mercoledì 8 maggio 2024

PER ARGINARE GLI ANTIABORTISTI È ORA DI ELIMINARE DALLA LEGGE 194 L’OBIEZIONE DI COSCIENZA ILLIMITATA DI JENNIFER GUERRA

 Con un emendamento al decreto sui fondi del Pnrr, su cui ha anche posto la fiducia, il governo ha previsto che nei consultori pubblici possano entrare associazioni nel terzo settore “che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”. Nel linguaggio della destra, ciò equivale alle associazioni antiabortiste, che sono già presenti nei consultori e nelle strutture sanitarie pubbliche, ma che con questo emendamento hanno ricevuto un’ulteriore legittimazione. L’emendamento non prevede “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, ma è stato comunque molto criticato dalle opposizioni. Anche la Commissione europea ha criticato l’operazione del governo, affermando che “Il decreto Pnrr contiene misure che riguardano la struttura di governance del Pnrr, ma ci sono altri aspetti che non sono coperti e non hanno alcun legame con il Pnrr, come ad esempio la legge sull’aborto”.

Il processo che ha portato questa legittimazione delle associazioni antiabortiste arriva da lontano ed è stato testato con successo dalle amministrazioni locali di destra prima di essere esteso a livello nazionale. Di fronte alle critiche, proprio come accaduto questa volta, la destra si è sempre difesa richiamando l’impianto della legge 194/78, che all’articolo 2 prevede che i consultori debbano “contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” e che possano “avvalersi […] della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. 

Come è stato più volte documentato, però, le associazioni di cui il governo intende avvalersi utilizzano metodi discutibili che, più che supportare le donne nella scelta, hanno come obiettivo quello di dissuaderle dall’abortire, in alcuni casi anche diffondendo false informazioni scientifiche (come la falsa correlazione tra aborto e cancro al seno o tra aborto volontario e infertilità), promettendo aiuti economici ed esercitando condizionamenti psicologici. Inoltre, molto spesso queste associazioni non si dichiarano esplicitamente come gruppi antiabortisti, ma si presentano come equipe di “esperti” o proponendosi anche per il sostegno psicologico. Il più importante di questi gruppi è il Movimento per la vita, nato all’indomani dell’approvazione della legge 194. L’associazione opera in tutta Italia e al momento esistono più “Centri di aiuto alla vita” che ospedali in cui è possibile abortire. Secondo il sito di inchiesta OpenDemocracy, almeno una trentina di questi centri ha la propria sede all’interno di strutture pubbliche, alcune delle quali, come il Cav dell’ospedale Mangiagalli di Milano, operano da più di 35 anni. 

Ma è solo negli ultimi anni che la presenza di questo tipo di associazioni ha ricevuto un sostegno sempre più istituzionale, beneficiando anche di soldi pubblici. Antesignana è stata la Lombardia, che nel 2010 ha istituito il fondo “Nasko”, trasformato poi in “Cresco”, che inizialmente prevedeva l’erogazione di 3mila euro in 18 mesi alle donne che rinunciavano all’aborto (per accedervi era infatti necessario presentare il certificato dell’Ivg, per provare la propria intenzione iniziale di abortire). I fondi erano gestiti dal Movimento per la vita, che collaborava con i consultori. Nel 2012, il Veneto approvò una legge regionale che autorizzava i gruppi antiabortisti a esporre materiale informativo sulle “alternative all’aborto” negli ospedali e nei consultori.

Nel 2018 ci fu poi il caso delle mozioni delle “città a favore della vita”, come quella approvata a Verona, che impegnava le amministrazioni cittadine a inserire un “congruo finanziamento ad associazioni e progetti che operano nel territorio del Comune”. La mozione fu presentata anche a Milano e Roma, dove non fu approvata. Ma già altre amministrazioni comunali più piccole avevano presentato e approvato mozioni simili o hanno continuato a farlo, come il comune di Montebelluna in provincia di Treviso, quello di Iseo (Brescia), di Trento, di Busto Arsizio (Varese), di Alessandria, di Faenza, di Cremona, di Nichelino (Torino), di Rivalta di Torino. 

