Vi aspettiamo Domenica 5 ottobre a P.zza Europa - Corsico per continuare "la lunga sciarpa del Naviglio" e per cantare insieme ...
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domenica 28 settembre 2014
sabato 27 settembre 2014
La ministra Boschi e il bikini. Regole d’immagine per donne serie e professionali.
Come
scrivemmo qualche tempo fa (in questo post ) da un po’ di mesi a
questa parte, da quando si è formato il governo Renzi,
l’attenzione dei media è tutta incentrata sulla ministra per le
riforme Maria Elena Boschi.
Si
sprecano le copertine di settimanali e periodici che ci raccontano
della sua vita in maniera dettagliata, estrapolando dettagli inutili
e spesso ridicoli: dalla tazza di latte che beve quando torna a casa
la sera fino alla ricerca del principe azzurro con cui sfornare
numerosi pargoli.
L’interesse
maggiore dei media però si è concentrato soprattutto sull’aspetto
fisico della giovane ministra. Fotografata da ogni angolazione,
nessun dettaglio viene tralasciato : capelli, piedi, gambe occhi,
bocca, etc .
Una
delle pagine che più mi capita di seguire su fb e che si occupa in
modo ironico del ridicolo voyeurismo della stampa italiana, ha
infatti riportato con varie schermate i numerosi articoli
voyeuristici dedicati alla Ministra.
Dal
look al sorriso fino ad arrivare all’anulare sinistro
Ogni
occasione è buona per pubblicare qualche foto di Boschi, dove da una
parte si attirano click dall’altra si vanno ad alimentare
stereotipi e linciaggi sessisti. Come più volte abbiamo detto, i
media giocano un ruolo determinante nella società perché non si
limitano a informare ma anche a formare opinioni e spesso pregiudizi
–tra i quali sessismo e razzismo.
E
come dimenticare i fantastici sondaggi di Libero?
La
preferite con o senza occhiali?
E
cosa ne pensate del suo sedere, è grasso o sexy? Sondaggio eliminato
subito dopo– si presume per le numerose proteste
Nei
mesi estivi poi, questo report de “La Ministra Boschi fa cose”, è
diventato maniacale e gran parte delle testate giornalistiche
italiane ci hanno deliziato con decine di gallery de “La ministra
in bikini”, come se stessero fotografando un orso polare nel
deserto.
Le
scuole di pensiero sono due :
quelli
che pensano che il lato B di Boschi sia ok e quelli che pensano che
sia poco in forma e abbia la cellulite sul fondoschiena
E
voi con chi state?
Come
crede di occuparsi di riforme con quella cellulite sul sedere?
E
ancora: “Scandalo a un passo dal topless!!!!11″. Pizzicata in
spiaggia mentre si sistema il costume.
Se
provate a fare una ricerca su google troverete migliaia di giornali
che riportano la falsa notizia con titoloni acchiappaclick del tipo
“Hot topless della Boschi”
Insomma,
quando non bastano o non esistono le immagini per attirare lettori (o
forse sarebbe più corretto definirli “guardoni”) i giornali
costruiscono notizie con stupidi titoloni, tra l’altro.
Poi
è arrivato l’articolo di “Diva e Donna” che riportava, pensate
un po’, immagini di Maria Elena Boschi mentre, sdraiata sul
lettino, divaricava leggermente le gambe. Che scandalo, signora mia!
Le
foto sono state riprese da vari quotidiani e pubblicate con il banale
e imbarazzante gioco di parole “l’onorevole poco onorevole”
Beh,
certo, signore care, non è decoroso per una donna stare al mare con
gambe rilassate, non è “onorevole” per una donna, figuriamoci
per una ministra.
Le
donne al mare dovrebbero assumere una posizione un po’ più
formale, le gambe non dovrebbero rilassarsi ma bisognerebbe tenerle
ben serrate. Anzi, se si potesse evitare di andare al mare sarebbe la
scelta più giusta, così nessuno avrebbe da ridire circa il vostro
conto e la vostra moralità.
Cara
ministra Boschi, se non vuoi che in giro si dica che non sei
professionale e seria dovresti adottare un abbigliamento più
consono, da donna seria, insomma. Un perfetto outfit per ogni
occasione, anche al mare, potrebbe essere : un tailleur rigorosamente
nero con pantaloni ampi, un bel paio di decolletè raso terra
accollate fino alla caviglia, calze coprenti color brodo o nero 70
den.
Le
donne vengono ancora giudicate in base all’aspetto e a quello che
indossano e questa spazia dalla loro presunta immoralità fino alla
professionalità. Insomma se indossi un pantalone aderente o una
gonna non puoi essere considerata né una donna seria né una
professionista seria.
E
non di certo questo si limita solo ai personaggi della politica o
dello spettacolo, che sono più esposti ai giudizi, lo stigma
sull’aspetto fisico –che sia avvenente o poco avvenente—purtroppo
lo abbiamo subito in tante.
Non
sono mica i fotografi e i giornali che si comportano in modo bieco,
spione e moralista, è lei che attira tutta questa attenzione su di
sé, se fosse un pochino meno carina, se si vestisse in maniera un
po’ più castigata nessuno oserebbe darle della poco professionale.
Come
le molestie per strada, ad esempio: se metti un paio di jeans
sformati, un maxi-cappottone e un paio di doposci al posto delle
scarpe, anche in pieno agosto, vedrai che nessuno proverà a
molestarti o a rivolgerti commentacci. Certo, come no.
Mai
però avrei pensato di leggere questo post sulla pagina fb de “Il
corpo delle donne”
Dopo
un’ampia introduzione fatta di lunghe premesse dove si precisa che
in nessun modo si sta giudicando l’aspetto della ministra, dopo
un’ampia parentesi sul voyeurismo acchiappaclick dei giornali il
post si conclude con queste parole
La
consapevolezza della propria immagine per una donna di potere diventa
dunque arma fondamentale. Proprio perchè siamo in un Paese arretrato
dal punto di vista della considerazione femminile, consiglierei alla
Ministra Boschi di gestire la propria immagine in modo da impedire
che i nostri arretrati media stravolgano la sua immagine e ce la
propongano in modo molto diverso e molto più banale
Ho
letto e riletto le parole di Lorella Zanardo sperando di aver male
interpretato e di aver dato un giudizio affrettato al post, ma più
rileggevo più in quelle parole non mi ci ritrovavo –né come donna
né come femminista. Conosciamo Lorella Zanardo, abbiamo più volte
avuto modo di collaborare con lei, di confrontarci e questo non è
di certo un attacco al suo lavoro o alla sua persona, ma non posso
negare che leggere quelle parole sulla sua pagina sia stato davvero
deludente.
Mai
e poi mai su una pagina femminista si dovrebbero dare, con toni
paternalisti tra l’altro, lezioni di comportamento ad altre donne.
Di quale femminismo parliamo allora?
Quale
sarebbe poi il profilo da mantenere al mare? Come dicevo più sopra,
mettere il tailleur castigato anche in vacanza? Usare i doposci al
posto delle infradito?
L’aspetto
fisico piacevole diventa quasi una colpa e siccome l’Italia è un
paese maschilista, dove un signore ad una festa dell’Unità si
rivolge ad una ministra con “Bella ragazela, vieni qui che facciamo
una foto insieme”, siccome la nostra stampa usa il corpo femminile
anche per parlare di verdure o animali allora le donne –in questo
caso la ministra Boschi– dovrebbero adottare un comportamento
consono, non attirare l’attenzione su di sé per evitare che
l’opinione pubblica possa (s)parlare e avere dei pregiudizi.
Ma
la gente sparla e giudica comunque, e il femminismo, da che mondo è
mondo, ha sempre tentato di sfatare certi pregiudizi e non di
bacchettare le donne dando loro delle dritte su come una donna si
dovrebbe comportare.
Ricordiamo
il caso inverso di Rosy Bindi, quante volte l’aspetto poco
avvenente di quest’ultima è stato giudicato prima delle sue
competenze? Il problema di fondo è un altro : bella o poco avvenente
l’aspetto delle donne viene prima di tutto il resto, e tutto quello
che c’è intorno –dall’abbigliamento all’atteggiamento– è
solo un alibi, una scusa per sentirsi giustificati nel giudicarle in
modo sessista.
Avete
mai sentito qualcuno consigliare ad Alfano, Renzi o Grillo di mettere
le gambe in un certo modo invece che in un altro e di mantenere un
certo profilo anche in vacanza? Avete mai sentito che un politico sia
stato giudicato sempre, solo e unicamente per l’aspetto avvenente?
No. Ecco, il problema è solo e unicamente questo; come scriveva
Oriana Fallaci, tutto cambia a seconda di chi ha la coda e chi no.
venerdì 26 settembre 2014
Famiglia, sesso, donne al potere I tabù che Bergoglio non supera dI Daniela Minerva e Francesca Sironi
Convivenze,
contraccezione, gay. La morale sessuale della Chiesa respinge la
società contemporanea. È la spina nel fianco di Francesco. Che
convoca un Sinodo per discuterne
La
partita si apre il 5 ottobre col passo felpato dei Sacri Palazzi.
Quando 253 tra vescovi, presbiteri e fedeli di alto rango arriveranno
a Roma provenienti dai quattro angoli del pianeta. Con il compito di
decidere se le parole su famiglia, sesso e donne di Santa Romana
Chiesa hanno ancora senso al tempo delle unioni civili che si avviano
a sorpassare i matrimoni, delle coppie gay di fede cattolica, dei
divorzi, dell’amore che non è tale senza un passaggio tra le
lenzuola; ma anche al tempo dei femminicidi, degli abusi sui bambini,
dei matrimoni combinati di adolescenti, della prostituzione coatta.
Papa Francesco ha promesso di riportare la Chiesa tra la gente e sa
che la sua promessa resterà lettera morta se non entrerà nella
carne viva delle nuove famiglie, che significa nei fatti affrontare
il tabù dei tabù per i prelati: la questione sessuale. Per questo
il Gesuita ha convocato, fino al 19 ottobre, il Sinodo straordinario
sulla famiglia : 15 giorni di assemblea e di discussioni su un
documento, l’Instrumentum Laboris, che squaderneranno dinanzi al
mondo se Bergoglio ha intenzione o no di fare sul serio.
