sabato 29 febbraio 2020

La bicicletta e l'emancipazione femminile

Verso la fine del XIX secolo le donne divennero entusiaste utilizzatrici delle nuove biciclette a pedali, che offrivano un’inedita libertà di movimento

Una volta pensavo che la cosa peggiore che potesse fare una donna era fumare, ma ora ho cambiato idea. La cosa peggiore che ho visto in vita mia è una donna in sella a una bicicletta». Così scriveva il 25 luglio del 1891 la corrispondente del Chicago Tribune in un breve articolo, in cui sosteneva che avrebbe reso la vita impossibile alla sua futura nuora se questa avesse mostrato la minima inclinazione per il ciclismo. Le pioniere della bici iniziavano a destare scalpore.

Il cammino della bicicletta sarebbe stato lungo. I primi modelli, a partire dal 1817, consistevano in una semplice barra che univa due ruote. Attorno al 1870 vennero aggiunti i pedali, che consentivano di avanzare rimanendo in sella aumentando così le probabilità di arrivare incolumi al termine dell’operazione. Questi “velocipedi”, con la ruota anteriore più grande di quella posteriore, furono poi sostituiti da biciclette con ruote di identiche dimensioni e catene per trasmettere l’energia del pedale alla ruota posteriore. Molto più sicure, le bici dell’inizio della Belle Époque venivano acquistate a prezzi esorbitanti dai pochi che se le potevano permettere.

Le donne della classe alta si mostrarono ben disposte a usare questa nuova invenzione che permetteva di spostarsi liberamente e rapidamente in un mondo che le voleva rinchiuse tra le mura domestiche. Queste intrepide pioniere attiravano gli sguardi della gente, un fatto considerato già di per sé negativo. I manuali di comportamento dell’epoca, infatti, spiegavano chiaramente che l’ultima cosa che doveva fare una signora per strada era mettersi in mostra. Procedere rapidamente era un segno di cattiva educazione, così come parlare ad alta voce o tenere le braccia lontane dal corpo.

Rompere gli schemi
Le donne che andavano in bicicletta, quindi, infrangevano le regole di comportamento femminile stabilite e diventavano persone di “dubbia moralità”. La londinese Emma Eades fu oggetto di lanci di pietre e molte altre donne vennero insultate e aggredite. Come se non bastasse, i medici del tempo affermavano che il ciclismo era un’attività dannosa per l’organismo femminile, considerato più debole di quello maschile. Andare in bicicletta, si diceva, poteva causare sterilità e disturbi nervosi. Ma queste temerarie non dovettero affrontare solo i consolidati pregiudizi dell’epoca. Avevano di fronte anche un altro ostacolo: gli abiti femminili, indumenti pesanti (la biancheria intima poteva pesare anche sei chili) e striminziti corpetti con cui era già un miracolo fare un piccolo sforzo senza svenire.
Secondo i medici dell'epoca andare in bicicletta poteva causare sterilità e disturbi nervosi

In soccorso alle cicliste arrivarono dei pantaloni molto ampi, i bloomer. Ma quando alcune donne osarono indossarli, sollevarono un nuovo polverone. I sacerdoti dedicavano intere prediche a sottolineare l’aspetto peccaminoso dell’indumento. Alle professoresse francesi fu proibito di indossarli a scuola e all’aristocratica Lady Harberton venne impedito di entrare con i bloomer in un caffè dove voleva bere qualcosa prima di tornare in sella alla sua bici. La battaglia per i pantaloni era persa, ma nel frattempo le donne avevano compiuto grandi progressi nell’impervio cammino dell’emancipazione.

Un po’ alla volta l’immagine della donna in bicicletta smise di essere così strana. Sempre più economiche, le bici si diffusero tra le classi popolari. Sorsero moltissimi club femminili che offrivano l’opportunità di viaggiare in compagnia ed evitare così le molestie per strada. Imprese come quella di Annie Londonderry, che nel 1895 fece il giro del mondo in bici, accesero l’immaginazione della gente e dimostrarono che le donne non erano da meno degli uomini. Intanto la pubblicità iniziava a presentare il ciclismo come un’attività rispettabile, i medici ne raccomandavano l’uso e i giornalisti vedevano nella ciclista “la nuova donna”. Il genere femminile conquistava un nuovo spazio che prima gli era precluso.

Il fenomeno si era diffuso a tal punto che, verso la fine della Belle Époque, una donna single si lamentava del fatto che ormai era difficile fare nuovi incontri senza andare in bicicletta. E lei, per quanto quest’attività sportiva ampliasse l’orizzonte del genere femminile, non riusciva ad abituarsi alle scomodità che comportava. Non si può mica accontentare tutti.
https://www.storicang.it/a/bicicletta-e-lemancipazione-femminile_14726?fbclid=IwAR2LLMOAL7EjZSv0FwmchvPmsRY82IWe2KBV_f67Oy3DWAeX8ZZJp_PwXUI

venerdì 28 febbraio 2020

Malala e Greta insieme: l'importante messaggio che sta dietro un'immagine iconica diventata virale di An. Loi

Le due attiviste si sono incontrate a Oxford e hanno parlato dei temi cari alle loro campagne. Cosa si sono dette

Si sono incontrate a Oxford dove Malala studia all'Università. Greta ha fatto lì una tappa mentre si recava a Bristol dove è attesa per la protesta sul clima di venerdì. L'immagine che ritrae insieme le due attiviste, postata su Twitter, in breve è diventata virale e ha fatto il giro del mondo. E' chiaro che l'immagine è pregna di significato: da una parte la ragazzina svedese affetta dalla sindrome di Asperger che ogni venerdì salta la scuola per protestare contro il silenzio dei governi sugli effetti devastanti delle emissioni - e degli stili di vita errati - sui cambiamenti climatici, l'altra, Premio Nobel per la Pace nel 2014, ha messo in gioco la propria vita a favore dell'istruzione delle bambine nel Pakistan martoriato dal regime oscurantista dei Talebani. Malala aveva solo 11 anni quando ha aperto il suo blog e 12 quando ha subito l'attentato in cui ha rischiato la vita, mentre ne aveva 16 quando ha pronunciato il primo discorso davanti alle Nazioni Unite.

Le due ragazzine hanno saputo guardare oltre se stesse e voluto mettere in gioco la propria determinazione a favore del prossimo divenendo esempio per tante e tanti giovani che oggi si organizzano e scendono in piazza per i diritti umani e civili. "È l’unica amica per cui salterei la scuola", ha scritto Malala Yousafzai su Twitter commentando l'incontro.

"Quindi… oggi ho incontrato il mio modello. Che altro posso dire?", è il cinguettio di Greta Thunberg partito dal suo profilo. Entrambe stanno sedute su una panchina all'esterno del campus di Oxford e si abbracciano.

