lunedì 31 ottobre 2016

Addio Junko Tabei: la prima donna che scalò l'Everest.La giapponese che conquistò le sette vette più alte del mondo è morta all'età di 77 anni,

Junko Tabei, la prima donna che scalò l'Everest e che conquistò le sette vette più alte del mondo, è morta all'età di 77 anni, secondo quanto riferito dai media giapponesi. Tabei è deceduta in ospedale giovedì scorso, dopo aver lottato contro il cancro.
Partecipò alla spedizione femminile giapponese del 1975 che la portò a scalare la cima più alta del mondo.
In un'intervista rilasciata nel 2012 al Japan Times, ricordò l'atteggiamento di molte persone verso la spedizione in Himalaya tutta al femminile.

"Nel 1970 in Giappone si pensava ancora che fossero gli uomini quelli a dover lavorare fuori, mentre le donne dovevano stare in casa. Non c'è mai stato alcun dubbio nella mia mente riguardo al fatto di voler scalare quella montagna, non importava quello che dicevano le altre persone", ha spiegato l'alpinista, che all'epoca lasciò a casa la figlia di 3 anni con il marito e i parenti.
Nel 1992 Tabei divenne le prima donna ad aver completato l'ascesa delle cosiddette Seven Summits, ovvero le sette vette più alte, una su ogni continente.
Da allora avviò una campagna per la conservazione dell'ambiente montano.
La sua ultima salita risale a luglio scorso, quando arrivò in cima al monte Fuji con gli studenti delle scuole superiori provenienti dal nord-est del Giappone.
http://www.globalist.it/world/articolo/207245/addio-junko-tabei-la-prima-donna-che-scal-l-039-everest.html

venerdì 28 ottobre 2016

Premio Sakharov a due yazide, simbolo della resistenza all’Isis Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar

Rapite e vendute a più riprese come schiave dai miliziani dell’Isis dopo aver assistito al massacro dei loro familiari, scappate dai territori dello Stato islamico e divenute simbolo tanto delle vittime della violenza sessuale dei terroristi del Daesh quanto del genocidio yazida: Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar hanno ricevuto oggi dal Parlamento Ue il Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Candidate dal gruppo dei Socialisti e Democratici e dai liberaldemocratici, le due irachene hanno avuto la meglio sul giornalista turco Can Dundar, appoggiato dai Verdi, e sul leader tataro Mustafa Djemilev, indicato dai popolari.
 Nadia e Lamiya «sono un incoraggiamento ed un simbolo per noi a non aver paura» dell’Isis e del terrorismo, ha affermato annunciando il premio il presidente del parlamento Ue Martin Schulz. «Sono state testimoni di atrocità senza precedenti», ha sottolineato Schulz, «e hanno intrapreso un lungo cammino per ricevere la protezione dell’Europa: ora noi siamo obbligati a sostenerle per garantire che la loro testimonianza eviti l’impunità».

3 agosto 2014. È questa la data in cui inizia l’incubo delle due ragazze yazide. Quel giorno, nella sua offensiva in Iraq, l’Isis occupa il loro villaggio, Kocho, vicino al confine con la Siria. Il 15 agosto i miliziani massacrano gli uomini e separano le donne, uccidono le anziane e riducono in schiavitù le altre. Nadia, allora 21enne, e Lamiya, 16enne, al pari delle loro sorelle vengono vendute a più riprese, obbligate a soddisfare i desideri sessuali dei soldati di Daesh. Nadia, prigioniera a Mosul, viene anche forzata a fabbricare bombe e cinture esplosive. Poi, dopo 4 mesi di sequestro, riesce a scappare grazie all’aiuto dei vicini, raggiunge un campo per rifugiati nel nord del Iraq e quindi la Germania.

Per Lamiya la fuga è stata ancora più dura. Dopo diversi tentativi, la sua famiglia paga dei trafficanti e riesce a farla uscire dai territori in mano all’Isis, ma mentre sta arrivando nel Kurdistan iracheno una mina antipersona uccide due membri del suo gruppo e la ferisce agli occhi, rendendola quasi cieca. Riesce comunque a proseguire la fuga fino ad arrivare anche lei in Germania, dove viene curata e ritrova le sorelle e i fratelli scappati all’Isis.

Una volta liberate, le due yazide hanno imbracciato la via della testimonianza in prima persona delle atrocità dell’Isis.
Il 16 dicembre 2015 Murad prende la parola durante la prima sessione del Consiglio di sicurezza dell’Onu dedicata alla tratta di esseri umani, racconta la sua esperienza per mobilitare la comunità internazionale nella salvezza del popolo yazida e nella liberazione delle schiave.
«Lo Stato islamico - disse allora - non è venuto solo per ucciderci, noi donne e ragazze, ma anche per prenderci come bottino di guerra e venderci al mercato per due lire, o anche gratis». Nel settembre di quest’anno Nadia diventa la prima ambasciatrice dell’Onu per la lotta alla droga ed il crimine organizzato ed in ottobre riceve il Premio Vaclav Havel per i diritti umani del Consiglio d’Europa.
Dopo essersi rimessa dall’esplosione, anche Lamiya ha iniziato la sua attività di testimonianza a difesa del suo popolo e di sostegno ed aiuto alle donne ed ai bambini vittime della schiavitù e delle barbarie dell’Isis. Il 14 dicembre lei e Nadia riceveranno il Premio Sakharov durante una seduta solenne della plenaria del Parlamento a Strasburgo.
http://www.lastampa.it/2016/10/27/esteri/premio-sakharov-a-due-yazide-simbolo-della-resistenza-allisis-LuPa7BF7K4udIEej8Ai2EN/pagina.html

giovedì 27 ottobre 2016

Gorino, parlano tre delle profughe respinte: “Ci hanno mandate via perché non conoscono le nostre storie” di Marco Zavagli

Joy, 20 anni, è incinta all'ottavo mese: è cristiana ed è scappata per non seguire la religione animista di suo padre. "Per il mio bambino voglio il miglior futuro possibile". Belinda, 22 anni, è fuggita perché il marito è un perseguitato politico evaso di prigione "e le autorità cercavano me". Faith, 20 anni, è scampata a un attacco di Boko Haram: "Non so più nulla della mia famiglia. Ho attraversato il mare perché vorrei studiare"

“Ci hanno mandate via solo perché non conoscono, non capiscono le nostre storie”. Non c’è rancore nelle parole di Belinda, Joy e Faith, tre delle dodici profughe che erano a bordo della corriera diretta a Gorino, nel basso ferrarese. Alla notizia delle barricate erette dagli abitanti il loro autobus, partito dal centro di accoglienza di Bologna e arrivato ormai a Comacchio, ha deviato. E allora la stanchezza di un viaggio durato più di un mese ha lasciato spazio all’incredulità, al sentimento del rifiuto. “All’inizio non capivamo cosa stava succedendo, non credevamo che non ci volessero, ci siamo rimaste male quando abbiamo capito che la popolazione non ci voleva”.
Hanno gli sguardi bassi Belinda, Joy e Faith. Li alzano solo per guardare Kevin, l’interprete. Si vede che sono esauste. Non nascondo che sono impaurite. Sono sbarcate sulle coste italiane sabato notte. Un aereo le ha trasportate domenica mattina all’aeroporto Marconi di Bologna. Dopo la meta rifiutata, hanno trovato temporanea ospitalità nella sede dei servizi alla persona di Ferrara.

Joy ha 20 anni. Ha abbandonato il suo paese a fine settembre. È incinta all’ottavo mese. Di lei qualcuno, a Gorino, ha detto: “Non me ne frega un cazzo se è incinta, vada in questura” (video). È scappata dalla Nigeria perché lei, cristiana, non voleva seguire la religione animista di suo padre. Per il viaggio fino in Libia ha pagato circa 420 euro. Ora, qui in Italia, vorrebbe studiare e sogna per il suo bambino “il miglior futuro possibile“. E il futuro prossimo lo immagina con ‘lui’ in braccio: “preferirei fosse un maschio, lo vorrei chiamare Michael”. Durante la deviazione forzata verso Ferrara ha accusato dei dolori alla pancia. In ospedale ha effettuato tutte le visite di controllo che hanno scongiurato complicazioni nella gravidanza. Ora la sua preoccupazione è un’altra. Al momento della partenza dalla Libia ha perso di vista suo marito Lamid e ora non sa più niente del padre del suo bambino: “Aiutatemi ad avere notizie se potete”.

Belinda ha 22 anni, viene dalla Sierra Leone. Lavorava come infermiera. È fuggita perché il marito era perseguitato politico e quando è evaso di prigione “le autorità hanno cercato me per sapere dove si trovava, così ho dovuto abbandonare il mio paese”. Per il viaggio fino alla Libia ha pagato “circa 100 dollari”. Una volta arrivata però ha dovuto arrangiarsi e “trovare qualcuno che mi indicasse il posto da dove partono i barconi”.

Faith ha 20 anni. Ha lasciato il suo villaggio in Nigeria dopo essere scampata miracolosamente a un’incursione di Boko Haram. Ma la sua mente è ancora là: “Non so più nulla della mia famiglia, nemmeno se sono ancora vivi”. È scappata con altri profughi verso il Mali e da lì ha preso la via per la Libia. Qui ha trovato “un arabo che mi ha dato cibo e un posto dove dormire e mi ha aiutata a trovare chi poteva farmi attraversare il mare”. In Italia vorrebbe realizzare un piccolo sogno finora impossibile: “Vorrei poter studiare”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/10/25/gorino-parlano-tre-delle-profughe-respinte-ci-hanno-mandate-via-perche-non-conoscono-le-nostre-storie/3122006/

mercoledì 26 ottobre 2016

L'Islanda si ferma alle 14 e 38: sciopero delle donne contro gap retributivo di genere di Benedetta Perilli

Islanda, lo sciopero delle donne: "Pagate meno degli uomini, ci fermiamo alle 14 e 38"
Da questa ora in poi le islandesi lavorano gratis in base alle differenze retributive con i colleghi uomini. Sull'isola la battaglia sull'uguaglianza dei salari risale al 1975 quando, il 24 ottobre, le lavoratrici si fermarono per la prima volta. Nel 2068 potrebbero raggiungere la parità

Stessa professione, stesse  responsabilità, stesso orario e buste paga diverse. La differenza la fa il sesso del lavoratore. Si chiama gender pay gap, divario retributivo di genere e in Islanda le donne lo stanno combattendo con una protesta esemplare. In occasione del Kvennafrì, giorno di riposo delle donne celebrato per la prima volta nel 1975, le lavoratrici dell'intero Paese si sono fermate e sono scese in piazza per denunciare le differenze salariali con gli uomini. Lo hanno fatto alle 14 e 38, orario in cui la loro giornata lavorativa dovrebbe interrompersi se commisurata allo stipendio percepito da un collega uomo. Considerata la busta paga dei colleghi, dalle 14 e 38 in poi le donne lavorano gratis.

