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lunedì 11 novembre 2024
Un anno fa ci lasciava Giulia Cecchettin
domenica 10 novembre 2024
Editoriale. Leggere Lolita a Teheran
Carissime lettrici e carissimi lettori,
alcune donne sono destinate a cambiare il mondo. Una ragazzina, poco più che ventenne
si aggira in biancheria intima per i vialetti dell’università, sfidando anche il freddo. È filmata da qualche finestra che affaccia sulla piazzetta sottostante. Cammina raccolta, timida, ma con passo spedito. È elegante nonostante la sua inaspettata nudità, quasi integrale.
È sabato 2 novembre. Lei, che poi sapremo chiamarsi Ahoo Daryaei, è una delle ragazze iscritte all’università di Azad a Teheran e la sua nudità ci appare, come giustamente è stata definita, “un gesto eretico” che reca disturbo e offesa all’integralismo della polizia “morale” dello Stato teocratico. Non indossa il velo, i lunghi capelli scuri le sfiorano i fianchi, è scalza ed è in slip e reggiseno. In un primo momento è seduta su un muretto. Le camminano intorno ragazzi e donne, altre ragazze universitarie, tutte vestite di nero, con il capo coperto dall’hijab, obbligatorio in Iran. La ragazza all’improvviso si alza, cammina su un viale finché arriva un’auto con alcuni uomini che la caricano a forza e la portano via. Attorno a lei nessuno interviene, tra sguardi e risatine.
Di Ahoo Daryaei non si sa più nulla. L’agenzia Iran International riferisce che, secondo una newsletter di studenti su Telegram, la ragazza è stata trasferita in un ospedale psichiatrico su ordine dell’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione. Dall’università confermano che la studentessa soffre di un grave disagio psichiatrico. «Eccola lì, la comoda diagnosi, la pazzia — scrive Mariangela Mianiti su Il Manifesto —. Per secoli, anche in occidente e fino a non molti decenni fa, quando una donna non era domabile, quando il suo agire era scomodo, quando si ribellava ai dogmi di una società soffocante, per liquidarla e smorzare qualunque tentativo di emulazione la si dichiarava pazza e veniva internata in manicomio, che allora era la tomba dei vivi… Per arrivare a spogliarsi in pubblico, oggi, in Iran bisogna avere dentro una forza di ribellione infinita, un coraggio senza limiti e anche una disperazione che non vede altri sbocchi. Bisogna essere consapevoli che potrai finire malissimo, che rischi la vita e che sei disposta anche a morire per affermare il tuo punto di vista, il tuo dissenso. Colpisce, poi, l’apparente indifferenza degli altri studenti che passano davanti a lei facendo finta di non vederla. Vuol dire che per ora la repressione e la paura hanno vinto? O quel gesto è così estremo che è difficile condividerlo? Durante le rivolte del 2022 — continua l’articolista — scoprire o tagliarsi i capelli era un gesto rivoluzionario che è costato caro, a volte la vita, a molte. Togliersi gli abiti in pubblico va ancora più in là in un contesto come quello dell’Iran. È come il rifiuto di abiurare ai tempi dell’Inquisizione, come il darsi fuoco di Jan Palach contro l’invasione sovietica che soffocò la primavera di Praga, è come dire che la vita a certe condizioni è così inaccettabile che non vale più la pena viverla. Infelici sono i popoli che hanno paura del corpo delle donne. Ma ancora più infelici sono le donne che lì sono costrette a vivere. Se Ahoo Daryaei è pazza, siamo tutte pazze». Tristissima conclusione. Un azzardo iniziato molto probabilmente per un hijab male indossato, come ai tempi dell’uccisione di Mahsa Amini, in quel “lontano” settembre di due anni fa.
Leggere Lolita a Teheran. Sembra che con la giovane e coraggiosa Ahoo entriamo nel libro della scrittrice iraniana Azar Nafisi, definito da Piero Citati «pieno di dolore e di nostalgia». La studentessa “eretica” e ribelle ci rimanda alle sette ragazze invitate dalla professoressa a lezione di letteratura “proibita” nella sua casa di Teheran. Anche loro sono affamate di cultura che il regime mette all’indice, anche loro sentono con la docente il peso delle restrizioni.
