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martedì 13 maggio 2025

Perché l’Italia sta diventando un Paese che odia le madri di Maddalena Comotto

La maternità continua a calare in modo preoccupante. Svalutata dal mondo del lavoro, dalla politica, dalla società rimane anche un nodo irrisolto del femminismo

Oggi è la festa della mamma, purtroppo c’è ben poco da festeggiare. Negli ultimi anni in Italia ha preso piede una tendenza a considerare poco la maternità, fino a una vera e propria ostilità.


Lo Stato ha sul tema un atteggiamento ambivalente: da un lato si rende conto che non può prescindere dal ruolo femminile materno e cerca di incentivarlo, dall’altro non lo protegge con adeguate tutele.  Nonostante la legge sulle pari opportunità del 2006 nel 2024 una lavoratrice su cinque ha dovuto lasciare il lavoro per l’impossibilità di coniugarlo con la famiglia, il 72,8% delle dimissioni dei neogenitori è costituito da donne. 

La maternità è vista come un peso dal punto di vista lavorativo, spesso comporta penalizzazioni professionali o economiche: le colleghe che chiedono semplicemente i propri diritti vengono percepite come pigre, donne che non si realizzano in pieno e che gravano sugli altri. 

Dal 2008 al 2023 la natalità è diminuita del 34,2%  e dati provvisori del 2024 indicano un calo ulteriore. Molte persone se ne dichiarano contente: “siamo in troppi”, “è una scelta ecologica”, oppure la solita “tanto i figli li fanno gli immigrati”. Il ricambio generazionale dato dall’immigrazione è vero solo in parte, specialmente con gli ultimi flussi migratori costituiti non da famiglie ma da uomini soli; inoltre, è piuttosto razzista pensare che, siccome la maternità è complicata e degradante nella nostra società, sia meglio subappaltarla a qualcuno che riteniamo “inferiore” e non affrontare i problemi che essa comporta per poter essere vissuta in sicurezza e dignità.

Molte donne però hanno un rifiuto per la maternità che è molto più forte del semplice non volerlo per se stesse. Se nei colloqui di lavoro le donne sono discriminate e  il 30%  di loro ha ricevuto la domanda  “vuoi avere figli?”, è così sorprendente che alcune per sentirsi realizzate vogliano vivere come uomini?  Vogliano distaccarsi dal gruppo oppresso?

La legge 54 sulla bigenitorialità non aiuta. La bigenitorialità a tutti i costi infatti si colloca in un sistema che sta cercando di ridimensionare la maternità e renderla praticamente equivalente alla paternità. E adesso, a peggiorare le cose,  in Commissione Giustizia al Senato c’è in discussione un disegno di legge sull'”affido condiviso”, detto anche ddl Salomone,  che prevede la bigenitorialità perfetta.

Padri assenti, o addirittura violenti, si ritrovano in nome di un possesso patriarcale a esigere il figlio e trovarsi questo diritto garantito, anche dopo violenze sulla madre. E può raggiungere vette di follia, quando la madre che denuncia si ritrova a perdere il figlio con l’accusa di sindrome di alienazione parentale, cioè di aver messo il figlio contro il padre. In questo caso, i diritti del padre superano il diritto della madre di potersi allontanare dalla violenza tanto quanto quelli del figlio di rifiutare tale violenza.

Caso emblematico, quello di Monteverde a Roma in cui il condominio intero si è mobilitato per impedire alle forze dell’ordine di prelevare la bambina, Stella, di cinque anni dalla mamma, rea di “aver trasmesso il rifiuto genitoriale” verso il padre violento e, per questo, di essere considerata un pessimo genitore quanto il compagno. 

Questo caso è finito sui giornali, ma tanti, troppi altri no, anzi, il clamore mediatico è tutto dato al famoso gruppo dei “padri separati” che, a causa dell’assegno di mantenimento, secondo il mito, vivrebbe di stenti e in auto.  L’Istat però ci dice che sono proprio le donne separate con figli a essere sotto la soglia di povertà assoluta, ma le loro statistiche passano in sordina rispetto alle battaglie maschili.

Se il rapporto madre bambino non è così importante non c’è motivo per cui la gravidanza non possa essere subappaltata a esterni. Un outsourcing come un altro in paesi più poveri e dove c’è sfruttamento. Eppure, checché si cerchi di negarlo, come nel caso delle mamme denigrate mamme pancine, la maternità è totalizzante, un’esperienza che comprende un rapporto con la creatura in grembo e che, soprattutto, comporta rischi e disagi per la salute, anche a lungo termine. L’utero non è una parte del corpo che può essere subaffittata autonomamente, così come il contributo materno non può essere paragonato a quello paterno che biologicamente si ferma all’eiaculazione.

OSTACOLO ALL’EGUAGLIANZA O EMPOWERMENT?

Anche nel femminismo il tema della maternità è diventato divisivo. Alcune riflessioni di femministe famose, come Simone de Beauvoir, che scrisse che “la maternità è un campo di battaglia sul quale è stato eretto l’edificio del patriarcato”, sono spesso citate come critiche alla maternità. Simone de Beauvoir, in realtà, criticava la maternità inconsapevole ed egoista; la decisione di diventare madre doveva essere presa con l’obiettivo di mettere al mondo persone libere e, comunque, la maternità non doveva essere vista come l’obiettivo principale della vita di una donna. Sebbene la precisazione sembri una difesa della maternità stessa, in realtà pone una condizione spesso citata dalle critiche alle madri: per essere davvero madre, infatti, non basta aver messo al mondo un figlio, averlo curato e amato, ma bisogna averlo fatto per le ragioni giuste, essere cioè degne. Chi decide però chi è davvero una degna madre?

Il femminismo liberale nasce con l’obiettivo di garantire alle donne le stesse opportunità degli uomini. Ma come può una madre avere le stesse opportunità se, di fatto, si assenta da lavoro e richiede meno ore? Purtroppo una parte del movimento non ha individuato il problema nel fatto che il mondo lavorativo sia modellato sulla base maschile, ma ha additato la maternità, che di fatto legherebbe mani e piedi alle donne a una condizione subordinata e di non realizzazione. Non solo, le “mamme” sarebbero pure ree di danneggiare le altre donne che non vogliono figli, creando un sistema che danneggia le donne (già a partire dai colloqui) rendendole pericolose, con il loro utero simile a una bomba pronta a esplodere sul datore di lavoro.

Tutte queste critiche sono legittime ed è vero che per molte donne la maternità, oggi e nella nostra società, è un percorso fatto di rinunce, frustrazioni, rabbia e difficoltà a collocarsi adeguatamente nel mondo lavorativo e sociale. Ed è altrettanto vero che, sebbene sia possibile da un punto di vista tecnico-scientifico viverlo come un percorso solitario, la maggior parte delle donne vive la maternità in coppia e in famiglia, con tutti i problemi che questo comporta. Dare valore a questa esperienza e aiutare le donne che la scelgono, non vuol dire che ogni donna debba farlo ma capire che la maternità è un’esperienza unicamente femminile e che va rispettata. Passare da un eccesso all’altro non serve a nessuno, solo a inventarsi un nuovo livello di misoginia.


 di Maddalena Comotto

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