Nel 2022, la regione Piemonte si è spinta oltre, istituendo un fondo di 400mila euro che è stato più che raddoppiato a un milione di euro nel 2023. L’iniziativa è stata presentata dall’assessore alle Politiche sociali in quota Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, già noto per aver cercato, nel 2020, di intervenire sulle linee di indirizzo sull’aborto farmacologico modificate dal ministero della Salute, che prevedono la somministrazione della RU486 anche nei consultori. I soldi del “Fondo vita nascente” vengono gestiti dalle associazioni antiabortiste che possono operare direttamente nei consultori, e che secondo l’opposizione della giunta regionale vengono selezionate in maniera poco trasparente. Una recente inchiesta di Repubblica ha inoltre mostrato quanto sia difficile, per una donna in difficoltà, contattare le associazioni e ricevere aiuto concreto. Come se non fosse abbastanza, l’ospedale Sant’Orsola di Torino, un’eccellenza nelle cure abortive che vent’anni fa avviò la prima sperimentazione italiana sull’aborto farmacologico, ha stipulato una convenzione con il Movimento per la vita per istituire una “stanza dell’ascolto” “consacrando il Piemonte come avanguardia della tutela sociale della maternità, che diverse altre regioni italiane stanno prendendo a modello”, aveva commentato Marrone all’epoca.

Il modello è stato infatti seguito dall’Umbria, che già nel 2020 aveva deciso di abrogare una precedente legge regionale che consentiva l’aborto farmacologico in day hospital, senza obbligo di ricovero. La governatrice della regione, Donatella Tesei, in campagna elettorale aveva firmato il manifesto valoriale delle associazioni antiabortiste Family Day e Famiglie Numerose che prevedeva, tra le altre cose, “il supporto alle associazioni che hanno, tra i loro fini statuari, il sostengo alla maternità” e “la predisposizione, all’interno delle strutture e dei presidi sanitari ospedalieri, di culle per la vita e sportelli per la vita”. Tesei ha tenuto fede al suo proposito, istituendo nel 2023 il Fondo vita nascente. Nessuna di queste iniziative è contraria alla legge 194 che anzi, come si è detto, nella sua parte iniziale si occupa di “tutela sociale della maternità” e di “superamento delle cause dell’aborto”. Di fronte alle critiche delle opposizioni, che hanno sempre parlato di “attacco alla 194”, la destra ha sempre detto di voler soltanto attuare il provvedimento nella sua interezza, tanto che la “piena applicazione della 194” figura al primo punto del programma con cui Fratelli d’Italia si è presentato alle ultime elezioni politiche. 

La legge 194 fu frutto di un grande compromesso tra la sinistra, poco convinta promotrice della legge, e la Democrazia cristiana, che si aprì alla possibilità di depenalizzare l’aborto solo grazie al clima di unità nazionale sorto dopo l’assassinio di Aldo Moro. La legge fu infatti approvata dal Senato il 18 maggio 1978, meno di dieci giorni dopo la scoperta del cadavere del presidente della Dc. Per approvare la legge, di cui si discuteva da più di cinque anni, fu necessario accettare l’impianto proposto dalle forze cattoliche, ovvero quello di una legge che tutela la maternità, non il diritto di aborto, a cui si può ricorre solo in determinate condizioni e sempre con l’approvazione di un medico. Nel corso di questi 46 anni, la problematicità di questo impianto si è fatta sentire: l’obiezione di coscienza, pensata per tutelare i medici cattolici nella transizione da un Paese in cui l’aborto era illegale a uno in cui si sarebbe potuto praticare ovunque, è diventata una prassi, nonostante in Italia il numero dei cattolici osservanti sia in calo da anni, e le associazioni antiabortiste hanno avuto campo libero. Nei casi più eclatanti, come quello del Piemonte, la loro presenza ha ricevuto anche finanziamenti con soldi pubblici. 

Ma il governo Meloni si è spinto oltre, nazionalizzando un sostegno che finora veniva dato solo a livello locale. Sin dal suo insediamento, il governo ha legittimato i gruppi antiabortisti: non solo ha firmato il manifesto valoriale di ProVita e Famiglia in campagna elettorale, ma ha anche nominato alcuni loro esponenti in luoghi chiave (basti pensare alla ministra della Natalità Eugenia Roccella, portavoce del Family Day) ed espresso solidarietà all’associazione dopo la manifestazione del 25 novembre a Roma, dove alcune attiviste di Non Una Di Meno avevano imbrattato la serranda della sede. Il loro ingresso nei consultori non è quindi una novità, ma che ora possano entrare col sigillo dell’esecutivo, apposto attraverso una procedura così irrituale, è la cosa che dovrebbe preoccuparci di più.