Il libro oggi è diventato un film, con lo stesso titolo, girato in Italia, per la regia di Eran Riklis. Il film, non ancora nelle sale cinematografiche (arriverà dal 21 novembre) è stato premiato alla diciannovesima Festa del Cinema di Roma, appena terminata. «Azar Nafisi ci ha donato un’impresa tra le più ardue: nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze, Nafisi ha dovuto spiegare la letteratura dell’Occidente a ragazzi e ragazze esposti in maniera sempre crescente all’indottrinamento islamico. Quando le condizioni politiche e sociali non glielo consentono più, la professoressa lascia l’insegnamento all’Università di Teheran e riunisce segretamente a casa sua sette delle sue studentesse più impegnate per leggere dei classici occidentali. Mentre i fondamentalisti prendono il controllo, queste giovani donne tolgono il velo, parlano delle loro speranze più intime, dei loro amori e delle loro delusioni, della loro femminilità e della loro ricerca di un posto in una società sempre più oppressiva. Leggendo Lolita a Teheran, celebrano il potere liberatorio della letteratura nell’Iran rivoluzionario e formano il loro futuro».
Le donne non piacciono al popolo degli Stati Uniti d’America? Forse. Sono due volte che si propongono come inquiline della Casa Bianca e sonoramente hanno perso. Hanno perso nei voti dati dagli elettori e dalle elettrici. Ma hanno perso anche contro il maschilismo più becero arrivato loro addosso, direi furiosamente, da chi per i prossimi quattro anni sarà il Presidente degli U.S.A. Donald Trump è stato anche applaudito da tanti e tante americane (ahinoi anche dalle donne) che hanno esultato (!) quando nel comizio di chiusura della campagna elettorale, già stracolmo di diverse uscite razziste e allusioni violente, il futuro Presidente Trump ha parlato anche dell’ex speaker della Camera Nancy Pelosi pronunciando prima le sillabe iniziale poi la parola intera. Trump ha detto di Pelosi: «È una persona cattiva. È una cattiva, malata, pazza…». Poi dopo una pausa ha pronunciato le prime due sillabe della parola Bitch, un sessismo e una volgarità inaudita.
«Questo è il Presidente che gli elettori americani hanno deciso che li governerà per i prossimi quattro anni — dice un commento su Fanpage —: una persona che non solo rivolge insulti sessisti alle sue avversarie politiche, ma aizza le folle a fare altrettanto, e osserva compiaciuto la loro reazione. Molti commentatori hanno fatto notare come Trump si sia lasciato andare negli ultimi giorni di campagna elettorale, dicendo cose sempre più estremiste e sconclusionate. Ma il sessismo nei confronti di Kamala Harris e di altre avversarie si era manifestato sin dall’inizio, anche da parte dei suoi collaboratori. Il futuro vicepresidente J.D. Vance aveva definito la candidata democratica «una gattara senza figli». Il super PAC di Elon Musk, l’organizzazione da lui fondata per finanziare le elezioni, ha diffuso un messaggio pubblicitario con la scritta «Kamala è una parola con la C». Nel gergo comune la “parola con la C” è cunt, puttana. Solo alla fine del video si rivelava che la parola con la C cui si faceva riferimento era comunista… È impossibile pensare che un politico — continua l’articolo — che si abbassa a usare questi mezzi così meschini abbia un qualche interesse nei confronti del genere femminile… Trump ha sempre avuto un basso sostegno fra le donne e la sua campagna elettorale del 2016 contro Hillary Clinton era stata caratterizzata da un sessismo forse ancora più sboccato di quella attuale: in un’occasione Trump disse che se non era capace di soddisfare il marito (alludendo allo scandalo di Monica Lewinsky), non avrebbe soddisfatto l’America come presidente. Nel 2020 Joe Biden gli fornì meno occasioni di palesare la sua misoginia, ma ormai il comportamento di Trump nei confronti delle donne era venuto a galla, come uomo — accusato più volte di violenze sessuali, alcune delle quali dimostrate in tribunale — e come presidente». Non c’è proprio altro da aggiungere!