Anche
se, nella migliore delle tradizioni vaticane, prima ancora di
cominciare il Papa ha messo dei paletti: questo sinodo precede un
anno di riflessioni, poi ci sarà un altro Sinodo nel 2015 e infine
si vedrà se cambiare qualcosa nella pastorale della Chiesa. Ma
attenzione, non si pensi che questo dilungarsi ammorbidisca le spine
di Francesco incalzato dalla realtà dell’amore e degli amori, né
appanni il suo coraggio di affrontare il Grande Tabù. Lui sa che non
si può scuotere il corpaccione ecclesiastico tutto d’un botto,
soprattutto se si parla di sesso e donne. E un anno non è poi molto,
se servisse a decidere che, come ha detto il cardinale Oscar
Rodriguez Mariadaga, il Vangelo può essere interpretato, non va
preso alla lettera quando parla di famiglia; e che è ora di farla
finita con la sessuofobia.
Il
nodo del sacerdozio femminile. I ruoli che potrebbero essere dati da
subito alle donne. I temi su cui il Pontefice dovrebbe intervenire
secondo Suor Elisa Kidanè, missionaria comboniana
Sarà
veramente così? A giudicare dall’Instrumentum Laboris, no: il
documento vaticano ribadisce le chiusure di sempre, dalla
contraccezione alle unioni fuori dal matrimonio, all’amore
omosessuale. Ma Bergoglio ci ha abituato alle sorprese e sono in
molti a sperare che il Papa si liberi, in un anno, almeno di una
parte della polvere bigotta che segna una così grande distanza tra
la realtà e il Verbo. Magari basandosi sul fatto che è lo stesso
Instrumentum a mettere nero su bianco una verità scomoda: i
cattolici di tutto il mondo si comportano in maniera molto differente
da come vorrebbero i vescovi. I quali, nel documento, ne danno la
colpa ai media, alla secolarizzazione, all’edonismo, a quelle
streghe delle femministe, alle legislazioni permissive; e vanno sulle
barricate col solo scopo di mirare meglio l’insegnamento e affilare
le armi per combattere quella che sembra ormai a tutti la normalità
sessuale.
L’idea
di Francesco è stata quella di scrivere un questionario, di inviarlo
in giro per il mondo e ascoltare la cosiddetta voce dei fedeli. Sulla
base delle risposte, Roma ha poi redatto l’Instrumentum Laboris.
Molte le questioni affrontate: dalla comunione che la Chiesa nega ai
divorziati all’educazione cristiana dei bambini. Ma il cuore è
chiaro e netto: l’etica sessuale, cosa chiede il Vangelo e cosa,
invece, fanno gli uomini e le donne del XXI secolo.
«Il
documento è deludente», boccia il teologo Vito Mancuso: «Se il
Sinodo si attesterà su questo, allora non cambierà nulla. Ma se i
vescovi vogliono servire la vita vera allora dovranno accettare il
fatto che dalla rivelazione cristiana non discendono necessariamente
una serie di no. E da quel che accadrà capiremo anche cosa vuole
fare Bergoglio». Già, perché, comunque, sarà poi il Papa a tirare
le fila e a decidere se e come cambieranno i diktat vaticani. Tutti
confermano che, in realtà, Francesco è concentrato sulla
moralizzazione della sua Chiesa più che sulla sua modernizzazione.
Sue priorità sono la povertà, le periferie, la pace, lo stile di
vita degli ecclesiastici. Ma, chiosa Mancuso: «Non è uno che si fa
imporre dei cliché. Non recita. E sa che se vuole restituire la
Chiesa allo spirito del Vangelo la questione femminile è tra le
prime che vanno affrontate».
Cosa
c’entra la questione femminile con la famiglia cristiana? A costo
di essere pedanti, ripeteremo il sillogismo che riempie i cuori di
vescovi e cardinali, e che segna passo passo il documento di cui
discuterà il Sinodo: modello di tutte le donne è Maria, vergine e
madre; alle femmine Dio ha affidato il compito di figliare, per legge
naturale, all’interno della famiglia che ha come modello unico
quella di Nazareth (madre vergine, padre e figlio) e che è la
cellula fondante della società; l’incontro tra un uomo e una donna
ha come suggello naturale la gravidanza. Qualunque grillo abbiano per
la testa le donne del XXI secolo che non rientri in questo schemino è
contrario alla legge di natura.
Il
lavoro femminile? È una costrizione. Gli asili nidi? Da combattere,
perché la madre deve restare col bambino nei primi anni di vita. E
la contraccezione? Va eliminata. Parla Don Pietro Cesena, il parroco
di Borgotrebbia, quartiere di Piacenza.
La
questione sessuale e la questione femminile sono la stessa cosa sia
nelle teste dei cardinali sia nel magistero di Santa Romana Chiesa. E
se siete convinti che poi, nei fatti, i preti sappiano bene che le
cose non stanno così, state ad ascoltare cosa ci ha detto Don Pietro
Cesena, da 14 anni guida della parrocchia di Borgotrebbia, a Piacenza
e che sulla scrivania, quando ci riceve, ha un libro dal titolo
“Contro gli asili nido”: «Il lavoro femminile è una
costrizione. Una necessità dettata dal falso bisogno di guadagnare
di più per consumare di più. Nella coppia cristiana invece la donna
può decidere di rinunciare ad alcune capacità per amore, per
donarsi alla famiglia». Di Don Pietro, dalle Alpi alla Sicilia ce ne
sono migliaia: insegnano ai giovani la verginità, tuonano contro i
contraccettivi e le convivenze, nella convinzione che: «La donna è
creata per essere feconda».
Non
stupisce allora leggere nei questionari inviati dalle diocesi a Roma
per il Sinodo che la Chiesa è percepita dai fedeli come ostile e
giudicante e che questo allontana i giovani. È un fatto, che però
non piace al cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del
Sinodo dei vescovi: «Urge permettere alle persone ferite di guarire
e di riconciliarsi. Si tratta di proporre, non imporre; accompagnare,
non spingere; invitare, non espellere». Baldisseri estrapola la
madre di tutte le soluzioni proposte dal documento su cui discuterà
il Sinodo che invoca lo sguardo amorevole sui peccatori, da perdonare
e convincere a non sbagliare più. E che spinge a una previsione
sull’esito: finiranno col concedere la comunione ai divorziati, e
chiuderanno così, è l’opinione dei più. Confortati dal gesto
plateare del Papa che domenica 14 settembre ha sposato in San Pietro
venti coppie “moderne”: conviventi, alcuni con bambini, magari
avuti da una precedente unione. E ha chiosato con un significativo:
«Gesù sta in mezzo alla gente e sceglie i peccatori». Riportando
la macchina del Sinodo a quanto suggerisce l’Instrumentum Laboris:
siate misericordiosi.
«Quel
documento è totalmente estraneo a 100 anni di storia delle donne: a
questa storia, purtroppo, la struttura ecclesiastica è rimasta
pressoché impermeabile», commenta la teologa Marinella Perroni,
della Facoltà Sant’Anselmo di Roma: «Io credo che il Papa sarebbe
forse disponibile ad ascoltarci. Ma viene anche lui da un mondo
rimasto per troppo tempo lontano dalla consapevolezza critica delle
donne e non so quale possibilità reale abbia di studiare a fondo
come si è andata configurando e evolvendo la cosiddetta questione
femminile».
Così
il pallino torna nelle mani del Papa che da mesi dice un gran bene
delle donne, della loro intelligenza di cui il mondo e la Chiesa
hanno bisogno, del «genio femminile», ha detto al congresso del
Centro italiano femminile il 25 gennaio scorso. Certo è un genio che
ha la sua lampada nella famiglia. Che si esprime nelle opere della
Madonna. Preistoria per le donne di mezzo mondo. E così anche il
Papa finisce per scivolare quando dice alle suore: «Siate madri, non
zitelle».
Ma
la decisione finale spetterà a Francesco
Il
sinodo appena convocato vedrà un acceso confronto tra le due fazioni
sui temi della modernità: dal celibato dei preti alla comunizione ai
divorziati. Ma l'ultima parola sarà di Bergogllo e non arriverà
prima del 2015
«Anche
per lui il femminile coincide col materno e il maschile con
l’esercizio dell’autorità. Pur se alcuni suoi punti di vista
sembrano aprire nuove prospettive, Bergoglio continua a muoversi, non
diversamente dai suoi predecessori, dentro il sistema di pensiero
appreso durante la sua formazione. La teologia che si insegna e si
impara ancora oggi nei seminari e nelIe Facoltà è espressione di un
universo mentale e esistenziale solo maschile: di fronte alle
istanze delle donne che, prima che essere rivendicazioni di potere,
sono richieste di un radicale cambio di mentalità, gli ecclesiastici
restano spesso atterriti e per questo, forse, le demonizzano»,
riassume Marinella Perroni. E le fa eco Don Cristiano Mauri,
brianzolo, classe 1972, un prete giovanotto che va in giro in jeans e
ha un blog, “ La bottega del Vasaio ”: «Ti preparano a fare il
prete in un ambiente totalmente maschile come il seminario. Poi tu
esci e hai a che fare per il 90 per cento del tempo solo con donne. E
ti rendi conto di come la tua vita, e lo dico da celibe, ha bisogno
dell’apporto delle donne, del loro sguardo, della loro
sensibilità». Invece, aggiunge Don Cristiano: «Questo di ottobre è
di sicuro un Sinodo con un’impronta molto maschile. Il modello
familiare proposto è ancora unico, ancora lo stesso portato in scena
al Family day di due anni fa, quando sul palco salirono tutte coppie
bellocce, con 4-5 figli, dove la donna faceva la madre. Continuiamo a
restituire un’immagine di noi gerarchica e al maschile».
giovedì 25 settembre 2014
Una casa per over 65, dove vivere una menopausa rivoluzionaria
Su
invito della rivista Twf, Thérèse Clerc ha presentato a Roma la
“Casa delle streghe” che nella periferia di Parigi accoglie donne
over 65 intenzionate a vivere insieme una vecchiaia attiva e ricca. E
ha lanciato un appello per la creazione di strutture simili in Italia
“Il
mio è un progetto per cambiare l’immagine della vecchiaia”: Con
queste parole Thérèse Clerc, ottantacinquenne, madre di quattro
figli e femminista piena di energia e sensualità ha presentato a
Roma – in un incontro organizzato alla Casa delle Donne dalla
rivista femmista Dwf (Donna Woman Femme) - la “Maison de Babayagas”
(in italiano “La Casa delle Streghe) che ha fondato a Montreuil,
nella periferia parigina, per ospitare 20 donne over 65 intenzionate
a vivere insieme una terza età attiva e aperta alla collettività.
“La nostra è una casa aperta, in cui le donne continuano a
lavorare con la comunità del quartiere, dove vivono molti
immigrati”, ha spiegato Clerc, “di qui l’idea della
giovinezza”. Clerc, che ha fondato la casa in cui 20 donne vivono
in piccoli appartamenti autonomi di 35 mq, dentro una struttura con
molti spazi comuni e pagando una quota media di 420 euro al mese, ha
spiegato come è riuscita a mettere in piedi un progetto tanto
innovativo e ha lanciato un appello per la creazione di case simili
anche in Italia.