Secondo un sondaggio Eurostat pubblicato da Statistics Iceland le islandesi guadagnano in media il 17% in meno degli uomini.
L'Islanda si piazza al primo posto nel mondo come Paese con il minore divario in base ai dati del Global Gender Gap Report del 2015 del World Economic Forum.
Nella stessa classifica, composta da 145 nazioni, l'Italia si posiziona al 41esimo posto, guadagnando 28 posizioni rispetto agli anni precedenti e raggiungendo il miglior risultato di sempre anche grazie all'applicazione delle quote rosa in Parlamento e alla presenza delle donne nelle istituzioni pubbliche.

La strada per l'uguaglianza salariale è ancora lunga insomma, in Italia come nel resto mondo e persino in Islanda - il luogo al mondo dove i diritti delle lavoratrici vengono tutelati maggiormente e dove la parità salariale potrebbe essere raggiunta nel 2068 - le donne non smettono di lottare per la causa. Una tradizione che risale al 24 ottobre 1975, quando in occasione del primo Kvennafrì il 90% delle lavoratrici - nella sola Reykjavìk parteciparono 25mila persone, ovvero un quinto della popolazione - incrociarono le braccia per denunciare una differenza che all'epoca era pari al 60% in meno. In quell'occasione storica - per la prima volta in Europa le donne manifestavano in forma così compatta - l'intero Paese si fermò. Gli uomini restarono a casa per seguire i figli e svolgere i lavori domestici mentre interi settori rimasero paralizzati: i giornali non andarono in stampa per assenza di tipografe; i teatri chiusero per  mancanza di attrici; le compagnie aeree cancellarono i voli per mancanza di hostess e le scuole chiusero restando senza insegnanti.

Da allora lo sciopero delle donne è stato indetto altre volte nel 1985, nel 2005 e nel 2010 e i risultati delle mobilitazioni non hanno tardato ad arrivare. Nel 1980 Vigdìs Finnbogadòttir è stata nominata presidente dell'Islanda diventando così la prima donna presidente eletta in maniera democratica. Nel 2009, e fino al 2013, Jòhanna Siguroardottir è stata la prima premier donna del Governo islandese e la prima premier dichiaratamente omosessuale al mondo. Sulla stessa scia anche le polacche hanno recentemente portato a casa un importante vittoria: grazie a una marcia di protesta alla quale hanno partecipato migliaia di donne, il Parlamento ha bloccato un disegno di legge che vietava l'interruzione di gravidanza.
http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/25/news/islanda_lo_sciopero_delle_donne_pagate_meno_degli_uomini_ci_fermiamo_alle_14_e_38_-150548997/

venerdì 21 ottobre 2016

SOLIDARIETA'

L' Associazione   "ventunesimodonna" esprime la propria solidarietà a Maria Ferrucci e Roberto Masiero, alle consigliere e ai consiglieri dell'opposizione, alle cittadine e ai cittadini presenti tra il pubblico , per l'atteggiamento chiaramente intimidatorio e violento di cui sono stati oggetto ieri sera nel corso del Consiglio Comunale.
Siamo vicine e condividiamo il pensiero e l'agire di coloro che, esponendosi con coraggio in prima persona, tentano di risvegliare in ogni persona l'attenzione necessaria a vigilare sulla nostra città.

giovedì 20 ottobre 2016

“No Gender nelle scuole”: il movimento Italiano e le vere scuole “no gender”

Nel mondo globalizzato di oggi, è essenziale avere padronanza di più linguaggi e idiomi. Per veicolare correttamente le proprie idee, sia all’interno, sia all’esterno del territorio italiano, conoscere l’Inglese è un elemento imprescindibile.
Il movimento No gender nelle scuole, che si va diffondendo in tutte le città e i paesi del Nostro stivale, comunicando  con i cittadini -Italiani di nascita o d’adozione- in realtà cerca di lanciare un messaggio opposto al linguaggio che utilizza!
Si esprime erroneamente in Inglese.
No gender letteralmente significa, infatti, nessun genere.
Mentre l’idea del movimento Italiano è proprio quella di continuare a marcare le differenze di genere tra maschi e femmine, così come concepite dalla società patriarcale, il messaggio stampato su migliaia di volantini e strillato nei family day Italiani, in Inglese, invece, esprime proprio il concetto contrario: “No al genere”. Ne saranno consapevoli? Pare proprio di no.  Addirittura, il movimento no gender ed altre associazioni, quali ProVita Onlus, AGe, GenitoriScuole Cattoliche (AGeSC), Movimento per la Vita e Giuristi per la Vita, hanno presentato, insieme, una vera e propria petizione, indirizzata al Ministro dell’Istruzione, al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio “perché i ragazzi non devono trovare nella scuola ideologie destabilizzanti come quella gender“, loro parole testuali. In realtà, il movimento Italiano dovrebbe definirsi yes to gender, piuttosto che no gender.

Le vere scuole no gender
Viaggiando per lavoro in Scandinavia, di recente, ho conosciuto le vere scuole no gender, o cosiddette gender free,  libere da condizionamenti dovuti al genere sessuale d’appartenenza.
A Stoccolma, in Svezia, la più nota è certamente Egalia, una scuola dell’infanzia -che ho avuto possibilità di visitare- dove bambine e bambini sono libere e liberi di giocare come vogliono, vestirsi da principesse o cavalieri, in rosa, celeste, lilla o con qualsiasi colore, senza che nessun adulto li influenzi. Ad Egalia, un bambino non si sentirà mai dire: “I maschietti non piangono!” Né una bimba che si arrampica sugli alberi verrà mai apostrofata con il classico: “Le femminucce devono stare composte! Non fare il maschiaccio!” I piccoli, oltre ad essere liberi dagli stereotipi di genere, sono incoraggiati al rispetto l’uno dell’altra e, per rivolgersi a loro, le maestre e i maestri utilizzano il nome di battesimo, oppure il pronome neutro hen –derivato dal Finlandese hän–  valido per lei e per lui -in Finlandia, infatti, non esistono il pronome maschile e femminile, ma esclusivamente il neutro-.
I libri a disposizione nella biblioteca scolastica sono stati selezionati per evitare i classici luoghi comuni, carichi di aspettative. Sarà più facile trovare, ad esempio, La Gabbianella e il Gatto di Sepulveda, ovvero la storia di un gatto che adotta una gabbianella, piuttosto che Cenerentola. All’interno dell’istituto sono anche accolti, indistintamente, bambini provenienti da famiglie tradizionali oppure omogenitoriali. Chiaramente, il metodo ha destato consensi ma anche pareri discordi, all’interno del mondo accademico. Le testimonianze dei genitori da noi raccolte sono favorevoli. Johan, insegnante di ginnastica e papà di una bimba che frequenta la scuola, ci ha raccontato: “Mia figlia ha 3 anni e mezzo e sa di essere una femmina, ma ci troviamo benissimo in questo asilo, ci piace il metodo! La bambina è libera di giocare come vuole e le viene insegnato il concetto d’ inclusione, il rispetto per ogni essere umano. La nostra è la classica famiglia eterosessuale, con mamma, papà e figli, ma non ci dispiace che la bimba impari già da ora che esistono anche tipi diversi di famiglie, con due mamme e due papà e che lo impari nel modo più naturale possibile, a scuola, da maestre che sanno avere il giusto approccio con bambine e bambini.” (M.I.)
http://www.ildiretto.com/2016/10/14/no-gender-nelle-scuole-dal-movimento-italiano-alle-vere-scuole-no-gender/

mercoledì 19 ottobre 2016

Argentina, le donne in sciopero e in nero per Lucia e contro i femminicidi di Omero Ciai

La popolazione femminile si mobilita oggi per una giornata di protesta perché dietro il caso della ragazza rapita, violentata e uccisa da tre uomini c'è una piaga spaventosa: quasi mille giovani ogni anno spariscono, sequestrate e costrette a lavorare nei postriboli e nel solo 2015 ci sono stati 235 femminicidi. Le associazioni: "Stato e polizia inerti e complici"

Lucia Pérez, torturata e uccisa da tre uomini, aveva 16 anni
"Sciopero delle donne" in ogni luogo di lavoro dell'Argentina per ricordare Lucia Pérez e condannare il femminicidio e la violenza di genere. L'iniziativa dell'associazione argentina "Ni una menos" (Nemmeno una di meno) prevede l'astensione dal lavoro di un'ora e un corteo a Buenos Aires che partirà dall'obelisco, lungo l'avenida 9 de julio, e raggiungerà la Casa Rosada, sede della presidenza, nella Plaza de Mayo.

Sono giorni di indignazione, commozione e sdegno non solo in Argentina, ma anche in altri Paesi dell'America Latina, per l'uccisione di Lucia Pérez, una ragazza di 16 anni, sequestrata, drogata, stuprata, torturata e assassinata a Mar del Plata lo scorso 8 ottobre. Dopo il sequestro, Lucia è stata drogata e dopo averla violentata per ore, i suoi assassini hanno lavato il corpo e l'hanno vestita per mascherare lo stupro. Ormai morente l'hanno portata in un ospedale sostenendo con i medici che aveva perso conoscenza per una overdose di droga.

Soltanto dopo l'autopsia i medici si sono resi conto di quello che era veramente successo. Per l'omicidio sono stati arrestati tre uomini ma l'ondata di commozione ha riacceso l'attenzione su una piaga nazionale troppo spesso rimossa. In Argentina, sono dati ufficiali, scompaiono quasi mille ragazze ogni anno - tre al giorno - vittime del racket criminale legato ai postriboli dove vengono costrette a prostituirsi.
Nel 2015 ci sono stati 235 casi di femminicidio, uno ogni 36 ore.
Il 18% delle vittime aveva meno di 18 anni, il 43% tra i 21 e i quarant'anni.