Questa settimana passata è di nuovo arrivata alle cronache la violenza compiuta da giovanissimi e giovanissime. Aveva appena dodici anni la ragazzina che ha ferito un suo coetaneo “reo” di aver detto all’insegnante che la sua compagna aveva copiato il compito con l’aiuto del cellulare. La vendetta è arrivata repentina: la mattina di fronte alla scuola la compagna di classe lo ferisce con un coltello portato da casa e il ragazzino finisce in ospedale, per fortuna non in modo grave. L’episodio triste e violento apre ad altri problemi purtroppo centrali nella Scuola. Primi fra tutti il bullismo e il conseguente isolamento di qualche adolescente, spesso già carico/a di problemi che lo/a espongono a comportamenti scorretti da parte di altri coetanei. Così è accaduto alla dodicenne di Santa Maria delle Mole, a pochi chilometri da Roma.
Giovane, appena 21 anni, era anche il ragazzo, di origine egiziana, che ha accoltellato il capotreno “colpevole” di aver chiesto il biglietto a lui e alla sua ragazza, lei addirittura sedicenne. Viaggiavano tra Brignole e Busalla (nel genovese) nei pressi della stazione di Rivarolo, quartiere di periferia. I due ragazzi rispondono malamente al capotreno e dicono che non vogliono pagare né il biglietto né tantomeno la multa. Il treno viene fermato e i due ragazzi urlano contro il capotreno e la sua collega. Partono insulti e sputi, poi anche calci e schiaffi. Inizialmente la più agitata è la ragazzina ma, una volta scesi sul binario, il 21enne estrae dalla tasca un coltello e colpisce il capotreno. Viene ferito a una spalla e per pochi centimetri non vengono raggiunti organi vitali. Il lavoratore è in un bagno di sangue, a terra, sul binario, sotto gli occhi dei passeggeri e della collega, mentre i due giovani fuggono.
Poi ci sono le malattie mentali, psichiatriche. Appena a questa estate risale l’aggressione di Moussa che ha ucciso per strada una sconosciuta. Le cronache ci hanno parlato di un altro ragazzo, Riccardo, che ha sterminato la sua famiglia. Di nuovo però il punto comune: la giovane o giovanissima età. «Si potrà scendere nel dettaglio, studiare in modo approfondito i due casi — osserva lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Del Missier, presidente della Cooperativa Sociale di Psicoterapia Medica di Roma — ed evidenziare anche le differenze tra loro, che non sono di poco conto. È chiaro comunque che si tratta di due rotture psicotiche insorte in due personalità diverse e con storie diverse alle spalle in cui la violenza materiale rende palese e concreta una precedente, più o meno silenziosa, gravissima perdita, sia cognitiva che affettiva, del rapporto interumano (generalizzato a tutti per il trentenne Moussa, specifica nei confronti della famiglia per il diciasettenne Riccardo). È la perdita della naturale, originaria sensibilità umana che ci guida nel rapporto con gli altri e con se stessi e che ci dà il senso dei rapporti interumani. Essa viene sostituita dall’irruzione di un altro senso del tutto errato, alieno, disumano, ovvero, in tal caso accade che il senso della propria realizzazione starebbe nella eliminazione di altri esseri umani. Un “essere per la morte” psicologicamente molto “nazista”, come dire “io sarò se un altro morirà…. La prevenzione, qui il discorso rischia di farsi aspro e polemico perché l’obiettivo della prevenzione rivolta ovviamente ai giovani si allaccia necessariamente in tal caso al tema della formazione degli insegnanti ovvero il tema è come si diventa adulti e questo vale per gli uni come per gli altri. Allora azzardiamo un paragone tra le malattie del corpo e quelle della psiche e rileviamo che mentre in medicina siamo arrivati al concetto di immunizzazione ovvero alla possibilità di potenziare le difese naturali verso gli agenti patogeni mettendo artificialmente in contatto il fattore nocivo con il sistema immunitario del soggetto affinché esso prima conosca l’agente aggressiva e lo riconosca poi per potersene difendere, questo non è ancora accaduto in psicologia».
«Ci si limita a dare buoni consigli ovvi e inutili: siate buoni, rispettatevi, non fatevi del male (sarà l’educazione affettiva?) penso invece che, per potenziare le nostre naturali difese verso la malattia psichica cioè quell’istintiva allerta e/o rifiuto di fronte ad una aggressione psichica da qualunque parte provenga e che ci vuole rendere sofferenti e magari anche malati, bisogna conoscere e sapere di questa violenza psichica cioè invisibile che a volte scatta in rapporti interumani difficili. Un tempo le favole ci aiutavano in questo, facevano sapere ai bambini che in verità esistono eccome! La rabbia dell’orco e l’odio della strega, ma che queste non sono onnipotenti e si possono anche battere». (Sicilia24.it).