“La
Maison de Babayagas” è nata dopo una lotta di 10 anni”, ha
spiegato Clerc che nel febbraio 2013 ha inaugurato la casa, dal costo
di 4 milioni di euro, ottenuti per una metà dal comune di Montreuil
e da altre istituzioni pubbliche e per l’altra metà attraverso un
mutuo della banca che eroga prestiti per servizi pubblici “Caisse
des Impots et Consignations”. Clerc ha spiegato che l’evento
decisivo per il lancio del progetto della “Casa delle Streghe”, è
stata l’estate del 2003, “quando la Francia è stata attraversata
da un’ondata di caldo che ha provocato la morte di 15 mila
anziani”. A quel punto Le Monde ha pubblicato un articolo sul
progetto e questo ha agito da traino per le istituzioni. Ma
l’iniziativa dell’attivista francese è basata sulla sua
esperienza personale: “Quando ho assistito per cinque anni mia
madre fino alla fine della sua vita è stata molto dura, avevo
quattro figli, che si sposavano, soffrivano e divorziavano”, dice,
“mi son detta che avrei fatto in modo che loro non dovessero vivere
la stessa esperienza”.
L’attivismo
sociale, oltre al pagamento della quota, è un elemento fondamentale
per l’accesso alla Maison de Babayagas, perché considerato
fondamentale per invecchiare bene: “Le femministe invecchiano
meglio per il senso dato alla loro vita, cosa che garantisce una
migliore salute mentale”, afferma Clerc. I quattro principi su cui
si fonda la convivenza nella Maison sono: autogestione, solidarietà,
cittadinanza ed ecologia: autogestione perché la casa è governata
da un “Consiglio di amministrazione” eletto dalle abitanti;
solidarietà e cittadinanza perché è una casa aperta al quartiere,
dove organizza corsi di lingua e altre attività con i giovani e gli
immigrati; ecologia perché è stata progettata per riutilizzare
l’acqua piovana e recuperare l’energia attraverso i pannelli
solari, mentre la spesa viene ordinata dai contadini del territorio.
Al
momento in diversi paesi si stanno progettando nuove “Maison de
Babayagas”, oltre che in Francia, anche in Canada e Germania. E
insieme a Thérèse Clerc l’idea è approdata anche in Italia.
mercoledì 24 settembre 2014
I talenti delle donne: solo un valore aggiunto? di Lea Melandri
L’intervista,
strumento abituale della ricerca sociologica, quando le
interlocutrici sono donne riserva sempre delle sorprese. I
cambiamenti profondi, che negli ultimi due secoli hanno interessato
la condizione femminile – dall’ingresso nella sfera pubblica alla
presa di coscienza del rapporto di potere tra i sessi-, si traducono
in un racconto di sé che si muove nelle direzioni più diverse: dai
legami più intimi ai problemi lavorativi e alle contraddizioni che
si accompagnano all’assunzione di responsabilità dentro e fuori
l’ambito famigliare. In un’epoca in cui sembra scomparsa la
spinta a confrontare esperienze, a dare al vissuto del singolo una
dimensione collettiva, le testimonianze su “Donne e Leadership”
raccolte dall’Istituto di ricerche sociali Aaster di Milano per
conto di Unicredit, nella rilettura che ne fa Anna Simone nel suo
libro I talenti delle donne. L’intelligenza femminile al lavoro
(Einaudi 2014) restituiscono sia pure in modo frammentario i percorsi
che la riflessione femminile ha conosciuto nei gruppi di
autocoscienza.
Pur
trattandosi di voci “privilegiate”, “donne piene di talento e
di passione per quello che fanno”, per il fatto stesso di
appartenere ad ambiti diversi, permettono –come scrive l’autrice
nell’Introduzione- di “comprendere il ‘passaggio’ di fase
sociale, politico ed economico, che le donne e i discorsi sulle donne
stanno attraversando nel paese (…) Non si tratta più solo di
contraddizioni legate alle vecchie, tanto quanto dure a morire,
abitudini basate sull’esclusione delle donne dalla sfera pubblica
(il patriarcato), quanto di contraddizioni segnate dall’inclusione
o dalle modalità, dagli strumenti che la determinano (il
paternalismo).” Le conseguenze a cui va incontro l’integrazione
delle donne in un ordine sociale che non viene messo in discussione
nelle sue strutture portanti, nate sulla divisione sessuale del
lavoro, erano già state lucidamente descritte dal femminismo ai suoi
inizi. Nel “Manifesto programmatico del gruppo Demau” (1966) si
leggeva:
Integrazione
significa immettere la donna nella società così com’è, cioè una
società di tradizione decisionale maschile, con degli accorgimenti
che, non eliminando per questo l’inconciliabilità di due ruoli
prefissati, ne permettono la coesistenza nelle sole donne. Per la
donna integrazione non può voler dire conquista di una propria
libertà a e autonomia poiché la obbliga a trovare un compromesso
tra due sfere definite finora in modo nettamente separazionistico, e,
poiché mai valutate intercambiabilmente, contro la donna stessa in
quanto ad essa sola compete una di esse tutta intera.
La
novità è che oggi -come rileva Anna Simone- accanto alle battaglie
per la parità di genere, uguaglianza nei diritti e nei ruoli
decisionali, l’emancipazione è andata assumendo forme impreviste:
da un lato, la valorizzazione della diverstity -Fattore D, doti,
talenti femminili riconosciuti come risorsa per l’economia e la
politica proprio in virtù della loro “differenza”-, dall’altro
la “neo oggettivazione del corpo femminile” come corpo erotico.
In sostanza: “da un lato le donne oggetto del desiderio; dall’altra
le donne incluse perché utili all’aumento del Pil”. Il movimento
di liberazione delle donne -nato negli anni ’70 e ancora presente
con le sue associazioni, la sua produzione di pensiero e di pratiche
politiche- aveva posto al centro l’analisi del corpo, della
sessualità e dell’immaginario su cui si sono costruite le identità
e le differenziazioni di genere, muovendo dall’idea che si
trattasse di venire lentamente a capo di complicità inconsapevoli
con la propria oppressione. La libertà per le donne sembra oggi
ispirarsi invece a una sorta di rivalsa, o capovolgimento delle
parti: vengono impugnate attivamente e volte a proprio vantaggio
quelle che sono state per secoli le ragioni del loro confinamento
nella natura e nell’insignificanza storica, cioè la seduttività
dei loro corpi e le doti materne (cura, amore, sensibilità).
Dell’inclusione
delle donne e della valorizzazione di doti, “talenti” ritenuti
complementari sulla base della differenziazione tra i sessi che
abbiamo ereditato, hanno bisogno oggi la crisi che il maschile sta
attraversando, come valore dominante, e la società che vi si è
costruita sopra, svincolata dalle necessità primarie della
conservazione della vita. Siamo dunque di fronte a un modello di
mutamento sociale in cui –come scrive Anna Simone- “ le donne
sono numericamente più consistenti senza avere la possibilità di
apportare un loro specifico in grado di cambiare alla radice
l’organizzazione della società e del potere. In sintesi, fare
carriera equivale spesso ad accettare un modello maschile e
patriarcale del lavoro, della società e della politica, nonché un
modello di società ‘prestazionale’”. La conferma viene da
molte delle donne intervistate:
La
bravura non conta. Una può essere bravissima ma non conta nulla,
quello che conta è giocare nello stesso modo in cui gioca il
maschile, quindi scendere agli stessi compromessi. Per cui il
problema è culturale (…) Siccome il sistema è maschile, le donne
non riescono a farne parte, se non per motivi specifici che sono
funzionali al mantenimento del potere, di ‘quel’potere. (Loretta
Napoleoni)
Si
usano le caratteristiche del modello maschile che non mettono in
discussione le nostre vite. E’ questo il nodo. Ci si chiede di
essere scisse (…) Il lavoro femminile entrato nel mercato è
diventato lavoro povero. Anche questo conferma che esiste il
pregiudizio di de valorizzazione. (Susanna Camusso)
Il
potere ha caratteristiche soprattutto maschili: l’urlo,
l’arroganza, il battere i pugni sul tavolo, nel sindacato accade e
io, anche se ci provassi, non mi sentirei nei miei panni (…)
Dopodiché molte donne si comportano come gli uomini. Usano quei
metodi per autodeterminarsi. Credo, però, che accada solo perché a
volte la prevaricazione nei confronti delle donne è talmente elevata
da dover rispondere allo stesso modo. (Roberta Turi, segreteria
nazionale Fiom)
Il
problema di fondo è che sulle donne, a prescindere dai mutamenti
sociali, cade la responsabilità maggiore della cura dei figli, della
famiglia e della casa. Come si rileva da un rapporto recente di
Manager-Italia, “alle donne viene ancora attribuita l’esclusiva
sulla gestione della casa (77%), sui consumi e sugli acquisti (55%),
sui rapporto coi figli (50%). Il lavoro domestico, in altre parole, è
ancora appannaggio delle donne e solo delle donne.” Il rapporto è
del 6 marzo 2013. Dunque –è la considerazione di Anna Simone- “una
vita da equilibriste, vissuta in solitudine”, nello sforzo sempre
meno sostenibile di una “conciliazione” vista ancora come
problema femminile. Nonostante le delusioni a cui finora è andata
incontro, l’emancipazione sembra aver bisogno oggi solo di un
potere maschile meno conservatore, aziende disposte ad alleviare la
fatica delle donne attraverso una maggiore flessibilità nella
concessione di part-time e congedi parentali, affinché siano più
produttive.
“Oggi
si include più per retorica politically correct che non per reale
attribuzione di senso e valore (…) In questo caso dovremmo parlare
più di paternalismo che di patriarcato classicamente inteso (…)
Oggi dobbiamo pensare le donne solo come un valore aggiunto utile
alla crescita del paese?” Ma ci sono altri interrogativi che
dovremmo porci: quanto le donne, forzatamente o meno, consapevolmente
o meno, siano ancora legate al potere che viene loro dal rendersi
indispensabili nella cura dei figli e dei famigliari, convinte che
tale compito appartenga alla loro ‘natura’ materna, anziché
essere responsabilità comune di uomini e donne; e, inoltre, perché,
nonostante gli evidenti spostamenti di confine tra privato e
pubblico, sia ancora così difficile mettere a tema la divisione
sessuale del lavoro e il modello di sviluppo , oggi in crisi evidente
di sostenibilità, che vi si è costruito sopra.
martedì 23 settembre 2014
Emma Watson per #HeForShe, il suo discorso all’ONU
Vostre eccellenze, Segretario generale dell’ONU, presidente dell’Assemblea Generale , direttore esecutivo di ONU Donne, distinti ospiti…
Oggi
lanciamo una campagna chiamata #HeForShe. Mi sto rivolgendo a voi
perché abbiamo bisogno del vostro aiuto. Vogliamo porre fine alla
disparità di genere e, per farlo, abbiamo bisogno del coinvolgimento
di tutti. Questa è la prima campagna nel suo genere all’ONU,
vogliamo spronare tanti più uomini e ragazzi possibili ad essere dei
sostenitori del cambiamento… e non vogliamo solo parlarne. Vogliamo
assicurarci che sia tangibile.