Secondo i dati raccolti nel "registro nazionale del femminicidio" voluto dalla Corte Suprema, ogni dieci donne uccise almeno due avevano già denunciato il loro aggressore senza ricevere mai la protezione necessaria. Lo sciopero è stato convocato insieme a "Ni una menos" da un'altra cinquantina di organizzazioni femministe che hanno chiesto a tutte le donne di vestirsi di nero per un giorno. Nel manifesto diffuso per la convocazione dello sciopero le promotrici ricordano che "questo nuovo e brutale femminicidio pone in evidenza la violenza alla quale siamo tutte esposte. Scioperiamo per tutte le donne che non ci sono più, per quelle assassinate e per quelle 'desaparecidas', contro la violenza e il terrorismo machista, contro l'impunità, contro la censura, l'inerzia e la complicità dello Stato e della polizia".
http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/18/news/argentina_caso_lucia_pe_rez_e_femminicidi_sciopero_delle_donne-150067151/?ref=HREC1-10

martedì 18 ottobre 2016

Una mamma single su Facebook: "Ho insegnato a mio figlio le faccende, perché capisca che non sono 'cose da donna'" Di Silvia Renda

Nikkole Paulun è una mamma single statunitense di 23 anni. Nel crescere il figlio Lyle, di 6, sta cercando di fare del suo meglio, alle volte interpretando compiti di solito attribuiti alla figura paterna e soprattutto insegnando al bimbo come svolgere le faccende domestiche, per farne un giorno un uomo autosufficiente e ricordargli che non sono solo "cose da donne".

Su Facebook ha postato le foto di Lyle impegnato a cucinare, mettere la lavatrice e caricare la lavastoviglie. Un post che ha ottenuto oltre 136mila like.

Nella didascalia una lunga lista di "perché" spiega i motivi di quella scelta: "Perché il lavoro domestico non è solo per donne. Perché un giorno potrebbe essere un uomo single, vivere da solo, in grado di fare il bucato e non mangiare fuori ogni sera. Perché un giorno potrebbe voler impressionare qualcuno con un pasto cucinato con le sue mani. Perché un giorno, quando avrà figli e un coniuge, dovrà fare la sua parte. Perché insegnare a mio figlio come fare queste cose e renderlo un membro produttivo della società, sia in casa che fuori, deve partire da me. Perché è bene lasciare che il vostro bambino faccia il bambino, ma anche insegnargli lezioni di vita durante la crescita".

A chi ritiene che determinati compiti spettino solo alle donne Nikkole risponde a tono, sfatando il mito che vuole la virilità dei maschi intaccata da scopa, pentole e detersivi.

"Mio figlio non sarà mai troppo “virile” per cucinare o svolgere le faccende. Sarà il tipo di uomo che mentre sta cambiando una gomma rientra in casa per controllare il brasato. Che può raccogliere i panni, oltre falciare il prato. Ricordate genitori: un uomo convinto di non dover cucinare o fare le faccende una volta era un ragazzo al quale non è stato insegnato il meglio".
http://www.huffingtonpost.it/2016/10/17/mamma-figlio-faccende_n_12519900.html

giovedì 13 ottobre 2016

Il giorno in cui ho smesso di dire "Sbrigati!" Rachel Macy Stafford

Nella nostra vita distratta e indaffarata, ogni minuto conta. Ti senti costantemente come se dovessi spuntare una voce sulla tua lista delle cose da fare, fissare uno schermo, correre verso la destinazione successiva. E non importa in quanti modi tu divida il tuo tempo e la tua attenzione, non contano tutti i compiti che cerchi di portare a termine contemporaneamente: non c'è mai abbastanza tempo in una giornata per tenere il passo.

Questa è stata la mia vita per due frenetici anni. I miei pensieri e le mie azioni erano controllati dalle notifiche elettroniche, dagli squilli del telefono, dall'agenda strapiena. E nonostante il mio "sergente" interiore si fosse prefissato l'obiettivo di arrivare puntuale per ogni attività prevista dalla mia impegnativa tabella di marcia, io non ci riuscivo mai.

Vedete, sei anni fa sono stata benedetta dall'arrivo di una bambina rilassata, spensierata, del tipo "guarda mamma che bei fiori, vuoi annusarli?"

Quando io fremevo per uscire di casa, lei si prendeva tutto il tempo necessario per scegliere una borsetta ed una coroncina scintillante.

Quando dovevo essere da qualche parte "cinque minuti fa", lei si ostinava ad assicurare al sedile i suoi pupazzi di peluche, allacciando loro la cintura di sicurezza. Se dovevamo pranzare alla svelta da Subway, lei si fermava a parlare con la donna anziana accanto a noi che somigliava a sua nonna.
Se avevo, per caso, trenta minuti da dedicare ad una corsetta, lei insisteva affinché ci fermassimo ad accarezzare ogni cane incrociato per strada.

Quando il primo appuntamento sulla mia agenda era fissato per le sei del mattino, lei si prendeva tutto il tempo necessario per sbattere le sue uova il più dolcemente possibile.

La mia bambina era un dono per la mia personalità di tipo A, ma io non riuscivo a capirlo. Non riuscivo a rendermene conto: quando hai una vita così frenetica la tua visuale è limitata, riesci solo a guardare avanti, al prossimo appuntamento sull'agenda. E tutto quello che non può essere spuntato dalla lista è una mera perdita di tempo.

Quando mia figlia mi faceva deviare dal programma stabilito, pensavo tra me e me: "Non abbiamo tempo per questo". Di conseguenza, l'espressione che usavo di più con il piccolo amore della mia vita era: "Sbrigati!".

Le mie frasi iniziavano in questo modo
Sbrigati, o faremo tardi.
E finivano anche così.
"Ci perderemo tutto se non ti sbrighi".
Le mie giornate partivano con questa parola.
Sbrigati, finisci la colazione.
Sbrigati, vestiti in fretta.
Le mie giornate terminavano con questa parola.
Sbrigati, lavati i denti.
Sbrigati, vai a letto.

Anche se l'espressione "sbrigati" non sortiva l'effetto sperato, quello di aumentare la velocità d'esecuzione dei vari compiti, io mi ostinavo ad usarla. Forse anche più spesso delle parole "Ti voglio bene".

La verità fa male, ma la verità guarisce... e mi avvicina al tipo di madre che voglio essere.
Poi, un giorno, tutto è cambiato. Eravamo appena passate a prendere mia figlia maggiore all'asilo e ci apprestavamo a scendere dall'auto. Ritendendo che la sorellina non andasse abbastanza veloce, mia figlia le disse: "Sei così lenta". Quando incrociò le braccia e lasciò andare un sospiro spazientito, rividi me stessa: quell'immagine mi spezzò il cuore.

Ero una "bulla": facevo pressioni e mettevo fretta ad una bimba che non desiderava altro che godersi la vita. Avevo aperto gli occhi. Vedevo con chiarezza i danni che la mia esistenza frenetica stava causando alle mie figlie, oltre che a me stessa.

Con voce tremante, guardai la mia piccola negli occhi e dissi "Ti chiedo scusa per averti costretta a correre continuamente. Amo il fatto che tu prenda il tuo tempo, vorrei essere come te più spesso".
La mia dolorosa ammissione lasciò di stucco entrambe, ma il volto della più piccola era illunimato da un'espressione inconfondibile di conferma e accettazione.

"A partire da oggi, ti prometto che sarò più paziente" dissi abbracciando la mia bambina dai capelli ricci, raggiante di fronte a quell'inedita promessa materna. È stato abbastanza semplice bandire la parola "Sbrigati" dal mio vocabolario. La parte difficile è stata acquisire la pazienza promessa. Per aiutare entrambe, iniziai a concederle più tempo per prepararsi, quando dovevamo andare da qualche parte. E, anche allora, ci capitava di fare ancora tardi. In quei momenti, mi rassicuravo dicendomi che sarebbe durata solo per pochi anni, poi sarebbe cresciuta.

Quando io e mia figlia uscivamo per una passeggiata o andavamo a fare la spesa, le permettevo di stabilire il ritmo. E quando si fermava ad ammirare qualcosa, scacciavo dalla testa il pensiero dei miei impegni e la osservavo, semplicemente. Sul suo viso, vedevo espressioni che non avevo mai colto prima. Studiavo le fossette delle sue mani e il modo in cui i suoi occhi si socchiudevano quando sorrideva. Osservavo il modo in cui le persone reagivano quando lei si fermava a parlare con loro. Scoprivo il suo talento nel riconoscere insetti e fiori. Era un'osservatrice ed io ho imparato rapidamente che gli osservatori del mondo sono un dono raro e meraviglioso. In quel momento, mi sono resa conto che lei era un dono per la mia anima frenetica.

Sono passati tre anni dalla mia promessa: contemporaneamente ho iniziato il mio percorso verso l'abbandono delle distrazioni quotidiane, verso una maggiore concentrazione sulle cose importanti della vita. Seguire un ritmo più lento richiede ancora uno sforzo consapevole. Mia figlia è il promemoria di cui ho bisogno, mi ricorda che devo continuare a provarci. Ecco un piccolo esempio delle cose che dice o fa, ogni giorno, che me lo ricordano costantemente.

Durante le vacanze, ci siamo concesse una granita dopo aver fatto un giro in bici. Una volta acquistato quel rinfrescante spuntino, mia figlia si è seduta ad un tavolo da picnic ammirando felice la torre di ghiaccio che teneva tra le mani.

Improvvisamente, un'espressione preoccupata le ha attraversato il viso:
"Devo sbrigarmi, mamma?"
Avrei potuto piangere. Forse le cicatrici di una vita frenetica non spariscono mai complemente, pensavo tristemente.

Mentre mia figlia mi guardava, in attesa di ricevere una risposta, sapevo di avere una scelta da fare. Potevo starmene lì, addolorata, pensando a tutte le volte in cui le avevo messo fretta... oppure celebrare il fatto che, ormai, provo ad agire diversamente.

Ho scelto di vivere il presente.
"Non devi correre. Prenditi il tuo tempo" ho risposto dolcemente. Il suo faccino si è illuminato all'istante, le sue spalle si sono rilassate.
Ce ne siamo state lì, sedute fianco a fianco, a parlare delle cose di cui può parlare una bimba di sei anni che suona l'ukulele. Abbiamo anche goduto di alcuni momenti di silenzio, sorridendoci ed ammirando il paesaggio intorno a noi.

Pensavo che mia figlia avrebbe mangiato tutta la sua merenda ma, arrivata alla fine, ha conservato l'ultimo assaggio di ghiaccio e sciroppo dolce per me. "Ti ho lasciato l'ultimo morso, mamma" ha detto orgogliosa. Il ghiaccio tritato non sarà mai buono come quella volta: avevo appena concluso l'affare della mia vita. Ho concesso del tempo a mia figlia... e, in cambio, lei mi ha lasciato l'ultimo morso, ricordandomi che le cose hanno un sapore più dolce, che l'amore arriva più facilmente quando smetti di correre.

