Il primo maggio è la festa dei lavoratori. Ma il lavoro, in tempi di crisi e di precarietà, è diventato ormai sempre più spesso un miraggio che, quando svanisce, colpisce e fa male. Un problema che coinvolge soprattutto le donne, costrette a fare i conti anche con i pregiudizi che ancora esistono riguardo alla maternità. Noi abbiamo voluto dare voce a 6 di voi che ci hanno raccontato le loro storie, tra licenziamenti e ricerca affannosa e (spesso infruttuosa) di una nuova occupazione
Primo maggio, festa del lavoro. Lavoro che da diritto è diventato privilegio. Soprattutto per le donne. Secondo i dati Istat aggiornati a febbraio, il tasso di disoccupazione rimane stabile all'11,7% per gli uomini mentre per le donne sale al 14,1%. Ne abbiamo intervistate cinque per capire con loro cosa significa svegliarsi la mattina senza doversi recare in ufficio, collegarsi a una postazione da pc, insomma senza doversi preparare per “andare a lavoro”. Un impiego che sia retribuito. Perché, non dimentichiamocelo: tutte le donne, tra figli e faccende domestiche, un lavoro da fare ce l’hanno, eccome. Ma non vengono pagate. Ecco le loro storie, nel giorno della festa dei lavoratori.
DANIELA SOLA, 35 ANNI
"Dopo il periodo di maternità, il licenziamento"
"Sono sposata e mamma di un bambino di quattro anni, diplomata in ragioneria e con una laurea breve di tre anni conseguita nel 2004. Nel mio settore non ho trovato nulla, nemmeno valutando ditte molto lontane dalla mia zona. Così ho accettato lavori in nero e poco retribuiti, ma che mi hanno permesso di farmi un po' di esperienza. A fine 2005 il mio primo contratto: apprendista operaio, nonostante svolgessi lavori di segreteria. Ma pur di avere un lavoro retribuito e con i contributi ho accettato. Nel 2007 (anno del mio matrimonio) ho cambiato lavoro, sempre con contratto di apprendistato. Nel 2010 abbiamo deciso di mettere su famiglia e nel 2011 è nato il mio splendido cucciolo. Dopo il periodo di maternità, al rientro al lavoro, ho ricevuto una lettera di licenziamento e mi sono ritrovata disoccupata.
Ho cercato lavoro per diversi mesi, anni tra invii di curricula, ricerche di annunci, passaparola, agenzie interinali, centri per l'impiego. Trovare lavoro è durissimo. Ho avuto qualche raro cenno di interesse ma appena sanno della mia età (non più fruibile per un apprendistato) e capiscono che sono mamma di un bimbo piccolo ('quindi vorrà dargli un fratellino?') mi salutano. Poi con la laurea, anche se mi propongo come operaia, vengo scartata perché potrei avere troppe pretese. Capire che avrei dovuto dedicarmi interamente alla famiglia è stato un duro colpo. Un conto è essere in maternità e avere in testa l'idea di tornare al lavoro. Un altro è avere come meta le mura di casa. Non nego di essere depressa ogni tanto. Occuparsi del bimbo, della famiglia e della casa è facile fisicamente, ma faticoso psicologicamente. L'inghippo è che si vive sempre la stessa routine senza avere un momento per staccare. L'umore non ne ha giovato, anche a causa dell'aspetto economico. Il nostro bilancio ne ha risentito pesantemente e il nostro stile di vita è cambiato. Curiosando tra le vetrine mi fermo spesso a pensare: 'Bello, ma non ne ho bisogno, con quella cifra meglio comprare le scarpe nuove per lui, le altre sono già piccole'. Non parliamo di andare al ristorante, chi l'ha più fatto? Quanto mi manca il mio stipendio! L'aspetto più duro, ora che il bimbo va alla scuola materna, è avere le mattine libere e ritrovarsi a fare continuamente le stesse cose. Le mie amiche che lavorano mi dicono che sono molto fortunata perché ho potuto crescere il bambino e fare i lavori di casa senza dover concentrare tutto nel weekend. È senz'altro vero ma quando chiedo: 'Ma tu, quando vuoi comprarti una borsa nuova, lo fai? O pensi che stipendio ce n'è uno solo e il budget del mese è già quasi finito?'…Mi rispondono con un sorriso...
Sono grata e felice di aver sempre la casa pulita e in ordine, la spesa fatta e la cena pronta, ma la soddisfazione dov'è? Il mio è un lavoro a tutti gli effetti ma non sono retribuita, se sto male non posso mettermi in mutua, non ho giorni di ferie o permessi... voglio una settimana di ferie dalla famiglia!"
MARICA ROSSI, 33 ANNI
“Tutta la mia disponibilità, tutte le ore di straordinario non solo non pagate, ma spesso mai recuperate, erano servite solo ad autorizzare gli altri a pretendere ancora e ancora”
"Ho due figli e una laurea in sociologia. Vivo a Roma da quattro anni con il mio compagno che ha una sua attività indipendente. Al momento sono disoccupata 'per mia scelta', da novembre. La richiesta di questa intervista mi ha entusiasmata e sorpresa proprio perché cade in un momento personale di riflessione sugli ultimi anni della mia vita, una sorta di elaborazione della mia ultima esperienza lavorativa. Pur avendo una laurea in sociologia e avendo attivamente cercato in quest'ambito un'occupazione che però non fosse volontariato (dovendo sostenere quanto meno il costo di una babysitter), quattro anni fa mi sono ritrovata col secondo figlio di pochi mesi ad accettare un lavoro part time di 20 ore settimanali come assistente alla vendita per un marchio di abbigliamento abbastanza noto. Inizialmente ero parecchio soddisfatta, il contratto era a tempo determinato, con tre settimane di ferie, due di permessi e le malattie; certo, pagata la babysitter mi restava davvero poco, ma lo vedevo come un inizio e soprattutto riassaporavo un po' di libertà dalla casa e dai bambini. Avevo già fatto questo tipo di lavoro saltuariamente per arrotondare quando studiavo all'università e anche se non sono assolutamente una 'schiava del fashion' risultavo simpatica alla gente, cercando di essere nei limiti sincera e non invadente. Spesso però questo mi creava difficoltà quando mi scontravo con superiori che avevano un approccio diametralmente opposto e che pretendevano che assillassimo le persone. Attraverso meccanismi e calcoli delle percentuali di vendita, del raggiungimento di obiettivi (spesso impossibili e assolutamente slegati da ogni tipo di contesto economico o climatico) l'ambiente non era piacevole, la competizione per una maglietta venduta in più (che poi in busta paga si sarebbe trasformata in non più di cinque centesimi) era davvero sconfortante. Ciononostante ho resistito anzi ho fatto carriera! Ho aumentato le ore fino a diventare full time e se non altro grazie a questo mio figlio ha finalmente scalato la graduatoria del nido, visto che se non lavori non hai punteggio sufficiente ma neanche i soldi per permetterti un nido privato, e questo meccanismo un po' perverso porta purtroppo molte donne disoccupate a rimanere tali.
Negli ultimi tre anni ho anche cambiato diverse volte sede di lavoro, ma dovunque approdassi ero sempre l'unica ad avere dei figli, la più 'vecchia' e sicuramente una delle poche a saper leggere un minimo la busta paga e ad avere un'idea seppur vaga dei miei diritti per contratto. Perché il gioco è proprio questo, nel fantastico mondo dei contratti macina persone: un ricambio velocissimo del personale (con tutto ciò che comporta anche per quanto riguarda la possibilità di stringere rapporti duraturi con i colleghi) e neoassunti giovanissimi part time, studenti fuori sede, troppo spesso disposti/costretti a farsi sfruttare con lo spauracchio sempre tenuto vivo di una fila interminabile di cloni pronti a prendere il loro posto. Non so dire di preciso quando ho iniziato a stare davvero male con me stessa, giorno dopo giorno, nel recarmi al lavoro, nel prestarmi sempre più a logiche che non solo non mi appartenevano, ma che lucidamente riconoscevo come sbagliate, insostenibili, nemiche. Forse quando ho dovuto ricoverare mio figlio e quindi assentarmi diversi giorni e per la prima volta ho toccato con mano che tutta la mia disponibilità, tutte le ore di straordinario non solo non pagate, ma spesso mai recuperate, erano servite solo ad autorizzare gli altri a pretendere ancora e ancora. Avevo nell'ultimo anno raggiunto un ruolo di responsabilità, è vero, ma troppo spesso questo era inteso come il dover assicurare una disponibilità e una reperibilità che esulava largamente dai miei obblighi contrattuali. Era così per tutti, ma ovviamente essendo l'unica ad avere anche il peso di una famiglia, per me risultava sempre più difficile conciliare 'imprevisti', sostituzioni e rinunce più o meno spontanee alle ferie per 'esigenze aziendali'. Troppe volte mi sono chiesta come una stessa azienda potesse comportarsi in modi così diversi con i propri dipendenti a seconda del loro Paese, perché pagare gli straordinari in Francia o in Germania era possibile, mentre a noi italiani era chiesto sempre un sacrificio in più. La risposta che mi sono data è che ovunque la differenza la fanno le persone. Ovviamente le persone che hanno un minimo di potere nel prendere alcune decisioni. Se chi hai di fronte, nonostante la bella maschera di democraticità, la moda delle riunioni o i gruppi whatsapp aziendali, sotto sotto è convinto che non sia veramente un tuo diritto riposare, godere delle ferie stabilite per legge, avere un tempo di vita privato da potersi organizzare, quello che succede è che ci si ritrova a doverli elemosinare questi diritti. Nel mio caso mi sono trovata a farlo per me, e, cosa ancora più assurda dal punto di vista dei miei superiori, per i miei colleghi. Cercavo di essere equa nei turni, nella distribuzione dei riposi e sì, anche nel venire incontro alle esigenze personali degli altri, perché rimango fermamente convinta che il lavoro serva per vivere e non viceversa. Ho visto persone letteralmente impazzire per il troppo stress e da un giorno o l'altro vederlo diventare un peso di cui liberarsi con ogni mezzo. Quando ho preso la decisione di rassegnare le dimissioni, dopo mesi di nervosismo, ansia, insonnia e continui mal di testa, mi è stato rinfacciato di essere una privilegiata, solo perché per fortuna potevo contare sul mio compagno e questo se anche sul momento non ci ho dato peso, mi ha ferita molto. Mi sono sentita per diverso tempo debole, sconfitta, in qualche modo in colpa per non essere stata abbastanza forte da 'tenermi' il mio lavoro. Anche se la mia parte razionale continuava a ripetermi che non c'erano le condizioni perché io o chiunque altra nella mia situazione potesse lavorare serenamente e organizzarsi una vita normale. Questo che viene sarà di nuovo un primo maggio di festa dopo tanti passati al lavoro e il mio bilancio personale per ora si chiude con la consapevolezza della mia forza. Oggi so che se non sapessi come sfamare i miei figli, come tutti, potrei anche sottostare a condizioni inumane, ma ho capito che se si ha anche solo una minima alternativa è altrettanto nostro dovere dissociarci da tutto ciò che ci allontana da noi stessi".
