprio partito, eravamo coscienti che, elette in gran parte dalle donne, dovevamo rimanere fedeli al mandato ricevuto, rappresentare tutte le donne, e batterci per i loro diritti, introducendo nella Costituzione quei principi ormai maturi, specialmente nelle donne della Resistenza, e altri ancora da affermare, giusti, ma non per questo accettati come tali da una parte dell’Assemblea.” La Spano prosegue spiegando che in particolare le destre sono contrarie alle donne mentre la sinistra è favorevole con qualche reticenza personale mentre la DC lo è ma “con prudenziali temperamenti”. A questi tre schieramenti se ne aggiunge un quarto, trasversale ai partiti, che all’inizio non è chiaramente percepibile dai costituenti. Si tratta delle donne elette che rivendicano diritto al lavoro e parità salariale ma, oltre ad affermare i diritti delle donne, pongono i principi generali della parità e dell’uguaglianza che saranno espressi chiaramente soprattutto nell’articolo tre, con la formulazione sull’uguaglianza formale nella prima parte e di quella sostanziale nella seconda.
Federici, Iotti, Merlin e Noce fecero parte della Commissione dei 75 insieme a Gotelli che si aggiunse qualche mese dopo, nella prima e nella terza sottocommissione dove si occuparono della famiglia e della condizione della donna. Nessuna fu mandata nei partiti nella seconda e quindi il Titolo II, l’ Ordinamento dello Stato, fu disegnato solo da uomini. Quando l’incontrai quarant’anni dopo, in un seminario chiuso organizzato da Alessandra Bocchetti per la Commissione Nazionale Parità presieduta da Silvia Costa, le chiesi perché avessero accettato di essere escluse dal luogo dove si decideva la carta del potere del nuovo Stato. Piccata sul vivo Nadia mi disse: “eravamo solo maestrine e con noi c’erano i più insigni costituzionalisti, come Calamandrei ad esempio, non ci sentivamo in grado di competere su quel piano. Ci interessava di più occuparci dei valori della nuova Repubblica e lo facemmo con molta autorevolezza tutte insieme, al di là delle appartenenze, mentre gli uomini che ci ascoltavano con rispetto” Ricordo ancora l’emozione di quel confronto e la sua fierezza nel rispondermi. Era piccola di statura, con i capelli grigi raccolti nello chignon che portava anche mia nonna, un vestito scuro e quegli occhi brillanti che colpiscono chi rivede spezzoni di filmati dell’epoca in cui lei è spesso intervistata. Quando avevo partecipato al seminario organizzato da lei a Montecitorio sul quarantennale della Costituzione, io ero assolutamente ignorante e le parlamentari che là avevo ascoltato mi sembravano far parte di una storia politica perdente che noi, femministe degli anni settanta, ci eravamo illuse di cambiare radicalmente dal di fuori delle istituzioni. Allora la mia urgenza era di farmi capire da loro, senza distinguere più di tanto chi era stata costituente e chi no, di riportare nelle istituzioni le istanze e la passione del neofemminismo. Quando mi confrontai con la Spano avevo già alle spalle la mia prima legislatura, con le luci e le ombre, gli entusiasmi e le sofferenze che lo scontro con la politica maschile nelle istituzioni mi aveva causato. Avevo anche imparato qualcosa di più sulla storia della nostra Repubblica che prima non mi aveva minimamente coinvolta né nella mia giovinezza quando la mia passione era l’arte, né all’Università dove i principi filosofici e le grandi domande sul significato della vita, del mondo e della storia mi avevano assorbito, né negli anni settanta dove avevo vissuto l’esperienza di essere madre insieme a femminismo e intervento davanti alla Fiat.
Ora che so l’importanza fondamentale di non perdere la memoria per reggere, nonostante la classe politica maschile, la fiaccola della democrazia, con la nostra storia ed esperienza, con la nostra creatività, la passione e la cura del mondo perché “ le donne di qualunque età sono giovani nella democrazia rappresentativa e, con ogni nuova generazione riportano al centro i diritti”.
https://luciogiordano.wordpress.com/2016/06/02/le-radici-della-democrazia-nellimpegno-politico-delle-costituenti/

giovedì 2 giugno 2016

Le ragazze del 1946 e l’orgoglio del voto di Delia Vaccarello · 28 maggio 2016

Le testimonianze di Marisa Rodano, Milena Rubino e Alberta Levi in un documentario in onda lunedì 30 su Rai3
donne

“Alle ragazze di oggi direi di andare a votare, perché votare conta. Scegliete come volete, ma esprimete la vostra volontà. E fate squadra con le altre che hanno i vostri stessi problemi. Solo così si possono ottenere i risultati».

L’invito a partecipare è intenso, frutto dell’esperienza e del sapore di una conquista che non si attenua mai, lo lancia Marisa Rodano, classe 1921. Emozionante la trasmissione che Rai Tre manda in onda da lunedì 30 maggio a venerdì 3 giugno alle 20:10, Le ragazze del 46 , cinque puntate da 24 minuti dedicate ai 70 anni dalla conquista del diritto di voto da parte della donne in Italia, un programma costruito intorno ai racconti di 10 “ragazze” che nel 1946 avevano tra 21 (la maggiore età di allora) e 31 anni.
Oggi la più giovane è 91enne, la decana ne ha 101 e tutte hanno ancora molto da dire, come donne e come italiane. Il programma è firmato da Cristiana Mastropietro e Riccardo Mastropietro, diretto da Alessandro Capitani (produzione Pesci combattenti).