Sono
stata eletta ambasciatrice di buona volontà dell’ONU Donne sei
mesi fa, e più ho parlato di femminismo e più mi sono resa conto
che troppo spesso combattere per i diritti delle donne diventa
sinonimo di odiare gli uomini. Se c’è una cosa che so con certezza
è che questo deve finire. Per la cronaca, il femminismo per
definizione è la convinzione che uomini e donne debbano avere pari
diritti, pari opportunità. E’ la teoria dell’uguaglianza
politica, economica e sociale dei sessi.
Ho cominciato a mettere in dubbio le supposizioni basate sul
genere tanto tempo fa. Quando avevo 8 anni ero confusa dal fatto che
mi definissero dispotica perché volevo dirigere le recite che
allestivamo per i nostri genitori; ma ai maschi non succedeva. Quando
a 14 anni, ho cominciato ad essere sessualizzata da certi elementi
dei media. Quando a 15 anni, le mie amiche hanno cominciato ad
abbandonare le squadre degli sport che amavano perché non volevano
apparire muscolose. Quando a 18 anni, i miei amici [maschi] non erano
capaci di esprimere i loro sentimenti… ho deciso che ero femminista
e la cosa mi sembrava tutt’altro che complicata. Ma le mie ricerche
più recenti mi hanno dimostrato che “femminismo” è diventata
una parola impopolare. Le donne si rifiutano di identificarsi come
femministe. A quanto pare, [io] sono tra le schiere di donne le cui
parole sono percepite come troppo forti, troppo aggressive, isolanti
e anti-uomini, persino non attraenti. Perché è diventata una parola
tanto scomoda?
Provengo
dalla Gran Bretagna e penso che sia giusto che io sia pagata tanto
quanto le mie controparti maschili; penso che sia giusto che io sia
in grado di prendere delle decisioni che riguardano il mio corpo;
penso che sia giusto che le donne vengano coinvolte in mia vece
[nella politica] in quelle decisioni che influenzeranno la mia vita;
penso che sia giusto che socialmente mi sia garantito lo stesso
rispetto che è garantito agli uomini. Ma sfortunatamente, posso dire
che non c’è neanche una nazione al mondo in cui le donne possono
aspettarsi di ricevere questi diritti. Nessuna nazione al mondo può
dire di aver raggiunto la parità dei sessi. Considero questi diritti
dei diritti umani.
Ma
io sono una delle [donne] fortunate. La mia vita è un vero e proprio
privilegio perché i miei genitori non mi hanno voluto meno bene
perché sono nata femmina; la mia scuola non mi ha limitata perché
ero una ragazza; i miei mentori non hanno presupposto che sarei
andata meno avanti [nella vita] perché un giorno avrei potuto avere
un figlio. Queste influenze, sono stati gli ambasciatori per la
parità dei sessi che mi hanno resa chi sono oggi. Potrebbero non
esserne consapevoli, ma sono quei femministi involontari che stanno
cambiando il mondo oggi. Ne abbiamo bisogno in numero maggiore. E se
ancora odiate la parola: non è la parola che è importante, ma
l’idea e l’ambizione che ci sta dietro. Perché non tutte le
donne hanno ricevuto i miei stessi diritti. Infatti, statisticamente,
sono molto poche ad averli ricevuti.
Nel
1997, Hilary Clinton fece un famoso discorso a Pechino sui diritti
delle donne. Tristemente, molte delle cose che voleva cambiare
allora, sono ancora vere oggi. Ma quello che mi ha colpito di più, è
che meno del 30% del pubblico era composto da uomini. Come possiamo
influire sul cambiamento nel mondo quando solo la metà di esso è
invitato o si sente benvenuto a partecipare alla conversazione?
Uomini.
Vorrei cogliere quest’occasione per estendervi un invito formale.
La parità di genere è anche un problema vostro. Perché fino a
questo momento, ho visto il ruolo di mio padre considerato meno
importante dalla società, nonostante da piccola avessi bisogno della
sua presenza tanto quanto quella di mia madre. Ho visto giovani
uomini affetti da malattie mentali, incapaci di chiedere aiuto per
paura di apparire meno virili, o meno uomini. Infatti, nel Regno
Unito il suicidio è la prima causa di morte degli uomini tra i 20 e
i 49 anni, eclissando incidenti stradali, cancro e malattie
cardiache. Ho visto uomini resi fragili ed insicuri dalla percezione
distorta di cosa sia il successo maschile. Neanche gli uomini
beneficiano dei diritti della parità di genere. Non parliamo molto
spesso di come gli uomini siano imprigionati dagli stereotipi di
genere, ma riesco a vedere che lo sono. E quando ne saranno liberati,
come conseguenza naturale le cose cambieranno anche per le donne. Se
gli uomini non devono essere aggressivi per essere accettati, le
donne non si sentiranno in dovere di essere sottomesse. Se gli uomini
non devono controllare, le donne non dovranno essere controllate. Sia
gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere sensibili.
Sia gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere forti.
E’ tempo di concepire il genere su uno spettro, e non come due
serie di valori opposti. Se smettiamo di definirci l’un l’altro
in base a cosa non siamo, e cominciamo a definire noi stessi in base
a chi siamo, possiamo essere tutti più liberi. Ed è di questo che
si occupa He For She. Di libertà.
Voglio
che gli uomini prendano su di sé questo impegno, così che le loro
sorelle, madri e figlie possano essere libere dai pregiudizi, ma
anche perché anche i loro figli possano avere il permesso di essere
vulnerabili e umani. Rivendichiamo quelle parti di loro che hanno
abbandonato e così facendo permettere loro di essere una versione
più vera e più completa di loro stessi.
Magari
starete pensando: chi è questa tipa di Harry Potter? E che diavolo
ci sta facendo a parlare all’ONU? E’ una buona domanda. Mi sono
chiesta la stessa cosa. Tutto quello che so è che mi importa di
questo problema e che voglio far sì che le cose migliori. Avendo
visto quello che ho visto e avendone l’opportunità, credo che dire
qualcosa sia una mia responsabilità.
Lo
statista Edmund Burke ha detto che per far sì che il male trionfi,
tutto ciò che serve è che bravi uomini e brave donne non facciamo
niente. Nella mia agitazione per questo discorso, e nei miei momenti
di insicurezza, mi sono detta con fermezza: se non io, chi? Se non
ora, quando? Se avete dei dubbi simili, quando vi si presentano delle
opportunità, spero che queste parole vi siano d’aiuto. Perché la
realtà è che se non facciamo niente, ci vorranno 75 anni, o che io
compia quasi 100 anni, prima che le donne possano aspettarsi di
essere pagate tanto quanto gli uomini per lo stesso lavoro. 15
milioni e mezzo di ragazze si sposeranno nei prossimi sedici anni e
lo faranno da bambine. E con questi ritmi, non sarà prima del 2086,
che tutte le ragazze della campagna africana potranno ricevere
un’educazione di livello secondario.
Se
credete nella parità, potreste essere uno di quei femministi
involontari di cui ho parlato prima e per questo, mi complimento con
voi. Stiamo facendo fatica a trovare una parola che ci unisca, ma la
buona notizia è che abbiamo un movimento che ci unisce. Si chiama He
For She. Vi invito a farvi avanti, a farvi vedere e a chiedervi: se
non io, chi? Se non ora, quando?
Vi
ringraziamo tantissimo.
lunedì 22 settembre 2014
L’autostima di genere: come la principessa malvestita di Luisa Muraro
Che
difficile parlare della differenza femminile, c’è sempre il
rischio di cadere negli stereotipi e di supportare culture ostili
alle donne.
Nonostante
tutto, se ne parla ed è bene, perché gli uomini fanno fatica ad
ammettere la differenza maschile e insistono a presentarsi come
modello unico di umanità, anche nella trasformazione dell’esistente.
Succede di conseguenza che le donne siano misurate e si misurino loro
stesse con un metro non fedele a loro e per giunta difettoso di suo.
Oggi questo rischio è diventato più grande del primo, tanto che
alcune si sono dette (semplifico): siamo inadeguate? meglio essere
inadeguate che brutte copie degli uomini.
Nel
giugno scorso Internazionale ha pubblicato un lungo articolo di
provenienza Usa (The Atlantic) sulla scarsa fiducia che le donne
hanno in sé stesse per cui, pur essendo tanto brave, restano
indietro nelle carriere. L’articolo era “americano” nel senso
peggiore, tanto nell’analisi del problema quanto nelle ricette, e
ci sono state proteste di lettrici, in Italia come altrove, America
compresa. Nessuna però ha negato che un problema esista e la
discussione è continuata. E ha ritrovato spontaneamente i suoi
termini femministi originari: siamo combattute tra voglia di vincere
e paura di fallire. Trovo questa ripresa sorprendente e positiva,
spiegherò il perché.
“La
paura di fallire che blocca molti talenti femminili su posizioni di
retroguardia va affrontata a viso aperto”, ha affermato
recentemente Jessica Bacal. Viene citata in un articolo firmato da
Maria Luisa Agnese e Daniela Monti (Corriere della sera, 26.8.2014)
che già nel lungo titolo è tutto un programma: Il coraggio di
rispondere “non so”. L’insicurezza (buona) delle donne. Siamo
portate a dubitare, anche di noi stesse. E se fosse una possibile
risorsa? Tutto sul filo del rasoio.
Voglia
di vincere, paura di fallire, diceva il Sottosopra verde intitolato
Più donne che uomini, che risale al 1983, un testo di grande
risonanza anche all’estero, soprattutto in Germania. Non finisce
qui. Anche la risposta che dava il Sottosopra risuona, con parole
diverse, nella risposta di oggi.
Nell’articolo
del Corriere Maria Luisa e Daniela presentano il caso esemplare di
Teresa B., laureata della Bocconi che, nel suo primo stage di lavoro
a Londra, ritrova una nuova fiducia in sé facendo riferimento a
donne che si sono affermate grazie alle loro qualità. E così lo
commentano: “Ridurre tutto all’individuo, alle insicurezze che
ciascuna si porta dentro, è dunque un errore di prospettiva. Perché,
come dimostra il racconto di Teresa, l’autostima personale può di
più se poggia su un’autostima di genere, come un nano sulle spalle
di un gigante”.