DANIELA MATTA, 39 ANNI
“Non voglio recriminare più di tanto, attribuisco gran parte dei miei insuccessi a me stessa”
"Provo un po' di imbarazzo quando mi si chiede cosa faccio, specie se non ho il tempo per raccontare di questo lavoro che, a oltre dieci anni dalla laurea in lettere (a Cagliari, nel 2001, ma dal 2002 vivo a Firenze) a spizzichi e bocconi, non mi ha consentito mai né di essere autonoma (dai miei prima, dal mio compagno e padre di mia figlia ora), né di possedere un'identità precisa.
Sì perché una parte della propria identità, vuoi o non vuoi, si definisce con il tuo lavoro. E io appunto un lavoro fisso, che mi depositi un bel tot sul conto in banca, che mi tenga occupata regolarmente e mi regoli le giornate non ce l'ho. Ma io, poi, le voglio regolate queste giornate? O forse ho perso l'abitudine alla regolarità? O forse mi spaventa oggi più che mai il lavoro fisso, quello che ti sfinisce la schiena, la vista, il cervello perché troppo sedentario o pressante, perché a ritmo troppo sostenuto o noioso? Si vede che non sono disperata ora, altrimenti non parlerei così. Eppure lo sono stata, ho passato mesi alla ricerca di uno straccio di lavoro. Persa nel mare magnum degli annunci, della pena dell'invio dei curriculum (no, non mi piace dire 'curricula'), ognuno con la sua letterina, nel tentativo spasmodico di far colpo su gente che magari un lavoro non lo offriva nemmeno, e tu a spiegare cosa sapevi fare e quanto eri disposta a fare anche quello che non sapevi fare, a mostrare duttilità, interesse, capacità di lavorare in team.
In realtà un bel lavoro, quello per cui avevo studiato (lettere moderne con indirizzo storico-artistico, poi master in beni culturali a Siena), l'avevo anche trovato, eppure stupidamente, come tutte quelle che sono passate di lì, sono scappata: contratti a progetto fasulli, una costante per me, rinnovati sempre all'ultimo momento, con la paura, forse irrazionale, di non vedermelo rinnovato proprio; paga da contratto di 750 euro per lavorare dalle 9 alle 18-19, più straordinari; poi diventavano anche 900, ma una volta ne presi 600, perché mi ero assentata, tra vacanze di Natale e influenza. Ecco, questo mi ha sempre fatto rabbia, il dover vivere e lavorare con la paura del domani. Eppure credo che se avessi resistito, oggi sarei ancora lì, a lavorare all'organizzazione, comunicazione, promozione di mostre. Dopo ho trovato solo di peggio, e magari provavo anche per necessità a fare altro, sempre con poco successo e soddisfazione personale. In realtà non voglio recriminare più di tanto, e attribuisco gran parte dei miei insuccessi a me stessa, alle scelte formative fatte senza troppa motivazione, al non troppo impegno (sono severa con me stessa e allo stesso tempo a tratti poco sicura delle mie capacità), al non aver saputo riconoscere attitudini e interessi dall'inizio (le lingue, l'editoria, gli eventi). Troppo poca determinazione anche. Ho fatto tanti altri corsi di formazione dopo, con finanziamenti per disoccupati, ma non sono riuscita comunque ad andare fino in fondo. Ora l'unico che mi dà da lavorare è il mio compagno, l'unico che mi dice 'sei brava, devi venderti bene'. Perché altrimenti sarei solo una casalinga disperata (con Equitalia alle calcagna)".
ANTONELLA LAROTONDA, 34 ANNI
“Sono preoccupata perché inizio a essere triste e disillusa. Io che poco tempo fa credevo di spaccare il mondo…”
Una licenza liceale, una laurea magistrale in scienze della comunicazione conseguita alla Sapienza di Roma nei canonici cinque anni, un costosissimo master in giornalismo. Anni di studi durante i quali pensavo che avrei avuto una meravigliosa carriera. Sono partita con due stage non retribuiti presso noti gruppi editoriali. Esperienze molto belle, ma al termine delle quali mi è stato dato un cordiale benservito. Poi la carriera è passata attraverso l'infernale girone dei co. co. co. Ho trovato lavoro in una piccola televisione locale che aveva bisogno di due braccia in più in vista delle elezioni provinciali. L'azienda mi aveva avvista: un co.co. co. di sei mesi, se sei brava un secondo rinnovo, ma poi stop perché altrimenti ti dobbiamo assumere a tempo indeterminato. E non sia mai!. Sono stata brava e di contratti a termine me ne hanno fatti due. Altro giro, altra corsa. Ritorno a scrivere per pochi euro ad articolo in un quotidiano locale. Lo faccio per diversi mesi e poi la svolta: mi fanno un contratto di sostituzione maternità. È sempre un contratto a termine, ma è un contratto vero. Ci sono le ferie pagate, la tredicesima e tutti gli annessi e connessi. La collega che sto sostituendo si dimette e tutto sembra portare verso la mia assunzione definitiva. Se non fosse che l'editore viene investito da una tempesta giudiziaria, il giornale sospende le pubblicazioni e dopo un periodo di cassa integrazione io e i miei colleghi ci ritroviamo senza lavoro. Ok, questa è sfortuna con la esse maiuscola. Ma non mi preoccupo più di tanto, sono convinta che in tempi brevi troverò un altro lavoro. Così non è stato e adesso sono preoccupata perché sembra che nessuno voglia più assumere una donna di 34 anni, che nel frattempo è diventata mamma, con un curriculum come il mio. Sono preoccupata perché quando mi candido a un'offerta di lavoro che sembra perfetta per me non ricevo mai risposta. Sono preoccupata perché passo i pomeriggi sui motori di ricerca dedicati al lavoro, mando mille curriculum ed è come lanciare palloncini in aria. Sono preoccupata perché ho fatto solo tre colloqui in quasi quattro anni grazie a delle conoscenze e non sono andati a buon fine. Perché? Nel primo caso ero 'troppo qualificata'. Un'associazione di categoria cercava una segretaria di direzione e io, secondo il direttore, con una laurea e un master avrei potuto lasciarli se avessi trovato di meglio. Nel secondo caso l'azienda (un'importante multinazionale) ha deciso di 'non integrare nel proprio organico la figura precedentemente richiesta', che nello specifico sarebbe stato un responsabile della comunicazione esterna. Avevo fatto tre colloqui, all'ultimo dei quali mi avevano parlato di stipendio e orari di lavoro e mi avevano liquidato con un 'la chiameremo per i dettagli in settimana'. Non mi hanno mai richiamata e quando sono riuscita a parlare con qualcuno, questo qualcuno mi ha spiegato che il grande capo aveva deciso che non avevano più bisogno di quel tipo di risorsa, ma che avrebbero tenuto da conto il mio curriculum per eventuali altre posizioni aperte. Nel terzo caso, un posto da copywriter in un'agenzia di comunicazione, ero 'troppo vecchia' dato che il titolare avrebbe voluto farmi sottoscrivere un contratto di apprendistato. Dunque sono preoccupata perché io il lavoro lo cerco e non lo trovo. Sono preoccupata perché sono disoccupata da troppo. Sono preoccupata perché inizio a essere triste e disillusa. Io che poco tempo fa credevo di spaccare il mondo".
ROSITA, 36 ANNI
“Mi trasferisco all'estero, la decisione è stata presa subito dopo la notizia che anche il mio compagno tra un mese avrà la sua lettera di licenziamento. Non aspetteremo e non aspetterò che anche lui cambi e si senta come me!”
"C'era una volta in un fantastico negozio d'arredamento con un titolare dispotico, una povera impiegata che sperava ogni giorno di trovare un altro lavoro... La lettera di licenziamento è arrivata e lei da 25 mesi cerca ancora quel lavoro. L'inizio fiabesco è solo per continuare a sperare, anche perché le favole le racconta già senza tregua chi ci governa. La mia storia è come tante che ho sentito, e ahimè continuo a sentire ogni volta che vado ai colloqui di lavoro e parlo nell'attesa con i miei 'colleghi', oppure chiacchierando con amici che si trovano nella mia situazione: è incredibile, ho solo 36 anni, io che dovrei mangiarmi il mondo, mi trovo masticata e vomitata da una società che fino a 25 mesi fa progrediva anche grazie al mio lavoro, alle mie tasse.
I colloqui, altro capitolo: per qualsiasi lavoro siamo sempre tanti. Una volta per un posto da segretaria eravamo in 18, ho fatto il colloquio dopo oltre un'ora. Poi ancora un colloquio per un famoso negozio di cosmetici a basso costo: mi chiedono perché voglio cambiare settore e mi dicono che sono troppo qualificata. Scusate se ho studiato e fatto esperienze all'estero. Ho trovato anche da lavorare: in call center per 30 giorni e se sei fortunato ti rinnovano il contratto per altri dieci giorni. Non ci paghi nemmeno l'abbonamento ai mezzi pubblici, e devi lavorare per 40 giorni e poi stare a casa altri 50 giorni, se tutto va bene. Se riesci a trovare un altro lavoro con un fisso bene, altrimenti devi accontentarti di lavorare a provvigione, e se a fine mese non arrivi a un minimo di appuntamenti, vendite e altri cavilli simili non avrai neanche quei 300 euro. Non puoi lamentarti con nessuno, i tuoi diritti non ci sono, sono stati abbandonati quando hai accettato di 'lavorare' e recarti ogni mattina in quegli uffici. Ho letto un articolo, dicono che ai disoccupati cambi il carattere: allora è vero, ora che un giornale ne ha parlato sarà vero, perché io mi sento davvero cambiata. Per me il mio lavoro è un po' la mia identità, è quello per cui ho lottato, ho studiato, ho cambiato città, ho messo tutta la mia passione, e ora questa crisi mi porta via la mia identità, forse per questo sono ferita, disgustata e amareggiata. A volte ho paura di aver sbagliato tutto, di trovarmi in questa situazione a causa mia, perché non sono riuscita a crearmi la mia strada, la mia indipendenza, e ora è difficile, faccio fatica a pensare, a trovare uno stimolo per ricominciare. Questa disoccupazione mi ha tolto la fiducia nelle mie potenzialità, perché vedo ogni mio sforzo vano. Non saprò mai la soluzione: getto la spugna, ma tranquilli, non mi suicido, anche se è quello che vogliono, vogliono che noi disoccupati ci estinguiamo, un po' come i dinosauri, siamo obsoleti, ora gli serve carne fresca, nuovi 25enni con tante speranze e poche esperienze. No, mi trasferisco all'estero, la decisione è stata presa subito dopo la notizia che anche il mio compagno tra un mese avrà la sua lettera di licenziamento. Non aspetteremo e non aspetterò che anche lui cambi e si senta come me!"