L’unico modo per arginare questo fenomeno sarebbe proprio modificare la legge 194, rendendola una legge che si occupi esclusivamente di garantire l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza e che non preveda più l’obiezione di coscienza illimitata. Sarebbe inoltre necessario riformare i consultori, istituiti nel 1975 e da anni in crisi, che erogano la maggior parte dei certificati per l’Ivg. Se nei consultori ci fosse infatti personale sufficiente, specie nell’assistenza sociale e psicologica, il contributo di associazioni esterne non sarebbe nemmeno previsto, e queste realtà potrebbero tornare a essere quei luoghi di salute pubblica, laica e accessibile come sono stati pensati in origine. Purtroppo, l’unica risposta che la sinistra è riuscita negli anni a dare di fronte ai ripetuti attacchi al diritto di aborto è l’appello alla tutela della 194, che è proprio la radice del problema, senza far nulla di concreto per risolverlo. Finché non si capirà che l’accesso all’aborto va protetto attivamente e non soltanto richiamandosi a una legge che ha smesso di funzionare, gli antiabortisti avranno la strada spianata.

https://thevision.com/attualita/antiabortisti-consultori-italia/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTAAAR2coTFQ4moq-RpEAYqaFGyk7QhibuxeWT9754ITBk6XtxoxlvsjmkWLr4U_aem_ARJRZKfVXESu1YhO2w1wNyh8f3I_O0uHNacBhe1z6SkAfSdncgrwxZ


giovedì 2 maggio 2024

Stereotipi: dalla scuola al lavoro esistono ancora “cose da maschi”

Quante delle nostre scelte ogni giorno sono condizionate da stereotipi di genere? E’ una domanda a cui è molto difficile dare una risposta dal momento che quello che in cui crediamo è il risultato di un’insieme di stimoli, esperienze, letture, pensieri che si intrecciano fino a rendere impossibile dipanarne la matassa. Anche chi quotidianamente lavora sugli stereotipi, la diversità, l’incluione, non si può dire immune da pensieri automatici, associazioni d’idee, narrazioni che nascono dall’inconscio.

Così a casa, nello studio, nel lavoro e nel tempo libero donne e uomini sono ancora limitati nelle proprie scelte e azioni da una cultura condizionata da stereotipi di genere (fra le altre cose), che continuano a pesare sulle scelte familiari e individuali anche tra le nuove generazioni. Questo il quadro emerso dalla seconda edizione dell’’Osservatorio “Genere e Stereotipi” promosso da Henkel Italia in collaborazione con Eumetra.

Scuola: è davvero una questione di genere?

La scelta del percorso di studi dipende in alcuni casi dal genere. Secondo la ricerca 2024, infatti, è popolare l’idea che almeno uno tra gli indirizzi di istruzione superiore abbia una connotazione di genere: lo dice il 52% delle donne e il 64% degli uomini. Lo stesso vale per le facoltà universitarie (lo pensa il 30% delle donne e il 46% degli uomini).

Questa forte connotazione di genere è motivata dalla convinzione che maschi e femmine abbiano predisposizioni diverse (lo pensa il 53% degli uomini, il 52% delle donne, il 45% dei ragazzi GenZ e il 38% delle ragazze GenZ), capacità pratiche diverse (43% degli uomini, 33% delle donne, 42% dei ragazzi GenZ, 32% delle ragazze GenZ) e capacità cognitive diverse (27% degli uomini, 26% delle donne, 33% dei ragazzi GenZ, 25% delle ragazze GenZ).

Persiste così l’idea che materie scientifiche, tecnologiche o pratiche siano più indicate per i maschi, mentre le materie umanistiche e quelle dedicate alla cura della persona sono per natura più affini alle donne.

Lavoro: la donna dà priorità alla famiglia anziché alla carriera

Il 62% della popolazione femminile crede che esistano lavori per uomini e lavori per donne, un’affermazione a cui si unisce anche il 74% degli uomini. Il dato più significativo nell’ambito lavorativo riguarda quello salariale: il 56% delle donne ritiene infatti di avere una retribuzione bassa rispetto ai colleghi uomini e solo il 38% delle donne pensa di ricevere uno stipendio equo. Una fotografia della società di oggi che sottolinea le difficoltà delle donne a emergere in contesti di lavoro, a fronte anche degli ostacoli dati dalla conciliazione vita-lavoro che si ripercuote soprattutto su di loro: il 33% della popolazione femminile dichiara infatti di aver dato priorità alla famiglia anziché alla carriera.