Il
Sottosopra fu scritto che la ventiseienne Teresa B. non era ancora
nata e le autrici dell’articolo probabilmente erano bambine, ma nel
Sottosopra la loro scoperta si trova esattamente anticipata e poi
articolata nella proposta di un nuovo tipo di relazione tra donne,
quella di fare affidamento, presentata come una pratica per uscire
dalla stretta fra voglia di vincere e paura di fallire, e andare nel
mondo senza fare torto alle proprie qualità.
La
coincidenza è evidente così com’è evidente che le parole usate
sono molto diverse tra loro. Da dove venga tanta diversità, può
sembrare una questione secondaria ma attenzione che è collegata a
una questione più grande, quella della frequente cancellazione (o
meglio: obliterazione, che vuol dire: rendere illeggibile) delle idee
giuste nel corso della storia, un fenomeno che colpisce specialmente
la storia politica delle donne. (Non sono la prima a interrogarmi in
proposito, lo ha fatto ben prima di me Simone Weil per la civiltà
occitanica.)
Le
formule, “pratica di relazione e di affidamento”, da una parte,
“autostima di genere” dall’altra, rispecchiano una difformità
di percorsi mentali e politici che il cambio generazionale non basta
da solo a spiegare. Tanto più che si tratta di idee che si formano
in circostanze e contesti simili, concepite da persone che parlano la
stessa lingua. Tra il linguaggio del 1983 e quello del 2014 non c’è
un rapporto di sviluppo del tipo che può accompagnarsi al passaggio
di un’eredità, pacifico o conflittuale che sia. A me pare una
discontinuità allo stato puro, che risalta tanto più che le parole
tendono a coincidere nella sostanza di quello che vogliono dire.
Nascono
delle domande. Che cosa è capitato tra oggi e i primi anni Ottanta
del secolo scorso che spieghi la discontinuità?
Rispondo
con un’ipotesi dettata dalla storia più nota e risaputa: è
capitata la caduta del muro di Berlino (1989) con tutto quello che ha
voluto dire, in primis il trionfo dell’economia capitalistica di
mercato e l’egemonia mondiale degli Usa, che diventano l’orizzonte
ideologico globale, l’unico presente alle nuove generazioni.
Tramonta così il comunismo portandosi dietro la sua vasta e varia
costellazione di entità politiche, economiche e ideali che ne
avevano fatto la storia per cento e passa anni.
Il
femminismo che conosciamo oggi come femminismo radicale, nasce negli
anni Sessanta insieme ad altri movimenti giovanili rivoluzionari.
Nasce, come noto, in posizione di rottura rispetto a questi, senza
collocarsi né a destra né a sinistra, né sopra né sotto. Altrove.
Per capirlo, basta leggere Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. Che fa
capire anche un’altra cosa e cioè che il paesaggio politico allora
era molto diverso da ora. Voglio dire che il tramonto del comunismo
ha privato il femminismo radicale di un tratto non dico unificante ma
collegante con il suo più grande intorno storico e culturale. Un
altrove non è un’alterità assoluta, ha dei termini di confronto.
Con il tramonto della costellazione comunista alcuni di questi
termini sono spariti. L’espressione stessa di “pratica politica”,
che una come me continua a usare parlando di relazioni e di fiducia
nei rapporti donna con donna, questa espressione proviene da allora e
aveva una pregnanza semantica che prendeva anche da un contesto che
non c’è più. Il femminismo ha attraversato non dico indenne ma
vivo il 1989 perché non era solidale dei progetti rivoluzionari o
riformatori, tutti d’impronta maschile. Li ha infatti criticati
dalla prima ora, come sa chi ha letto Il maschile come valore
dominante, del gruppo Demau, apparso nel 1969, documento inaugurale e
al tempo stesso maturo del femminismo italiano. Il femminismo
radicale ha attraversato anche altri tentativi di obliterazione (la
parola è rara, mi scuso, ma non ce n’è una migliore), per
arrivare fino a noi.
Ora,
secondo la mia ipotesi, il passaggio non poteva farsi senza un giro
di boa, in altre parole, senza portarsi fino alla cultura egemone per
aggirarla. Che non vuol dire negarla, al contrario, ma farci i conti.
La formula dell’autostima di genere coniata per leggere
l’esperienza di Teresa B., ci parla di questo movimento, di questo
che potrebbe essere, dal punto di vista delle circostanze storiche e
dello stato dei rapporti di forza, un necessario giro di boa. Ci
parla anche di un prezzo pagato, perché il concetto di genere, nato
in una fase d’inserimento del pensiero femminista nella cultura
accademica, si è diffuso oltre misura come un surrogato della
differenza sessuale, e come tale si presta alla obliterazione del
pensiero politico femminista.
Tuttavia,
la formula si è presentata in un contesto che ne fa riconoscere il
significato più profondo e la rende accettabile anche da una come me
che discende direttamente dal femminismo radicale degli inizi. È
come la principessa malvestita di cui raccontano le fiabe, che, salva
grazie al travestimento, resta tuttavia riconoscibile.
Per
me è molto positivo costatare come il potente dispositivo
dell’obliterazione venga talvolta sconfitto. Dunque, si può
sconfiggerlo. A questo risultato ha contribuito, bisogna dirlo, che,
nel paesaggio mutato dal terremoto del 1989, in Italia ma non
soltanto, anche in altri paesi europei e sicuramente anche negli Usa
(sebbene gli elementi probanti siano frammentari in quest’ultimo
caso), il femminismo radicale delle origini non è mai venuto meno.
C’è di mezzo una continuità. Non mi riferisco soltanto alla
memoria: non è venuto meno nelle esistenze di persone in carne e
ossa, alcune sempre più vecchie e man mano altre, più giovani, e
nelle loro usanze (le pratiche!), discorsi, scritti, luoghi,
iniziative e progetti.
Per
concludere e restare al nostro esempio: tra la riflessione delle due
giornaliste del Corriere e il testo del 1983, “Più donne che
uomini”, c’è un rapporto asimmetrico ma reciproco: l’autostima
di genere traduce e conferma il Sottosopra, mentre questo dà a
quella uno sfondo illuminante.
domenica 21 settembre 2014
So che non potrò mai fare carriera come un uomo, crescere figli perfetti fare sesso e stare in forma come Beyoncé di Viviana Mazza
«La
ricerca della perfezione deve finire». L’anno scorso Debora Spar,
la presidente del Barnard College, prestigiosa scuola femminile di
New York, ha confessato nel suo libro Wonder Women che la sua
generazione ha frainteso l’appello del femminismo alla liberazione
delle donne, scambiandolo con l’imperativo a fare tutto, ad essere
superdonne: far carriera come gli uomini e intanto diventare madri,
crescere figli perfetti, continuare a restare sveglie per far sesso e
mantenersi in forma come Beyoncé.
Oggi,
al telefono da New York, Debora Spar descrive quest’ansia come una
specie di dipendenza da cui bisogna riabilitarsi, imparando ad essere
imperfette.
«Devi
ricordare a te stessa che è okay dire di no, devi individuare intere
categorie di cose che non cercherai di fare bene. Cucinare per
esempio: è una cosa che adoro, ma ho dovuto accettare che lo farò
male e mai come Martha Stewart. Come la corsa: ho fatto jogging per
tutta la mia vita, ma non ho alcuna ambizione competitiva. Ci sono
una serie di attività che ho tolto dalla lista delle cose-da-fare e
ho inserito in una lista delle cose-da-fare-meno-bene».
Gran
parte delle aspettative della generazione post-femminista di Spar
erano dovute al fatto che le madri non avevano potuto fare tutto.
«Quelle
ragazze degli anni Quaranta e Cinquanta, cresciute per essere madri,
volevano che le figlie avessero qualcosa di più delle lavatrici,
delle asciugatrici e dei ferri da stiro, volevano che facessero
carriera e che partecipassero più attivamente alla società».
L’idea di poter fare tutto nello stesso tempo e alla perfezione,
secondo Spar, è stata promossa dai media con immagini e prodotti
come Barbie astronauta, che riusciva ad essere sexy mentre orbitava
intorno alla luna, oppure la pubblicità del profumo «Charlie» in
cui una donna con i capelli lunghi e fluttuanti, una tuta blu
aderente e i tacchi a spillo teneva in una mano una valigetta da
ufficio e nell’altra una bambina bellissima.
Dodici
anni fa, a 38 anni, dopo aver avuto due figli maschi, Debora Spar
andò col marito fino in Russia per adottare una bambina. Kristina
aveva sei anni e non parlava una parola d’inglese, ma prese la mano
del futuro papà e gli chiese: « Kupi mnye Barbi?», «Mi compri una
Barbie?» L’hanno portata in America, Debora l’ha educata con
grande attenzione agli stereotipi di genere («Non potevo fare
altrimenti, considerato il mio lavoro») ed è cresciuta con un papà
che fa i lavori di casa (il che secondo uno studio recente aumenta le
probabilità che diventi astronauta). La mamma la portava avanti e
indietro a corsi e attività d’ogni tipo, inclusi calcio e
balletto, finché un giorno non si è schiantata contro un palo del
telefono e si è resa conto che la cosa più importante non è
riempire la vita dei figli ma aiutarli a conoscere se stessi e a
scegliere ciò che li appassiona.
«La
loro generazione è più realista della nostra. Sanno che non possono
fare tutto alla perfezione». Pochi giorni fa Kristina, che ha
compiuto 18 anni, è andata a frequentare l’università. Quel
giorno, sua madre ha notato che si è soffermata davanti allo
specchio e ha scelto con cura la biancheria da portare al campus. «È
molto femminile ma va bene così perché è sicura di sé». Come
molte ragazze tra i 18 e i 22 anni, spiega Spar, pensa che il mondo
che l’aspetta sia paritario. «Si scontreranno con una realtà
diversa, più avanti, nel mondo lavoro. Anche se in alcuni settori le
chance delle donne oggi sono le stesse degli uomini, non è ancora
così dappertutto».
Anche
in casa i ruoli di uomini e donne sono cambiati rispetto agli anni
Settanta. In America, nel 1965 le ore settimanali dedicate dai padri
ai lavori domestici erano quattro, oggi sono 18 – secondo un
rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo –
ma le ore impiegate dalle donne continuano ad essere di più (27). In
Italia la differenza è la più grande di tutti i paesi
industrializzati: 36 ore le donne, 14 ore gli uomini. La ragione,
sostiene Spar, è in parte che gli uomini sono più disponibili a
contribuire alla cura dei figli piuttosto che ai lavori domestici, ma
anche che le donne sono restie a cedere certi spazi e responsabilità.