DONATELLA NICOLODI, 48 ANNI
"Sono disoccupata. E ho quasi cinquant'anni. Cos'è? Una sentenza? Una diagnosi? È tutto ed è niente. È un pozzo in cui si cade o un trampolino che ti lancia in alto, sempre più in alto. Personalmente preferisco credere di essere su un trampolino, di avere quindi davanti a me nuove occasioni tutte da scoprire. È così facile lasciarsi prendere dallo sconforto, ma non lo permetto. In altre occasioni ho sperimentato l'inutilità di piangersi addosso, bisogna solo rimboccarsi le maniche e una volta toccato il fondo si può risalire. Non è facile. Mi piacerebbe sapere quante donne sono nella mia stessa situazione. Quante sono le donne che come me hanno interrotto gli studi per dedicarsi alla famiglia, convinte di fare la cosa giusta, convinte che il matrimonio sarebbe durato per sempre. Ho peccato di ingenuità. A quanto pare nulla è per sempre e anche un matrimonio può finire. Così dopo quindici anni di vita coniugale e due figli mi sono ritrovata a riflettere sul mio futuro di donna divorziata, che deve reinventarsi la vita. Ricordo di essermi concessa una settimana di 'lutto' in cui il pianto riempiva le mie giornate. Poi presa coscienza di trovarmi su una via senza ritorno, ho posto una grande pietra tombale sul mio matrimonio e ho cominciato a pensare lucidamente. Si ricomincia. Era il 2009 e abitavo in Germania. Ho incominciato allora a frequentare i vari uffici di collocamento. Per chi cerca lavoro quei posti rappresentano la speranza di un nuovo futuro, ci si affida completamente all'impiegato, visto come colui che può darti la soluzione a tutti i problemi. Ma ecco le prime delusioni. È stato terribile constatare che in quei posti si è semplicemente uno dei tanti casi, che per loro i tempi burocratici hanno tutt'altro significato e non capiscono cosa voglia dire trovare al più presto un'occupazione che permetta semplicemente di sopravvivere. Ho dovuto anche sentirmi chiedere che cosa avessi fatto fino ad allora ('Ma signora, cosa ha fatto in tutti questi anni?'). Dovermi giustificare spiegando che in quei 15 anni avevo cresciuto dei figli (spesso da sola per permettere al marito di viaggiare e fare carriera) è stato per me molto umiliante. C'era molta rabbia in me, molta voglia di spostare montagne, ma cozzavo spesso contro pareti di gomma. Poi finalmente l'occasione tanto aspettata, un posto di lavoro che sembrava una vincita al lotto. La rinascita. Meravigliosa la sensazione dell'indipendenza economica! Il mondo mi appariva con nuovi colori. Il tempo scorre e dopo quasi quattro anni la crisi colpisce anche la ditta presso cui lavoravo obbligandola a ridurre il personale. Sono disoccupata. Di nuovo sono qui a reinventarmi, a combattere. Ma non mi demoralizzo, le crisi mi rendono creativa e sono sicura che almeno uno dei miei progetti potrà realizzarsi. Ho quasi cinquant'anni e tanta voglia di vivere".
Pagine
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giovedì 30 aprile 2015
mercoledì 29 aprile 2015
Contrastare gli stereotipi a partire dalle scuole di Fiorenza Deriu
Gli studi lo
confermano, la scuola è il contesto privilegiato in cui intervenire
per prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste e
misogine
La violenza di
genere può essere veicolata e radicarsi nella cultura prevalente
attraverso discorsi e immagini stereotipate che propongono modelli di
rappresentazione delle relazioni tra uomini e donne fortemente
asimmetrici. Discorsi e immagini che trovano nutrimento in contesti
diversificati: in territori urbani fortemente deprivati, in gruppi
che promuovono atteggiamenti misogini e machisti, sui mezzi di
comunicazione, nella pratica.
Accade, dunque, come
emerge dallo studio di Torres, che in quartieri come quello Zen di
Palermo, simbolo del degrado e del fallimento delle politiche
pubbliche, le donne restino imprigionate in ruoli stereotipati di
subordinazione e sudditanza rispetto agli uomini; in un destino di
invisibilità, di silenziosa acquiescenza a compiti e doveri, alla
definizione dei quali il linguaggio contribuisce in modo
significativo. Il linguaggio, in tali contesti, si fa strumento di
trasmissione di ruoli sociali che le donne assumono come 'naturali';
legittimando il dominio maschile sull’altro sesso. La donna è
'vera' donna solo quando è figlia obbediente, brava madre, brava
moglie, quando dunque rientra in una sfera di definizione che la veda
ora figlia ora moglie nel passaggio di autorità dal padre al marito;
oggetto di scambio e di possesso.
La forza coercitiva
del discorso misogino è messa ben in evidenza nello studio di
Iovine, basato sull’analisi del linguaggio e dei modelli di
ragionamento dei membri di alcuni gruppi misogini, anti-femministi
che popolano la rete. L’analisi del linguaggio scritto ha
consentito di far emergere alcune costanti nello svolgimento del
ragionamento sessista al quale si associano vissuti e relazioni
sociali difficili. Dunque, dietro al percepirsi e rappresentarsi come
vittime; all’autoreferenzialità del pensiero, alla minimizzazione
del fenomeno della violenza contro le donne, si svelano un passato e
un presente segnati dall’assenza di modelli femminili di
riferimento, da rapporti familiari anaffettivi, nonché da una
rarefatta vita sociale. Un ragionamento sessista che non si limita a
testimoniare una cultura maschilista ma che si traduce in un
'attivismo' militante, attraverso il quale si dispiega una difesa di
tipo patriarcale-nazionalista del maschio.
La rappresentazione
stereotipata di modelli femminili patriarcali è spesso favorita
dalla forza mediatica dei mezzi di comunicazione che trasmettono
messaggi degradanti sulle donne che ne sono protagoniste,
contribuendo così ad acuire le disuguaglianze di genere. Lo studio
di Ortolani e Dalledonne Vandini mette ben in luce come la
comunicazione sportiva sia fortemente connotata dalla predominanza di
modelli maschili improntati alla performance, alla forza e alla
leadership che si contrappongono a quelli femminili di atleta/madre e
atleta/compagna. Ecco, allora, emergere le tradizionali dicotomie tra
sport da maschio (calcio, pugilato, rugby, etc.) e sport da femmina
(danza, pattinaggio, ginnastica artistica, etc.). Questa trasmissione
di modelli entra nella ‘carne viva’ del tessuto sociale
riaffermando e legittimando disuguaglianze di genere inaccettabili,
dando loro veste normativa.
Questo è possibile
in ragione della natura performativa del linguaggio, che non
contribuisce meramente a definire, rappresentare e riflettere le
differenze di genere ma le costituisce, producendo effetti reali che
hanno delle conseguenze nel sancire nella società una posizione
subordinata delle donne rispetto agli uomini. Il linguaggio ha dunque
in sé la capacità di contribuire alla costruzione di 'senso', a
stabilire alcune norme sociali costitutive di una cultura sessista. È
questo il punto di partenza della interessante riflessione di
Gerardin-Laverge che si interroga sulla possibilità e la modalità
in cui le donne possano resistere alle categorie veicolate dal
linguaggio e alla realtà che si va così ad affermare, al fine di
comprendere quale sia l’empowement individuale e collettivo
possibile; per rafforzare, la consapevolezza e la capacità di azione
della donna sia come singolo individuo sia come agente collettivo di
azione politica.
Per promuovere e
sostenere la capacità di azione della donna, contrastando e
prevenendo la trasmissione di modelli asimmetrici di relazione, è
necessario acquisire strumenti analitici di decodifica del messaggio
mediatico, capaci di alimentare una riflessione critica sulle
rappresentazioni del mondo femminile proposte e per cercare di
proporne di nuove. Iniziative progettuali e interventi nei luoghi
della formazione costituiscono lo strumento principale per evitare
che le nuove generazioni facciano propri modelli di comportamento e
relazione con l’altro sesso asimmetrici e sessisti.
In questa direzione
si muovono due esperienze: quella presentata da Baule, Caratti,
Tolino, basata sul design della comunicazione; e quella di Ortolani e
Dalledonne Vandini, diretta a sollecitare una riflessione teorica
sulla capacità inclusiva dello sport.
Nel primo caso,
all’interno di alcune scuole medie superiori milanesi, gli studenti
sono stati coinvolti in un processo di lettura e categorizzazione di
immagini, testi e codici espressivi al fine di sviluppare una
capacità di analisi critica della rappresentazione del femminile, di
decostruire gli stereotipi degradanti veicolati dai media, per
giungere alla ri-costruzione partecipata di “senso”, cercando
anche di individuare delle possibili strategie di intervento. Il
lavoro in aula ha portato alla realizzazione di prodotti analogici e
digitali riproducibili in altri contesti scolastici e spendibili in
azioni di sensibilizzazione capaci di 'svelare' gli effetti
intangibili, ma non per questo meno pesanti, degli stereotipi di
genere.
Nel secondo caso, è
stato affrontato il tema degli stereotipi di genere in uno sport,
quale è il pattinaggio artistico, 'tradizionalmente' considerato 'da
femmine' proprio in ragione di registri comunicativi, codici
espressivi e immagini veicolati dal linguaggio sociale e mediatico. A
partire da una ricerca qualitativa condotta sugli atleti e le atlete,
i loro genitori, gli allenatori e le allenatrici di una società
dilettantistica di una cittadina in provincia di Bologna, dalla quale
sono emersi con prepotenza i pregiudizi che pervadono questa
disciplina sportiva, si è proseguito con un’analisi e una
valutazione di alcuni strumenti sperimentati in Emilia Romagna per
diffondere nelle scuole una immagine e un significato della pratica
sportiva capace di accompagnare le profonde trasformazioni
intervenute nelle rappresentazioni sociali del genere e
dell’orientamento sessuale, superando così le barriere poste da
usi linguistici fortemente pregiudiziali.
Gli studi fin qui
discussi indicano nella scuola il contesto privilegiato in cui
intervenire precocemente, fin dalla scuola dell’infanzia, per
prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste, misogine
e assicurare alle donne spazi di azione paritari nel vivere sociale.
martedì 28 aprile 2015
«Da grande vorrei fare la medica…» E la maestra diede a Sofia un bell’8 di Giovanna Pezzuoli
Favole e filastrocche, giochi e rebus per bambine e bambini nel libro «La grammatica... la fa la differenza» per mostrare l'importanza di nominare le donne
Immaginate una scuola dove Sofia svolge il tema scrivendo «da grande vorrei fare la medica» e subito arriva la matita blu della maestra con un brutto 5, ma chissà perché a quel punto le parole vengono colpite da uno strano maleficio: la mostra diventa un mostro, la cappella si trasforma in un cappello, la razza nell’acquario schizza via essendosi tramutata in un razzo, al posto della banca ora si trova solo un banco di legno e così via. Alla fine l’insegnante capisce di avere sbagliato perché esistono due generi nel nostro italiano. E sul compito compare un bell’8!
Sono favole e filastrocche, giochi e rebus rivolti agli scolari delle elementari per rilanciare sui nomi (ma anche sui ruoli), sgretolando la cornice che prescinde dalla soggettività sessuata. Il bel libriccino «La grammatica… la fa la differenza» della casa editrice Mammeonline mostra in maniera spontanea a bambine e bambini la naturalezza dell’uso del linguaggio di genere. Che le donne nei secoli siano state poco considerate, scrivono le autrici, è un dato di fatto inconfutabile, ma che anche la nostra lingua le abbia ignorate e continui a ignorarle rifiutando il genere femminile, non è più accettabile.