Come confermano i dati Eurostat, in Italia, il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni è pari al 55% (IV trimestre 2022), il più basso tra gli stati dell’Unione Europea (la cui media è del 69,3%), e una donna su 5 esce dal mercato del lavoro a seguito della maternità. Allo stesso tempo però, emerge una diversità di percezione tra uomini e donne: secondo l’Osservatorio anche i maschi affermano infatti di aver fatto delle rinunce per favorire la famiglia (25%), ma solo il 5% è rimasto a casa.

Famiglia: i ruoli in casa ancora definiti in base al genere

Anche nella seconda edizione, la ricerca ha evidenziato quanto i mestieri e le incombenze domestiche siano ancora soprattutto compito delle donne. Infatti, pur con alcuni lievi miglioramenti, le donne continuano a sostenere il peso maggiore dei lavori domestici e della cura della famiglia, mentre nelle questioni finanziarie ed economiche a guidare le scelte è ancora l’uomo. Il diverso peso nella gestione delle attività in casa è motivato dal differente contributo al reddito famigliare, con il 18% degli intervistati che ritiene che chi guadagna di più, ovvero l’uomo nel 64% dei casi, influenzi le decisioni economiche della famiglia. Da questa tendenza si dissocia l’80% della GenZ, che crede che ci si debba occupare delle necessità familiari in maniera paritaria.

Gli stereotipi di genere influenzano anche l’educazione dei figli, con i padri che tendono a adottare una mentalità più rigida rispetto alle madri. Il 47% dei papà è condizionato nelle scelte dei giocattoli per i propri figli, contro il 62% delle mamme che ritiene che i giocattoli non abbiano genere; tuttavia, il 68% degli uomini ritiene necessario impegnarsi perché tutte le attività di casa siano insegnate ai figli a prescindere dal genere, un dato che sale al 100% considerando i rispondenti della GenZ. Sebbene i genitori ritengano di essere equi nelle decisioni con i figli, le ragazze rivendicano una minore libertà rispetto ai fratelli, rinunciando spesso a chiedere: il 64% dei maschi riceve la paghetta, ha ricevuto l’opportunità dai genitori di studiare all’estero (64%) e può uscire senza coprifuoco (74%), mentre solo il 53% delle femmine riceve la paghetta, il 66% non ha mai affrontato il tema di studiare fuori e solo il 57% può uscire senza coprifuoco.

Sport e tempo libero: soprattutto per gli uomini

Sono soprattutto gli uomini a delineare precisi confini laddove si tratta di sport: il 63% degli uomini ritiene che il calcio sia uno sport maschile, contro il 76% delle donne che ritiene sia una disciplina adatta a tutti. Allo stesso modo, il 64% degli uomini etichetta la danza come femminile, ma l’83% delle donne la vede diversamente. Sebbene la scelta sportiva sia principalmente guidata dall’inclinazione individuale, l’indagine ha rivelato che il 18% della Generazione Z sceglie lo sport in base al proprio genere, con il 17% dei ragazzi e il 14% delle ragazze influenzato rispettivamente dalle scelte degli amici maschi o femmine.

L’indagine Eumetra

Dal 2022 l’indagine analizza i diversi ruoli nell’organizzazione e nella cura della famiglia su un campione rappresentativo della popolazione italiana, composto da 2.000 individui tra i 18 e i 55 anni appartenenti alla community dell’online magazine DonnaD, Amica Fidata. La seconda stagione ha visto un aggiornamento dei dati su un campione comparabile e, in aggiunta, ha previsto un approfondimento sul condizionamento degli stereotipi di genere nelle scelte di studio, lavoro, sport e tempo libero, intervistando 1.000 individui reclutati mediante Online Access Panel, con 100 casi tra i 15 e 25 anni rappresentativi della GenZ.

«L’Osservatorio Henkel mette in evidenza una realtà preoccupante, ma forse più radicata di quanto ci aspettassimo: la persistenza di disuguaglianze di genere continua a limitare l’espressione delle potenzialità di uomini e donne, anche tra le nuove generazioni, e di conseguenza le loro opportunità» osserva dichiara Mara Panajia, presidente e ceo Henkel Italia, che prosegue: «In Henkel adottiamo  approcci inclusivi nei processi di assunzione, garantendo pari opportunità sia per candidati che per le candidate, supportiamo percorsi di mentorship e sponsorship per assicurare visibilità e riconoscimento equo per tutti, investiamo nel talento delle persone. Inoltre, abbiamo superato il concetto di maternità per lavorare su una più ampia base di genitorialità affinché la cura dei figli non sia solo un tema femminile ma riguardi la famiglia. A questo proposito abbiamo esteso il congedo parentale per i neopapà, portando ad un totale di 8 settimane, retribuite al 100%. Un significativo impegno per permettere ai padri di essere parte della vita dei loro figli fin dall’inizio, un desiderio sentito e sempre più espresso dalle giovani famiglie. Sono fermamente convinta del fatto che le aziende abbiano la responsabilità sociale di incidere positivamente sulla vita della comunità in cui operano»