«Ma anche se la coppia si divide i compiti equamente, quando
entrambi i partner lavorano non ci sono semplicemente abbastanza ore
in una giornata».
Per
fortuna, dice la studiosa, il mondo del lavoro sta un po’
cambiando. «Oggi Silicon Valley è diventato il posto più
desiderabile dove i giovani più brillanti cercano il primo impiego,
incluse molte ragazze. Aziende come Google e Facebook cercano di
creare un ambiente più piacevole per tutti, con cibo gratis, tavoli
da ping pong, e anche una riduzione delle ore lavorative. E anche
alcune banche e agenzie di consulenza, proprio per contrastare la
competizione delle aziende high-tech, stanno iniziando a cambiare,
riducendo le ore di lavoro e aumentando gli eventi sociali». Un
cambiamento, questo, che potrà aiutare a conciliare lavoro e
famiglia senza richiedere doti di superdonne.
sabato 20 settembre 2014
Sei donna, quindi ti insulto di Giulietta Ruggeri
Quando
a inizio estate è scoppiata la polemica innescata dalle giovani
americane contro il femminismo, pur apprezzando le risposte delle
columnist o delle intellettuali che si sono cimentate in una sorta di
difesa dei femminismi anni ‘70, ho avuto la sensazione che mancasse
qualcosa di fondamentale importanza, che continua a sfuggire. Dopo
avere incrociato l’ultimo libro della sociologa Graziella Priulla
mi sembra di averla trovata. Titolo, per me molto accattivante:
Parole tossiche. Ecco esposto e analizzato un “fatto” che è
sotto gli occhi di tutti/e: quelle ragazze e chi loro risponde sono,
siamo, sommerse da una enorme quantità di parole che intossicano la
relazione tra i sessi e tra le donne stesse: «Da sempre, attraverso
il linguaggio, le donne interiorizzano una cultura patriarcale che
sancisce la loro subalternità», scrive Priulla. E, se negli anni
‘70 era facile individuare rispetto a chi, noi donne eravamo
subalterne, oggi, in pieno emancipazionismo, specie delle ragazze
nordamericane, ha probabilmente la meglio la complicità con il
maschile.
Per
le femministe anni ‘70 si trattava di conquistare diritto di
parola, per esempio, attraverso la rielaborazione di un classico di
quei tempi: Noi e il nostro corpo, sui nostri corpi di donne; oggi,
più che mai il corpo delle donne viene troppo spesso esplicitamente
identificato nei singoli organi sessuali, il che riduce, tra l’altro
proprio la sessualità, il far l’amore, a prestazioni meccaniche
tese alla performance, e, salve ovviamente le eccezioni, a «cronache
di ordinario sessismo». Infatti, «Alla perdita di riferimenti nella
comunità, alla debolezza dell’offerta educativa, alla scarsa
competenza riflessiva e comunicativa si accompagna una
spersonalizzazione dei rapporti tra i sessi cui molte affidano una
paradossale valenza emancipatoria»(p. 33).
Attualmente
l’insulto, tollerato da insegnanti e genitori, più frequentemente
rivolto alle ragazze, da ambo i sessi, è troia, mentre quello
rivolto ai ragazzi è figlio di troia. Rileva Priulla che, secondo le
regole del politically correct si deve dire «ottimizzazione delle
dimensioni aziendali» e non licenziamenti di massa, ma per qualunque
dissenso con una donna che esercita una funzione politica pubblica si
dice troiazza e, se nera, sporca troia.
Nelle
relazioni amicali di gruppo come anche in Parlamento gli insulti
sessuali sono al top. Quando Berlusconi ragionava con i suoi di
cambiare il nome del partito che sperimentava una caduta libera, in
«forza gnocca», Daniela Santanchè rispondeva che era «un’idea
del cazzo».
Da
un sondaggio lanciato da Snoq Genova sul web dall’8 marzo al 5
aprile 2014, che ha raccolto 411 risposte di cui 329 donne (pari
all’80%), 77 uomini (18,8%) e 5 transgender è emerso che il 48,5%
, cioè quasi la metà dei/delle rispondenti, si esprime con
esclamazioni di uso comune che contengono offesa per le donne.
L’altra metà sostiene di non usare mai tali interiezioni. Dai
commenti è emersa in numerosi casi, soprattutto da parte degli
uomini, la negazione che tali espressioni contengano un’offesa per
le donne, mentre molte donne, quando si rendono conto di subire
un’offesa, riconoscono che è un’abitudine da cambiare. Un uomo
over 60 commenta così: «A Roma ‘figlio di mignotta’ non è
un’espressione sessista, infatti è considerato un complimento.
Significa che quella persona è un furbo». Un ragazzo della fascia
di età 21/30 scrive: «nella mia città, Mantova, è comunque uno
slang, non è un’offesa»; sulla stessa linea un uomo over 60: «si
tratta di esclamazioni/interlocuzioni mai rivolte direttamente ad una
donna». Una donna, anch’essa over 60 riconosce il problema
dell’abitudine: «fa parte di un’abitudine, lenta a sparire»;
mentre un’altra, più giovane scrive: «cerco di starci attenta, ma
è un automatismo culturale difficile da scardinare». Una ragazza
under 30 sta cercando di eliminare queste espressioni dal suo modo di
parlare e c’è chi cerca di contrastare sostituendo a mignotta (o
troia) il mestiere di «parlamentare» intendendo, per l’appunto,
«categorie che, in linea di massima, sono poco stimabili».
Se
siamo diventati/e più sensibili alle differenze di razza (neri,
extracomunitari), di classe (operatore ecologico) e persino religiose
(culti acattolici, non cristiani), siamo invece talmente immersi/e
nella cultura sessista, misogina che neppure ci accorgiamo delle
mille situazioni di prevaricazione e di disparità nella vita
quotidiana. D’altra parte, nel linguaggio comune parolacce,
insulti, imprecazioni, invettive, persino anatemi, oltraggi,
improperi, contumelie (e per ognuna delle categorie Priulla offre una
definizione) sembrano essere diventate elementi quasi indispensabili,
rendendoci appena appena conto che sono parole che caratterizzano
discorsi violenti che inducono l’odio. Eppure se ne fa pieno uso
per esempio nei talk show, dove siedono fra i “moderatori” veri
professionisti del battibecco. In questo contesto generale, il
richiamo alle parti anatomiche e alle attività sessuali ha un ruolo
di particolare rilievo e, secondo Priulla che lo argomenta, al
centro, il motivo conduttor, è l’attrazione/odio per le donne.
Anche i verbi usati troppo spesso per indicare l’atto sessuale, e
l’Autrice li elenca ricercandone il senso linguistico, sono di per
sé violenti e oggettivanti. E non può stupire più di tanto se (p.
97) sul sito Pontifex.roma.it, Bruno Volpe scrive «Finiamola con la
litania del femminicidio […]. Le donne diventano libertine e gli
uomini già esauriti, talvolta esagerano […]. Le donne provocano
gli istinti peggiori e se poi si arriva anche alla violenza o
all’abuso sessuale facciano un sano esame di coscienza…».Risultato?
Cinquantamila Mi piace.
Parole
tossiche, dunque, parole che intossicano i rapporti e le relazioni.
Graziella Priulla si è addentrata con polso fermo in tutto ciò da
cui sono banditi gentilezza e pudore ma ci dà anche l’indicazione
di un sito gentilezza.org, che è una sezione del Movimento mondiale
per la gentilezza, nato a Tokyo nel 1988, utile anche per re-imparare
un uso consapevole della lingua c.d. madre.
Graziella
Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo, Settenove
Edizioni, 2014, pp. 176, euro 15,00.
giovedì 18 settembre 2014
La bicicletta da cross di Amy di Liz Smith*
Amy,
una bimba inglese di nove anni, è stata di recente ad un festival
estivo per la gioventù, dove ha visto alcune dimostrazioni di Bmx
(Ndt. la sigla sta per “Bicycle Motocross”. Le bici da cross sono
diverse dall’usuale per struttura, peso e dimensioni).
Ha
quindi deciso che voleva una Bmx per il suo compleanno e la madre
l’ha portata a dare un’occhiata a quelle disponibili in negozio.
Le due sono state avvicinate da una commessa non appena hanno messo
piede nella sezione per bambini. Dando un’occhiata ai lunghi
capelli biondi di Amy, la commessa le ha dirottate immediatamente
nell’angolo a colori caramellati del reparto.
Là
c’era una sola Bmx “per femminucce”, nera e rosa acceso. Amy
l’ha guardata ed è tornata a passo svelto dall’altra parte.
“Penso che queste mi piacciano di più”, ha detto.
La
commessa non si è arresa: “Queste sono biciclette da maschi,
tesoro. Non preferiresti una bici da femmine?” Ho amato la risposta
di Amy: ha fissato la commessa con uno sguardo interrogativo e
beffardo al tempo stesso, una specialità da “novenni”, e ha
detto: “Cosa importa?”
La
mamma di Amy ha fatto un veloce confronto fra le biciclette per
bambine e quelle per bambini. Per lo stesso prezzo, molte di quelle
per maschi avevano funzionalità e componenti migliori delle altre:
forcelle con sospensioni e ingranaggi, per esempio. Le biciclette per
bambine si concentravano invece sull’apparenza e il comfort –
sellini più larghi, canna più bassa e colori pastello con cascate
di motivi floreali, e accessori come cestini, stelle filanti e
copri-manubri a lustrini. Gli abiti e gli oggetti relativi al cross
in bicicletta per bambine erano per la maggior parte rosa, con
occasionali flash di bianco e porpora, e – di nuovo – si
concentravano sull’essere graziosi anziché sull’avere una
funzione.
Secondo
i rivenditori, alla fine, i maschietti sono rudi e disordinati,
guideranno le loro bici nel fango e il loro set di accessori dovrà
essere lavato spesso dalle madri, mentre le femminucce faranno
giretti oziosi, con le loro bambole nel cestino frontale. Se
l’industria vuole davvero sostenere il ciclismo femminile, deve
fare lo sforzo di andare oltre i sellini color gelatina e gli aggeggi
in sfumature di rosa e pastello. Le bambine devono sapere che va bene
sporcarsi e che c’è abbastanza detersivo al mondo per lavare le
loro cose e quelle dei loro fratellini. Devono sapere che saranno le
benvenute in qualsiasi associazione o club di ciclismo e che sono
libere di scegliere qualsiasi disciplina vogliano apprendere o in cui
vogliano competere.