Nel libro un inserto, rivolto a insegnanti e genitori, fornisce gli strumenti per approfondire l’argomento con i più piccoli, svelando luoghi comuni, ad esempio l’idea che l’uso del maschile inclusivo debba essere considerato neutro in quanto racchiude in sé il soggetto femminile. O riflettendo su frasi come «auguri e figli maschi» e sulle almeno cento parole (sinonimi di prostituta) che insultano la donna e non hanno un corrispettivo maschile.
Spiega l’editrice Donatella Caione:
«Non vogliamo cambiare la lingua ma semplicemente rispettarla. Come mamme siamo partite da un’idea semplice: offrire alle bambine, che sono lettrici appassionate, libri con protagoniste bambine come loro e non principesse o Violette. E la grammatica è collegata a tutto il resto: si comincia a criticare la parola assessora e si passa ad attaccare la presunta teoria del gender. Del resto se una bambina alla mostra legge pittore e non pittrice pensa che sia un’arte preclusa alle donne. Basta dire buongiorno bambini e bambine per creare un senso di maggiore partecipazione»
E aggiunge: «Nel libro si gioca spesso sul paradosso, ad esempio nella favola delle parole che si ribellano. Come ha fatto Laura Boldrini quando si è rivolta al deputato che si ostinava a non riconoscerla come la presidente, chiamandolo deputata! La stessa Luciana Littizzetto che aveva definito un’inutile esasperazione questo accanimento sui nomi al femminile, ha poi chiamato tranquillamente ministra Stefania Giannini… E trovo davvero umiliante dover leggere ancora il marito del sindaco ucciso a proposito di Laura Prati, prima cittadina di Cardano al Campo, nel Varesotto, ferita a morte da un ex vigile».
Un libricino, dicevamo, divertente e giocoso anche perché per i bambini è tutto più naturale, siamo noi che spesso li confondiamo. E già si progettano incontri con le insegnanti e laboratori nelle classi. Così, nel libro, sono gli stessi bambini che leggendo la didascalia «sbagliata» che ignora il sesso di sindaca e assessora intervenute all’inaugurazione del monumento, decidono di scrivere ai giornalisti:
«Gentili miei signori insieme riflettiamo:/ esistono due generi nel nostro italiano/ perciò a una signora non sembreremo ostili/ se accanto le porremo gli esatti femminili/ così che tutti quanti leggendo l’assessore/ troveremo in una foto un augusto signore./ Se al Municipio invece a capo c’è Maria/ la chiameremo sindaca con giusta cortesia»
Ancora, non sarebbe bello se la maestra un giorno leggesse in classe la storia di una bambina che vuol fare la calciatrice, anziché il calciatore? Così nel racconto Luca e Serena si scambiano i ruoli, seguendo le loro passioni: lui va a lezione di danza e lei si butta nella mischia con il pallone. Quanto a Biancaneve, dopo il fatidico bacio, si è completarne risvegliata e rimanda le nozze con il principe Turchino dovendo preparare l’esame d’avvocata…
Che cosa succede dunque quando le parole calzano a pennello alla persona a cui si riferiscono?
L’osservanza della grammatica è importante per ristabilire una correttezza lessicale e il rispetto delle differenze tra i sessi. Perché dire «sono una medica» rivela il desiderio di interrogarsi sul significato di essere donna in quella professione. Perché quello che non si nomina non esiste… Impariamo dalle lingue straniere come il portoghese, dove si dice médica e doutora, o dal tedesco dove Angela Merkel è stata subito die Kanzlerin, o ancora dall’inglese dove il problema si pone con nomi come police-man che diventa police officer o chairman che diventa semplicemente chair.
Ed ecco un’altra filastrocca:
«Ma tante parole il femminile non hanno: quand’è che pari diritti si avranno? Mi dite perché non si dice assessora? Fa più spavento di una normale suora? Lo so, mi direte, Non suona bene per niente! Ma pensateci, è meglio Uomini o Gente? Proviamo ad osare con ministra e prefetta. La donna così più si rispetta. E alla fine cambiamo espressioni vecchiotte che con la grammatica fanno un po’ a botte. Evitiamo pasticci e confusione: non siamo uomini, ma siamo persone. Solidarietà è meglio che fratellanza con le giuste parole la lingua è una danza»
Il progetto è sostenuto dall’Associazione Donne in Rete e patrocinato dalla Regione Puglia, dalle Consigliere di Parità della Regione Puglia e della Provincia di Foggia, dall’Università di Foggia, dal Concorso Lingua Madre.
Immaginate una scuola dove Sofia svolge il tema scrivendo «da grande vorrei fare la medica» e subito arriva la matita blu della maestra con un brutto 5, ma chissà perché a quel punto le parole vengono colpite da uno strano maleficio: la mostra diventa un mostro, la cappella si trasforma in un cappello, la razza nell’acquario schizza via essendosi tramutata in un razzo, al posto della banca ora si trova solo un banco di legno e così via. Alla fine l’insegnante capisce di avere sbagliato perché esistono due generi nel nostro italiano. E sul compito compare un bell’8!
Sono favole e filastrocche, giochi e rebus rivolti agli scolari delle elementari per rilanciare sui nomi (ma anche sui ruoli), sgretolando la cornice che prescinde dalla soggettività sessuata. Il bel libriccino «La grammatica… la fa la differenza» della casa editrice Mammeonline mostra in maniera spontanea a bambine e bambini la naturalezza dell’uso del linguaggio di genere. Che le donne nei secoli siano state poco considerate, scrivono le autrici, è un dato di fatto inconfutabile, ma che anche la nostra lingua le abbia ignorate e continui a ignorarle rifiutando il genere femminile, non è più accettabile.
Nel libro un inserto, rivolto a insegnanti e genitori, fornisce gli strumenti per approfondire l’argomento con i più piccoli, svelando luoghi comuni, ad esempio l’idea che l’uso del maschile inclusivo debba essere considerato neutro in quanto racchiude in sé il soggetto femminile. O riflettendo su frasi come «auguri e figli maschi» e sulle almeno cento parole (sinonimi di prostituta) che insultano la donna e non hanno un corrispettivo maschile.
Spiega l’editrice Donatella Caione:
«Non vogliamo cambiare la lingua ma semplicemente rispettarla. Come mamme siamo partite da un’idea semplice: offrire alle bambine, che sono lettrici appassionate, libri con protagoniste bambine come loro e non principesse o Violette. E la grammatica è collegata a tutto il resto: si comincia a criticare la parola assessora e si passa ad attaccare la presunta teoria del gender. Del resto se una bambina alla mostra legge pittore e non pittrice pensa che sia un’arte preclusa alle donne. Basta dire buongiorno bambini e bambine per creare un senso di maggiore partecipazione»
E aggiunge: «Nel libro si gioca spesso sul paradosso, ad esempio nella favola delle parole che si ribellano. Come ha fatto Laura Boldrini quando si è rivolta al deputato che si ostinava a non riconoscerla come la presidente, chiamandolo deputata! La stessa Luciana Littizzetto che aveva definito un’inutile esasperazione questo accanimento sui nomi al femminile, ha poi chiamato tranquillamente ministra Stefania Giannini… E trovo davvero umiliante dover leggere ancora il marito del sindaco ucciso a proposito di Laura Prati, prima cittadina di Cardano al Campo, nel Varesotto, ferita a morte da un ex vigile».
Un libricino, dicevamo, divertente e giocoso anche perché per i bambini è tutto più naturale, siamo noi che spesso li confondiamo. E già si progettano incontri con le insegnanti e laboratori nelle classi. Così, nel libro, sono gli stessi bambini che leggendo la didascalia «sbagliata» che ignora il sesso di sindaca e assessora intervenute all’inaugurazione del monumento, decidono di scrivere ai giornalisti:
«Gentili miei signori insieme riflettiamo:/ esistono due generi nel nostro italiano/ perciò a una signora non sembreremo ostili/ se accanto le porremo gli esatti femminili/ così che tutti quanti leggendo l’assessore/ troveremo in una foto un augusto signore./ Se al Municipio invece a capo c’è Maria/ la chiameremo sindaca con giusta cortesia»
Ancora, non sarebbe bello se la maestra un giorno leggesse in classe la storia di una bambina che vuol fare la calciatrice, anziché il calciatore? Così nel racconto Luca e Serena si scambiano i ruoli, seguendo le loro passioni: lui va a lezione di danza e lei si butta nella mischia con il pallone. Quanto a Biancaneve, dopo il fatidico bacio, si è completarne risvegliata e rimanda le nozze con il principe Turchino dovendo preparare l’esame d’avvocata…
Che cosa succede dunque quando le parole calzano a pennello alla persona a cui si riferiscono?
L’osservanza della grammatica è importante per ristabilire una correttezza lessicale e il rispetto delle differenze tra i sessi. Perché dire «sono una medica» rivela il desiderio di interrogarsi sul significato di essere donna in quella professione. Perché quello che non si nomina non esiste… Impariamo dalle lingue straniere come il portoghese, dove si dice médica e doutora, o dal tedesco dove Angela Merkel è stata subito die Kanzlerin, o ancora dall’inglese dove il problema si pone con nomi come police-man che diventa police officer o chairman che diventa semplicemente chair.
Ed ecco un’altra filastrocca:
«Ma tante parole il femminile non hanno: quand’è che pari diritti si avranno? Mi dite perché non si dice assessora? Fa più spavento di una normale suora? Lo so, mi direte, Non suona bene per niente! Ma pensateci, è meglio Uomini o Gente? Proviamo ad osare con ministra e prefetta. La donna così più si rispetta. E alla fine cambiamo espressioni vecchiotte che con la grammatica fanno un po’ a botte. Evitiamo pasticci e confusione: non siamo uomini, ma siamo persone. Solidarietà è meglio che fratellanza con le giuste parole la lingua è una danza»
Il progetto è sostenuto dall’Associazione Donne in Rete e patrocinato dalla Regione Puglia, dalle Consigliere di Parità della Regione Puglia e della Provincia di Foggia, dall’Università di Foggia, dal Concorso Lingua Madre.
lunedì 27 aprile 2015
SAMANTHA CRISTOFORETTI, DONNE IN CARRIERA E CASALINGHE NELL’IMPERANTE MASCHILISMO ITALICO
Proprio
qualche giorno fa raccontavo di vari tizi e dei loro discorsi sulle
donne che devono stare a casa al posto di lavorare e non pretendere
troppo dalla loro vita. Ad una donna basta essere moglie e madre,
secondo le menti di questi illustri signori. In meno di 48 ore, ecco
arrivare un esempio a testimonianza di quanto da me denunciato. La
pillola è fornita da Camillo Langone, giornalista de Il Foglio, che
forse qualcun* ricorderà per un “simpaticissimo” articolo che si
intitolava: Togliete i libri alle donne: torneranno a far figli in
cui scriveva:
“Io
lo so ma l’ho tenuto per la fine dell’articolo perché non avevo
fretta di farmi linciare. Ebbene, gli studi più recenti denunciano
lo stretto legame tra scolarizzazione femminile e declino
demografico. La Harvard Kennedy School of Government ha messo nero su
bianco che «le donne con più educazione e più competenze sono più
facilmente nubili rispetto a donne che non dispongono di quella
educazione e di quelle competenze». E il ministro conservatore
inglese David Willets, ha avuto il coraggio di far notare che «più
istruzione superiore femminile» si traduce in «meno famiglie e meno
figli». Il vero fattore fertilizzante è, quindi, la bassa
scolarizzazione e se vogliamo riaprire qualche reparto maternità
bisognerà risolversi a chiudere qualche facoltà. Così dicono i
numeri: non prendetevela con me.”