Un incontro importante nel quale si è riflettuto e discusso di "Scienza, voto, limiti della protesta, disinvestimento, zero reale e zero netto e molto altro", come ha riferito il preside del College Alan Rusbridger. L'attenzione l'hanno catturata. Non bisogna dimenticare che accanto alle ragazze agiscono organizzazioni ambientaliste e per i diritti umani, da loro volute e animate, che portano avanti i temi su cui si sintetizza la loro lotta. Lo scatto è importante perché riconduce all'importanza delle "immagini positive" in un mondo fatto di apparenze e influenzato da modelli spesso discutibili, che con facilità raggiungono i giovani. In questo contesto le due ragazzine divenute "influencer" globali incarnano perfettamente l'aspetto positivo della comunicazione di massa via socialnetwork.
https://notizie.tiscali.it/lovedifferences/articoli/malala-greta-immagine-virale/?fbclid=IwAR0teOHpC4ZABGucIMyQ_fAAosUAvzu1-ZbQ1lshErB_6FHg5IbdtxjEp_0


giovedì 27 febbraio 2020

Anche le donne sono sessiste: persino le femministe dichiarate sono considerate inconsciamente prevenute contro le donne.

Una traduzione da Why are even women biased against women?
Nel programma di Radio 4 Analysis, Mary Ann Sieghart si domanda: “Da dove vengono questi atteggiamenti discriminatori e cosa possiamo fare in proposito?”

“Le donne sono considerate incompetenti se non dimostrano la loro competenza, mentre si presume che gli uomini siano competenti soltanto perché non si hanno prove del contrario.” Questa è l’osservazione di qualcuno che ha la rara esperienza di aver vissuto sia come uomo che come donna: la professoressa Joan Roughgarden, ex docente della Stanford University. La sua esperienza di donna transgender conferma ciò che le donne hanno sempre sospettato: devono lavorare due volte più duramente per dimostrare di essere brave in ​​quello che fanno.

Perché le donne hanno aspettative inferiori rispetto alle altre donne? Catherine Nichols, una scrittrice di Boston, ha un’esperienza di prima mano. Dopo aver finito di scrivere il suo romanzo, ha inviato i primi capitoli, più una sinossi, a 50 agenti letterari, in grande maggioranza donne. Ricevette solo due risposte positive da agenti che chiedevano di vedere il manoscritto.
Questo la sconcertò, poiché gli amici scrittori le avevano detto quanto fosse bello il suo romanzo. Così ha concepito quello che lei definisce un “piano pazzo”: ha spedito lo stesso identico materiale ad altri 50 agenti, ma questa volta firmandosi con un nome maschile. Il risultato? Ha avuto 17 risposte positive.
In altre parole, gli agenti la ritenevano otto volte e mezzo una scrittrice migliore se fingeva di essere un uomo. Inoltre, ha ricevuto molte critiche costruttive su come migliorare il romanzo, un aiuto che non ha mai avuto quando scriveva con il suo nome. “Era scioccante constatare quanto fosse evidente che c’era una grande differenza”, ha detto.
Non ci sono ragioni commerciali a monte di questa disparità. Dei primi dieci titoli di narrativa pubblicati lo scorso anno, nove erano di autrici. Ma forse l’esperienza di Nichols è solo aneddotica.

Esistono prove scientifiche che le donne siano prevenute nei confronti delle donne?
La risposta è sì. Diversi esperimenti lo hanno dimostrato. Uno, messo a punto da dei ricercatori di Yale, ha inviato domande di lavoro e CV per un posto di responsabile di laboratorio a professori di scienze di entrambi i sessi. Le domande erano identiche, tranne che a metà era stato assegnato il nome di un uomo e all’altra metà quello di una donna.
Cosa è successo? I professori – sia maschi che femmine – hanno trovato più interessante il profilo dell’uomo e si sono mostrati più propensi ad assumerlo e fargli da mentore. E gli hanno offerto uno stipendio sostanzialmente più alto.

Da dove proviene questo pregiudizio? Da un momento nel passato del nostro percorso evolutivo, quando stavamo imparando a distinguere l’amico dal nemico. Il nostro cervello inconscio ha un potere di elaborazione enormemente maggiore rispetto al nostro cervello cosciente, ed escogita sempre scorciatoie, conosciute come euristiche.
Queste euristiche, parte del nostro cervello rettiliano, si formano con l’esperienza. Quindi, se da bambini ci bruciamo con un piatto caldo proveniente dal forno, impariamo velocemente ad associare “forno” a “caldo” e “dolore”.
Allo stesso modo, se la nostra società è piena in modo sproporzionato di uomini che occupano posizioni al vertice, assoceremo automaticamente “maschio” con “leader”, “successo” e “competenza”, mentre “femminile” è associato a “casa”, “bambini” e “famiglia” . Questo meccanismo scavalca qualsiasi pregiudizio naturale che le donne potrebbero avere nei confronti della propria specie.
Esiste un test per i pregiudizi inconsci, noto come test di associazione implicita. Con mia costernazione, ha suggerito che anche io – una femminista convinta che ha sempre avuto una carriera – sia leggermente prevenuta nei confronti delle donne lavoratrici. Parole maschili e femminili e parole che rappresentano il lavoro e la famiglia, si illuminano sullo schermo. Il test poi misura quanto velocemente riesci ad associare ogni categoria e quanti errori fai.
La Professoressa Mazarin Banaji di Harvard è una dei creatori del test. Il test le disse che anche lei poteva essere di parte. “È stato i giorno più importante della mia vita, quello che ha cambiato le cose: quando mi sono trovata faccia a faccia con il mio pregiudizio, con il fatto che la mia mente e le mie mani non erano in grado di associare la donna con la leadership tanto quanto vi associavo il maschio.”
“Quando mi sono dovuta controntare con il fatto che non riesco ad associare le persone dalla pelle scura a cose buone come vi associo le facce di persone dalla pelle chiara a cose buone, ho raggiunto qualcosa di diverso dalla semplice consapevolezza: è come se qualcuno mi avesse pugnalato e stesse rigirando la lama dentro di me mentre mi intimava di sedermi e prenderne atto. ”
Il test sulla carriera e il genere che entrambe abbiamo fatto è una misura di quanto siano potenti le nostre euristiche, dice Banaji: “Ci dice che l’impronta digitale della cultura è nel nostro cervello”. I risultati di questo test mostrano che l’80% delle donne e il 75% degli uomini hanno qualche pregiudizio.
Quindi cosa possiamo fare a riguardo? Bene, il primo passo è diventare consapevoli. Per quanto tu sia liberale e socialmente impegnata, è probabile che ad un livello inconscio il tuo cervello sia infarcito degli stessi stereotipi che disdegni esteriormente. Comprendere di avere dei pregiudizi inconsci è un inizio, ma non è abbastanza.
Come dice la professoressa Banaji: “Se dovessi tenere una conferenza su grasso e zucchero e su come il nostro corpo lo converte in energia, alla fine di una lezione di tre ore, avresti perso del peso?”
L’importante è essere consapevoli di ogni possibile pregiudizio. Quando stai valutando dei candidati, cerca di correggere qualsiasi pregiudizio inconscio che ti possa dire che il timbro della voce di una donna non ha autorità.
Assicurati di non perdonare più carenze ad un uomo che ad una una donna. Confrontali entrambi rigorosamente con le specifiche del lavoro e non affidarti al tuo istinto o alla tua impressione.