Mi
chiedo quante Amy ci siano che non hanno l’assertività o il
sostegno necessari a dire al mondo che non vogliono essere inzuppate
di rosa. Mi chiedo quante Amy, anziché avere quel che realmente
volevano e che rifletteva ciò che erano, hanno finito per avere una
bicicletta o altri oggetti – e invero a fare scelte – perché gli
si è detto che quelle cose o quelle scelte dovevano piacere loro, e
loro non volevano essere giudicate negativamente come differenti.
Sono
felice però di ragguagliarvi sul fatto che Amy ha la sua nuova Bmx
verde e blu – non dirò “smagliante”, perché lei sta passando
così tanto tempo al parco per ciclisti locale che probabilmente
“smagliante” non lo è più… Amy ha anche imparato ad usare la
lavatrice.
mercoledì 17 settembre 2014
Wassyla Tamzali: il femminismo in Italia è virtualmente scomparso
Scrittrice,
giornalista, ex avvocato. Soprattutto femminista. Wassyla Tamzali, 74
anni, nata in Algeria, è la “voce” delle donne arabe, di quelle
donne che sognano una società dove pari diritti e pari dignità (con
gli uomini) non debbano nascondersi sotto il velo islamico. «La
parola femminismo – dice in un francese senza inflessioni la
signora Tamzali, un’intellettuale che ha vissuto da protagonista la
lotta di liberazione del suo Paese – può apparire desueta in
Occidente. Ma nei Paesi arabi è più che attuale, ed è capace di
mettere in pericolo chi la pronuncia». Certo, aggiunge Wassyla,
anche nei Paesi più avanzati le donne hanno ancora molto da
conquistare quanto a posizione e rivendicazioni. Però «è un fatto
che in Italia il movimento è virtualmente scomparso».
La
pasionaria dei diritti femminili («ma io parlo di liberazione della
donna»), è molto chiara sul valore intrinseco delle definizioni:
«Io rifiuto il termine neo femminista. Sono solo femminista, punto.
Perché la parola nel mondo arabo può acquistare significati
differenti a seconda di quali termini le vengono accostati. Per
esempio, c’è chi professa il femminismo islamico. Che è una
copertura per annacquare la nostra lotta per l’emancipazione.
Insieme a tutte le altre donne abbiamo sentito la necessità di
tornare all’inizio del femminismo. Che è un’ideologia della
liberazione. Non è solo una questione di diritti. No, è soprattutto
un veicolo per ottenere la liberazione delle donne in quanto
individui. Dunque, se me lo chiede le dico che non è ancora finito
il suo scopo».
Wassyla
Tamzali conosce il mondo arabo e conosce l’Europa e oltre. È
conscia della differenza fondamentale tra la condizione femminile nei
Paesi più avanzati e nei Paesi arabo-islamici. Ma non si lascia
ingannare dalle apparenze. «La condizione delle donne è carente
anche in Occidente – spiega -. La violenza, l’ineguaglianza c’è
anche da voi. Certo, le donne sono più libere, possono uscire sole,
lavorano. Perché le società da voi sono più avanzate, la Chiesa
non ha più il ruolo di freno che aveva un tempo».
«Ma
– prosegue – la morale sessuale, ovvero il rapporto tra uomini e
donne è tutt’altro che paritaria». Eppure nel mondo
arabo-islamico il ruolo della donna è continuamente minacciato, le
conquiste sono neglette… «È così. Nei Paesi arabi, in Algeria,
in tutto il Maghreb, la dominazione sulle donne è una parte
integrante della politica. Dipende della struttura delle società.
Lottiamo per i nostri diritti da 50 anni, e se non riusciamo a
progredire è perché dovremmo riuscire a cambiare l’intera
società. Il potere politico, da noi, è militare e fondato sui clan
familiari. La piramide resta intatta se agli uomini, ai maschi, è
garantito il diritto di vita e di morte sulla famiglia».
L’oppressione
della donna come mezzo per la sopravvivenza politica, insomma. «In
tutti questi Paesi il potere economico, l’amministrazione, la
diplomazia sono nelle mani dei clan politici, non dei partiti. Sono
tutti governi totalitari: per garantirsi l’acquiescenza del popolo,
è garantito all’ultimo dei cittadini maschi il potere sulle
donne».
Dopo
decenni di lotta per il proprio genere, Wassyla Tamzali, che ha letto
con attenzione Pasolini, parla dell’enigma della condizione delle
donne. «Noi non viviamo in Paesi primitivi: sono moderni, hanno
tutti vantaggi della modernità, si può viaggiare, studiare,
istruirsi. Tutti tranne le donne. Questa differenza – secondo
Wassyla è il punto nodale della questione – è basata sulla
superiorità della mascolinità, vista come un totem dalla società.
La religione non c’entra. L’Islam è la maschera di questa deriva
verso una fallocrazia fiera della propria condizione. Prendiamo il
velo: perché occorre metterlo? Perché gli uomini non abbiamo
desiderio sessuale, cioè si suppone che il desiderio dei maschi
valga più di ogni cosa. Non è una condizione genetica, non è
perché siamo arabi. È una questione politica. Il velo è collegato
alla gestione del potere».
Certo,
la strada è ancora lunga perché si possa parlare di donne
protagoniste della loro esistenza. anche nei Paesi arabi. «Le donne
sono deboli, non solo fisicamente: se una donna non ha un uomo nella
sua vita (perché ha perso il marito, o magari perché ha divorziato)
cessa di esistere socialmente, e perciò è molto fragile. Quando
mette il velo accetta il sistema, perché fuori da questo sistema non
si esiste. Ecco perché sono contro il femminismo islamico: una
dottrina che sostiene come noi laiche non avremmo legittimità a
occuparci delle donne musulmane».
D’altro
canto, dice ancora Wassyla Tamzali – che domenica 14 settembre sarà
sul palco del Teatro Franco Parenti, a Milano, accanto a Lizzie
Doron, Aliza Lavie e le altre protagoniste del Festival Jewish and
the City all’incontro Condotte e condottiere, libere di essere
donne - si può essere musulmane e femministe. «Io sono una libera
pensatrice. Ma ho molte amiche profondamente devote. Praticano la
religione e chiedono libertà, come si può essere cristiane o ebree
e femministe. Ci sono Imam donne a New York. E io credo che la
religione debba evolversi dal di dentro. Mentre noi non abbiamo
impatto sulla dottrina, siamo laici, siamo fuori. Femminista
islamica? Un ossimoro. Il movimento è solo propaganda. L’obiettivo
non è liberare la donna ma attribuire solo qualche diritto».
Non
c’è molto spazio per l’ottimismo, dunque, per vedere un futuro
dove le donne musulmane saranno padrone del proprio destino. «Al
contrario, le cose miglioreranno. È successo in Tunisia e, anche, a
suo modo, in Marocco. Pr quanto ci sia ancora molto da fare. Certo, i
mostri che dobbiamo affrontare sono potenti e tutti figli della
dittatura, dai salafiti agli integralisti di Iraq e Arabia Saudita.
Ma c’è sempre chi crea, le donne sono artiste, scrivono, fanno
film, dipingono. Siamo come le lucciole di Pasolini, rappresentiamo
il mondo come era, con i suoi valori morali. Non dobbiamo essere
disperate. Sì siamo le lucciole del mondo arabo».
martedì 16 settembre 2014
CONCORSO 2014 - "Concilia? Tra lavoro, cura e tempo per sè"
SIAMO PROSSIME ALLA SCADENZA... FORZA!!
Come
condividere la vita, senza percorsi obbligati, è il tema “europeo”
di questa seconda edizione del premio fotografico Lo sguardo di
Giulia, per contribuire a cambiare i linguaggi dell’informazione.
Ai fotografi, professionisti e dilettanti, si chiede di raccontare in
positivo, ovvero con denuncia o con ironia, la Conciliazione fra
Lavoro e Vita familiare. Di donne e uomini soprattutto, con uno
sguardo ampio che comprenda coppie eterosessuali e omosessuali,
singoli, famiglie tradizionali e di fatto, nuclei conviventi di
parenti o di amici: insomma persone che stanno assieme perché,
insieme e paritariamente, impegnate a costruire un futuro. Per sé e
per i propri figli.
Sotto
il titolo "Concilia?", che sembra il tormentone di un
vecchio Carosello, c'è la convinzione che uno scatto fotografico
azzeccato spesso vale più di mille parole. Dimostriamo quindi,
attraverso un'immagine, che la convivenza pacifica e paritaria è
possibile. Nella società ed in famiglia. E che l'impegno della cura
di prole e anziani non è "roba da donne", ma dev'essere
fatica comune. Perchè costruire rapporti di sostegno reciproco e
solidale, tempi di lavoro flessibili e scuole più accoglienti, ruoli
intercambiabili e infrastrutture intelligenti..., non è un’utopia,
ma un obiettivo cui mirare in tempi stretti.
Come?
Con foto simboliche, o realistiche, foto di cronaca, serie
fotografiche, minivideo, racconti animati. Un premio aperto ad ogni
forma di creatività e sensibilità. cui possono accedere sia
professionisti sia appassionati, anche minorenni (col consenso dei
genitori). Le prove andranno inviate - sotto forma di file in alta
definizione all’indirizzo sguardodigiulia@gmail.com, allegando le
liberatorie, i dati anagrafici e irecapiti, nonché una breve
spiegazione - entro e non oltre la mezzanotte del 27 settembre 2014.
Il bando completo è scaricabile su www.giuliagiornaliste.it , oppure
scrivendo a giulia.lombardia@gmail.com . A tutti andrà un attestato
di partecipazione, mentre i quattro vincitori (professionisti, non
professionisti, under 18, video) riceveranno macchine fotografiche e
videocamere offerte da aifoto (www.aifotoweb.it) e un abbonamento ad
una rivista specializzata.
Il
concorso - "Chiamala violenza, non amore" nel 2013 e
"Concilia? Tra lavoro, cura e tempo per sè" nel 2014 - è
bandito da un'associazione di giornaliste democratiche ("Giulia
Giornaliste") stufe di vedere l'informazione ancora soggetta ad
un'iconografia di genere stereotipata. L'anno scorso il tema era la
violenza sulle donne "travestita" da amore. Quest'anno la
sfida sulla conciliazione è più ardua e simbolica, ma proprio per
questo ancora più interessante. Il concorso, che ha ottenuto i
patrocini non onerosi di Regione Lombardia, Provincia di Milano,
Comune di Milano, Comune di Sesto San Giovanni e Ordine dei
giornalisti della Lombardia, si svolge quest'anno nell’ambito del
progetto Così sono, se mi pare. Oltre gli stereotipi, la sfida della
parità, promosso dal Comune di Sesto San Giovanni e realizzato
nell’ambito dell’iniziativa regionale «Progettare la parità in
Lombardia 2014».
lunedì 15 settembre 2014
»"Dare a Santippe quel che è di Santippe" Giovanna Romualdi
GiULiA giornaliste rilancia il problema di un uso della lingua
italiana corretto per quanto riguarda il genere con una guida per chi
opera nel campo dell’informazione curata da Cecilia Robustelli.