Da
questo articolo è passato un po’ di tempo e oggi torniamo a
leggere delle considerazioni che, a me personalmente, fanno
accapponare la pelle. Il soggetto della critica di Langone è
Samantha Cristoforetti. Purtroppo è duro ingoiare che una donna sia
eccezionale nello svolgere un lavoro che, stereotipo docet, viene
considerato maschile. Ecco le sue parole:
“Dobbiamo
fare più ricerca” dice Renzi in collegamento con l’astronauta
Samantha Cristoforetti. Troppo giusto. Prego i ricercatori che
usufruiranno dei prossimi finanziamenti renziani di rispondere a
questa domanda: un nome adespoto come Samantha, la cui fortuna è in
buona parte dovuta alla serie televisiva americana “Bewitched”
(“Vita da strega”), socialmente parlando produce gli stessi
effetti di un nome presente in calendario, con santo patrono e
tradizione onomastica famigliare capace di collegare le diverse
generazioni? Seconda domanda: portare ad esempio un’astronauta,
ossia una donna che per lungo tempo vive lontana anzi lontanissima
dal proprio uomo, è utile nel momento in cui sappiamo che la causa
principale del presente declino economico è il declino demografico?
(“Non ho figli, e per questo per me è meno difficile coniugare
visita professionale con vita privata. I compromessi, a questi
livelli, sono necessari” ha dichiarato Samantha).
casalingaSecondo
le teorie di Langone, il calo demografico è causato da tutte le
donne che dimenticano il loro ruolo di esseri riproduttivi studiando
e andando a lavorare. Le donne, a quanto pare, non sono libere di
scegliere la propria strada. Devono forzatamente assolvere al loro
dovere che le identifica come dei soggetti portatori di utero e
quindi utili ai soli fini riproduttivi. Le donne hanno un compito,
un ruolo fondamentale, una cosa biologica alla quale non possono
sottrarsi: fare figli.
Leggere
queste boiate nel 2015 è davvero assurdo, sembra che abbiamo fatto
un salto nel medioevo.
Io
ci terrei a ricordare al signor Langone come attualmente l’Italia
versi in delle condizioni pessime, le cronache quotidiane sono piene
di dati e statistiche che dipingono un quadro non proprio florido. Il
calo demografico non potrebbe, dico per dire, essere causato dal
fatto che la disoccupazione regna sovrana? Che i giovani e le giovani
siano costrett*, nonostante i mille sacrifici, a chiedere aiuto alle
proprie famiglie? Che l’ indipendenza economica sia diventata ormai
un privilegio? La causa di questo calo demografico è davvero causato
dalle donne che vogliono scegliere cosa fare della propria vita? Non
diciamo baggianate! Conosco personalmente coppie che vorrebbero avere
dei figli ma non possono “permetterselo”, ormai anche essere
genitore è un privilegio, perché non arrivano con i soldi a fine
mese.
Ah!
E non dimentichiamo, giusto per citare un dato che in questo periodo
sta spopolando, che sono 42000 le donne che hanno perso il lavoro in
Italia ( non considerando tutte quelle che lavorano in nero o che il
lavoro lo cercano disperatamente e non lo hanno mai trovato). Ma
diciamo la verità, a chi importa se 42000 donne hanno perso il
lavoro? Bisognerebbe addirittura festeggiare perché magari qualcuna
andrà a rimpinguare la popolazione italiana con qualche parto.
Perché
non iniziamo invece, a prendere esempio, e magari anche a parlarne,
da tutti quei paesi dove le donne sono libere di lavorare e avere
quanti figli vogliono? Esistono luoghi fatati dove i padri possono
avere i permessi di paternità per badare i propri figli e aiutare la
propria compagna che potrà così continuare tranquillamente a
lavorare.
Purtroppo
credo che il vero problema, nella mentalità maschilista e misogina
di chi formula i pensieri su citati, siano le donne determinate,
intelligenti, indipendenti, consapevoli e autodeterminate. Poco
importa il calo demografico. Quello che davvero spaventa è la donna
che fa vacillare i ruoli che da sempre vengono imposti, ponendosi
finalmente in modo paritario all’interno della società. La donna è
consapevole di non volere più essere sottomessa all’uomo e di
avere gli stessi diritti, e tutto ciò fa paura. Un essere umano
ignorante è più facile da controllare, la boiata che la donna non
istruita faccia più figli vendetela a qualcun’altr*. Perché non
migliorare il sistema in cui viviamo e quindi permettere alle donne
di lavorare e di essere madri, al posto di inneggiare all’ignoranza?
Avere
in Italia una donna come Samantha Cristoforetti è un grande onore e
privilegio e spero davvero che possa essere una fonte di ispirazione
per tutte quelle donne che vogliono vivere la propria vita seguendo i
propri sogni e non una strada costruita per loro fatta di doveri
sociali da assolvere. E soprattutto, sperando di non cadere
nell’assurdo, spererei davvero tanto di vivere in un paese dove le
donne con delle aspirazioni e dei sogni, diversi da quelli
dell’essere mogli e mamma, vengano viste con rispetto e ammirazione
e che non siano ostracizzate e sminuite.
È
incredibile la paura che ha seminato la Cristoforetti nei ranghi
maschilisti con il proprio lavoro, la propria bravura e intelligenza.
Di ciò già ne parlai tempo fa qui.
L’Italia
è un paese per donne? No.
domenica 26 aprile 2015
sabato 25 aprile 2015
L’intervento di Marisa Rodano alla Camera peril 70°anniversario della Liberazione
Onorevole
Presidente della Repubblica
Onorevole
Presidente della Camera dei Deputati
Onorevole
Presidente del Senato della Repubblica
Onorevoli
Parlamentari
Cari
amici e compagni partigiani,
Ringrazio
per l’invito a questa solenne celebrazione
E’
per me un grande onore parteciparvi e sono commossa ed emozionata per
essere rientrata in quest’aula, nella quale ho trascorso tanti anni
della mia vita parlamentare.
Mi
si consenta di dedicare brevi parole al ruolo delle donne nella
Resistenza.
–
Fu lo sciopero delle lavoratrici torinesi nel marzo del 1943 a
suonare la campana a morto per il regime fascista.
–
L’8 settembre, nella battaglia in difesa di Roma, centinaia di
donne spontaneamente scesero in strada ad aiutare i combattenti e
furono ben ventotto le cadute in quella battaglia!; le donne romane
aprirono la porta delle loro case ai fuggiaschi: li rivestirono,
nutrirono, li nascosero, accolsero come figli i prigionieri alleati,
Russi, Americani, Inglesi, Iugoslavi.
–
Furono le donne, a Napoli, dal 26 settembre al 1 ottobre del 1943 a
dare un contributo determinante all’insurrezione che costrinse
l’esercito nazista a lasciare la città.
–
E’ a una donna, la dottoressa Marcella Monaco, che due futuri
Presidenti della nostra Repubblica, Sandro Pertini e Giuseppe Saragat
debbono la vita e la liberazione dal carcere di Regina Coeli , con
falsi ordini di scarcerazione.
–
Fu una donna, Giulietta (Lina) Fibbi, che con un viaggio avventuroso
recapitò l’ordine dell’insurrezione del Comitato di Liberazione
Nazionale Alta Italia al CLN dell’Emilia
Per
unanime riconoscimento sia del CLN che degli stessi comandi nazisti,
senza la partecipazione di massa delle donne, compresa quella alla
lotta armata, (si pensi ai reparti delle Volontarie della libertà e
alle staffette) la lotta di Liberazione non sarebbe stata vittoriosa.
Le
cifre sicuramente sono approssimative – si è detto che le donne
combattenti fossero 35.000, 70.000 le partecipanti ai Gruppi di
Difesa della Donna, 2900 le donne giustiziate o uccise in
combattimento –
Vorrei
in primo luogo, ricordare le eroine, cadute in combattimento o uccise
tra atroci sofferenze dai nazisti o morte, dopo la deportazione, nei
campi di sterminio e le decorate di medaglia d’oro alla memoria, da
Gabriella degli Esposti a Ines Versari, da Anna Maria Enriquez a
Norma Pratelli Parenti, da Irma Bandiera a Maria Assunta Lorenzoni,
solo per citarne alcune.
Ma
come erano giunte le donne italiane a schierarsi dalla parte giusta?
E’
nella Resistenza che le donne italiane, quelle di cui Mussolini aveva
detto “nello stato fascista la donna non deve contare”; alle
quali tutti i governi avevano rifiutato il diritto di votare, la
possibilità di partecipare alle decisioni da cui dipendeva il loro
destino e quello dei loro cari, entrano impetuosamente nella storia e
la prendono nelle loro mani.
Nel
momento in cui tutto è perduto e distrutto – indipendenza libertà
pace – e la vita, la stessa sussistenza fisica sono in pericolo,
ecco le donne uscire dalle loro case, spezzare vincoli secolari, e
prendere il loro posto nella battaglia, perché combattere era
necessario, era l’unica cosa giusta che si poteva fare.
Nel
moto resistenziale si saldarono la tradizione socialista delle lotte
nelle fabbriche e nelle risaie; le idealità politiche
dell’antifascismo; e l’opposizione segreta, ma profonda che tante
donne avevano coltivato in modo più o meno tacito contro il
fascismo, il regime delle cartoline-precetto, che strappava loro i
figli e che aveva fatto della violenza e della guerra un cardine
della propria politica e ideologia.
Dalle
masse femminili veniva al moto resistenziale un patrimonio di valori
e ideali tramandati nella famiglia e confluì nella Resistenza, in un
comune impegno con le forze laiche e socialiste, la tradizione del
mondo cattolico.
Un
innesto di valori e tradizioni diverse, di esperienze tra loro
lontane che, nella Resistenza si venne strutturando come movimento
unitario, nazionale: i Gruppi di difesa della donna e per
l’assistenza ai combattenti della libertà. (GDD)
Gli
scopi dei GDD, definiti nel programma appello costitutivo, approvato
nel ’44 a Milano: erano finalizzati alla lotta contro il nemico
invasore, cioè a un obiettivo generale e comune a uomini e donne, ma
l’appello conteneva in nuce alcune delle future rivendicazioni
delle donne, in particolare delle lavoratrici, quali la proibizione
del lavoro notturno, del lavoro a catena e del lavoro nocivo alle
donne, un salario femminile (per lavoro eguale) uguale a quello
dell’uomo e un’adeguata assistenza alle madri, E comunque, allora
battersi per tali obiettivi diveniva allora un atto di guerra.