Si chiama Mail poetry Project. È una bella, importante e, possiamo dire, necessaria iniziativa rivolta più che agli artisti e alle artiste a chi vuole contribuire, unendo arte grafica e visiva insieme a quella poetica, a fermare la violenza sulle donne. Una cartolina da spedire all’indirizzo di Avellino (Corso Vittorio Emanuele 312, 83100 Avellino) da inviare entro il 25 novembre, che è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in ricordo dell’uccisione delle sorelle Mirabal per mano del Governo dittatoriale di Trujillo (Repubblica Dominicana). La Cartolina poetica deve consistere un cartoncino 10×15, diviso a metà. Sulla sinistra si realizza la parte grafica (disegno, fumetto, collage, fotografia, acquerello, tempera…), sulla destra si scrivono dei versi, propri o di un/una poeta nota/o. Le opere verranno esposte nel corso della mostra di Mail Poetry nel prossimo mese di Gennaio.
«La poesia può essere un linguaggio della liberazione»: così definisce la sua vocazione Athena Farrokhzad. Classe 1983 di origine iraniana è emigrata con la sua famiglia in Svezia, a Stoccolma. Lei, una poeta iraniana è la nostra “consolazione” di questa settimana. Poeta, critica letteraria, traduttrice, drammaturga e insegnante di scrittura creativa. Dopo diversi anni di progetti poetici collaborativi e collaborazioni internazionali (uno tra svedesi, palestinesi e iraniani/e), nel 2013 ha pubblicato il suo primo volume di poesia, Vitsvit (White Blight). Il libro ruota attorno ai temi della rivoluzione, della guerra, della migrazione e del razzismo, e di come queste esperienze condizionino la vita dei diversi membri di una famiglia. Vitsvit è stato tradotto in diverse lingue e trasformato in un’opera teatrale. Nello stesso anno, la sua prima opera teatrale, Päron, ha debuttato all’Ung Scen /Öst. Ha tradotto in svedese scrittori come Marguerite Duras, Adrienne Rich, Monique Wittig. Nel 2015 ha pubblicato il suo secondo volume di poesie, Trado, scritto insieme alla poeta rumena Svetlana Carstean.
Ci sono persone che non hai mai conosciuto
eppure ti amano, dico a mia figlia, lei capisce:
Come papà ama la sua squadra e come io amo una sirena
Proibisco al mio amato di rispondere quando squilla il telefono
Se è morto qualcuno, non voglio saperlo
Le grida di mia zia al cielo, chi ricorderà quanto era magnifica
Tutti i pesi che si è portata addosso e tutte le catastrofi che ha affrontato
La treccia dell’infanzia in un cassetto, come un promemoria mangiato dalle tarme
Non smette mai di vestirsi di nero, il suo dolore finale non arriva mai
Siamo intrappolati in un luogo tra la terra e l’inferno, dice lei
sotto una pellicola di smog, ci battiamo la schiena a sangue con le catene
ci pugnaliamo l’un l’altro alla coscia con i forconi
Pas kei miaee, grida al telefono, tu sei la mia figlia maggiore
Verrò presto, mento, chissà
come mi stringerà il domani.
Athena Farrokhzad
(Traduzione dallo svedese all’inglese a cura di Jennifer Hayashida, pubblicata su Adi Magazine; versione italiana di Pina Piccolo).
Buona lettura a tutte e a tutti.
mercoledì 6 novembre 2024
Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano
94 femminicidi dal 1° gennaio al 28 ottobre 2024, di cui 80 in ambito affettivo, 50 per mano del partner o ex partner, 5 solo nell’ultima settimana rilevata (Dati Ministero dell’Interno).
A un anno dal clamore suscitato dal femminicidio di Giulia Cecchettin, niente è cambiato: la violenza sembra essere inarrestabile e non dà tregua alle donne, il lavoro dei centri antiviolenza è aumentato.
È troppo. Il 9 novembre scendiamo nelle strade per dire basta a tutte le forme di violenza contro le donne e alle limitazioni della loro libertà. Basta all’inadeguatezza delle istituzioni, all’attacco all’aborto, alla complicità dei media, alla politica che cerca di ridurre all’invisibilità i centri antiviolenza.