Che si tratti di...
Mangiare una granita.
Raccogliere fiori.
Allacciare le cinture.
Rompere un uovo.
Cercare conchiglie.
Osservare le coccinelle.
Fare una passeggiata.
Non dirò più "Non abbiamo tempo per questo". Perché significherebbe dire "Non abbiamo tempo per vivere".

Fare una pausa per godersi le gioie semplici della vita è l'unico modo per vivere davvero.
(Credetemi, ho imparato dalla massima esperta mondiale in "come godersi la vita pienamente").

Questo post è stato pubblicato su HuffPostFrancia ed è stato tradotto da Milena Sanfilippo
http://www.huffingtonpost.it/rachel-macy-stafford/il-giorno-in-cui-ho-smesso-di-dire-sbrigati_b_9991124.html

mercoledì 12 ottobre 2016

Bambine non spose, un evento a Roma e 5 progetti nel mondo ©UNICEF

11 ottobre 2016 – «Oggi nel mondo ci sono oltre 700 milioni di donne che si sono sposate in età minorile e che hanno dovuto rinunciare ad avere una crescita normale, fisica e mentale.

Ogni anno 15 milioni di matrimoni hanno per protagonista una minorenne; una volta su tre si tratta di una bambina con meno di 15 anni. Hanno dovuto spesso affrontare gravidanze precoci e violenze domestiche». A sottolinearlo è il Presidente dell’UNICEF Italia Giacomo Guerrera in occasione della Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze (International Day of the Girl Child), che ricorre oggi.

«L’UNICEF da molti anni si batte per prevenire il fenomeno delle spose bambine e promuove l'istruzione delle bambine come l’investimento più potente che una nazione possa fare, perché accelera la lotta contro la povertà, le malattie, la disuguaglianza e la discriminazione di genere» ribadisce Guerrera, che introdurrà oggi a Roma (h.18, presso il Centro per l’arte contemporanea La Nuova Pesa) l’evento “Bambine, non spose. Ne parliamo con..."

 Morire di matrimonio (precoce)
Almeno 70.000 ragazze tra i 15 e i 19 anni muoiono ogni anno a causa di complicazioni durante la gravidanza e il parto. Le bambine sotto i 15 anni hanno 5 volte più probabilità di morire durante la gravidanza e il parto rispetto alle donne tra i 20 e i 29 anni.
Un bambino che nasce da una madre minorenne ha il 60% delle probabilità in più di morire in età neonatale, rispetto a un bambino che nasce da una donna di età superiore a 19 anni. E anche quando sopravvive, sono molto più alte le possibilità che possa soffrire di denutrizione e di ritardi cognitivi o fisici.
Le bambine tra i 5 e i 14 anni dedicano il 40% in più di tempo (in totale, 160 milioni di ore al giorno) in lavori domestici non pagati e nella raccolta di acqua e legna, rispetto ai coetanei maschi.
Le donne rappresentano metà della popolazione mondiale, ma costituiscono il 70% dei poveri. Si stima che un aumento del 10% di ragazze che frequentano la scuola, farebbe aumentare il PIL del 3%.
Appena una ragazza ogni 3 maschi frequenta la scuola secondaria. Ogni anno aggiuntivo di scuola secondaria aumenta la retribuzione futura di una donna del 15-25%.


Un evento a Roma

In occasione della Giornata Mondiale delle Bambine e delle Ragazze (11 ottobre), l’UNICEF Italia organizza a Roma, presso “La Nuova Pesa – centro per l’arte contemporanea” l’incontro “Bambine, non spose. Ne parliamo con…”

Interverranno: Sen. Emma Bonino (già Ministro degli Esteri e Commissario Europeo), Paolo Crepet (psichiatra, scrittore e sociologo), Sen. Valeria Fedeli (Vice Presidente del Senato), Giacomo Guerrera (Presidente UNICEF), Simona Marchini (attrice e Ambasciatrice UNICEF), Susan Namondo Ngongi (Rappresentante UNICEF in Ghana). Modererà e interverrà Silvana Calaprice (Vice Presidente UNICEF, docente di Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Bari).

In quest’occasione l’UNICEF presenterà il suo programma “Bambine non spose”, dedicato in particolare a proteggere, istruire e valorizzare le bambine e ragazze di Giordania, Eritrea, Niger, Ghana e Bangladesh.

Diritti delle bambine, 5 progetti in cerca di adozione

GIORDANIA – Progetto "Protezione delle bambine in emergenza".
Costo: 139.000 euro l’anno
Beneficiari: 550 bambine/ragazze all’anno.

Oggi la Giordania ospita oltre 600.000 rifugiati siriani. Sono in costante aumento anche i matrimoni precoci, il lavoro minorile e il reclutamento nei gruppi armati di bambini e giovani. Secondo un rapporto UNICEF del 2014, tra i profughi siriani i matrimoni precoci sono aumentati dal 13% nel 2011 al 25% nel 2013. In tutto il Paese, sia nei campi profughi sia nelle comunità di accoglienza, l’UNICEF allestisce centri multi-attività dove i bambini vulnerabili e le loro famiglie possono trovare accesso a servizi educativi, di assistenza psicosociale e di protezione.

ERITREA – Progetto "Stop alle mutilazioni genitali femminili"
Costo: 130.000 euro
Beneficiari: 22.500 persone in 30 villaggi.

L'Eritrea è uno dei paesi dell'Africa subsahariana dove le mutilazioni genitali femminili sono più ampiamente praticate. Per contribuire ad abbandonare questa ed altre pratiche nocive (tra le quali si annoverano anche i matrimoni precoci), l’UNICEF ha in programma di raggiungere 800 comunità. Le azioni previste includono: prese di posizione pubbliche, dichiarazioni e altre forme di pronunciamento pubblico. Campagne di sensibilizzazione e comunicazione nelle comunità. Rafforzamento delle competenze degli operatori incaricati di svelare e reprimere la pratica (forze di polizia, giudici).

NIGER – Progetto "Una scuola amica delle bambine"
Costo: 84.000 euro per ciascuna "scuola amica"
Beneficiari: 180 bambine all’anno.

Il Niger è attualmente considerato il Paese più povero al mondo. Tra le cause e gli effetti principali di questo primato negativo vi sono l’86% di analfabetismo diffuso tra le donne (rispetto al 58% tra gli uomini) e i matrimoni precoci cui seguono immediatamente gravidanze precoci. Circa un quarto delle ragazze tra i 15 e i 19 anni si è sposata prima di aver compiuto 15 anni. Per promuovere la parità di genere e ridurre il numero dei matrimoni infantili in Niger, l’UNICEF in collaborazione con le autorità competenti locali ha deciso di partire dall’istruzione, attraverso: la costruzione di “Scuole amiche delle bambine” che garantiscano standard minimi di qualità e parità tra maschi e femmine; la formazione degli insegnanti con enfasi sul miglioramento della qualità dell'insegnamento e la parità di merito; la fornitura di mobilie kit scolastici.

BANGLADESH – Progetto "Giovani imprenditrici"
Costo: 100.000 euro l’anno
Beneficiari: 500 ragazze all’anno.

Il 43% della popolazione bengalese sopravvive con meno di un dollaro al giorno. Dei suoi 160 milioni di abitanti, 56 milioni sono bambini e ragazzi. I matrimoni precoci sono un fenomeno molto comune: una bambina su tre si sposa prima dei 15 anni – di queste il 2% prima degli 11 anni – e il 60% diventa madre ancora minorenne. Da anni l’UNICEF promuove il programma conditional cash transfer erogando finanziamenti per le ragazze adolescenti tra i 15 e i 18 anni di 15.000 taka (circa 185 euro) per avviare o consolidare piccole attività imprenditoriali. Le ragazze, inoltre, entrano a far parte di club di adolescenti dove nel confronto con le loro pari si rendono protagoniste nelle decisioni che riguardano la loro vita, diventando altresì modelli per le loro comunità e per gli altri adolescenti.

GHANA – Progetto "Ridurre la mortalità materno-infantile"
Costo: 200.000 euro l’anno
Beneficiari: 58.364 donne e 7.295 bambini.

Nonostante alcuni progressi, il Paese non è stato in grado di ridurre significativamente la mortalità materna (380 su 100.000) e dei bambini sotto i 5 anni che rimane alta attestandosi a 60 su 1.000. Nel caso di partorienti in età al di sotto dei 18 anni, il tasso di mortalità materna è tre volte superiore rispetto alle gravidanze delle donne maggiorenni. Attualmente in Ghana il 27% delle donne si sono sposate prima del raggiungimento della maggiore età. L’UNICEF sta promuovendo una maggiore accessibilità e fruizione dei servizi materno infantili nelle quattro regioni più povere del Paese (Northern, Upper East, Upper West e Central Region). Si punta a rafforzare i servizi di cura e prevenzione pre e post natale a favore di 1,1 milioni di donne in età fertile e 1,8 milioni di bambini di età inferiore ai 5 anni.
http://www.unicef.it/doc/7065/bambine-non-spose-un-convegno-e-5-progetti.htm


martedì 11 ottobre 2016

Giornata Internazionale delle Bambine: i diritti negati alle più piccole di Benedetta Verrini


Violate, sfruttate, costrette al matrimonio in tenerissima età. Sono ancora troppe nel mondo le bambine vittime di soprusi, costrette a fuggire da zone in guerra, esposte a un destino di incertezza. Lo denuncia il Rapporto di Terre des Hommes. Rilanciando la campagna Indifesa

Un bollettino di guerra. La Giornata Internazionale delle Bambine, che si celebra l’11 ottobre di ogni anno, ricorda a tutti quanta strada ci sia ancora da fare per garantire al genere femminile i diritti fondamentali, dalla sopravvivenza all’integrità del corpo, dalla salute all’istruzione fino all’uguaglianza. Le ferite del corpo, per cominciare: sui 200 milioni di donne nel mondo che hanno subito mutilazioni genitali, 44 milioni sono bambine al di sotto dei 14 anni. Ogni anno 16 milioni di baby spose vengono costrette a sposare uomini molto più vecchi, con il rischio di gravidanze assolutamente premature, oltre ad abusi e sfruttamento.