La
Resistenza ha contribuito a far sorgere una comune coscienza
nazionale tra donne di differenti ceti sociali, di diverso livello
culturale e orientamento ideale, e, al tempo stesso, a far loro
acquisire una nuova consapevolezza del proprio ruolo sociale e
l’aspirazione a conseguire pienezza di diritti e di cittadinanza.
Non
a caso i GDD affermavano che logica conseguenza della partecipazione
delle donne alla Resistenza dovesse essere il diritto di voto.
La
partecipazione delle donne alla Resistenza è stata dunque il
fondamento per la conquista dei loro diritti civili, sociali e
politici.
E’
conferma che il cammino delle donne italiane verso la conquista di
piena cittadinanza, che vede oggi tante donne ricoprire cariche di
responsabilità nel governo, nel parlamento, nelle Regioni e negli
enti locali, e svolgere ruoli importanti nella vita culturale,
economica e produttiva, ha le radici nella loro partecipazione alla
Resistenza.
venerdì 24 aprile 2015
Donne d'Italia nella Resistenza.
Operaie
tessili, laboriose e tenaci, esse lasceranno i loro telai per
scendere le prime nella strada per protestare contro le deportazioni
dei loro mariti e fratelli: sopporteranno con animo forte stenti e
privazioni ancora più grandi e, cooperando in massa a fianco dei
loro uomini, dimostreranno al mondo meravigliato che in Italia i
lavoratori e le lavoratrici vogliono vivere liberi e che, con la loro
lotta, sanno conquistarsi la libertà.
Naso
al vento, sorriso sbarazzino, la "ragazza dei collegamenti" sa essere dappertutto e all'ora giusta: le vie
della periferia, le arterie del centro, gli angoli delle piazze
conoscono le sue grandi corse e le sue pazienti attese. Nella borsa
elegante, a seconda dei casi, manifestini, preziosi biglietti
cifrati, giornali clandestini e, perchè no?...anche armi.
Modeste
e serene, passano per le nostre vie, cariche della loro pesante
borsa, le giovani postine. Perchè hanno sul viso quel sorriso un po'
ironico che si accentua quando incrociano i tedeschi o collaboratori?
Queste vivaci figliole hanno inventato uno speciale "servizio
postale": fermano le denunce dirette alla S.S. o alla Polizia
repubblichina e le portano ai patrioti denunciati.
Centinaia di
italiani sono stati salvati così dalla galera, e spesso, dalla
morte.
Nell'ombra
crepuscolare della sera o sotto il sole concente del mezzogiorno, per
i sentieri deserti e scoscesi, sale la contadina, mentre a casa la
maggiore sorveglia la nidiata. Sotto i bei grappoli che porta nella
cesta posizionata sul capo si nasconde il vestito borghese per il
soldato fuggiasco, le medicine per il partigiano ferito, le munizioni
per il suo mitra.
Che
voglia riposare dopo otto ore di ufficio! Che formicolio alle dita
che hanno tanto picchiettato sui tasti! Gli occhi fanno male e le
mani sono indolenzite per aver cucito e stirato tutto il giorno. Ma
uscendo dal lavoro, le due amiche, la dattilografa e la sartina, si
ritrovano ed insieme si avviano. Ed al lume incerto della candela e
fino a notte inoltrata, moltiplicheranno al massimo i manifestini per
lo sciopero di domani e rammenderanno gli abiti per i patrioti. Calme
e serene, un po' più pallide e stanche, domani torneranno al lavoro,
pronte ad ogni richiesta a prestare la loro opera silenziosa, modesta
e pur tanto necessaria.
giovedì 23 aprile 2015
Eroiche nella lotta, tenaci nella ricostruzione.
Nel
terzo numero di Noidonne, nell'agosto del 1944, la redazione riporta
le gesta delle partigiane toscane, marchigiane e abruzzesi capaci di
ispirare tutte le donne, anche quelle dell'Italia già liberata.
Eroiche
nella lotta, tenaci nella ricostruzione.
Da
Firenze, liberata dagli eserciti alleati e dai patrioti itliani
giunge l’eco degli episodi di eroismo compiuti dalle donne durante
i giorni più duri di combattimento. Non meno coraggiose delle loro
sorelle fiorentine sono state le donne marchigiane ed abruzzesi,
durante l’occupazione tedesche.
Giovanette
semplici, modeste, ingenue e spensierate si sono trasformate in
combattenti magnifiche che hanno compiuto innumerevoli atti eroici
ognuno dei quali avrebbe potuto costare il sacrificio della giovane
vita. La guerra contro gli invasori tedeschi e contro i fascisti ha
rivelato, improvvisamente, il vero cuore della donna italiana, il
dolore, le sofferenze, i pericoli, hanno ritemprato il suo carattere,
le hanno dato una personalità, un’anima nuova. Sotto il nastrino
nero, che decine di migliaia di donne italiane portano oggi in segno
di lutto per i loro cari morti in guerra o fucilati dai tedeschi,
batte un cuore nuovo, un cuore di un essere che ha imparato
soffrendo, a pensare e ad agire.
La
donna italiana vuole conoscere la verità. Essa cerca affannosamente
chi la guidi per la giusta via, anche se questa sarà aspra e
difficile. Essa anela a conquistare la libertà e dove già la
possiede la difende con ardore conto chi gliela vorrebbe ritogliere.
La donna italiana non ha più paura. A Firenze essa esce da sola,
nelle strade buie, tra il crepito delle fucilate, per portare viveri
ed ordini ai patrioti che combattono con le armi in pugno. Per
contribuire a sconfiggere il nemico, le donne del popolo, le operai,
le studentesse di Firenze, di Livorno, di Grosseto, di Piombino,
degli Abbruzzi e delle Marche, che hanno disertato sempre le
organizzazioni fasciste, hanno sentito il bisogno di unire le loro
forze nella organizzazione popolare di tutte le donne, i “Comitati
di Difesa della donna e per l’aiuto dei Combattenti”.
Unite
si sentono invincibili, ed un sano sentimento di orgoglio per la loro
forza le aiuta a procedere nel difficile cammino tracciato. Il loro
esempio, che dilaga in tutta Italia, sveglia dal loro secolare
torpore le donne di Bari, di Cerignola, di Taranto e di Cosenza, di
Salerno e di Messina, di Girgenti e di Catania, le spinge ad unirsi
tutte, ad organizzarsi, per difendersi e per lottare.
La
guerra è finita in molte regioni di Italia, ma il nemico vinto e non
domo, cerca di raggruppare le sue forze, ordisce nell’ombra il
complotto per ritogliere al popolo le libertà conquistate, per
cercare di tornare il padrone. I grandi proprietari terrieri, i
finanzieri, gli industriali temono di dover restituire il denaro
rubato, voglio impedire che il popolo italiano viva in pace con gli
altri popoli in Europa liberata per sempre dal fascismo. Essi si
dispongono a preparare a voi, donne e mamme d’Italia, un altro
periodo di sofferenze e di lutti.
State
in guardia, donne italiane, insieme ai vostri uomini perché non si
tenti, prima di allora, di vincere la vostra volontà con la
violenza. State in guardia e per essere forti e invincibili unitevi,
dalle Alpi alla Sicilia, in ogni fabbrica e in ogni ufficio, nella
scuola e nella casa, in un fronte popolare che sappia respingere ogni
tentativo di assalto fascista, che sappia contribuire validamente a
ricostruire un’Italia libera, dove la donna avrà conquistato tutti
i diritti di cui le lotte di questi ultimi anni l’hanno resa degna.
mercoledì 22 aprile 2015
Le ragazze nei G.A.P
Nel
secondo numero di Noidonne, dell'agosto 1944, apparve la
testimonianza di una ragazza che faceva parte di quei piccoli gruppi
di partigiani denominati Gruppi di Azione Patriottica, GAP.
Di
Caterina, questo il suo nome, non sappiamo molto se non la sofferenza
e l'istinto di libertà che ci arrivano da questo scritto.
Le
ragazze nei G.A.P.
Vorrei
parlarvi un po’ della mia vita di GAP.
Nulla di romantico: le donne
che con me e più di me hanno agito nella lotta armata contro i
tedeschi avevano personalmente scelto un compito per il quale la loro
azione era necessaria, e si trattata sempre di una decisione presa
con estrema serietà. Ognuna di noi era venuta alla politica
attraverso un approfondimento di coscienza, attraverso una
chiarificazione dei precisi doveri che sono di fronte a ciascun
individuo, uomo e donna; aveva insomma affrontato onestamente il
problema della propria vita in mezzo agli altri individui. La
soluzione di questo problema comportava un’attività politica, le
necessità del momento richiedevano che alcune di noi entrassero
nella lotta armata: così la decisione fu presa.
Ripeto,
nella nostra vita di romantico non c’era nulla.
C’era invece
molta fatica e moltissima attenzione e precisione da porsi in ogni
cosa. Lunghi giri per la città; trasporti di oggetti pesantissimi;
gite fuori mano per provare armi e ordigni fabbricati dai nostri
artificieri.
C’erano moltissimi disagi: un GAP, uomo o donna, non
aveva casa fissa, aveva dei rifugi più o meno aleatori, dei punti di
appoggio che venivano improvvisamente a mancare: certe volte si
finiva il lavoro qualche ora prima del coprifuoco e ancora non si
sapeva dove si avrebbe dormito. E spesso nient’altro ci si poteva
aspettare che freddo, umidità, aria viziata, impossibilità di
lavarsi, giacigli costituiti spesso da semplici tavoli, in cantine o
con simili mezzi di fortuna.
E c’era anche molta fame. Spesso alla
fine della settimana si saltava qualche pasto; spesso con assoluta
solidarietà chi aveva ancora qualche soldo divideva con gli altri il
poco che si poteva comprare.
Ed
infine c’erano le azioni: dove le donne non meno degli uomini
giustiziavano i traditori, senza sadismo e senza leggerezza;
rendendosi ben conto di quello che facevano, ma sicure di agire
secondo giustizia. Ed era per questa certezza se riuscivamo in
definitiva ad essere allegre e a conservare quasi sempre la nostra
serenità; era senza dubbio per la coscienza di sentirci utili.
Donne
dei GAP: donne che sparavano, donne che agivano assumendosi
responsabilità, correndo rischi, sopportando disagi. Donne che hanno
saputo affrontare il loro dovere di essere “morali” e viventi in
una determinata situazione storica.
martedì 21 aprile 2015
Aspettando il 25 aprile.
Mancano pochi giorni al 70esimo anniversario della Liberazione dal fascismo.
La storia di Noidonne è strettamente connessa con la Resistenza e
con le imprese delle tante partigiane dei Gruppi di Difesa della
Donna che parteciparono attivamente e in mille modi in varie parti
d'Italia
Sul
primo numero ufficiale di Noidonne, del luglio 1944, pubblicato a
Napoli per iniziativa di Nadia Spano e sotto la direzione di Laura
Bracco appariva questo pezzo.