È ora di prendere posizione, tutte e tutti. Essere “innocenti” non è sufficiente, non “avere mai alzato un dito su una donna” non è sufficiente, non fare violenza non è sufficiente: per sconfiggere la violenza di genere occorre un lavoro che sradichi la cultura patriarcale in cui si genera.
📌Concentramento - SABATO 9 NOVEMBRE alle ore 14,30 in via Piacenza 14 - MILANO
lunedì 4 novembre 2024
#DonnaVitaLibertà Maddalena Robustelli
La foto di questa giovane donna iraniana in biancheria intima in segno di protesta contro i soprusi subiti, per non avere indossato in maniera corretta il hijab, oramai è virale. Secondo una nota newsletter di studenti su Telegram, la ragazza è stata fermata, arrestata e trasferita in un ospedale psichiatrico su ordine dell'intelligence dei Guardiani della morale, perché ritenuta affetta da un "grave disagio psicologico". L' opinione pubblica iraniana denuncia online quella che viene definita una tattica del regime, per delegittimare le manifestanti etichettandole come mentalmente instabili. La reazione del regime iraniano è cauta, nel timore che possano ripetersi le proteste avvenute nel recente passato dopo l'assassinio di Stato di Mahsa Amini.
sabato 2 novembre 2024
Violenza sulle donne, chiedere aiuto è più facile con le app e gli strumenti digitali Danila Giancipoli Polis
La lotta contro la violenza di genere passa per diversi canali, offline e online, e si fa sempre più necessario un approccio trasversale che vede gli strumenti digitali a fianco delle donne e non solo contro di loro, come avviene nei casi di cyberviolenza (ad esempio revenge porn, sextortion, deepnude, cyberstalking e utilizzo di app spia).
La normalizzazione della violenza, il dilagante hate speech sui social e la cronaca spietata dei femminicidi oscurano la complessità di strumenti capaci di ribaltare la narrazione sulla violenza verso le donne: per chiedere aiuto, informazioni, o segnalare un caso di violenza verso terzi, esistono infatti app scaricabili gratuitamente e chat che vedono la pronta risposta di un operatore anche e soprattutto se si vuole rimanere nell’anonimato.
Cyberviolenza: un fenomeno da combattere
Gli ultimi dati Istat del 1522 (numero anti violenza e stalking) registrano un incremento di richieste d’aiuto per stalking rispetto al 2023 (+74,9% nel primo trimestre e +24,8% nel secondo semestre). Sono invece 9.433 i reati commessi nel 2023 contro la persona registrati dalla Polizia postale che includono ancora stalking, revenge porn, molestie, trattamento illecito dei dati e linguaggio d’odio. App di messaggistica come whatsapp vengono utilizzati per monitorare lo stato “online” o per chiedere costantemente una testimonianza di dove la persona si trovi fisicamente in un determinato momento.
In contrasto, abbiamo approfondito tre touch point di messaggistica (chat e app) per chiedere aiuto in caso di violenza forniti dal 1522, dalla Polizia di Stato e della rete nazionale antiviolenza D.i.Re.
Chiedere aiuto equivale a esercitare un diritto
Di pari passo con la possibilità di contattare telefonicamente il numero anti violenza e stalking 1522 esistono anche la chat sul sito e l’app scaricabile sul telefono. Due strumenti che soprattutto dal periodo di lockdown del Covid hanno permesso a molte persone di contattare le operatrici spesso con l’intento di rimanere anonime. Nel periodo tra marzo e ottobre 2020, i dati mostravano un incremento del 71,7% (la crescita di richieste d’aiuto tramite chat era triplicata passando da 829 a 3.347 messaggi). Considerato l’obiettivo finale degli strumenti digitali, ovvero fornire poi assistenza adeguata presso un centro antiviolenza, i contatti per avere informazioni sui centri erano invece aumentate del 65,7%.