Altrettanto insopportabile è il destino delle minori profughe, arrivate anche in Europa lungo la “Rotta Balcanica”: degli 850 mila censiti nell’ultimo anno, il 16 per cento sono donne e il 24 per cento minorenni, migranti vulnerabili che hanno affrontato un viaggio di estorsioni, stupri e prostituzioni forzate, in balia dei trafficanti.

Secondo il rapporto Every Last Girl: free to live, free to learn, free from harm, lanciato oggi da Save the Children, il Niger è il posto peggiore al mondo dove essere una bambina o una ragazza, la Svezia il migliore. Altri due Paesi scandinavi, Finlandia e Norvegia, occupano il secondo e il terzo posto in classifica, mentre l’Italia si piazza in decima posizione, davanti a Spagna e Germania. Il dossier contiene la graduatoria dei Paesi dove bambine e ragazze hanno maggiori opportunità di crescita e di sviluppo, basata su 5 parametri: matrimoni precoci, numero di bambini per madri adolescenti, mortalità materna, completamento della scuola secondaria di primo grado e numero di donne in Parlamento. L’Italia ha gli stessi risultati della Svezia per quanto riguarda il numero di figli per madri adolescenti (6 su 1.000) e tasso di mortalità materna (4 su 100.000 nascite), mentre ha una percentuale minore di donne che siedono in Parlamento (31% contro 44%).
La complessità della situazione è ampiamente illustrata anche nel Rapporto sulla condizione delle bambine e delle ragazze che Terre des Hommes  pubblica in occasione della Campagna “Indifesa”, nata per garantire alle piccole a rischio un’istruzione adeguata e una vita in salute libera da qualsiasi forma di oppressione e violenza. «Parliamo di bambine e ragazze ancora troppo spesso vittime violenze, abusi e discriminazione. La Campagna Indifesa quest’anno punta i riflettori su quelle che vivono in zone teatro di guerra e nelle emergenze migratorie che ne conseguono, per proteggerle e tutelarne i diritti fondamentali alla salute, allo studio, alla libertà» spiega Donatella Vergari, segretario generale di Terre des Hommes. «Per questo siamo impegnati da anni per la loro protezione in Italia e nel mondo con progetti concreti per offrire assistenza e un futuro migliore».

E in Italia? Anche se le condizioni di vita sono differenti, non si può dire che le bambine e le ragazze possano crescere in completa sicurezza. La crescita dei reati contro i minori sembra inarrestabile: i bambini vittime di crimini hanno raggiunto nel 2014 la cifra record di 5.356 (il 60 pere cento femmine). Le vittime di pornografia minorile negli ultimi dieci anni sono cresciute di oltre il 500 per cento e nella stragrande maggioranza dei casi, le vittime erano bambine e ragazze. I casi di violenza sessuale, compreso quella aggravata, denunciati nel 2014 sono stati 962, per l’85 per cento femmine.
Ma c’è anche un fronte culturale da presidiare. Nella nuova edizione del Dossier Indifesa fanno riflettere i dati dell’Osservatorio sulla violenza e gli stereotipi di genere avviato da Terre des Hommes con ScuolaZoo, che ha coinvolto duemila ragazzi e ragazze tra i 14 e i 19 anni. Oltre il 40 per cento dei giovani maschi, per esempio, ritiene che la violenza domestica si consumi “all’interno di famiglie molto povere” e più del 30 per cento ritiene che nessuno dovrebbe intromettersi nelle questioni riguardanti la coppia. Ancora sugli stereotipi: quasi il 28 per cento dei ragazzi pensa che occuparsi della casa e della famiglia sia un compito esclusivo delle donne e invece è compito degli uomini dirigere la famiglia (45,6 per cento). Riguardo all’uso delle immagini online, poi, solo il 47 per cento delle ragazze ammette che ciò che succede su internet è reale e non virtuale. La diffusione di immagini personali a sfondo sessuale equivale a una violenza per quasi l’85 per cento delle femmine, contro l’80 per cento dei maschi.
Quest’anno Terre des Hommes chiede al popolo dei social network di testimoniare la condivisione dei valori della Campagna aderendo alla sua #Orange Revolution, la “Rivoluzione Arancione”. Come? Basta postare sul proprio profilo Facebook, Twitter o Instagram un oggetto, uno slogan, una foto o un selfie dal tocco arancione usando gli hashtag #OrangeRevolution #indifesa. Perché l’arancione? «Perché oltre ad essere stato il colore che ha caratterizzato varie rivoluzioni, vuole essere un segnale di rottura degli stereotipi di genere, che impongono il rosa come il colore delle bambine» conclude Vergari.
http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2016/10/10/diritti-delle-bambine/

Oggi è la Giornata Internazionale dei diritti delle Bambine Nel dossier di Terres des hommes i numeri di violenze, abusi e discriminazioni nel mondo di Nadia Ferrigo

Milioni di bambine e ragazze nel mondo sono vittime di violenze, abusi e discriminazioni.
L’11 ottobre è la Giornata Mondiale delle bambine e delle ragazze, proclamata dall’Onu, e Terres des hommes lancia la campagna #Indifesa per accendere ancora una volta i riflettori sui diritti negati. La onlus internazionale che segue diversi progetti di sostegno ai bambini, ha pubblicato il dossier
«La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo»:
 44 milioni di bambine al di sotto dei 14 anni hanno subito mutilazioni genitali. E si stima che 86 milioni di ragazze nate tra il 2010 e il 2015 rischiano di subire una mutilazione genitale entro il 2030. Il Paese dove sono più diffuse è la Somalia (98%), seguono Guinea (96%), Gibuti (93%), Egitto (91%), Eritrea e Mali (89%), Sierra Leone e Sudan (88% ).
Ogni anno sono 16 milioni le nuove baby spose, molte delle quali diventano mamme quando ancora il loro corpo non può sopportarlo: le gravidanze precoci causano ogni anno 70.000 morti fra le ragazze tra 15 e 19 anni.

Accesso all’istruzione
Negli ultimi quindici anni sono stati fatti grandi sforzi per dare a tutti i bambini la possibilità di completare un ciclo completo di istruzione primaria. I risultati raggiunti sono incoraggianti: tra il 2000 e il 2011 il numero di bambini che non potevano andare a scuola si è quasi dimezzato, passando da 102 milioni a 57 milioni.
Le bambine rappresentano più della metà del totale dei bambini che non possono andare a scuola: nei Paesi arabi, ad esempio, le bambine rappresentano il 60% di tutta la popolazione infantile «out of school», un dato che è rimasto invariato dal 2000 a oggi.
 Ci sono elementi solo in apparenza banali che possono incidere sulla frequenza scolastica delle ragazze: ad esempio la presenza dei bagni nella scuola. Una ricerca dell’Unesco calcola che nelle regioni rurali africane una ragazza su dieci resta a casa dai 4 ai 5 giorni durante il ciclo a causa della mancanza di assorbenti e di servizi igienici adeguati. L’83% delle ragazze del Burkina Faso e il 77% delle studentesse in Niger, ad esempio, non hanno bagni in cui cambiarsi. Nel corso di un intero anno scolastico una ragazza può arrivare a perdere dai 36 ai 45 giorni di lezione.

Lavoro minorile e faccende domestiche
I bambini lavoratori sono 168 milioni, di cui più della metà (circa 85 milioni) sono impegnati in attività pericolose tra cui sfruttamento sessuale, schiavitù.
Bambine e ragazze coinvolte in attività pericolose sono 30 milioni secondo le stime dell’Ilo, mentre i coetanei maschi sono circa 55 milioni. Nella fascia d’età che va dai 5 agli 11 anni, però, le bambine rappresentano il 58% del totale dei minori coinvolti in lavori pericolosi (2,8 milioni in più rispetto ai maschi). Un’altra forma di lavoro in cui la manodopera è formata da bambine e ragazzine è quello agricolo. L’evoluzione delle tecniche di coltivazione non sempre ha portato a dei miglioramenti in questo senso, anzi. Nel settore del cotone, dove gli ibridi sviluppati da molte multinazionali hanno bisogno del lavoro manuale d’impollinazione, questo viene eseguito dalle rapide e agili manine delle bambine. Un recente rapporto ha denunciato lo sfruttamento di almeno 200.000 bambini al di sotto dei 14 anni - tre quarti dei quali femmine - in India, soprattutto negli stati del Andhra Pradesh, Telangana, Gujarat, Tamil Nadu, Karnataka e Rajashtan.

Anche l’Unicef dedica la sua attenzione ai diritti delle bambine; in particolare ha stilato un rapporto sul lavoro minorile da cui risulta che bambine tra i 5 e i 14 anni sono occupate il 40% in più del tempo nei lavori domestici non pagati e nella raccolta di acqua e legna, rispetto ai coetanei maschi. Complessivamente, le bambine dedicano a questi impegni l’equivalente di 160 milioni di ore al giorno.
Il rapporto mostra che le ragazze tra i 10 e i 14 anni in Asia Meridionale, Medio Oriente e Nord Africa sono occupate circa il doppio del tempo in faccende domestiche rispetto ai ragazzi. I paesi in cui le ragazze tra i 10 e i 14 anni subiscono in maniera sproporzionata il peso delle faccende domestiche rispetto ai ragazzi sono: Burkina Faso, Yemen e Somalia. Le ragazze tra i 10 e i 14 anni in Somalia trascorrono la maggior parte del tempo a fare lavori domestici, circa 26 ore alla settimana. Per faccende domestiche si intende cucinare, pulire, prendersi cura dei familiari e recuperare acqua e legna da ardere. Il rapporto mostra che il lavoro delle bambine è meno visibile e spesso sottovalutato. Troppo spesso vengono imposte alle bambine responsabilità come se fossero già adulte: ad esempio il prendersi cura dei membri della famiglia, compresi altri bambini.

Tratta e migrazioni
Difficile, se non impossibile, avere dati completi ed esaustivi sul numero delle vittime di tratta. L’Unodc (Agenzia delle Nazioni Unite per il contrasto del crimine organizzato) stima che il fenomeno della tratta riguardi 2,4 milioni di persone (dato aggiornato al 2012), di cui l’80% sono sfruttate nella prostituzione. Il dato più allarmante, evidenziato da quest’agenzia nell’ultimo «Global Report on Human Trafficking», è l’aumento del numero di bambini coinvolti nel fenomeno della tratta: «A livello globale, oggi i bambini rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di tratta individuate - si legge nel report -. Due su tre sono di sesso femminile».
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Alcuni diritti riservati.
http://www.lastampa.it/2016/10/11/italia/cronache/oggi-la-giornata-internazionale-dei-diritti-delle-bambine-mnnPISW8VHW9VbpWMQCNON/pagina.html





lunedì 10 ottobre 2016

Cosa succede quando le vittime di abusi sono gli uomini Igiaba Scego

Nell’ottobre del 2011 una ragazza di 19 anni, Grace Brown, ha un’intuizione. Grace studia fotografia e le piace uscire con gli amici. È giovane, allegra, disinvolta e ha tutta la vita davanti a sé. Una sera, un sabato sera come un altro, un’amica le racconta qualcosa a cui non era preparata. Le racconta di un’aggressione sessuale che ha subìto. Grace Brown ascolta con attenzione il racconto dell’amica.