Richiede un po’ di lavoro. Ma sicuramente ne vale la pena? Il sessismo è vile quanto il razzismo e non dovrebbe avere posto nella società moderna. Quindi la prossima volta che presumi che una donna non sia competente fino a quando non si dimostra altrimenti, datti una tirata d’orecchi, ricordati che è il tuo cervello rettiliano a parlare e prendi la decisione di comportarsi come una persona del 21 ° secolo, non come un uomo  – o una donna – delle caverne.
https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2020/02/27/le-donne-maschiliste/?fbclid=IwAR28pEiUEffqYnesQEpTujeC_vFVwTqdJq7GSby2uqwrXROOUe7b6BTFD70

mercoledì 26 febbraio 2020

Weinstein condannato per stupro, ora sarà difficile dire che il metoo è "caccia alle streghe" Non è solo una condanna, è un momento storico. DI GIULIA BLASI

Anche a voler essere molto, molto cinici, la sentenza del processo Weinstein è un momento che resterà nella storia. Lo era già stata, a suo modo, la condanna inflitta a Bill Cosby nel 2019, poi confermata in appello: ma Weinstein è un caso-totem, un caso-scuola. Quello a Harvey Weinstein – per chi negli ultimi vent'anni avesse vissuto in una capanna di legno senza internet e televisore: ex produttore cinematografico potentissimo, fondatore della Miramax e ora, possiamo dirlo, stupratore seriale – è ben più che un processo per stupro.

Dal caso Weinstein è nato un modo radicalmente diverso di inquadrare la violenza sessuale all'interno dei rapporti di potere che regolano la società capitalista, in cui le donne sono considerate ancora oggetti a malapena animati che devono conquistarsi il diritto di essere riconosciute come esseri umani. Da quel caso sono nate la campagna #metoo e la sua parallela italiana, #quellavoltache, creata a sostegno di Asia Argento: una donna a cui forse ora (ma non da ora) dobbiamo tutti delle scuse.

Cinici, dicevo, perché Weinstein è stato condannato per due capi di imputazione su cinque fra quelli per cui è andato a processo, i due meno gravi. Per riassumere in maniera molto grossolana: sì, ha stuprato Jessica Mann (insieme a Miriam Haley, la donna che lo ha portato in tribunale), ma non ha usato la forza per farlo. Nel verdetto, inoltre, viene reso chiaro che la giuria non ha creduto oltre ogni dubbio alla testimonianza di Annabella Sciorra, una delle prime accusatrici pubbliche di Weinstein. Nel male, gli è comunque andata bene: andrà in prigione, ma poteva andarci per più tempo. E anche se è stato condannato, la sua difesa ha lavorato bene sui luoghi comuni associati alle vittime di stupro, e sull'idea dello stupro come atto necessariamente accompagnato dalla violenza fisica.

C'è un dettaglio, però, che è rilevante. Ed è che le due donne che hanno portato Weinstein a processo non hanno smesso di vederlo dopo lo stupro. Quando questo succede, è molto difficile ottenere una condanna: la maggior parte delle donne viene dissuasa dal portare avanti una causa se ha anche solo mandato dei messaggi di testo al suo aggressore (e se lo fa, come sappiamo, è probabile che le accuse vengano archiviate): eppure, come ha testimoniato la psichiatra Barbara Ziv al processo, questa è la circostanza più comune.

Una donna stuprata può non capire subito cosa le sia successo, specialmente se conosce il suo aggressore e non ha mai avuto motivo di pensare che potesse farle del male. A questo si aggiunge la nostra idea di stupro come di atto barbarico che si consuma fra sconosciuti: la maggior parte delle violenze sessuali, al contrario, avviene fra persone che si conoscono e senza eccessive forzature. Lo stupro non è il frutto di un desiderio improvviso e incontrollabile, non è il risultato di una condotta dissoluta della vittima, non sono le minigonne, il gin tonic o le droghe a stuprarti: è (quasi) sempre un uomo.

Donna Rotunno, l'avvocata a capo del team di difesa di Weinstein, ha messo in campo ogni argomento patriarcale per screditare le due accusatrici e le varie testimoni del processo. Ha gridato allo scandalo e accusato gli avversari di voler creare una “realtà alternativa” in cui le donne “non sono responsabili per le feste a cui vanno, gli uomini con cui flirtano, le scelte che fanno per fare carriera, gli inviti nelle stanze d'albergo e i biglietti aerei che accettano”. L'abbiamo sentito dire mille volte, no? Andare a una festa è consenso. Voler fare carriera è consenso. Parlare con un uomo, anche civettare, magari; entrare in una stanza, farsi pagare un aereo è consenso. Dire altrimenti, secondo Rotunno, vuol dire “togliere alle donne la loro autonomia di giudizio”.

Rotunno fa il suo lavoro, e lo fa bene. Il suo assistito se l'è cavata con meno di quello che rischiava. Ma quell'arringa finale ci ricorda da dove continuiamo a ripartire, ogni volta: dall'idea che in fondo lo stupro sia sempre colpa delle donne, che il nostro comportamento sia rilevante rispetto alla volontà di un uomo di stuprarci o meno, e che saranno altre donne, in molti casi, a tenerci ferme mentre il mondo ci stupra di nuovo.

Questa condanna è importante perché segna un passaggio. Non è la prima volta che un uomo potente viene condannato per violenza sessuale, ma è forse la prima volta che un uomo potente viene condannato per una violenza che non è rimasta circoscritta e che ha finito per somigliare a un rapporto fra adulti consenzienti. Con la condanna di Harvey Weinstein, ci siamo mossi di qualche centimetro verso una definizione di violenza sessuale più aderente alla realtà delle vittime. È presto per dire quali saranno gli effetti culturali di questo piccolo progresso, ma intanto possiamo portarla a casa
https://www.esquire.com/it/news/attualita/a31081022/weinstein-condannato-stupro/?fbclid=IwAR0spj2R2nv2REB2ZS1d888CP0hC3XQ9T6m_hrperN_h1oqIQm4wyMkNXn8

martedì 25 febbraio 2020

Maxi-multa alla Rai anche per Sanremo: "Ha dato una scorretta immagine delle donne"

Maxi-multa alla Rai anche per Sanremo: "Ha dato una scorretta immagine delle donne"

Nella delibera costata Agcom 1,5 milioni di euro a Viale Mazzini non si cita nessun episodio specifico ma solo "Il ruolo stereotipato della donna nelle trasmissioni".

Bufera a posteriori per il Festival di Sanremo. La kermesse canora, la cui edizione di quest’anno è stata scandita prima durante e dopo da una pletora di polemiche, è stata infatti citata nella delibera con la quale l’Agcom ha multato la Rai per 1,5 milioni di euro per “scorretta rappresentazione dell’immagine femminile”.

All’interno della delibera si contesta una configurazione stereotipata del ruolo della donna:
"In relazione alla trasmissione del Festival di Sanremo - scrive l'Agcom - si evidenzia che sono pervenute all’Autorità diverse segnalazioni che lamentavano la scorretta rappresentazione dell’immagine femminile e il ruolo stereotipato della donna nelle trasmissioni Rai. Anche in questo caso è stata verificata una carenza della particolare responsabilità richiesta alla Rai nella garanzia della dignità della persona e nella rappresentazione dell’immagine femminile".