La natura online stessa dello strumento e la profilazione sicura, sono due aspetti evidenziati dalla responsabile 1522 di Differenza Donna Arianna Gentili per Alley Oop: «Provare a convincere le vittime a recarsi in un centro antiviolenza tramite la chat ci permette di decostruire stereotipi e pregiudizi rispetto a centri antiviolenza e altri servizi. Per alcune donne andare in un centro antiviolenza equivale a sporgere una denuncia, noi facciamo invece da ponte. L’anonimato aiuta a scardinare questo pregiudizio, garantendo la riservatezza delle informazioni. Questo avviene prima di tutto per esercitare un diritto: un primo colloquio vuol dire reperire informazioni che diventeranno poi strumenti per la vittima. La mancanza di contatto fisico crea una situazione di sicurezza per cui la persona riesce a comunicare a prescindere dalla paura o la vergogna. Alcuni tipi di violenza sono così complessi che la persona non riesce a parlarne di persona o a voce».
La chat a supporto delle donne straniere, migranti o all’estero
Donne che si trovano all’estero, donne non italiane in erasmus o che sono in Italia per lavoro utilizzano la messaggistica. La chat è infatti l’unico strumento del 1522 che può essere utilizzato dall’estero, suggerendo un fortissimo aspetto di inclusività. Persone che vivono in altri paesi chiedono alle operatrici un numero similare al 1522, mentre connazionali che vivono all’estero per lavoro e stanno subendo violenze chiedono a chi possono rivolgersi e come possono rientrare in Italia in sicurezza.
L’interfaccia sul sito sembra una conversazione whatsapp che non rimane tracciata e non viene salvata, così nessuno può vedere che è stata utilizzata. L’app può invece essere scaricata e tenuta sempre a portata di mano sul cellulare.
Le giovani in aumento dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin
La chat risulta più utilizzata da ragazze giovani con un livello di soggezione molto alto, vittime spesso di stalking e revenge porn. «La fascia centrale per le richieste d’aiuto è dai 45 ai 55 anni, dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin la soglia si è abbassata. Alcuni comportamenti sono ancora fraintesi e identificati come gelosia e amore. Succede anche nei casi di stalking, in quell’età si ha paura di esporsi e perdere la propria libertà. La tecnologia ha permesso un maggiore controllo, viene chiesto costantemente di mandare una posizione e alcune donne sono costrette a mandare le loro foto per dare testimonianza di dove si trovano. Quindi una chat che non devo scaricare e che posso aprire e chiudere senza lasciare traccia va oltre la paura di essere rintracciate» puntualizza la responsabile 1522 di Differenza Donna Arianna Gentili.
L’app della Polizia di Stato per segnalare abusi
Durante l’emergenza pandemica, la segnalazione per violenza domestica è stata aggiunta all’interno dell’app YouPol, l’applicazione gratuita della Polizia di Stato nata nel 2017 per facilitare la comunicazione nel prevenire e contrastare il bullismo e lo spaccio di sostanze stupefacenti. In questo modo è stato possibile implementare il lavoro a contrasto della violenza di genere, raccogliendo dati e testimonianze utili ad approfondire i fenomeni della violenza e cyberviolenza.
Eugenia Sepe, vice questore della Polizia di Stato dell’ufficio comunicazione istituzionale, fornisce una spiegazione tecnica ad Alley Oop: «YouPol è un’app che consente di effettuare segnalazioni di reati di cui si è vittima o spettatori, è un modo per entrare in contatto e per conoscere nuovi fenomeni che altrimenti potrebbero sfuggire al controllo di Polizia. Notizie e informazioni che seppure non trovano riscontro nell’immediato per il reato segnalato, vengono incamerate per settore: spaccio di droga, bullismo e violenza domestica, quest’ultima integrata nel periodo Covid. Tramite app è possibile inoltre allegare video e foto, o monitorare se la segnalazione è stata raccolta. Ci rivolgiamo soprattutto ai giovani con l’intento di usare uno strumento a loro affine e conquistare la loro fiducia».
I numeri dell’app YouPol e l’importanza delle segnalazioni da terzi
Secondo i dati forniti ad Alley Oop le segnalazioni per violenza domestica registrate sull’app YouPol sono ad oggi 1786, un dato in crescita rispetto al 2023 (1722) e 2022 (1633). Le metriche associate al segnalatore includono genere e provenienza geografica, con la possibilità di rimanere anonimo. Il numero più alto di richieste nel 2024, pari a 1049, risulta nella categoria dei profili anonimi con una prevalenza dal sud Italia (321 centro, 284 nord, 444 sud). Le segnalazioni registrate da parte degli uomini sono 383 contro le 354 da parte delle donne, un dato che mette comunque in luce la predilezione per l’anonimato.