1) OCCASIONE STORICA Come si diceva sono le ragazze che andarono a votare per la prima volta per le elezioni politiche, ne vediamo il volto, ne ascoltiamo le voci. Riviviamo con loro l’inizio del lungo percorso per l’uguaglianza che vede ancora dei vuoti da colmare, basti pensare al “gender gap” degli stipendi sottolineato anche dalla Unione europea. Era il 2 giugno 1946, un’occasione storica, il referendum Monarchia-repubblica. Il dieci marzo, invece, avevano votato per le amministrative pronunciandosi in 400 comuni italiani. L’intensa partecipazione alla vita politica e civile da parte delle donne era stata anche un effetto della guerra. Una di quelle risorse che le tragedie sanno liberare.«La guerra le aveva spinte a forza nella vita civile, erano rimaste nelle case ad attendere il ritorno di padri, fratelli , mariti e figli, lavorando tutti i giorni per mandare avanti una quotidianità che sembrava un miraggio». Non solo: «Secondo me senza le donne la Resistenza non si sarebbe fatta. Un’opinione sia dei partigiani che dei tedeschi», dice Marisa, che nel ’43 ha conosciuto anche il carcere per la cospirazione contro i fascisti, partecipando alla Resistenza a Roma (settembre 1943 – giugno 1944) nelle file del Movimento dei Cattolici Comunisti e nell’attività dei Gruppi di difesa della donna.

2) UNITE E DETERMINATE E ha raccontato molto nel libro Memorie di una che c’era (ed. Il Saggiatore). Il voto al referendum lasciò il segno, fu atteso e pronosticato anche alla luce del pregiudizi accumulati sull’immagine femminile: «Mi ricordo le discussioni post voto. I democristiani dicevano che le donne avevano votato a sinistra, i comunisti dicevano il contrario, che le donne avevano dato retta al prete», aggiunge Marisa Rodano. Votare fu motivo di orgoglio .«Le donne erano state un p o’ sottomesse. Poi hanno cominciato a strillare: strilla di qua, strilla di là e sono andate a votare. E la maggior parte di loro ha votato per la Repubblica. Era importantissimo che le donne votassero, per loro era una novità. Mi sono sentita davvero orgogliosa di avere votato per la Repubblica» aggiunge Milena Rubino, 97 anni, con il suo eloquio semplice ed efficace. A casa di Milena, poiché lo zio e la zia erano monarchici, perché lo zio era calligrafo ufficiale di casa reale, scoppiarono liti furibonde, ma « c’era poco da fare: il re aveva dato pieni poteri al Duce e a noi giovani non stava bene». Sulla figura della donna nell’Italia fascista non si è mai fatta abbindolare: «Il fascismo aveva dato un’apparenza di importanza alle donne. Perché alla fine chi comandava erano i fascisti. Alle donne non piaceva molto, esclusa qualche eccezione che magari vedeva l’ufficiale vestito tutto di nero. Le donne che non capivano niente erano affascinate da queste divise». Andare oltre le immagini osannate da un mondo che riteneva le donne senza cervello e solo decorative riuscì a furia di lotte e grazie all’impegno del pci di Togliatti e della dc di De Gasperi.

3) UNA LUNGA BATTAGLIA La battaglia per la conquista del diritto di voto era partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, Inghilterra soprattutto, e degli Stati Uniti. L’Italia attese molti anni per allinearsi. Il diritto fu sancito grazie a un decreto legislativo luogotenenziale entrato in vigore il 2 febbraio del 1945, varato dal secondo governo Bonomi, su proposta di Togliatti e De Gasperi. Fu solo il dieci marzo del ’46 che fu riconosciuto il diritto all’eleggibilità e vide poi 21 donne far parte dell’assemblea costituente. «Se non ci fossero state 21 donne elette nell’ass emblea costituente, sarebbe stato difficile introdurre principi fondamentale per la costituzione: abolire le leggi fasciste e l’introduzione di una legislazione paritaria», dice Marisa Rodano, iscritta al Pci, la prima donna nella storia italiana a venir eletta alla carica di vice presidente della Camera. Come deputata si batté per i diritti. «La prima legge importante che fu approvata fu la tutela delle lavoratrici madri, che garantiva alle donne il mantenimento del posto di lavoro. Poi ci battemmo per le leggi per la parità di salario e perché non venissero licenziate una volta sposate. Mi ricordo le battaglie per il referendum sul divorzio: non era il divorzio che sfasciava le famiglie. Le famiglie si sfasciavano prima. Il divorzio era un prendere atto di quello che era successo».

4)  LA NOSTRA RESISTENZA Delle ragazze del ’46 fa parte anche Alberta Levi, 96 anni, che ha iniziato a parlare della sua storia per ribattere alle opinioni negazioniste. «Nel 37, a luglio, ho avuto il diploma di maestra e avrei dovuto andare all’università a Venezia a ottobre. Nel ’38 sono arrivate le leggi razziali e non sono più potuta andare. Continuai a insegnare alla scuola ebraica di Ferrara». Dopo l’occupazione tedesca fu chiaro il pericolo, si rifugiarono ad Arezzo, ma non bastò: «Stavamo dormendo e suonarono al campanello. Mi svegliai di soprassalto mia zia andò ad aprire e urlò che erano i tedeschi. Mia sorella prese le nostre carte d’identità per buttarle nel gabinetto, che era otturato. Allora le fece a pezzettini e le ingoiò, senza un bicchiere d’acqua. Uscii fuori da una porta finestra e provai vergogna perché capii che stavano portando via mia mamma e mia sorella. Nonostante questo mi reputo molto fortunata, perché per puro caso mia mamma e mia sorella furono rilasciate. E andarono nella medesima casa dove eravamo nascosti io e mio papà. Fu un miracolo». Votare, per Alberta, «è stata una grande emozione come donna e come ebrea».

http://www.unita.tv/focus/le-ragazze-del-1946-e-lorgoglio-del-voto/