La delibera in questione non dà però dei riferimenti specifici a determinati episodi: non è dato dunque sapere se la scorretta rappresentazione dell’immagine femminile sia correlata alla discussa conferenza di Amadeus, alla presenza di Junior Cally, rapper i cui contenuti passati erano considerati sessisti, o ad altre vicende.
https://www.globalist.it/news/2020/02/21/maxi-multa-alla-rai-nel-mirino-dell-agcom-anche-sanremo-ha-dato-una-scorretta-immagine-delle-donne-2053440.html?fbclid=IwAR2K8N_kGe7jduQRXDkoRdeADg7FSmZ4kfHKDMQAEVbz8yPL33e5KTH1Y70

domenica 23 febbraio 2020

L’accusa delle studentesse, «molestate in tante» Napoli. Si dimette il docente dell'accademia accusato di violenza sessuale Adriano Pollice

l’Accademia di Belle Arti di Napoli sono iniziate le sessioni d’esame, uno dei docenti non ci sarà: la procura lo ha iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di violenza sessuale. La presunta vittima sarebbe una sua allieva ventenne, trent’anni più giovane. Tre colleghe della ragazza sono state sentite ieri in procura. A far emergere la vicenda è stato il collettivo di Non una di meno: la ragazza, con la consulta studentesca, si era rivolta a ottobre alla direzione dell’Accademia, il professore aveva avuto un ammonimento verbale.

Una misura molto timida rispetto al clima nelle aule. Il docente ha dato le dimissioni martedì scorso con l’intento di «fare chiarezza prima possibile» perché, sostiene, si sarebbe trattato di una relazione consensuale. Il direttore dell’Accademia, Giuseppe Gaeta, ha annunciato l’avvio uno sportello di ascolto in collaborazione con la consulta studentesca.

Le allieve hanno pubblicato ieri una lettera aperta per raccontare la quotidianità a cui sono state costrette: «Diversamente da quanto si sta narrando, l’abuso di potere da parte del docente in questione non ha colpito solo una collega. Siamo state in tantissime, purtroppo, a essere state colpite dalla politica di terrore, dalla violenza e dal non poterci sottrarre anche solo a un complimento non gradito, messaggi su chat mai richiesti. Siamo in tante quelle che durante i test di ammissione siamo state rintracciate, quando ancora non iscritte al corso e ignare del risultato della prova, dal docente che aveva già deciso cosa farne dei nominativi delle candidate che volevano accedere ai corsi scelti».

Quello che raccontano è un meccanismo esibito che non può essere sfuggito agli altri professori: «Siamo in tante quelle che nella prova orale avremmo dovuto sostenere l’esame con un altro docente e ci siamo ritrovate, per sua richiesta, a sederci dinanzi a lui. Ci chiediamo come questo docente, prima ancora che avesse i nostri indirizzi elettronici, avesse i nostri nominativi da usare per la ricerca su social network. Per quelle che avevano deciso di mandarlo a quel paese via chat è iniziato un calvario, per alcune durato anni. Situazioni che, in più casi, erano giunte a chi avrebbe dovuto tutelarci nello spazio accademico». Illuminante la storia che racconta una studentessa: «Tutto è iniziato ai test d’ingresso: mi disse che dovevo fare la prova con lui nonostante fosse già occupato.

La sera mi contattò su Facebook, mi invitò a vedere un film ma io non accettai. Alla fine non gli risposi più». Risultato: al primo esame ha dovuto subire una serie di bocciature a catena per avere alla fine solo 18. Con il secondo esame le bocciature sono ricominciate. Quando ha chiesto spiegazioni, la risposta è stata: «Se avessi accettato il mio invito sarebbe stato tutto più semplice». Per mettere fine alla tortura si è dovuta presenta con il fidanzato.

È stata Non una di meno a sollevare il caso: «A fare notizia è la gogna mediatica a cui è sottoposto il docente. Questa persona vorrebbe ridurre tutto a un episodio, presentandosi come parte lesa, tentando di isolare chi ha avuto il coraggio di ribellarsi. Siamo partite dal visibilizzare la violenza negli spazi della formazione per nominare le molestie, le avance, gli abusi che hanno visto coinvolte numerose donne». E ancora: «Imbarazzanti le dichiarazioni di responsabili e soggetti che avrebbero potuto fare qualcosa per il ruolo ricoperto. Diverse sono state le ragazze che hanno provato a denunciare non ottenendo supporto: il docente non è stato allontanato, nessuna misura di tutela è stata presa, nessun codice etico promulgato. Solo l’invito a cambiare corso o suggerimenti su come comportarsi».
https://ilmanifesto.it/laccusa-delle-studentesse-molestate-in-tante/?fbclid=IwAR16bCUyIptsFDTMRxqTHB81_G7vtay0NwIDf8oYyas0CiTs48bY2HNTHhY

giovedì 20 febbraio 2020

Sull'aborto, una lettera di Italo Calvino del 1975 a Claudio Magris. Umanità, intelligenza, cuore.

Caro Magris,
con grande dispiacere leggo il tuo articolo "Gli sbagliati".
Sono molto addolorato non solo che tu l’abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo.
Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. Se no, l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d’un allevamento «in batteria» nelle condizioni d’artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico.
Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l’aborto a un’idea d’edonismo o di vita allegra. L’aborto è «una» cosa spaventosa «…».
Nell’aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale «impiega» la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle «misure igienico-profilattiche»; certo, a te un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell’«integrità del vivere» è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite.
Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia.
Parigi 3/8 febbraio 1975
("Calvino. Lettere 1940-1985", Mondadori)


https://www.facebook.com/cristina.galletti.921/posts/10215766019160442

mercoledì 19 febbraio 2020

Salviamo i consultori: 40 anni dopo la 194, stanno scomparendo sotto i nostri occhi di Roberta Ragni

Snaturati, impoveriti, boicottati, abbandonati, smantellati. Questa la situazione dei consultori in Italia, a 40 anni esatti dall’approvazione della legge 194, che ha depenalizzato e regolato l’interruzione volontaria di gravidanza.

Sopravvivono a stento, finiti nel mirino dei tagli della sanità pubblica e schiacciati dalla drastica riduzione del personale.
Gli operatori, infatti, sono spesso costretti a ruotare su più strutture e, se mancano, può capitare che il consultorio intero chiuda. La colpa è soprattutto della mancanza di turn over, che di fatto non ha permesso a chi va in pensione di essere sostituito.
Il risultato? Sempre meno servizi per gli utenti. Liste di attesa sempre più lunghe. Così le donne non utilizzano più i consultori e sono costrette a rivolgersi al privato.
Pensare che secondo la legge n. 34/96 dovrebbe esserci un consultorio familiare ogni 20.000 abitanti.
Ma la realtà è molto lontana da questo obiettivo. E i numeri, invece di aumentare, diminuiscono vertiginosamente in tutta Italia. Se va bene, le strutture sono aperte massimo 2 volte a settimana il pomeriggio, quasi mai il sabato mattina. Così, per chi lavora o chi va a scuola il consultorio diventa di fatto inaccessibile.

Come sono nati i consultori
Partirono come una straordinaria esperienza socio-sanitaria, erano luoghi d’incontro e di dibattito delle donne per le donne. I professionisti, come ginecologi, psicologi, assistenti sociali, pediatri, le prendevano in carico ed educavano alla prevenzione i più giovani. Erano sempre aperti, come veri spazi di accoglienza e assistenza alla famiglia e alla maternità.