«La sensibilità di chi subisce o chi assiste di segnalare agli organi di Polizia va al di là del fatto statistico. Quando facciamo campagne di sensibilizzazione miriamo a cambiare l’atteggiamento e la consapevolezza delle persone rispetto a vari fenomeni tra cui la violenza di genere, spesso segnalata da terzi che hanno assistito ad un reato. Per i reati legati alla violenza di genere abbiamo una formazione costante rivolta al personale, sul profilo giuridico, sulle norme e sugli strumenti a disposizione, soprattutto per fornire un servizio più completo possibile in fase di raccolta della denuncia».
La nuova chat sperimentale della rete nazionale D.i.Re
Lo scorso 14 ottobre è stata presentata l’iniziativa don’t call me promossa dall’ente Saugella che ha coinvolto la rete nazionale anti violenza D.i.Re – Donne in rete contro la violenza. L’obiettivo comune è portare avanti campagne di sensibilizzazioni e azioni concrete a contrasto della violenza di genere, prendendo spunto dal concept della campagna che approfondisce il tema del cat calling. Il brand supporterà infatti l’associazione attraverso la creazione e la gestione di una nuova chat sperimentale avviabile dal sito www.direcontrolaviolenza.it, dove sarà possibile chiedere sostegno e informazioni in caso di violenze e molestie.
Lo strumento è una novità nel suo tecnicismo, ma fonda le sue radici in una necessità culturale molto più profonda, come racconta ad Alley Oop la consigliera nazionale della rete D.i.Re Francesca Maur: «Stiamo attivando nuovi servizi consapevoli del fatto che l’ampia diffusione dei media digitali in ogni ambito della vita ha determinato e continua a determinare nuovi processi di soggettivazione, sia online che offline, delle donne e delle ragazze. Questi media, infatti, da un lato condizionano gli immaginari e i modelli di genere, dall’altro sfidano le norme sui corpi, la sessualità e le relazioni esistenti. Sono quindi veicoli di una complessa ambiguità, in cui coesistono norme rigide sulle relazioni di genere insieme a processi di liberazione riguardo a queste stesse relazioni e ai comportamenti sessuali».
Le donne vengono aiutate anche da remoto
Ad oggi, come ci spiega la consigliera Maur, quasi tutti i centri della rete antiviolenza D.i.Re utilizzano modalità da remoto per svolgere colloqui con donne e ragazze maggiorenni che si rivolgono con richieste di supporto per uscire da situazioni di violenza: «Piattaforme come zoom, meet, vengono usate per colloqui con le donne e per le call con i servizi sociosanitari che fanno parte delle reti territoriali antiviolenza. Sistemi di messaggistica come messanger o whatsapp si sono affiancati a canali più tradizionali di contatto con i centri antiviolenza».
La nuova chat vuole rispecchiare e rispettare la metodologia di accoglienza che caratterizza tutti i centri della rete D.i.Re, basata su un ascolto empatico e non giudicante, e sull’anonimato delle donne che si rivolgono all’associazione. Uno degli obiettivi sarà prestare, se possibile, un’attenzione ancor maggiore all’uso delle parole.
Dai social al centro antiviolenza: un post può fare la differenza
Come testimoniato dalla responsabile 1522 per Differenza Donna Arianna Gentili, altri strumenti digitali come i social o le comunicazioni istituzionali tramite mail possono suscitare interesse o creare un link con chi è vittima o assiste ad una violenza: «Tutti gli strumenti digitali fanno da tramite, anche cose non pensate in maniera specifica per questo come un link ad un evento o un post su Instagram. Entrambi questi canali possono portare una persona ad avvicinarsi durante un incontro o chiedere informazioni su un centro vicino. Capita che chi vede un post sui social trovi una frase che li riguarda da vicino e lì scatta qualcosa. È vero che ci sono molti femminicidi, ma è vero anche che molte donne ce la fanno. E noi questo aspetto lo dobbiamo raccontare, altrimenti le persone non chiedono aiuto».
Tutti gli strumenti attuali e in divenire rispondono all’esigenza di scardinare il fenomeno struitturale della violenza di genere con il tentativo di ribaltare l’utilizzo improprio del digitale e opporsi alla cyberviolenza. Al pari di un’app spia, esiste un’app o una chat nati per chiedere aiuto in caso di violenza, creando quindi un sistema di contrasto in continua evoluzione.
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.