A
guardare tra “I 50 migliori ristoranti del mondo” scelti dalla
rivista Restaurant per trovare la prima 'executive' occorre arrivare
al 36esimo posto. Perché? "Una vera carriera di alto livello in
questo settore è diventata plausibile solo da pochi anni",
afferma Antonia Klugmann del Vanissa. "Non siamo così sfacciate
nel riuscire ad avere sponsor", dice Cristina Bowerman
“A
casa la donna ha sempre cucinato ma una vera carriera nella
ristorazione di alto livello è diventata plausibile solo da pochi
anni, esattamente come in tutti i lavori che comportano, oltre alla
fatica fisica, un impegno quotidiano molto intenso. Dal mio punto di
vista bisogna solo avere un po’ di pazienza per costruirci le
stesse opportunità e intraprendere lo stesso percorso degli uomini.
Siamo partite un po’ più tardi, occorre semplicemente aspettare”.
A parlare così è Antonia Klugmann, trentacinquenne friulana e chef
del ristorante stellato Vanissa: le donne hanno solo bisogno di tempo
per raggiungere i vertici delle cucine importanti, cosa che adesso
accade raramente.
A
guardare tra “I 50 migliori ristoranti del mondo” scelti dalla
rivista Restaurant, ad esempio, per trovare la prima chef executive
donna occorre arrivare al trentaseiesimo posto (Elena Arzak Espina,
che si trova in ottova posizione, divide la cucina con suo padre, lo
chef Juan Mari Arzak). Lei è Helena Rizzo, vincitrice del premio
“Vueve Cliquot best female chef 2014”. Padre italiano, ex
modella, la trentacinquenne Rizzo ha studiato architettura prima di
dedicarsi alla cucina. Ma qual è il motivo di questa egemonia al
maschile nelle cucine più blasonate del mondo?
“Le
donne non sono così sfacciate nel riuscire ad avere sponsor o
compagnie che credano in loro. C’è una certa incapacità, dovuta
semplicemente all’inesperienza, nel muoversi nei meandri di questo
genere di classifiche e nel sapersi mettere in evidenza in
determinati ambienti”. Così la pensa Cristina Bowerman, del
ristorante Glass Hostaria a Roma, una delle chef più apprezzate del
momento. Premiata a Identità Golose 2013, una stella Michelin,
Cristina, raggiunta telefonicamente da Ilfattoquotidiano.it,
continua: “Non c’è nessuna valutazione sul merito della
classifica, non è il mio mestiere stabilire se i ristoranti scelti
siano lì per buona promozione o effettivo valore e anzi, credo che
siano tutti fantastici. Ma è vero che noi donne siamo meno brave
nelle pubbliche relazioni”. E quanto al pensiero diffuso sulla
difficoltà di conciliare carriera e famiglia Cristina, mamma,
imprenditrice e cuoca, afferma: “E’ un luogo comune. Adesso siamo
in rapporto uno a venti ma le donne determinate a seguire la carriera
del grande chef ci sono e sono sempre di più”.
Chef
ai massimi livelli, come Nadia Santini del ristorante tre stelle
Michelin “Dal Pescatore”, a Canneto sull’Oglio, che ha appena
ceduto la corona di migliore chef donna alla Rizzo. Quella di Santini
(chef autodidatta dal 1974 del ristorante tre stelle Michelin “Dal
Pescatore”, a Canneto sull’Oglio) è una storia di famiglia: ha
imparato a cucinare dalla nonna del marito e adesso insegna al figlio
quella che, prima di essere un mestiere, è una tradizione. Una
generazione diversa, anni in cui la linea ereditaria era una base
necessaria per intraprendere una carriera nella ristorazione. Oggi,
invece, le giovani che diventano chef per scelta sono in aumento,
soprattutto in Italia: la metà delle cuoche stellate della via
Michelin sono italiane e molte di loro sono cuoche per “vocazione”,
non per tradizione di famiglia.
E
cosa ne pensa uno dei più famosi chef stellati sulla scarsa presenza
femminile nelle cucine importanti? Claudio Sadler, dell’omonio
ristorante milanese, ha un’opinione lontana da quella della
Bowerman: “Sicuramente non c’è alcuna discriminazione: le donne
sono in minoranza perché si tratta di un lavoro molto duro e
sacrificante. Chi sceglie di fare questo mestiere, che sia uomo o
donna, deve mettere in conto di avere poco tempo da dedicare alla
famiglia”.
Vicina
al parere di Sadler è la chef stellata Iside De Cesare, del
ristorante La Parolina, a Viterbo: “Il mio è un caso atipico
perché nel ristorante, a dividere la cucina e l’impegno, siamo io
e mio marito. In generale, se vogliamo aiutare le giovani donne a
diventare chef di successo è necessario farle diventare “capo
partita” nei tempi giusti, il che vuol formarle come “sous–chef”
entro i trenta o trentacinque anni, che spesso è il momento in cui
una donna decide di avere una famiglia e dei figli. Così – chiude
De Cesare – avremo una nuova generazione al femminile di chef
importanti”.
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