Purtroppo non è la prima volta che le capita di ascoltare la storia di un’aggressione. Ma ogni volta si stupisce. Non si sente preparata. Ogni volta è totalmente spaesata nell’udire un racconto così terribile e intimo insieme. Grace Brown si rende subito conto ascoltando l’amica che la sua brutta esperienza non è un caso isolato e che succede ogni giorno a tante, troppe persone. La sera finisce, il sabato diventa già domenica, e Grace va a dormire. Ma la storia della sua amica non l’abbandona. Succede a troppe persone, troppe persone, troppe…

Ed ecco che quel pensiero quasi ossessivo di Grace, condito da rabbia e voglia di cambiare il mondo, partorisce Project unbreakable, ovvero come – attraverso la fotografia – dare spazio e voce a chi ha subìto aggressioni sessuali, violenza domestica, abusi di vario genere.

All’inizio per Grace non è facile convincere le persone a esporsi. Ma poi con il tempo tutto è diventato molto naturale. Donne e uomini hanno cominciato ad aprirsi con lei: oltre a metterci la faccia, tutti e tutte hanno aggiunto una frase legata a quel momento di violazione profonda. E la frase, riportata su cartelloni neutri con pennarelli neri o blu, spesso era quella detta da chi aveva commesso un abuso sul loro corpo. Le frasi del carnefice.

Da Project unbreakable: “Nessuno ti amerà, nessuno si occuperà di te, ora sei guasto” – Il mio aggressore. - Tumblr Da Project unbreakable: “Nessuno ti amerà, nessuno si occuperà di te, ora sei guasto” – Il mio aggressore. (Tumblr)
Le foto sono molto potenti nella loro semplicità. La persona guarda senza paura dritto dentro l’obiettivo, rivendica il suo essere persona, la sua umanità ferita, umiliata, vilipesa, ma non vinta o almeno non del tutto sconfitta. C’è forza in queste giovani donne e in questi giovani uomini. Forza nella loro postura, nel loro modo di sfidare l’ipocrisia latente che un tempo avrebbe costretto persone in questa situazione al silenzio.

Loro parlano. I loro corpi parlano. Non c’è solo indignazione o rabbia. C’è voglia di andare oltre, oltre se stessi e il mondo che non li sta ancora capendo.

Le violenze su uomini e ragazzi sono sempre esistite. Solo che non ne parliamo quasi mai. La sola idea ci disturba, ci disorienta

Personalmente sono stata colpita dalle foto dei ragazzi. Soprattutto di due di loro, di Montclair, nel New Jersey. Con candore e un atteggiamento di sfida affrontano non solo la violenza, ma anche il tabù che non vuole vedere dei “maschi” vittime di violenza sessuale.

“Non volevo ferirti”, c’è scritto in un cartello, “Sei così bello”, dice l’altro cartello e il ragazzo aggiunge in basso, con una scritta più piccola (e chissà quanto gli sia costata quell’aggiunta) “dopo averlo fatto”. Frasi inquietanti. Frasi che fanno male. Frasi apparentemente normali, dette da chi stava umiliando i loro corpi. Eccoli i due giovani del New Jersey che con coraggio si offrono all’obiettivo amico di Grace. Due giovani uomini si denudano davanti a noi di un ruolo, quello dell’uomo forte che non si spezza mai, che la società gli ha cucito addosso. Due ragazzi del New Jersey rompono un silenzio durato secoli.

Le violenze sugli uomini e sui ragazzi sono sempre esistite purtroppo. Solo che non ne parliamo quasi mai. La sola idea ci disturba, ci disorienta. C’è un velo spesso che copre tutto questo. Ed è così che chi è vittima non solo non trova giustizia, ma non ha la possibilità di fare un percorso che lo aiuti a elaborare il dramma che ha vissuto.

Chi era il padre di Edipo?
La prima volta che mi sono resa conto che anche gli uomini subivano violenza ero nella primissima adolescenza e mi trovavo in una biblioteca comunale. Avevo visto dei film sul carcere, ma non li avevo messi davvero a fuoco. Poi c’è stata la biblioteca e un vecchio libro sbrindellato dalla copertina rigida, una copertina marrone mi pare. Il libro era un compendio sugli dèi, gli eroi, i comprimari della mitologia greca. Io adoravo soprattutto la storia di Giasone e il vello d’oro. Ma devo dire che le avventure di Minerva e Diana non erano affatto male.

Erano strani dèi quelli dell’Olimpo greco. Irosi, egoisti, tutti presi dalle loro pulsioni primarie. Alcuni poi erano proprio antipatici, a dir la verità. La storia che più mi inquietava era quella di Edipo. Anche chi non conosce a fondo quei miti conosce Edipo, forse per la famosa sindrome legata al suo nome. Il suo, di fatto, era un destino infame: uccidere il padre e giacere con la madre. Difficile dimenticarlo.

Ma del padre ucciso, che si era attirato l’ira degli dèi, sapevo/sappiamo qualcosa?

È in quel libro marrone che scoprii, con sgomento, che Laio, ovvero il padre del futuro Edipo, trasgredendo a ogni regola di ospitalità, amicizia e onore, rapisce e abusa del giovane figlio del suo ospite Pelope. Crisippo, questo il nome del ragazzo, in alcune versioni è un adolescente, in altre (quella di Euripide per l’esattezza) un bambino. Sta di fatto che questa storia terribile fu lo svelamento di un’autentico buco nero di cui non sospettavo l’esistenza.

Succede anche a loro, pensai. E questo pensiero mi addolorò.

Con il tempo ho imparato che intorno alla violenza sugli uomini circolano numerosi miti, e molte associazioni che tutelano le vittime fanno fatica a sfatarli. Nella vulgata corrente molti ritengono che gli uomini non possono essere vittime di abuso e se lo sono devono essere gay o trans. Sbagliato. Gli uomini, a prescindere dal loro orientamento sessuale, possono essere vittime di abuso o violenza. L’uomo può diventare vittima a qualsiasi età, può avere qualsiasi aspetto, essere di qualsiasi colore, può essere etereo, gay, transgender, avere dimensioni corporee di qualsiasi tipo.

Da Project unbreakable: “Sei gay. Questo dovrebbe piacerti “. Uno dei miei migliori amici, prima di picchiarmi con un cavo elettrico per farmi stare fermo. Io avevo 13 anni, lui 14. Una settimana prima gli avevo detto di essere gay. - Tumblr Da Project unbreakable: “Sei gay. Questo dovrebbe piacerti “. Uno dei miei migliori amici, prima di picchiarmi con un cavo elettrico per farmi stare fermo. Io avevo 13 anni, lui 14. Una settimana prima gli avevo detto di essere gay. (Tumblr)
È sbagliato pensare che l’uomo sia protetto dal solo fatto di essere uomo, non è detto che un uomo possa difendersi da un’aggressione. Inoltre, al pari delle donne, gli uomini possono essere manipolati psicologicamente durante la violenza. Possono avere un’erezione o una eiaculazione del tutto meccanica, a volte anche un orgasmo, ma questo non significa che lo abbiano voluto o peggio che abbiano cercato la loro tortura. Inoltre ci sono varie forme di abuso e gli uomini oltre a essere vittime di altri uomini sono anche vittime delle donne.

In quasi tutto il mondo sono in aumento le denunce. Anche perché ci sono state numerose campagne per rompere il silenzio su queste aggressioni. Basti pensare all’associazione Survivors Manchester che ha lottato per far includere gli uomini vittime di abusi come beneficiari dei fondi destinati dal governo britannico alla violenza di genere. La campagna Break the silence mette a disposizione degli utenti una guida prodotta e scritta da uomini che hanno avuto queste esperienze e che vogliono condividere non solo le loro storie di dolore, ma vogliono dare una guida pratica sugli aspetti legali e medici della situazione che hanno dovuto vivere. Nella guida vengono decostruite parole come colpa o vergogna, amore e violenza.

Le guerre sono bastarde
Anche il concetto di virilità è preso in esame. E si parla apertamente delle aggressioni domestiche, degli abusi in carcere, al college, in caserma. Una guida su un mondo che ci circonda e spesso non riesce a emergere. Anche le conseguenze degli abusi sono raccontate senza giudizio. Per esempio la depressione, l’abuso di alcol, l’uso di droghe sono definiti di fatto un modo di reagire a una situazione abnorme. Spesso sono anche aggressioni che non hanno un quadro giuridico molto chiaro. Ogni legislazione ha un suo modo di affrontare la materia. C’è ancora molta confusione sotto il cielo.

Purtroppo a questo quadro già abbastanza difficile, si aggiungono le guerre che stanno devastando il pianeta. È lì che la violenza diventa purtroppo anche un’arma di distruzione del nemico. Si uccide volutamente la virilità del nemico, lo si piega in tutto il suo essere, per non lasciarne intatta nemmeno una briciola. I primi casi conclamati di aggressioni e veri stupri risalgono alla guerra nell’ex Jugoslavia. Infatti è qui che per la prima volta sono denunciati numerosi casi di abusi. Gli uomini erano costretti a violentare un parente, un compagno di armi, un amico. Dovevano fare una fellatio ad altre vittime sotto gli occhi dei carnefici o direttamente ai carnefici. Dovevano subire l’inserimento di oggetti nell’ano o in altri orifizi. Sottostare a rapporti sessuali umilianti. Dovevano castrare altri commilitoni, o farsi castrare da loro sempre sotto gli occhi dei carnefici.

E non finisce qui purtroppo. Per spezzare l’altro si usano modi sempre più brutali e spersonalizzanti. Come hanno ben illustrato i report sempre attenti di Human rights watch è molto varia la casistica degli abusi in guerra. È successo negli anni novanta in Bosnia, in Serbia e nel piccolo Kosovo. Ma anche altri teatri di guerra come quello dell’infinito conflitto nella Repubblica Democratica del Congo ci hanno riservato purtroppo amare sorprese. Infatti il 22 per cento degli uomini in Rdc ha subìto violenza, questa la cifra esorbitante con cui ha dovuto fare i conti il giornalista Will Storr. Le sue scoperte poi sono confluite in un documentario per la Bbc dal titolo An unspeakable act e in un articolo per il Guardian dal titolo The rape of men: the darkest secret of war.