Il
nostro compito
Oggi,
più che mai, quando sul nostro suolo si combatte una guerra
difficile e dura, quando il nostro paese, ancora diviso, non può
riprendere un corso normale di vita, a noi, donne, si pongono ogni
giorno, problemi tanto più ardui quanto più sono le difficoltà che
ci impediscono di risolverli; oggi più che mai sentiamo il bisogno
di unire le nostre forze per aiutarci a vicenda.
La
guerra ha portato lontano i nostri uomini ed abbiamo dovuto assumere,
spesso provvisoriamente, talvolta purtroppo definitivamente, il
compito grave di capo famiglia. Quante volte in questo compito, ci è
mancato l’aiuto di un consiglio, il conforto di una voce amica.
“Noi, Donne” vuole appunto essere per voi questa voce amica, la
confidente alla quale in ogni circostanza, triste od allegra, voi vi
possiate rivolgere per sentire la parola adatta ed affettuosa che
noi, donne, tanto desideriamo.
Questo
giornale, che sarà il vostro giornale, si indirizza con uguale
interesse all’operaia e alla contadina, alla studentessa o alla
sartina, alla donna o alla ragazza di casa. A tutte, esso chiede
suggerimenti e notizie; a tutte, esso offre la possibilità di
discutere i problemi che, in quanto donne, più particolarmente ci
interessano. Esso vuole e deve essere il legame che unisce
strettamente tutte le energie femminili che si drizzano oggi per
schiacciare l’invasore nazista, per ricostruire un domani libero e
felice ove sia concesso alla donna di educare i suoi bambini per un
avvenire costruttivo e non per vederli ogni vent’anni gettati alla
morte.
“Noi,
donne” vi dirà lo sforzo delle nostre sorelle in Italia occupata
per raggiungere questo obiettivo, esso vi mostrerà come questa
nostra aspirazione ad una vita libera sia comune a tutte le donne,
esso vi indicherà con quali mezzi oggi, noi, in Italia liberata,
possiamo dare il contributo alla lotta che ha pr posta la felicità e
l’avvenire del nostro popolo.
Per
vent’anni il fascismo ci ha scartate dalla vita nazionale, mentre
disgregava le nostre famiglie, imponendo ai nostri bambini una
educazione che noi non volevamo, scatenando una guerra che noi non
sentivamo e portando il nostro paese allo sfacelo economico. Noi
vogliamo ricostruire la nostra famiglia ed è perciò che siamo
direttamente interessate da tutti i problemi della vita nazionale,
dalla guerra, dalla ricostruzione economica, dall’epurazione, ecc..
ed alla soluzione di tutti questi problemi, noi vogliamo e possiamo
dare un grande contributo.
“Noi,
donne” esprimerà questa volontà delle donne italiane e la
certezza che esse hanno che il nostro popolo, unendo tutte le sue
sane energie, temprato dalla lotta attuale, saprà operare alla
rinascita della nostra Italia dalle rovine accumulate da vent’anni
dal fascismo.
lunedì 20 aprile 2015
La Liberazione delle donne
Aprile
è tempo di Liberazione.
Tempo
della memoria e della gratitudine per chi lottò in prima persona per
restituirci la libertà.
Con
questo sentimento ricordiamo le ragazze che nel 1943, pur avendo
ereditato un ruolo codificato da secoli ed essendo cresciute in un
regime che aveva escluso le donne dalla sfera pubblica, scelsero
l’impegno e la Resistenza. Una scelta che cambiava la vita. Senza
quelle ragazze e le tante donne che silenziosamente aiutarono la
lotta di liberazione anche il riconoscimento del diritto di voto alle
donne sarebbe stato più difficile.
Per
questo, pur nella consapevolezza dei salti e della discontinuità che
la storia conosce, vediamo in loro una radice della libertà
femminile nell’Italia repubblicana. Sono le Madri della repubblica.
Quelle che parteciparono alla Costituente e quelle che avevano
guidato la bicicletta sulle strade dell’insurrezione antifascista.
Un popolo femminile. Per riconoscere il loro contributo c’è voluto
lavoro di scavo e indagine storica di altre donne. Abbiamo dovuto
aspettare uno sguardo nuovo, alla ricerca della propria genealogia.
Ancora oggi navigando in rete si possono trovare documenti datati che
parlano del relativo contributo dato dalle donne alla Resistenza.
Circa 35000 furono insignite del titolo di partigiane combattenti,
oltre 4500 vennero arrestate e condannate, più di 600 fucilate o
cadute in combattimento, 19 le Medaglie d’Oro al valor militare.
Se è
evidente il valore dello sciopero delle fabbriche torinesi
nell’Italia settentrionale occupata, si ricorda meno l’otto marzo
del 1943, quando sempre a Torino, a piazza Castello centinaia di
donne manifestarono contro la guerra. Nel novembre a Milano nascono i
Gruppi di difesa della donna, secondo Marisa Ombra, che ne fu una
protagonista, ancora oggi un buco nero della storiografia sulla
Resistenza.
Ben
venga dunque il bando della Fondazione Iotti per finanziare il
progetto di ricerca “protagoniste, azioni, programmi, propaganda
dei Gruppi di Difesa della Donna”. Un nuovo tassello per il
riconoscimento di una storia che è parte fondante della storia del
Paese.
La Costituzione italiana non sarebbe quella che è senza la
traccia di questa alba della cittadinanza femminile.
Queste
madri della Repubblica possono essere compagne di viaggio anche per
attraversare la crisi della rappresentanza che stiamo vivendo, per
non tradire quel sogno di libertà, che faceva dire ad Anna Banti
“quanto al 46 quel che d’importante per me ci ho visto e ho
sentito, dove mai ravvisarlo se non in quel 2 giugno che, nella
cabina di votazione avevo il cuore in gola e avevo paura di
sbagliarmi fra il segno della repubblica e quello della monarchia?
Forse solo le donne possono capirmi e gli analfabeti. Era un giorno
bellissimo…Quando i presentimenti neri mi opprimono penso a quel
giorno, e spero”.
sabato 18 aprile 2015
MARINA SANGALLI: 20 ANNI DOPO PECHINO di Gabriella Persiani
Donne conferenza
Pechino Pari opportunità e diritti delle donne nel mondo.
Empowerment femminile, cioè potere e responsabilità delle donne. A
che punto siamo vent’anni dopo la Conferenza dell’Onu di Pechino
del 1995, che ha segnato uno spartiacque con la sua Piattaforma
d’Azione, dodici aree di intervento dalla povertà all’educazione,
dalla salute, al lavoro, all’ambiente, alla violenza? Quanto hanno
effetto sulla realtà concreta prese di posizioni così importanti ma
anche così istituzionali? Come si riflettono sulle donne fenomeni
mondiali come la globalizzazione, la crisi economica, i
fondamentalismi, fortemente accentuati negli ultimi anni? Ne parliamo
con Marina Sangalli, counselor milanese, socia fondatrice e attivista
della Ong Graal Italia, di ritorno dall’assemblea di New York del
marzo scorso, dove si è svolta la riunione della Commission on the
Status of Women delle Nazioni Unite. Marina introdurrà, insieme a
Cesarina Damiani, il dibattito del 18 aprile a Milano, “20 anni
dopo Pechino. Le sfide per i movimenti delle donne oggi nel mondo”,
organizzato dal Gruppo Donne Internazionale della Casa delle Donne di
Milano.
Vent’anni sono
tanti o sono pochi?
Per una piattaforma
completa e visionaria come quella di Pechino, a distanza di 20 anni
gli obiettivi restano tutti. Naturalmente nessun Paese ha raggiunto
la parità di genere. E valutando anche i progressi, che pure ci sono
stati, di questo passo serviranno altri 80 anni; è necessario,
dunque, accelerare e, allo stesso tempo, lavorare a fondo per il
cambiamento culturale della società.
Quanto l’Onu può,
con le direttive sulla parità di genere, influire sulle realtà dei
singoli Paesi?
L’Onu è un
riferimento istituzionale importante, può definire obiettivi come i
Millennium goals e gli indicatori per i prossimi quindici anni, però,
com’è sotto gli occhi di tutti, non ha una capacità di pressione
adeguata perché i governi realizzino nei fatti questi obiettivi. La
sua mission è stabilire le direzioni, gli orientamenti condivisi, e
questa è una grande opportunità di dibattito a un livello
istituzionale molto alto. L’altra cosa che ha sempre fatto l’Onu,
da Eleanor Roosvelt in avanti, è muoversi su un doppio binario: da
una parte parlare con i governi; dall’altra aprire un canale con la
società civile che ha identificato nelle Ong e nelle associazioni
non profit con finalità di cambiamento sociale. Quindi dai governi
l’Onu si aspetta interventi sul quadro normativo, mentre lascia
alla società civile l’obiettivo di innescare il cambiamento
culturale. Puoi avere tutte le leggi che vuoi, ma se poi la società
non è pronta per applicarle, le leggi muoiono, non producono
cambiamento sociale.
Quanto allora le Ong
riescono a influenzare le politiche nazionali?Da quello che ho visto
negli ultimi appuntamenti internazionali, come la conferenza di
Ginevra del novembre 2014 e la Commissione di New York, è aumentata
molto la capacità delle ong di fare rete a livello internazionale e
quindi essere degli interlocutori affidabili e accreditati per l’Onu.
E di fare lobby e advocacy, quindi di raccogliere le esperienze di
base per farne istanza politica da portare in sede Onu. Facciamoci la
domanda su quanto siamo brave in Italia a fare questo. Posso citare
come esempio positivo Di. Re, donne in rete contro la violenza, che
erano presenti a Ginevra e si sono collegate con le organizzazioni
che si occupano di questo problema a livello europeo.
Quali sono i limiti
dell’impegno dell’Onu?Il principale è che non c’è un sistema
strutturato e vincolante per finanziare i progetti di cambiamento
culturale. L’Onu non può dire, per esempio: Dovete destinare una
quota del Pil a progetti di questo tipo. Tanto più in una fase come
quella attuale di crisi economica e finanziaria. Il tema del funding
è molto forte, e molte organizzazioni hanno l’obiettivo di
recuperare i finanziamenti. E qui entriamo in un ginepraio, perché
se i finanziamenti si recuperano dalle multinazionali o dalle
fondazioni bancarie, quale sarà il controllo perché il cambiamento
culturale vada in un certo senso piuttosto che in altro?
Tra leggi fatte o
non fatte dai governi e impegno culturale della società civile i
tempi sono lenti…
Non stupisce che un
vero cambiamento culturale richieda un secolo, ma questo non
significa che non si possa favorirlo e accelerarlo mettendo a
disposizione risorse adeguate. E queste arrivano quando il movimento
delle donne è forte, parla ad alta voce e continua a chiedere. Forse
è questo che, soprattutto in Europa, è rallentato negli ultimi
tempi. Un esempio interessante è quello dei Paesi nordici dove i
movimenti delle donne sono riusciti a elaborare una piattaforma e la
stanno portando avanti in maniera molto determinata nei confronti dei
loro governi. Sono curiosa di sentire la rappresentante della
Norvegia, un Paese che per molti anni ha avuto un presidente donna e
dove anche nell’attuale governo di destra le donne sono al 50 per
cento. Oggi le bimbe e le ragazze norvegesi, alla domanda cosa vuoi
fare da grande, rispondono “La presidente”, perché hanno avuto
un modello positivo per tanti anni nel loro Paese. Cosa che non
verrebbe da dire alle piccole italiane.