Il consultorio familiare ha assunto inoltre un ruolo centrale nell’ambito della tutela sociale della maternità e dell’interruzione volontaria della gravidanza. Infatti proprio la Legge del 22 maggio 1978, n. 194, oggi messa a dura prova dai medici obiettori, ai consultori affida il compito di garantire la possibilità di abortire.

“I consultori erano aperti sempre, dal lunedì al sabato. In alcuni le donne venivano seguite addirittura a domicilio o in ospedale, soprattutto in caso di applicazione della 194 a donne minorenni. Personalmente seguivo nel parto anche le donne con problemi psicologici. Inoltre, si andava nelle scuole e si lavorava molto sull’educazione sessuale e all’affettività e sulla prevenzione delle malattie infettive, allo stesso tempo ospitavamo gruppi di scolaresche nei nostri locali, in collaborazione con le Istituzioni. Il consultorio era un luogo laico di accoglienza e di incontro”, ricorda Ada Scipioni, ostetrica classe 1933, che nel 1982 contribuì alla fondazione del Consultorio Via San Godenzo, a Roma.

Di tutto questo cosa è rimasto? Solo il grande spirito di dedizione alla causa di alcuni operatori particolarmente motivati.

Quanti consultori ci sono in Italia?
Nel 2016 i consultori familiari funzionanti in Italia erano 1944. In proporzione al numero di abitanti, la percentuale nazionale è dello 0,6 ogni mille, in pratica la metà di quanto prevede la legge. Ma l’ultimo documento ministeriale disponibile è del 2012. In questo caso, era il Nord Ovest a guadagnarsi la maglia nera con Lombardia, Trentino Alto-Adige e Friuli che contano meno di un consultorio pubblico per 10mila donne tra i 15-49 anni. Stesso scenario in Molise. Al Centro-Sud e Isole i consultori privati quasi non esistono, in Lombardia e Friuli-Venezia Giulia invece risultano un quarto del totale (56 su 209 e 6 su 22, rispettivamente) – mentre in Alto-Adige lo sono la totalità (14 su 14).
Clicca qui per visualizzare la tabella

Le assemblee delle donne
Il Consultorio è diventato una specie in via di estinzione da difendere. Per fare in modo che questo spazio dedicato alla prevenzione e alla tutela della salute delle donne torni ad essere un luogo di partecipazione, dove le donne possono prendere parola, proporre e agire, stanno nascendo in tutta Italia le Assemblee delle donne, previste dalla stessa legge che ha istituito i Consultori, ma di cui nel tempo si era persa memoria.

È accaduto anche a Centocelle, quartiere nella periferia di Roma, dove le mamme che frequentano il consultorio familiare di via delle Resede 1 si sono autoconvocate e riunite in assemblea, mobilitate da una possibile chiusura per lavori di riqualificazione, di cui ad oggi di fatto non si sa ancora nulla.

“La struttura, che è anche Comunità Amico del Bambino riconosciuta dall’Unicef, ha delle peculiarità che sono diventate negli anni un servizio sociale ulteriore ed essenziale, grazie, in particolare, ai corsi preparto, agli ambulatori per accompagnare le madri nell’allattamento e a tutte le molteplici occasioni che vengono create per dare alle mamme la possibilità di fare rete tra loro”, spiegano le donne.

Un’ancóra di salvezza per scongiurare solitudine, baby blues e depressione post parto.

Chi decide delle nostre vite? La manifestazione
Schierate al loro fianco anche le attiviste di Non una di meno, che il 26 maggio scenderà nelle piazze per rompere l’isolamento a cui sono costrettele donne quando affrontano l’aborto o quando scelgono la maternità per una sessualità libera, la contraccezione gratuita e la libertà di scegliere (clicca qui per l’evento Facebook).

Il manifesto per i consultori

Le donne dell’assemblea del consultorio Resede 1 di Roma, in nome dei consultori tutti, chiedono:
Rilancio dei consultori familiari. Crediamo sia fondamentale che i consultori tornino ad essere luoghi d’incontro e di dibattito delle donne, luoghi di formazione ed autoformazione, oltre che centri erogatori di servizi.
Potenziamento dei servizi sanitari offerti alle donne, contro la privatizzazione del diritto alla salute
Sblocco del turnover, con sostituzione del personale andato in pensione e di prossimo pensionamento, soprattutto psicologi e assistenti sociali
La presenza di tutte le figure professionali previste per legge (cosi come dal DCA Zingaretti 2014) nell’equipe di ogni consultorio
Allungamento dell’orario per poter fare offerta attiva di servizi sulla nascita, il puerperio, l’allattamento e la prevenzione dei tumori, e per offrire orari di apertura che coprano l’intero arco della giornata e della settimana, mentre attualmente, invece, non si consente alle donne lavoratrici la possibilità di usufruire dei servizi erogati.
Il recupero di progetti di educazione e sessualità e all’affettività rivolti ai giovani in collaborazione con le scuole
La riapertura degli spazi dedicati ai giovani
Il recupero dello spirito originario dei consultori come spazi dedicati all’ascolto delle persone, considerate nella loro interezza psicoficica
La costituzione di un tavolo di discussione e confronto tra i rappresentanti delle assemblee delle donne e le Regioni
In un’epoca di solitudine collettiva, in cui le cronache ci parlano di femminicidi e di tragedie familiari che sono fallimenti sociali, la lotta per scongiurare lo smantellamento di questi servizi, è importante oggi più che mai. Come riportato anche nel Piano Femminista di Non una di meno, i consultori andrebbero risignificati come spazi politici, culturali e sociali oltre che come servizi socio-sanitari, valorizzando la loro storia di luoghi delle donne per le donne.

Unici presidi socio-sanitari ad accesso gratuito, in un’ottica di privatizzazione, i Consultori sono il primo servizio ad essere tagliato.

Solo chi ha i soldi potrà curarsi?

“Vogliamo consultori che siano spazi laici. Politici, culturali e sociali oltre che socio-sanitari. Ne promuoviamo il potenziamento e la riqualificazione attraverso l’assunzione di personale stabile e multidisciplinare. Incoraggiamo l’apertura di nuove e sempre più numerose consultorie femministe e transfemministe, intese come spazi di sperimentazione, auto-inchiesta, mutualismo e ridefinizione del welfare”, dice Non una di meno.

Cosa puoi fare tu?
Indici un’assemblea delle donne nel consultorio di zona. Si tratta di un organo di proposta e controllo formato delle donne del territorio, che si riuniscono negli stessi locali dei presidi sanitari, e non necessita di alcun tipo di formalizzazione istituzionale.

“Ciascuna Regione, dando attuazione alle legge nazionale sui consultori, ha previsto queste assemblee, per le quali non è previsto nessuna adempimento formale. In pratica, si costituiscono di fatto autoconvocandosi. L’assemblea può coinvolgere anche gli operatori del Consultorio. In mancanza di recepimento da parte delle Asl delle diverse leggi Regionali di riferimento, che istituiscono le assemblee, è opportuno dare comunicazioni formale qualora si voglia convocare un’assemblea delle donne, indicando date e orario di svolgimento della stessa”, conclude Antonella Sassone, avvocato e membro dell’assemblea delle donne Resede 1.
https://www.greenme.it/approfondire/speciali/consultori-crisi/?fbclid=IwAR3mATsSrX7VWkOYpKYfMZ8Pm414MqSVgYWQwNZqWVi-fnQxdO6igo8zoDo







martedì 18 febbraio 2020

Donne, aborto e pronto soccorso. Salvini non sa di che parla… di Elisabetta Canitano *

Il leader leghista farebbe bene a valutare l’attendibilità dei suoi informatori, perché se sono come quelli che lo mandano a citofonare nelle case di ragazzi innocenti, ha un problema. Qual’é la verità?