Capire che agli uomini era riservata la stessa umiliazione delle donne, fu una scoperta che meravigliò gli operatori del settore

Storr, nelle sue peregrinazioni che lo hanno portato dall’Rdc all’Uganda (dove molti ex soldati della guerra congolese si rifugiavano) è riuscito a scrostare un bel po’ di polvere da queste storie taciute. Molti uomini si vergognavano di quello che gli era successo. Non solo erano abusati nel corpo, ma anche rifiutati dalla loro comunità di origine a cui la notizia dello stupro veniva fatta arrivare. Nella Rdc gli strateghi o meglio i mostri della guerra hanno capito che la violenza sugli uomini era più efficace di un’arma convenzionale, perché di fatto uccideva l’armonia e il tessuto sociale di un villaggio. Gli uomini abusati erano considerati mezzi uomini, le loro donne, poi, acquisivano agli occhi della comunità meno valore e potevano non solo essere maltrattate, ma diventare oggetto di violenza loro stesse. Le famiglie spesso si spezzavano e questi uomini si trovavano spesso soli con il loro dolore. Quelli che non si suicidavano, cercavano la via dell’esilio.

Ed è qui che Storr racconta di alcune ong che si sono specializzate nella cura degli uomini, perché si sono rese conto prima di altre realtà che l’abuso verso il maschio nemico era la nuova arma di quella guerra sporca. Capire che agli uomini era riservata la stessa umiliazione delle donne, fu una scoperta che meravigliò parecchio gli operatori del settore. In particolare, riferisce Storr, il dottore Chris Dolan (direttore del Refugee law project, a Kampala) aveva organizzato insieme al suo staff un incontro per uomini sul tema della violenza ai loro danni. Si aspettavano una decina di persone al massimo e invece si presentarono all’appello più di 150 uomini.

Il bisogno era sentito, perché il problema era diventato sempre più reale. D’altronde le guerre sono bastarde. Niente di buono arriva da una guerra. E di certo la guerra dell’ex Jugoslavia o quella della Repubblica Democratica del Congo non sono state le prime dove queste immonde aggressioni sono avvenute. Basti pensare come nell’antichità le fonti greche parlavano della brutalità dei persiani nei loro confronti. E i romani nella rivolta dei batavi non furono altrettanto crudeli?

Pure la seconda guerra mondiale non ci ha risparmiato. Non abbiamo dati a disposizione, lo stigma e il silenzio erano forti all’epoca molto più di oggi, ma ogni tanto emergono dalle retrovie alcune notizie che lasciano davvero senza fiato. L’armata rossa e gli alleati non violentarono solo le donne tedesche, ma anche parecchi ragazzi e uomini adulti, sia tra i civili sia tra i militari. Ma tutto è stato coperto, nascosto, messo sotto silenzio.

La mortificazione continua
E come non pensare agli abusi che gli schiavi neri subivano da parte dei loro padroni bianchi? Come non ricordare quell’accenno veloce di Toni Morrison in Beloved (Amatissima) a Paul D e a quella fellatio che è costretto a fare prima di essere mandato nei campi? I resoconti degli schiavi sono pieni di riferimenti analoghi. Perché annichilire il corpo dell’altro di fatto significa dominarlo, distruggerlo, averlo in pugno. Toni Morrison, che di corpo ha sempre parlato nei suoi romanzi, non ha dimenticato di citare la mortificazione continua a cui erano costretti questi corpi resi subalterni dal potere bianco.

Corpi di donne, ma anche corpi di uomini. E lo stesso è successo durante il colonialismo occidentale. L’Africa e l’Asia di fatto sono state umiliate anche così. Come non ricordare che gli ascari eritrei e somali, le truppe indigene volute dall’Italia in Africa orientale, non erano solo sottomessi con le frustate, ma spesso anche con abusi o coercizioni di tipo sessuale? Gli ascari erano spesso giovanissimi e vulnerabili. Quindi l’occidente ha colonizzato, soggiogando i corpi, non solo attraverso il possesso del corpo femminile, ma anche attraverso il corpo maschile, come ci ricorda Robert Aldrich in Colonialism and homosexuality. Un segreto quello degli abusi nelle colonie che è ancora tutto da scrivere.

Nel suo libro Tra me e il mondo, lo scrittore Ta-Nehisi Coates, riferendosi agli afroamericani come lui, non a caso parla di paura di perdere il corpo. Questo corpo può essere ucciso, ma nella lettura capiamo che può anche essere umiliato, annullato, cancellato, depotenziato. Ci sono tanti modi per far morire il corpo. Ta-Nehisi Coates non parla di abusi sessuali e nello specifico non parla di abusi sul corpo maschile: il suo è un discorso che parla del corpo nero e il suo discorso può valere per quei corpi considerati subalterni dal potere. Ta-Nehisi Coates non a caso dice: “Non c’è niente di straordinariamente malvagio nei distruttori, neppure in quest’epoca. I distruttori sono dei meri esecutori che fanno rispettare i volubili desideri del nostro paese, e ne interpretano correttamente l’eredità culturale e i suoi lasciti”.

Ed ecco che gli stereotipi di genere, la poca solidarietà reciproca, la segretezza e il silenzio forzato spingono gli individui in terre di nessuno dove l’unico atterraggio possibile è un vuoto cosmico che fa paura. Donne e uomini sono divisi da barriere e la storia di entrambi i generi non ha mai aiutato a creare una vera alleanza. Ma se vogliamo cambiare direzione dobbiamo lavorare insieme per un mondo in cui il corpo esulti e non soffra. Il cammino è ancora molto lungo. Ma ci sono le tante Grace Brown, i tanti ragazzi del New Jersey disseminati per il mondo, le Grace Brown che si inventano percorsi di salvezza, i ragazzi del New Jersey che ci mettono la faccia e denunciano. Sono loro che ci aiuteranno a rompere il muro di silenzio. Sono loro che ci aiuteranno a costruire un futuro migliore.
http://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2016/09/30/violenza-uomini-vittime

mercoledì 5 ottobre 2016

Cara ti amo: la trasmissione di Radio Popolare contro la violenza di genere.

Cara ti amo

In Italia una donna su tre subisce qualche tipo di violenza nel corso della vita:
fisica, psicologica, economica, molestie, stalking.

I femminicidi sono in media uno ogni tre giorni.

Come si combatte la cultura sessista che è alla base della violenza?
Come si può intervenire?
Ne parliamo ascoltando testimonianze ed esperte/i, con il microfono sempre aperto per le vostre domande.

E ancora: perché non ha senso parlare di “omicidio passionale”?
Come il linguaggio veicola gli stereotipi?
Come dobbiamo parlare ai bambini e alle bambine per evitare che si sentano ingabbiati nei ruoli di genere o si sentano inadeguati?

Due rubriche ci aiutano a ragionare sulle parole che usiamo e sull’educazione al rispetto.

A cura di Chiara Ronzani, in collaborazione con la Casa delle donne maltrattate di Milano

In onda ogni martedì dalle 10.35 alle 11.30.
http://www.radiopopolare.it/trasmissione/cara-ti-amo/

martedì 4 ottobre 2016

Mediaset chiuda il Gf Vip: rischia di diventare uno spot per il femminicidio di Claudia Sarritzu

Come può un programma seguito soprattutto da giovani lanciare questi messaggi, non solo diseducativi, ma pericolosi che incitano la violenza sulle donne?

Dopo dieci edizioni di Grande Fratello, Mediaset ha pensato bene di rinnovare il programma ospitando nella casa non più persone sconosciute ma "Vip". Vip è un parolone. Diciamo persone famose solo a chi segue il gossip, ex glorie dello sport e dello spettacolo, personaggi dimenticati dalla Tv che con questa occasione hanno trovato un modo per far riparlare di loro. Visto quello che succede in quella casa viene quasi da pensare arridateci i non famosi.

Nella mia vita ho visto una sola edizione del Grande Fratello, la prima con la Bignardi conduttrice e Taricone protagonista assoluto nella casa. Avevo 14 anni e quel programma demenziale era la novità. Fine del mio rapporto con i reality. Non avrei mai immaginato di doverci scrivere dopo tanti anni un pezzo, ma la conversazione Bettarini -Russo mi costringe ad occuparmene, prima di tutto come donna che pretende sia rispettata, specialmente in tv in prima serata, la dignità umana di ciascuna di noi.

L'ex marito della Ventura (e lo chiamo così perché non è altro, visto che nel mondo calcistico non ha certo lasciato il segno) ha sbandierato le sue avventure extraconiugali ai tempi del matrimonio con la nota conduttrice. Ha fatto nomi e cognomi di ragazze che oggi potranno citarlo in causa per danni (e io tifo per loro) con descrizioni dettagliate delle loro prestazione sessuali. Una di queste donne è stata paragonata a un'anguilla.

E basterebbe fermarsi qui per chiudere il programma e licenziare gli autori, ma il degrado umano non ha fine.

Clemente Russo, ex pugile a cui i pugni devono aver fatto molto male, è riuscito a peggiorare un dialogo che aveva già rasentato l'osceno e il disgusto, dicendo a Bettarini -che ha raccontato il presunto tradimento dell'ex moglie Ventura,  "Io al posto tuo l'avrei lasciata lì morta".

Ora vorrei rivolgermi a Mediaset, agli autori di questo programma che mi fa rimpiangere le precedenti edizioni demenziali, a Ilary Blasi che è la conduttrice, e chiedere loro  a  cosa dovrebbero servire le campagne contro il femminicidio, le manifestazioni, le leggi, le iniziative di sensibilizzazione in rete e nelle piazze contro la violenza di genere,  se permettete che il vostro programma, seguito specialmente da giovani, risulti diventare uno spot per il femminicidio?