Eppure anche in
Italia con il governo Renzi siamo arrivati al 50 e 50, un obiettivo
simbolico, anche se ne restano fuori tanti altri.
Questo è l’aspetto
che più viene più evidenziato nell’ultimo rapporto ufficiale del
governo all’Onu. Effettivamente è un segnale, anche se guardando
quali sono i Ministeri importanti, possiamo fare una serie di
distinguo. E poi c’è l’assenza di un ministero delle Pari
Opportunità, che è rimasto solo come Dipartimento, in capo
direttamente alla Presidenza del Consiglio. Di fatto manca un
interlocutore importante per le associazioni delle donne e per i loro
progetti.
Dove affronta più
difficoltà la sua organizzazione, Graal, che opera in tutto il
mondo?
Nella Vecchia
Europa, proprio perché è vecchia. Qui si sono raggiunte alcune
condizioni di maggior “favore” rispetto alle donne africane o
latinoamericane e si fa fatica a mobilitare le nuove generazioni.
L’Africa per esempio è una realtà in grande movimento. La mia Ong
è molto presente in Sudafrica; dove le donne hanno partecipato al
movimento di liberazione e sono interlocutori importanti per le
istituzioni. Nel rapporto delle africane a New York c’è un livello
molto alto di elaborazione e di realizzazioni pratiche. Ho incontrato
donne che sono nella Banca di sviluppo africano, esponenti a livello
governativo, donne in posizioni di leadership molto importanti. Ho la
percezione che noi non riusciamo a vedere quello che succede in altre
parti del mondo.
Però in Africa
abbiamo visto situazioni di violentissimo attacco alle donne…
Certo. Nel
Nordafrica dopo le primavere arabe la situazione delle donne è
peggiorata. In Paesi come la Nigeria o il Kenya la stessa istruzione
superiore è una conquista a rischio della vita. Però la
mobilitazione è molto forte, forse proprio perché parte da
obiettivi di sopravvivenza.
E il
fondamentalismo?
Il fondamentalismo è
un problema dappertutto, in Africa, Sudamerica, Asia, anche da noi,
oramai. Ma proprio in quelle aree c’è molto fermento; le donne non
si lasciano fermare dal fondamentalismo.
Quali sono gli
effetti sulle donne della crisi economica?
La crisi economica,
come mette ben evidenza anche il rapporto delle Ong italiane, spinge
le donne a uscire e a restare fuori dal mercato del lavoro, a causa
della riduzione dei servizi sociali e della disparità tra donne e
uomini, per cui chi guadagna meno rinuncia al lavoro a favore
dell’equilibrio familiare. Questo vuol dire tornare a ruoli
tradizionali anche laddove c’è stata una maturazione culturale e
provoca maggiore sofferenza.
E la violenza contro
le donne?
Le statistiche in
Italia dicono che i casi di violenza sono in aumento, anche se non
sappiamo qual era la situazione prima delle statistiche. Negli anni
più recenti c’è stato un aumento, che si può legare a una
tensione sociale più forte, alla crisi economica o al fatto che più
le donne acquistano autonomia più creano delle paure e delle
resistenze. In questo senso c’è un forte appello a livello
mondiale perché il cambiamento culturale includa gli uomini.
Le donne producono i
due terzi del cibo del pianeta, ma questo dato sembra invisibile..
Le donne che
producono il cibo del pianeta sono quelle che hanno occupazioni
lavorative più basse, quelle che coltivano il campo intorno a casa
per dare da mangiare alla loro famiglia. E’ chiaro che se
diventassero consapevoli dei loro diritti – e giustamente si dice
‘Women rights are human rights’ – avrebbero una capacità di
pressione molto importante. A New York ho sentito dire che i mercati
emergenti, anche a livello finanziario, sono ‘la Cina, l’India e
le donne’. Ma che tipo di mercato vogliamo essere? Il mercato che
si adegua alle pressioni dell’economia globale o un mercato che
propone e chiede un’alternativa?
Un fenomeno che si è
accentuato in questi vent’anni soprattutto in Occidente è
l’invecchiamento della popolazione. Come si affronta questo trend?
C’è parecchio
dibattito anche nel mondo economico, perché ci sono sempre più
lavoratori anziani e sempre meno giovani nelle nelle aziende, e
ancora non si è ragionato su come organizzarsi. A livello sociale,
inoltre, la popolazione più anziana tende a impoverirsi, perché si
abbassano le tutele sociali, e tra la popolazione anziana che si
impoverisce le più colpite sono e saranno le donne.
Come mobilitare da
un lato i giovani e i maschi, dall’altro gli anziani e le anziane?
In alcuni paesi come
la Gran Bretagna ci sono organizzazioni che già si stanno occupando
del tema dell’invecchiamento. Per quello che riguarda il
coinvolgimento degli uomini e dei ragazzi ci sono molti progetti. Per
esempio, in Brasile, Indonesia, Ruanda e Sudafrica, c’è un
progetto finanziato per tre anni dal governo olandese e portato
avanti da una Ong per introdurre la cultura del caring, del prendersi
cura, tra i neopapà.
Qual è l’agenda
post 2015 dell’Onu?
Nel prossimo
settembre verranno emanati i nuovi obiettivi per il periodo
2015-2030. I movimenti delle donne lavorano perché tra questi sia
inserito anche un obiettivo specifico sulla parità di genere.
Ci sono dati e
statistiche “di genere” su cui appoggiare gli obiettivi?
A livello europeo
c’è un’esperienza molto avanzata, quella dell’European
Institute for Gender Equality www.eige.eu. Tutti i report dei governi
europei sono rielaborati, per quanto possibile, in modo da
evidenziare i risultati che riguardano le donne. A livello Onu è
stata lanciata una raccolta di dati sul rapporto tra genere e
cambiamenti ambientali (The global gender and environment outlook, in
sigla GGEO), sponsorizzata dal governo della Norvegia. Naturalmente
uno degli obiettivi, complesso e costoso, è che fin dall’origine i
dati siano raccolti e organizzati in un’ottica di genere.
giovedì 16 aprile 2015
PERCHÉ L'ISLANDA È IL PAESE PIÙ FEMMINISTA AL MONDO di Jessica Cimino
L’Islanda è
considerata oggi il Paese più femminista al mondo.
Per il sesto anno
consecutivo, il rapporto 2014 del World Economic Forum ha indicato il
Paese come primo al mondo per le politiche volte a contrastare la
disparità di genere, su un totale di 142 Stati presi in esame.
Tra i vari
indicatori presi in considerazione dal rapporto, spiccano quelli
relativi all’istruzione secondaria e terziaria, all’emancipazione
politica nonché alle opportunità professionali ed economiche: in
tutte e tre le categorie l’Islanda ha riportato valori minimi nel
gap di genere.
Per ogni uomo
iscritto a un ateneo islandese, ad esempio, sono 1.7 le donne
iscritte; nella scuola primaria e secondaria, la presenza femminile è
leggermente superiore rispetto a quella maschile. Quanto alla
presenza in Parlamento, invece, ci sono circa due donne ogni tre
uomini.
L’aver aderito
alla nota campagna FreetheNipple, è solo l’esempio più recente
delle iniziative portate avanti dal Paese per garantire la parità di
genere.
La campagna,
sostenuta a seguito degli attacchi sui social network subiti da una
giovane islandese, che aveva postato una sua foto in topless in
risposta ad un amico che aveva fatto lo stesso, persegue l’obiettivo
di garantire alle donne la piena libertà di disposizione del proprio
corpo, a partire dalle foto a seno nudo che, ancora oggi,
rappresentano un tabù.
A rendere l’Islanda
primo Paese al mondo nella lotta alla disparità di genere però,
non è stata tanto la singola campagna, quanto il frutto di 150 anni
di scelte politico-economiche, da sempre orientate in favore
dell’uguaglianza dei sessi.
A dimostrarlo, prima
tra tutte, c’è la Costituzione islandese, che garantì il diritto
di voto alle donne già nel 1915, ben cinque anni prima rispetto agli
Stati Uniti. L’Islanda inoltre, è stato il primo Paese nella
storia a riconoscere la parità tra uomo e donna nei diritti di
successione, a partire dal 1850.
Sessant’anni più
tardi, la lotta alla disparità di genere si spostò sul piano
economico. Nell’ottobre del 1975, 25 mila persone di ogni
estrazione sociale si riversarono nelle strade della capitale
Reykjavik, per protestare contro l’ineguaglianza del salario. Per
incoraggiare i partecipanti, gli organizzatori della protesta
definirono quel giorno “una giornata di riposo”, anche al fine di
proteggere le donne lavoratrici che, al tempo, rischiavano il
licenziamento in caso di sciopero.
Più del 90 per
cento della popolazione femminile prese parte alla manifestazione,
lasciando la controparte maschile a districarsi tra la gestione del
lavoro e quella dei figli. La protesta ottenne i risultati sperati:
l’anno seguente, il Parlamento approvò con successo una legge
sull’equo compenso a favore delle donne lavoratrici.
Cinque anni dopo, fu
il turno della politica: nel 1980 venne eletta presidente Vigdìs
Finnbogadòttir, primo capo di stato donna nella storia non solo
dell’Islanda ma anche d’Europa. Figura carismatica,
anticonvenzionale, madre single con un passato lavorativo variegato,
da presentatrice televisiva a membro di una compagnia teatrale,
Finnbogadòttir guidò il Paese per tre mandati consecutivi, fino al
1996.
L’ulteriore passo
avanti è avvenuto nel 2009. Quell’anno, la socialdemocratica
Jòhanna Sigurdardòttir, divenne, a livello mondiale, la prima donna
apertamente omosessuale a essere eletta capo di stato e di governo.
Grazie al suo intervento, il governo islandese ha legalizzato nel
2010 i matrimoni gay.
Il cammino verso la
parità di genere, è passato poi attraverso l’estensione dei
congedi parentali; dal 2000, l’Islanda riconosce ai genitori un
periodo di allontanamento dal posto di lavoro pari a tre mesi. La
legge è stata successivamente emendata nel 2012, e ha aumentato il
periodo di congedo da tre a cinque mesi per ciascun genitore.
Non solo: il governo
islandese offre alle famiglie un sostegno economico, pagando il 95
per cento della retta degli asili. Così facendo, si è favorito un
incremento delle iscrizioni alla scuola dell’infanzia dei bambini
sotto ai cinque anni, consentendo al contempo alle mamme e ai papà
di conciliare gli impegni lavorativi con il ruolo di genitori.
L’insieme dei
provvedimenti adottati nel corso degli anni per promuovere la parità
tra i sessi ha portato all'Islanda enormi benefici, sia a livello
individuale per i singoli nuclei familiari, sia contribuendo al
benessere generale della società islandese.
Sarà questo il
segreto che rende l’Islanda uno dei Paesi più felici al mondo?