“Vanno in Pronto Soccorso a chiedere di abortire”. Non sono tante, ma esistono, certo che esistono, ci sarà l’operatore sanitario che con disprezzo lo ha detto a Salvini. “Vengono qui, vengono al Pronto Soccorso per abortire! Anche sei volte!”

Certo che vengono, anche se non così tante, anche se non tante volte come lascia intendere quest’affermazione, che fa eco al coro “le donne! Prima hanno rapporti senza riflettere e poi abortiscono/prendono la pillola del giorno dopo/fanno figli senza ragionare…”.

Esistono… e vengono mandate via, fra l’altro, qualche volta con qualche istruzione in più, qualche volta via e basta.

Sono italiane a cui nessuno ha mai detto che esistono i Consultori familiari, disabituate a credere che la sanità pubblica esista e funzioni.

Sono straniere a cui i servizi pubblici fanno storie, nonostante lavorino in regola con i contributi, perché non hanno la residenza (gli italiani gli affittano casa a nero per non pagare le tasse).

Straniere che hanno perso il lavoro e con esso la nostra assistenza, non più classificabili come irregolari, ma senza diritto alle cure.

Straniere con problemi di lingua, o di comprensione delle nostre burocrazie.

Italiane in difficoltà, che si vergognano di chiedere al loro medico di famiglia, che magari è un obiettore, che hanno un ginecologo a pagamento cattolico, o non lo hanno per niente, o non hanno i soldi per pagargli l’ennesima visita. Si buttano al Pronto Soccorso in preda alla paura, all’ansia, non sapendo dove andare, non trovando altro accesso alla sanità pubblica, chiedendo di essere “soccorse”.

In un paese civile ci domanderemmo tutti dov’è la difficoltà per loro ad accedere ai servizi, come intercettarle, come aiutarle. Loro, come quelle che la gravidanza la vogliono portare avanti, spesso anche loro con le stesse difficoltà, spesso anche loro in Pronto Soccorso per fare le analisi “da furbe” senza pagare.

Noi dal telefono di Vita di donna le conosciamo bene. “Vado in Pronto soccorso?” “No, cara, no, cerca il Consultorio familiare più vicino, dicci se ti fanno delle storie, chiamaci magari da lì.”

E anche: “Non se lo mette il preservativo questo tuo fidanzato/compagno/marito o chi per lui? no eh. Dice che gli dà fastidio/che ti ama troppo/che tanto lui è così bravo…”

Questo io lo chiamo un comportamento incivile. Mettere incinta una donna perché non ti va di usare una precauzione, perchè disturba il tuo piacere. Cominciamo a dirlo. Salvini è un uomo. La posizione migliore per dire agli uomini di usare una precauzione, coraggio.

Al Ministro Speranza il compito di chiedersi come aiutare queste donne. (Ma nel milleproroghe non ho trovato la contraccezione gratuita…).

A noi di raccontare e lottare”.

* Elisabetta Canitano è ginecologa all’ospedale Grassi di Roma, da anni combatte per il diritto alla salute delle donne. È presidente dell’associazione Vita Di Donna, che fornisce assistenza telefonica, supporto, visite se necessario, alle donne in difficoltà h 24 gratuitamente.

En passant, è anche candidata con Potere al Popolo alle elezioni suppletive di Roma. Quelle in cui il Pd candida il ministro dell’economia Gualtieri, uno degli autori del “Milleproroghe”…
http://contropiano.org/news/politica-news/2020/02/17/donne-aborto-pronto-soccorso-salvini-parla-0124175?fbclid=IwAR1wTEiAuLEneRIYSujwD5q--diBH-Ak1bG0hMw9XI-rQ1yghWdT2WOzs0k










giovedì 13 febbraio 2020

Consultori, una conquista da difendere di Roberta Lisi

A distanza di 45 anni dalla loro istituzione, sono diventati sempre di meno: la legge ne prevede uno ogni 20 mila abitanti, in realtà la media è di uno ogni 35 mila, quando va bene. Dettori (Cgil): "Dobbiamo invertire la rotta"

Era il 1975 quando il Parlamento approvò una legge, la 405, che fu contemporaneamente frutto della mobilitazione delle donne e anticipò – forse in parte ispirò – quella che tre anni avrebbe istituito dopo il Servizio sanitario nazionale. Nacquero, nel ’75, i consultori. Erano tante cose insieme: non poliambulatori, ma luoghi di cura della salute delle donne e dei bambini, primo esperimento di integrazione tra servizi sanitari e sociali facendo perno sulla multidisciplinarità e il territorio. E ancora, straordinari luoghi di partecipazione che contribuirono alla presa di coscienza femminile e alla crescita democratica. Poi venne il ‘78 e portò altre norme che a quella dei consultori erano però legate a doppio filo: la 180, meglio conosciuta come legge Basaglia che riformò la psichiatria e si pose l’obiettivo di chiudere i manicomi; la 194, nota come legge sull’interruzione di gravidanza che in realtà si pose anche l’obiettivo di promuovere il valore sociale della maternità che proprio sui consultori fece perno; e infine – come detto – l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Quattro riforme di una stagione felice che misero al centro salute e dignità e fecero della partecipazione uno straordinario strumento di azione.

Se questo è il passato, il presente è assai meno felice. Dello stato attuale dei consultori si è parlato in un seminario organizzato oggi (5 febbraio) dalla Cgil nazionale. “Occorre difendere e potenziare una grande conquista che soffre di mali diversi”, ha affermato Denise Armerini, responsabile Medicina di genere per la Cgil, aprendo l’incontro. A distanza di 45 anni dalla loro istituzione sono diventati sempre meno, con meno personale: la legge prevede ve ne sia uno ogni 20 mila abitanti, in realtà la media è uno ogni 35 mila quando va bene. E anche in questo caso la differenza tra Nord e Sud del Paese conta eccome. Sono scomparsi i comitati di gestione che erano appunto il luogo della partecipazione e del legame attivo con il territorio e si sono trasformati sempre più in poliambulatori che non riescono nemmeno a dare piena applicazione alla 194 vista la diffusione dell’obiezione di coscienza (che certo riguarda anche e forse soprattutto il personale ospedaliero). Nel frattempo sono stati accreditati consultori privati, quasi sempre di natura confessionale. Anche il definanziamento del Ssn e la precarizzazione del lavoro rendono sempre più difficile gestire un servizio adeguato e di qualità che resiste solo grazie all’impegno di operatrici e operatori. Insomma, i consultori sono sempre meno la risposta ai bisogni di salute delle donne.