Ma vi rendete conto della gravità di quelle parole che finiranno sicuramente in un tribunale (visto che Simona Ventura ha ovviamente denunciato l'ex marito e Russo per aver leso la sua dignità e quella dei loro figli, pubblicamente senza alcun rispetto per la loro stessa famiglia), di come giustifichino l'uso della violenza su una donna se questa mette in discussione l'onore dell'uomo? Forse non vi rendete conto. Se  no non sarei qui a implorarvi di dare un segnale forte e prendere provvedimenti severi nei confronti di chiunque abbia responsabilità in questa messa in onda disgustosa e pericolosa.
http://www.globalist.it/culture/articolo/206271/mediaset-chiuda-il-gf-vip-rischia-di-diventare-uno-spot-per-il-femminicidio.html

lunedì 3 ottobre 2016

Le donne polacche scendono in piazza contro il divieto di abortire di Sara Iacomussi

Lunedì 3 ottobre è stato indetto lo sciopero generale
L’hanno chiamata «Protesta Nera», #CzarnyProtest: è la manifestazione delle donne polacche contro il possibile divieto di abortire che a breve potrebbe essere varato dal parlamento di Varsavia con la maggioranza assoluta del partito conservatore Diritto e giustizia (Pis) del leader Jaroslaw Kaczynski.
 Durante le proteste del 1° ottobre sono scese in piazza migliaia di persone vestite di nero. Sui cartelli gli slogan «Stop ai fanatici al potere», «Abbiamo bisogno di cure mediche, non di quelle del Vaticano». Non basta: per il 3 ottobre sono previsti lo sciopero generale in tutta la Polonia e molte manifestazioni di solidarietà in altre città europee. L’intenzione delle promotrici del «BlackMonday» è quella di uno sciopero totale, seguendo il modello delle donne islandesi, quando 41 anni fa, il 24 ottobre del 1975, determinarono la paralisi totale del Paese. Lunedì prossimo le donne polacche sono chiamate a lasciare il posto di lavoro o l’università, affideranno i bambini alla cura dei padri o dei nonni e abbandoneranno tutte le faccende domestiche, mentre, per manifestare anche nelle più piccole città del Paese, occuperanno gli spazi pubblici vestite di nero. Il tutto per dimostrare che le donne sono necessarie nella società e che si deve fare i conti con il loro parere.
La proposta di legge vuole equiparare l’embrione a una persona, criminalizzando la donna che abortisce fino all’accusa di omicidio: «Il Pis tiene poco conto delle opinioni dei cittadini. Questi fanatici devono essere fermati», ha detto Barbara Nowacka, tra gli organizzatori. La rabbia delle donne polacche è scattata alcuni giorni fa quando, nonostante le promesse del Pis di tener conto di ogni proposta popolare di legge, la maggioranza parlamentare ha respinto quella sottoposta dal gruppo di Nowacka sulla liberalizzazione dell’aborto - chiamata «Salva le donne - e nello stesso giorno ha deciso di continuare i lavori nelle commissioni parlamentari su un’altra proposta, del gruppo Ordo Iuris, che va verso il divieto pressoché totale dell’interruzione di gravidanza.
Attualmente la legge in vigore in Polonia, accolta nel 1993, permette l’aborto in caso di stupro (solo entro la 12/ma settimana), di malformazione del feto e quando la gravidanza mette in pericolo la vita della madre. Secondo i dati del sistema sanitario polacco, nel 2014 ci sono stati 1.812 aborti legali in Polonia, 500 in più circa dell’anno precedente. Secondo le organizzazioni femministe, però, sono tra le 100mila e le 200mila le donne polacche che ogni anno sono costrette a ricorrere all’aborto clandestino o ad andare all’estero. Se la nuova legge dovesse passare, la Polonia diventerebbe uno degli otto paesi al mondo in cui l’aborto è illegale, come El Salvador, Guatemala e il Vaticano.

Le proteste di solidarietà
Tra le dimostrazioni di solidarietà nei confronti delle donne polacche spicca quella dell’organizzazione olandese Women on Waves: «Se la legge passerà, siamo pronte a garantire la presenza continuativa di una nave- clinica per aborti davanti alla costa polacca» ha dichiarato la fondatrice Rebecca Gomperts.
 È possibile vedere sull’evento Facebook i luoghi in cui si terrà lo sciopero del 3 ottobre. Sono tanti i Paesi europei ad aver aderito alla causa delle donne polacche. La protesta è arrivata perfino oltreoceano e anche negli Stati Uniti si terranno degli eventi di solidarietà. In Italia l’appuntamento è a Bologna, dove ci sarà un flash mob: dress code obbligatorio, il nero.

Gli antiabortisti
Non manca chi, soprattutto sui social, si sta indignando per la manifestazione del 1° ottobre e per lo sciopero di lunedì. Su Twitter chi è contro l’aborto si sta lasciando andare con insulti verso le «lesbiche», le femministe, le donne che manifestano, descrivendole tutte come ubriacone e tossiche.
http://www.lastampa.it/2016/10/01/esteri/le-donne-polacche-scendono-in-piazza-contro-il-divieto-di-abortire-EIL2HLUkhWCkWOKc1QUGrM/pagina.html

sabato 1 ottobre 2016

Dieci ottime ragioni per non diventare madri di Benedetta Pintus

Come si sentono e cosa provano le donne senza figli? In pochi finora si erano posti questa domanda. A dare una risposta ci hanno pensato Nicoletta Nesler e Marilisa Piga, le due autrici e registe del documentario Lunàdigas, dedicato a coloro che – per scelta o per destino – non sono diventate mamme.
Chi si aspetta analisi sociologiche e dissertazioni culturali, rimarrà deluso. Tutti gli altri ne saranno stupiti. Perché Lunàdigas (così si chiamano in sardo le pecore che non hanno figli) non è un documentario come tutti gli altri. Non segue un ragionamento, non porta avanti una tesi. Lunàdigas non è un documentario che spiega, ma un documentario che ascolta.
Ascolta le voci di donne (e anche qualche uomo) che si raccontano senza filtri. Donne famose e donne sconosciute, che ripercorrono la propria vita, si emozionano, si prendono le loro pause, ricordano, si incupiscono, sorridono. Lunàdigas è un mosaico di ritratti, tutti diversi e autentici, da esplorare: le registe hanno lasciato spettatrici e spettatori liberi di navigare a proprio piacimento tra testimonianze e monologhi impossibili.
Questo documentario per me ha rappresentato qualcosa di speciale. Non solo perché tante riprese sono state girate nella mia città (Cagliari) e nella mia spiaggia del cuore (il Poetto), ma perché mi ha spontaneamente portato a farmi una domanda importante: voglio dei figli?
Non sono una ragazzina, ho superato i 30 da un po’, perciò ovviamente mi era già capitato di pensarci. Ma non ci avevo mai riflettuto per davvero. Sarà che ai miti dell’orologio biologico e dell’istinto materno non ho mai creduto e mai crederò. Sarà che mentre tante mie amiche si riproducevano e altre non vedevano l’ora di farlo aspettando l’uomo “giusto” o un posto di lavoro migliore, io ho sempre pensato ad altro. Fatto sta che fare bambini non è mai stata una mia priorità, né tantomeno un mio sogno.
Sì, certo: qualche anno fa se pensavo a un futuro lontano e nebuloso mi vedevo con un compagno e dei figli. Ma ora che questo futuro è arrivato, penso che la mia visione da Mulino Bianco fosse più un retaggio culturale che una mia reale aspirazione: mi vedevo così perché così mi dicevano che sarebbe dovuto essere nel migliore dei mondi possibili.
Ora che questo futuro è arrivato, l’idea di mettere al mondo un neonato mi atterrisce. Non per la fatica della gravidanza, i dolori del parto o le responsabilità. Mi spaventa la possibilità di perdere l’indipendenza e l’identità conquistate così faticosamente. Mi spaventa che un essere umano possa dipendere da me per sempre, senza possibilità di compromessi. Mi spaventa la facilità con cui potrei ferirlo, o condizionare la sua vita. Mi spaventa che il mondo mi riconosca non per la persona che sono ma per il mio ruolo di madre.
Qualcuno direbbe che evidentemente non sono ancora pronta a diventare mamma. E perché mai un giorno dovrei esserlo? Fare la figlia, la sorella, la cugina, l’amica, la fidanzata e l’amante è già decisamente impegnativo e potrebbe bastarmi per il resto della vita. O forse no. E se quel giorno arriverà, non mi guarderei indietro.
Nel frattempo, però, dedico a me stessa e a tutte le altre donne che non desiderano essere madri, dieci ottimi motivi per rimanere “lunàdigas”, tratti dal prezioso webdoc di Nicoletta e Marilisa.

“Ho sempre pensato che non avrei avuto figlioli. Non ho mai avuto questo desiderio. Ho sempre più avuto attrazione per gli animali che per i bambini” – Margherita Hack

“Il non essere madre mi procura un senso di felicità enorme, un senso di libertà a 360 gradi. La libertà di vivere la mia vita e non quella di un ipotetico bambino. Libertà di muovermi, libertà soprattutto di essere me stessa” – Kathia Deidda Mocci

“Questo assillo della maternità, di dover per forza dimostrare che sei madre, che puoi essere madre, il dover dichiarare ‘io ho deciso di no’, mi è sempre sembrata una sovrastruttura culturale punitiva” – Lidia Menapace

“I bambini non mi piacciono e io non piaccio ai bambini. Non mi è mai piaciuto giocare alla mamma. Non è stata una scelta cosciente, semplicemente era così” – Nela Matas

“Mi ha sempre toccato vedere le donne indaffarate, con tanti figli, devastate dallo stress, dalla fatica. E ho sempre pensato che la maternità fosse sì un privilegio, ma forse anche un’ingiustizia per le donne” – Afra Carubelli

“Mi sono rifiutata di mettere al mondo una creatura perché percepivo la condizione umana come sofferenza. Perché far nascere qualcuno che inevitabilmente avrebbe sofferto?” – Carla Slanzi

“Non mi sono mai posta il problema. Non penso di essere una metà che dev’essere riempita con un’altra metà” – Letizia Renzini

“Non avrei potuto fare il lavoro che faccio se avessi avuto dei bambini” – Rossella Faa

“Sognavo di non svolgere alcun ruolo e di non essere vista e interpretata partendo da un ruolo” – Annarita Oppo

“Non mi è mai piaciuta la limitazione della famiglia. Da ragazzina trovavo tanta incomprensione, tanta infelicità, tanta crudeltà da parte degli uomini nei confronti di queste donne che dedicavano tutto il loro tempo alla famiglia, ai figli, al marito, alla casa. Una forma di novella schiavitù. E io mi dicevo fra me e me: no, io non voglio assolutamente fare questa fine” – Nives Simonetti
http://pasionaria.it/dieci-ottime-ragioni-per-non-diventare-madri/