Circa trent’anni fa la Presidenza del Consiglio dei Ministri,
raccogliendo una proposta di Alma Sabatini alla Commissione delle
Pari opportunità, commissionava e successivamente pubblicava una
ricerca su Il sessismo nella lingua italiana, curata dalla stessa
Alma Sabatini; l’Autrice anche allora vedeva il risultato di questa
ricerca come "... suggerimenti rivolti in primo luogo alla
stampa che massimamente contribuisce a coniare e far passare i
neologismi e le mode linguistiche...".
L'11 giugno 2014) Laura Boldrini, presidente della Camera dei
deputati (?), partecipa alla presentazione nella Sala Moro a palazzo
Montecitorio di Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso
dell’italiano" di Cecilia Robustelli , edito da GiULiA
giornaliste [1]
Questi due fatti evidenziano non solo un salto ma anche una
continuità istituzionale, come rileva Cecilia Robustelli che nella
presentazione ricorda che in questi trenta anni si sono avuti molti
atti istituzionali che raccomandavano proprio un’attenzione al
linguaggio al fine della promozione della parità di genere. Non si
riparte dall’anno zero perché si raccoglie non solo l’eredità
dell’opera anticipatrice di Alma Sabatini, il cui valore è stato
ricordato dalla stessa Cecilia Robustelli, ma anche il frutto della
continua ricerca andata avanti sul tema ( come testimonia lo stesso
percorso di ricercatrice di Cecilia Robustelli) - v. anche alcuni dei
tanti testi che sono stati prodotti in quest’arco di tempo e che
riportiamo in nota.
Questa breve e sicuramente incompleta nota ci conferma però che Il
discorso viene da lontano; è un percorso lungo e impegnato che ha
accompagnato questo "problema" negli anni anche con
incontri nelle scuole, corsi nelle università, presso la Commissione
nazionale Pari Opportunità dove, negli anni novanta, fu insediato il
Tavolo delle Giornaliste (importante luogo di confronto libero sulla
funzione, i contenuti e le forme del lavoro nel campo
dell’informazione); un percorso molto in giro per l’Italia
purtroppo senza Alma (morta nel 1988) ma ininterrottamente lo stesso,
grazie alle Commissioni di parità. Anche grazie a quel lavoro
costante si sono prodotte nel tempo le condizioni, che abbracciano
anche il linguaggio, ma non solo, per arrivare ad avere oggi -
speriamo - la giusta attenzione e forse un qualche cambiamento.
Allora la stampa dedicò alla pubblicazione delle "raccomandazioni"
poco spazio, quasi sempre in negativo perché evidentemente si
toccava un nodo culturale forte, di potere. Oggi, la presenza di un
maggior numero di donne anche sulla scena istituzionale rende -
speriamo - di uso più immediato questo "libretto da bisaccia"
( così lo definisce - con citazione culturale - Cecilia Robustelli,
per il suo formato tascabile).
Ben venga dunque questo Donne, grammatica e media, "libretto
prezioso" in funzione di un problema che non è solo di
conoscenza: per l’economista Fiorella Kostoris le donne sono spesso
esse stesse responsabili dell’uso sessista delle parole perché
hanno paura di sminuire la loro posizionew faticosamente raggiunta.
Ma l’avvio di quell’ampio dibattito pubblico auspicato da Laura
Boldrini avrà bisogno di iniziative concrete per avere una
attenzione di sostanza da parte dei media, perché finisca nelle
tasche e sui tavoli di lavoro di giornaliste e - ci auguriamo tutte -
di giornalisti. Perlomeno io, personalmente, ho così fatto con
quell’altro "libretto da bisaccia" che esattamente venti
anni fa pubblicava la rivista settimanale "Avvenimenti": il
Dizionario sessuato della lingua italiana curato da Elettra Deiana,
Bianca Madeccia, Silverio Novelli, Edgrado Pellegrini oltre a
Marcella Mariani che aveva già collaborato alla ricerca di Alma
Sabatini. Non so quale diffusione, od uso abbia avuto su altri tavoli
...
Oggi non viene presentato un "dizionario sessuato": Cecilia
Robustelli dà al suo testo una forma di "proposte operative"
partendo da esempi concreti di "come si parla nei media",
dai "dubbi grammaticali e grafici" che insorgono quando si
scrive o si rappresentano soggetti donna, accompagnandole con
riflessioni, soluzioni attente alla correttezza lignuistica delle
"’nuove’ forme.femminili", alle questioni
morfosintattiche, ma anche alla comprensibilità/accettazione di chi
oggi legge.
La "guida" si chiude con un "breve vocabolario delle
professioni e delle cariche", curato da GiULiA
Nella prefazione, Nicoletta Maraschio presidente onoraria
dell’Accademia della Crusca, ci dice che "la lingua non solo
rispecchia una realtà in ’movimento’, ma può svolgere una
funzione ben più importante: quella di rendere più visibile quello
stesso movimento e contribuire così ad accelerarlo in senso
migliorativo".
Ancora una volta l’obiettivo è politico, "dare a Santippe
quel che è di Santippe", come dice l’economista Fiorella
Kostoris nella presentazione a Montecitorio: dare visibilità anche
attraverso il linguaggio alle donne perché "Ciò che non si
dice non esiste " ricorda nell’introduzione Maria Teresa
Manuelli, segretaria di GiULiA). Ma, richiama ancora Kostoris, si
tratta di andare poi oltre il linguaggio, promuovere per le donne
"tempi nuovi".
per informazioni e contatti: giuliagiornaliste@gmail.com;
www.giuliagiornaliste.it
domenica 14 settembre 2014
Le donne e il sessismo nella lingua: intervista alla Prof.ssa Gabriella Alfieri dell’Università di Catania Alessia Costanzo
«Presidente della camera», «cittadino» e «cattolico»: in tal
modo si definì Irene Pivetti quando fu eletta nel 1994 come
Presidente della camera dei deputati. Ma se attualmente dovessimo
riferirci ad una donna, che riveste una carica istituzionale, quali
termini utilizzeremmo? Il presidente, la presidente o la
presidentessa?
La lingua, soggetta a mutamenti, non sempre possiede
dei confini ben definiti. Nell’incertezza linguistica, i parlanti
compiono degli svarioni che non consistono solo nell’adottare forme
deviate rispetto alla norma, ma anche nel servirsi delle tradizionali
forme maschili, pur riferendosi ad una donna. Anche questa “messa
in sicurezza” da parte del parlante, dovrebbe rappresentare un
errore, che non è ancora stato riconosciuto chiaramente. Già nel
1993 nell’opuscolo “Il sessismo della lingua”, curato da Alma
Sabatini, vi era un capitolo dedicato al campo delle professioni
femminili. Si richiedeva di scegliere forme linguistiche femminili
che avessero pari dignità rispetto a quelle maschili , e in seguito
veniva elencata una serie di termini come “ingegnera, architetta,
avvocata”, che avrebbe dovuto essere utilizzata. L’appello rimase
però inascoltato. Ѐ difatti raro sentire l’uso di tali termini,
e non solo da parte degli uomini, ma anche delle donne, che
dovrebbero dare l’input per un cambiamento, anzi per il
cambiamento.
In ambito filosofico la donna é stata definita «un vivente che ha
un linguaggio nella forma dell’auto-estraniazione, non si
autorappresenta nel linguaggio ma accoglie rappresentazioni di lei
prodotte dall’uomo; così la donna parla e pensa, si parla e si
pensa, ma non a partire da sé.». Definizione dalla quale ci mette
in guardia la docente di Storia della lingua italiana all’Università
di Catania, Gabriella Alfieri, che con molta disponibilità ha
accettato di essere intervistata su una questione così rilevante.
«Ѐ una citazione condivisibile. Se noi prendiamo tale osservazione
come una storicizzazione di quello che finora è stato il ruolo della
donna sono d’accordo, ma occorre contestualizzare: se la donna
appartiene ad una classe sociale elevata, ha gli strumenti sociali,
come l’istruzione, e si realizza socialmente, difficilmente questo
tipo di donna si autorappresenterà con gli stereotipi ereditati. Se
la donna appartiene ad ambienti socio-culturali dove c’è ancora la
predominanza maschile assoluta, allora la citazione può essere
accettabile»: in tal modo si è espressa a riguardo la prof.ssa
Alfieri. Dunque se la donna non si nasconde dietro ad un linguaggio
maschile, perché forme femminili per le professioni non sono state
ancora accolte dai parlanti? Ciò è dovuto alla cacofonia di termini
come “ingegnera”, o la società non è ancora pronta ad
abbandonare una visione maschilista anche in ambito linguistico? La
docente a tal proposito ci ha suggerito di prendere in considerazione
la norma, non dettata dall’alto, ma come consuetudine sedimentata:
difatti è un gruppo di parlanti che influisce fortemente sull’uso
di un termine. L’esempio, è rappresentato da forme come
“ministra”, che in passato non veniva utilizzata dalle donne che
dovevano salvaguardare la propria dignità socio-professionale,
perché era un espressione molto recente; oggi il termine ministra è
invece entrato nell’uso, grazie alla presenza delle donne nei
governi precedenti.
La prof.ssa Gabriella Alfieri sostiene difatti che forme come
“ingegnera” potrebbero essere utilizzate in futuro, nel momento
in cui le neolaureate vorranno essere chiamate o si firmeranno in tal
modo, e aggiunge inoltre che «se le donne continueranno ad
incrementare la propria presenza sociale e professionale, tali forme
verranno utilizzate». Il sessismo della lingua non riguarda solo le
professioni, ma coinvolge anche espressioni come “diritti
dell’uomo”, che anche in questo caso escludono la donna dal punto
di vista linguistico. Secondo la docente, sarebbe difatti corretto
utilizzare forme alternative , come “diritti della persona”, che
dovrebbero essere adottate dai legislatori. “Paternità dell’opera”
si è diffuso invece perché la maggior parte degli scrittori sono
sempre stati uomini. La prof.ssa propone di sostituire tali termini
non con “la maternità dell’opera”, ma con “la genitorialità
dell’opera”.
Oggigiorno il ruolo della donna è sempre più determinante,
soprattutto in ambito sociale, dunque perché mai dovremmo essere
restii ai cambiamenti linguistici atti a rappresentarci nel migliore
dei modi?