“Occorre invertire questa rotta – ha affermato Rossana Dettori, segretaria confederale della Cgil – e occorre cogliere questa necessità anche per adeguare i consultori al nostro tempo”. Salute delle donne, risposta ai bisogni, vera integrazione tra servizi sociali e sanitari, territorio, laicità: questi, secondo la dirigente dalla Cgil, sono i perni attorno ai quali rilanciare i consultori facendoli tornare a essere come fu nel 1975, uno dei punti di partenza del confronto tra organizzazioni sindacali e governo sul futuro del Servizio sanitario nazionale. “Nella Legge di bilancio appena approvata – ha ricordato Dettori – sono stati stanziati finalmente i fondi per l’edilizia sanitaria. Bene, era una nostra richiesta. Ora dobbiamo batterci affinché in parte consistente vengano destinati ai servizi territoriali, a partire dai consultori”.

Nella piattaforma di genere “Tutte insieme, Vogliamo tutto” elaborata dalle donne della Cgil sono molte le proposte per il rilancio di questo servizio. Proviamo a citarne alcune. Occorre innanzitutto realizzare quanto prevede la norma: un consultorio ogni 20 mila abitanti in tutto il territorio nazionale. Per farlo è necessario partire da un piano di assunzioni mirato di tutte le figure professionali necessario a garantire la salute sessuale e riproduttiva in un’ottica di inclusione dei diversi orientamenti sessuali, delle donne migranti, delle persone disabili. Anche la medicina di genere – si legge nel documento sindacale – ha bisogno di una preparazione specifica, quindi è necessario che le università prevedano dei piani formativi specifici. Deve, inoltre, essere verificata e garantita l’appropriatezza del servizio dando piena applicazione al nuovo decreto sui Livelli essenziali di assistenza ed è necessario istituire i Livelli essenziali di prestazioni sociali. Infine, nei consultori e non solo, va garantita la piena applicazione della legge 194 che, tra le altre cose, significa che per essere assunti in quelle strutture non si deve essere obiettori di coscienza. Le proposte ci sono, ora occorre che le istituzione facciano la propria parte.
https://www.rassegna.it/articoli/consultori-una-conquista-da-difendere?fbclid=IwAR1Q9QnhW-7LdDq3skoWi6fq_dKHgJYG3Kal_fgDjofpPCZqvAQOXWrmcfU

lunedì 10 febbraio 2020

sabato 15 febbraio One Billion Rising 2020 a Corsico


VI ASPETTIAMO 
E' IMPORTANTE FAR SENTIRE LA NOSTRA VOCE VISTO IL NUMEROSO  SPAVENTOSO DEI FEMMINICIDI NEL 2020









venerdì 7 febbraio 2020

Dalla parte di Nice, la donna che lotta contro le mutilazioni genitali femminili di ALESSIA DE LUCA TUPPUTI

A 25 anni Nice Nailantei Leng'ete è ambasciatrice Amref contro le mutilazioni genitali femminili. Nel 2018 la rivista Time l’ha inserita tra le cento personalità più influenti al mondo.
Quando ha detto no al ‘taglio’ ed è scappata dal suo villaggio, in Kenya, Nice aveva solo 9 anni. La prima volta, lei e sua sorella maggiore rimasero tutta la notte su un albero. Quando i parenti le trovarono, le picchiarono. La seconda volta, la sorella si rifiutò di nascondersi e si lasciò tagliare. “Mi disse che era giusto che a sacrificarsi fosse lei che era la più grande. Che così forse, mi avrebbero lasciata in pace”, racconta. La incontriamo a Milano, in occasione della Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (mgf). Indossa un abito tradizionale e collane masai, lo sguardo deciso e il sorriso dolce.

Per le famiglie masai, la mutilazione genitale femminile è un rito – che non ha nulla a che vedere con la religione – che trasforma le ragazze in donne e le rende pronte al matrimonio. “Avevo paura di morire. Qualcuno era morto a causa del taglio. E temevo che, se anche non fossi, morta, non mi avrebbero più mandato a scuola e mi avrebbero costretto a sposarmi ” spiega, e aggiunge: “un’insegnante che avevo avuto mi aveva aperto gli occhi sulle mutilazioni. Proveniva da una comunità in cui non erano praticate e mi spiegò perché era una cosa bruttissima e sbagliata. Così decisi di sfidare la tradizione”.

Cosa sono le mutilazioni genitali femminili
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce le mutilazioni genitali femminili come “qualunque procedura che includa la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili, o qualsiasi altra ferita agli organi genitali femminili, inferta senza alcuna ragione medica”. Nel 2016, seppur fuorilegge in molti paesi, le mgf interessano almeno 200 milioni di donne e bambine, 70 milioni in più di quelli stimati nel 2014. In alcuni stati dell’Africa Orientale (Kenya, Sudan, Etiopia, Somalia) l’incidenza del fenomeno tocca punte del 98 per cento nella popolazione femminile. Alla pratica sono strettamente correlati fenomeni come i matrimoni precoci e l’abbandono scolastico.

I riti di passaggio alternativi
Nel 2008, grazie a un programma di Amref sulla salute femminile, Nice diventa educatrice della comunità. “Vennero a dirci che servivano un ragazzo e una ragazza che sapessero leggere e scrivere. Anche se la mia scelta mi aveva messo in cattiva luce nella comunità, fui scelta perché ero una delle poche ragazze ad aver studiato. Le altrre, dopo il taglio, si erano sposate ed avevano avuto figli”. Da quel momento inizia la vera battaglia.

Nice va di villaggio in villaggio, per sensibilizzare le donne sulle mutilazioni e sulla necessità di sostituire la pratica con dei riti di passaggio alternativi. Attraverso questi riti, il passaggio delle donne dall’infanzia all’età adulta non è più legato ad una lametta, ma a libri scolastici, istruzione e al coinvolgimento attivo delle comunità. La sua caparbietà alla fine ottiene i risultati sperati. Al punto che i maschi della comunità le riconoscono una leadership naturale. Riceve l’Esiere, “il bastone nero” che viene concesso solo ai saggi Masai.

Con Amref per il futuro delle bambine
“Non è facile far capire, a chi proviene da mondi diversi dal mio, perché è così complicato estirpare questa odiosa tradizione. I genitori delle bambine e tutte le comunità coinvolte, sono convinte di agire nel loro interesse. Se una bambina non è ‘tagliata’ non troverà marito e dovrà portare lo stigma della sua condizione. È una mentalità che va cambiata, con l’educazione e l’informazione consapevole”.

Da allora, la sua battaglia al fianco di Amref le ha permesso di salvare più di 16mila donne.

“Le Nazioni Unite hanno fissato la messa al bando totale delle mgf entro il 2030”, osserva Nice. “Io continuerò a fare la mia parte, perché le bambine diventino adulte senza essere sottoposte ad alcun taglio. E perché ciascuna di loro sappia, in Kenya e altrove, che può diventare la donna dei suoi sogni”.
https://www.lifegate.it/persone/news/amref-nice-mutilazioni-genitali-femminili

giovedì 6 febbraio 2020

Femminicidi, 6 donne morte in una settimana. Il pg della Cassazione: "Emergenza nazionale"

L'analisi del Procuratore generale Giovanni Salvi nella sua relazione all'anno giudiziario. In Italia calano complessivamente gli omicidi ma quelli che vedono vittime le donne restano stabili. E nel 28% dei casi - recita il Rapporto Eures - vengono preceduti da altri reati

Cinque donne uccise in due giorni, sei in una settimana, più il cadavere di una donna ritrovato dopo mesi e il fidanzato arrestato. E' un bilancio orribile, che porta il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi nella sua relazione all'anno giudiziario a parlare dei femminicidi come "emergenza nazionale".

