mercoledì 26 febbraio 2020

Weinstein condannato per stupro, ora sarà difficile dire che il metoo è "caccia alle streghe" Non è solo una condanna, è un momento storico. DI GIULIA BLASI

Anche a voler essere molto, molto cinici, la sentenza del processo Weinstein è un momento che resterà nella storia. Lo era già stata, a suo modo, la condanna inflitta a Bill Cosby nel 2019, poi confermata in appello: ma Weinstein è un caso-totem, un caso-scuola. Quello a Harvey Weinstein – per chi negli ultimi vent'anni avesse vissuto in una capanna di legno senza internet e televisore: ex produttore cinematografico potentissimo, fondatore della Miramax e ora, possiamo dirlo, stupratore seriale – è ben più che un processo per stupro.

Dal caso Weinstein è nato un modo radicalmente diverso di inquadrare la violenza sessuale all'interno dei rapporti di potere che regolano la società capitalista, in cui le donne sono considerate ancora oggetti a malapena animati che devono conquistarsi il diritto di essere riconosciute come esseri umani. Da quel caso sono nate la campagna #metoo e la sua parallela italiana, #quellavoltache, creata a sostegno di Asia Argento: una donna a cui forse ora (ma non da ora) dobbiamo tutti delle scuse.

Cinici, dicevo, perché Weinstein è stato condannato per due capi di imputazione su cinque fra quelli per cui è andato a processo, i due meno gravi. Per riassumere in maniera molto grossolana: sì, ha stuprato Jessica Mann (insieme a Miriam Haley, la donna che lo ha portato in tribunale), ma non ha usato la forza per farlo. Nel verdetto, inoltre, viene reso chiaro che la giuria non ha creduto oltre ogni dubbio alla testimonianza di Annabella Sciorra, una delle prime accusatrici pubbliche di Weinstein. Nel male, gli è comunque andata bene: andrà in prigione, ma poteva andarci per più tempo. E anche se è stato condannato, la sua difesa ha lavorato bene sui luoghi comuni associati alle vittime di stupro, e sull'idea dello stupro come atto necessariamente accompagnato dalla violenza fisica.

C'è un dettaglio, però, che è rilevante. Ed è che le due donne che hanno portato Weinstein a processo non hanno smesso di vederlo dopo lo stupro. Quando questo succede, è molto difficile ottenere una condanna: la maggior parte delle donne viene dissuasa dal portare avanti una causa se ha anche solo mandato dei messaggi di testo al suo aggressore (e se lo fa, come sappiamo, è probabile che le accuse vengano archiviate): eppure, come ha testimoniato la psichiatra Barbara Ziv al processo, questa è la circostanza più comune.

Una donna stuprata può non capire subito cosa le sia successo, specialmente se conosce il suo aggressore e non ha mai avuto motivo di pensare che potesse farle del male. A questo si aggiunge la nostra idea di stupro come di atto barbarico che si consuma fra sconosciuti: la maggior parte delle violenze sessuali, al contrario, avviene fra persone che si conoscono e senza eccessive forzature. Lo stupro non è il frutto di un desiderio improvviso e incontrollabile, non è il risultato di una condotta dissoluta della vittima, non sono le minigonne, il gin tonic o le droghe a stuprarti: è (quasi) sempre un uomo.

Donna Rotunno, l'avvocata a capo del team di difesa di Weinstein, ha messo in campo ogni argomento patriarcale per screditare le due accusatrici e le varie testimoni del processo. Ha gridato allo scandalo e accusato gli avversari di voler creare una “realtà alternativa” in cui le donne “non sono responsabili per le feste a cui vanno, gli uomini con cui flirtano, le scelte che fanno per fare carriera, gli inviti nelle stanze d'albergo e i biglietti aerei che accettano”. L'abbiamo sentito dire mille volte, no? Andare a una festa è consenso. Voler fare carriera è consenso. Parlare con un uomo, anche civettare, magari; entrare in una stanza, farsi pagare un aereo è consenso. Dire altrimenti, secondo Rotunno, vuol dire “togliere alle donne la loro autonomia di giudizio”.

Rotunno fa il suo lavoro, e lo fa bene. Il suo assistito se l'è cavata con meno di quello che rischiava. Ma quell'arringa finale ci ricorda da dove continuiamo a ripartire, ogni volta: dall'idea che in fondo lo stupro sia sempre colpa delle donne, che il nostro comportamento sia rilevante rispetto alla volontà di un uomo di stuprarci o meno, e che saranno altre donne, in molti casi, a tenerci ferme mentre il mondo ci stupra di nuovo.

Questa condanna è importante perché segna un passaggio. Non è la prima volta che un uomo potente viene condannato per violenza sessuale, ma è forse la prima volta che un uomo potente viene condannato per una violenza che non è rimasta circoscritta e che ha finito per somigliare a un rapporto fra adulti consenzienti. Con la condanna di Harvey Weinstein, ci siamo mossi di qualche centimetro verso una definizione di violenza sessuale più aderente alla realtà delle vittime. È presto per dire quali saranno gli effetti culturali di questo piccolo progresso, ma intanto possiamo portarla a casa
https://www.esquire.com/it/news/attualita/a31081022/weinstein-condannato-stupro/?fbclid=IwAR0spj2R2nv2REB2ZS1d888CP0hC3XQ9T6m_hrperN_h1oqIQm4wyMkNXn8

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