A Mussomeli, Caltanissetta, un uomo ha ammazzato la compagna e la figlia 27enne della donna, poi si sparato. A Genova una donna è stata uccisa da un uomo (forse l'ex marito) che poi ha tentato il suicidio. Ieri una donna è morta dopo tre giorni di violenze fisiche subite dal marito e una 28enne incinta è stata trovata senza vita. Il marito è stato arrestato. Lunedì è stata trovata senza vita nel Bresciano Francesca Fantoni, l'uomo che l'ha uccisa ha confessato dopo due giorni. Ad Alghero, Speranza Ponti, scomparsa mesi fa è stata ritrovata cadavere: il fidanzato è in stato di fermo.


Nonostante gli omicidi di ambo i sessi siano calati in Italia, rimangono percentualmente più elevati i numeri di quelli che vedono come vittime le donne. Ad accorgersene è anche l'analisi statistica condotta dal Pg della Cassazione. Il dato che riguarda l'uccisione di donne nel nostro Paese è tanto più grave, questo il ragionamento del Pg, dal momento che l'Italia è sotto la media Ue, in assoluto, per quanto riguarda gli omicidi in generale.

Nel "contesto positivo" del calo degli omicidi con uomini come vittime - 297 nel 2019, dato inferiore a quelli che si registrano in media negli altri Paesi Ue - "è ancora più drammatico il fatto che permangono pressoché stabili, pur in diminuzione, i cosiddetti femminicidi", ha detto Salvi ritenendoli una "emergenza nazionale". In particolare, secondo i dati illustrati con allarme dal Pg, "le donne uccise sono state 131 nel 2017, 135 nel 2018 e 103 nel 2019. Aumenta di conseguenza il dato percentuale, rispetto agli omicidi di uomini, in maniera davvero impressionante", ha sottolineato Salvi tralasciando i dati che riguardano gli uomini.

L'ultimo Rapporto Eures su 'Femminicidio e violenza di genere', ha messo in evidenza come quello familiare sia l'ambiente dove viene commessa la maggior parte di questi reati. Tra le mura domestiche, o comunque per mano di partner, mariti e fidanzati, vengono commessi oltre l'85% dei delitti con vittime femminili. La coppia si conferma come un 'luogo' ad alto rischio. Nel 28% dei casi, la violenza procede il suo corso ingravescente e sono stati riscontrati precedenti maltrattamenti come violenze fisiche, stalking e minacce. Per l'Eures, il femminicidio rappresenta "l'ultimo anello di una escalation di vessazione e violenze che la presenza di un'efficace rete di supporto potrebbe invece riuscire ad arginare".

Su questo aspetto della 'rete', il Primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone parlando del 'Codice rosso' - l'insieme di norme introdotte a luglio per dare maggiore tutela alle donne abusate - ha sottolineato che "l'intervento in favore delle vittime deve interessare non solo le strutture giudiziarie, ma anche quelle pubbliche (servizi sociali), private (associazioni di volontariato) e sanitarie, sulla base di un modello di intervento di cui dovrà necessariamente essere individuato un credibile soggetto di coordinamento".
https://www.repubblica.it/cronaca/2020/01/31/news/103_femminicidi_nel_2019_emergenza_nazionale-247264904/?fbclid=IwAR2uTCBufwcR4nFTGhPqJLQgy67hFsG_GcyFvgLXDh7yt7t1M_gmsmuy79Y

martedì 4 febbraio 2020

I dati sui femminicidi spiegati a Libero di Eliana Cocca

Se dico “penna” o se dico “cucchiaio”, do per scontato che il mio interlocutore capisca di cosa sto parlando e crei nella sua mente il giusto significato delle parole. Prevedevo questo meccanismo anche per il termine “femminicidio”, ma credo di aver esagerato con le aspettative. Mercoledì Libero ha titolato “Più maschicidi che femminicidi”, evocando la presunta evidenza dei fatti nelle statistiche.

Quali statistiche? I dati sono presenti nello studio Violenza domestica e di prossimità, i numeri oltre il genere a cura dell’Osservatorio Nazionale Sostegno delle Vittime, curato da Barbara Benedettelli, ex candidata di Fratelli d’Italia e tra i coniatori della parola “maschicidio”. Il punto focale riportato sul quotidiano riguarderebbe il numero annuale di uccisioni di uomini e donne, in famiglia, fra amici, sul luogo di lavoro (ecco il significato di “prossimità”). Ci sarebbe una sostanziale parità: 120 a 120, palla al centro. Anzi, balla al centro.

Per svelare la balla in questione non serve andare lontano, ci basta un dizionario. Femminicidio, “uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna , spec. quando il fatto di essere donna costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa” (Zingarelli, 2016). Capite? Non è la rissa dopo il calcetto, non è nemmeno la coltellata del parente a cui non è andata una fetta di eredità e neanche la battuta di caccia tra amici finita male (certo, non per il cinghiale). Si tratta di donne uccise per motivi passionali, per gelosia, per non aver adempiuto ai cosiddetti “doveri coniugali”, per non aver taciuto all’ennesimo schiaffo.



Grafico Istat sui femminicidi

Come si vede da questa tabella Istat con rilevazioni del 2018, è vero sì che gli uomini muoiono di più, ma non si tratta di “maschicidi”. Basta guardare la colonnina dell’uccisione per mano di partner o ex per rendersene conto. Anche secondo i dati Eures del rapporto Femminicidio e violenza di genere in Italia dello scorso novembre, nel 2018 sono morte 142 donne per femminicidio, e l’85% dei casi sono registrati in famiglia. Perciò abbiamo avuto bisogno di una parola nuova, per denotare un abuso con radici più profonde, quelle che fanno credere a un uomo che la donna sia di sua proprietà. Femminicidio non è banalmente “omicidio di donna”. Fare informazione sorvolando su questo concetto, è grave. Le parole sono importanti, direbbe Nanni Moretti. Soprattutto se ci servono per battaglie giuste, aggiungo io.


Attenzione! Non sto negando che ci siano situazioni di abuso e manipolazione anche sugli uomini, anzi. Nei dati Istat, citati anche da Simona Pletto nell’articolo, si parla di più di 3 milioni di uomini maltrattati che non denunciano. Questo dato non viene sviscerato, però è in realtà importantissimo: anche gli uomini sono vittime della mentalità tossica del maschilismo. Colpevole è lo stereotipo che ci insegna che gli uomini soffrono in silenzio, che un vero uomo non si lascerebbe mai sopraffare da una femmina, che l’essere forzati a rapporti sessuali non consenzienti è solo una fortuna. Avercene, di mogli che ti obbligano a fare sesso anche quando non vuoi.

Signore e signori, questo è maschilismo. Lo stesso che ti fa pensare che la tua compagna non possa avere amici uomini, lo stesso che ti fa credere di avere potere sulle sue scelte riproduttive, o di poter controllare il suo conto in banca. Fa male a tutti. Sbarazziamocene una volta e per sempre. Insieme.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/01/31/i-dati-sui-femminicidi-spiegati-a-libero/5690562/?fbclid=IwAR03rQzuIxj3meda2NRa4x-7h0dF06TMp8VmcdW5bWiVwNwtelnQ08rp5mM