https://alleyoop.ilsole24ore.com/2024/04/30/stereotipi-dalla-scuola-al-lavoro-esistono-ancora-cose-da-maschi/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTAAAR2GiI0Y6JOUfiylXYd8wTgiyH_OEjOM8_9zlR90JoXmqQeOhty2EtADQJY_aem_ARsY4VBBgYCuoPF



domenica 28 aprile 2024

Resistenza, la doppia lotta delle donne per la liberazione 25 Aprile 2024 Nicoletta Labarile Polis

“Non sono venuta per rammendare, ma per combattere”. La partigiana Olga Prati, quando raggiunge la brigata d’azione del suo territorio, risponde così al comandante che le chiede di ricucirgli i pantaloni. Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana e vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica), ruba di nascosto una pistola su un autobus affollato per aggirare l’opposizione dei suoi stessi compagni nel “concederle” l’utilizzo di un’arma.

Come dimostrano le testimonianze delle partigiane, di cui Prati e Capponi sono esempi, quello delle donne alla Resistenza non è stato semplicemente “un contributo” ma una lotta “doppia” che riguardava sia l’opposizione all’autoritarismo nazifascista che la conquista di nuovi spazi di libertà, oltre gli schemi imposti da un regime che le aveva relegate nella sfera familiare e domestica. Operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti: sono donne di ogni estrazione sociale che aderiscono consapevolmente alla lotta resistenziale e, come riporta la storica Anna Bravo in “Dizionario della Resistenza”, assumono un ruolo essenziale “nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria e ospedaliera, nei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”.

Il protagonismo femminile nella Resistenza ha riguardato sia la lotta armata che tutti gli altri compiti previsti dalla lotta di Liberazione nelle sue varie modalità. Le partigiane non sono “solo” staffette ma anche combattenti armate nelle bande extra-urbane, addette ai fondamentali servizi logistici, militanti attive dei Gruppi di difesa creati dalle donne e per le donne che – specifica Bravo – sulla scorta di un “programma di affermazione di diritti e opportunità” rivendicano la “titolarità delle azioni femminili”.

La Resistenza taciuta
La Resistenza delle donne, come racconta l’omonimo saggio di Benedetta Tobagi (Premio Campiello 2023) le porta a “irrompere” nella sfera pubblica. “Tocca alle invisibili entrare in scena”, scrive Tobagi.

I dati forniti dall’ANPI lo testimoniano: furono 35.000 le partigiane inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania.

Ciò nonostante, il riconoscimento delle partigiane nella Resistenza non è avvenuto in egual misura al loro protagonismo: le donne che hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni sono state solo diciannove (Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu).

Escluse prima dalle sfilate partigiane nelle città liberate e poi dalla storiografia, il ruolo delle donne nella Resistenza è rimasto a lungo nell’ombra. Lo ha riportato in diversi testi, tra cui cui “Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80”, la storica Simona Lunadei: dopo la fine della guerra sulla resistenza femminile è calato un silenzio generale. Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne che avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali.

È il pregiudizio culturale che ha guidato il silenzio. Perché? Lo spiega ad Alley Oop Tamara Ferretti, responsabile del coordinamento nazionale donne ANPI: “il silenzio sulla Resistenza delle donne accade a causa dei fattori culturali di una società che per decenni le aveva relegate alla marginalità, senza diritti civili e – per dirla con le parole di Giovanni Gentile – di proprietà del marito: ‘Nella famiglia la donna è del marito ed è quel che è in quanto di lui’. Questa visione è stata messa in crisi dalla guerra e dalla partenza degli uomini per il fronte, perché incongruente con le necessità della produzione bellica e il conseguente massiccio ingresso nel sistema produttivo di forza lavoro femminile”.

È così che le donne prendono spazio, iniziando a partecipare da subito – in varie forme – alla Resistenza e alla lotta di liberazione, di cui il famoso sciopero del pane del 16 ottobre del 1941 rappresenta il primo esempio. “La rimozione del ruolo delle donne nella Resistenza ha corrisposto specularmente ai reiterati tentativi di depotenziare e manomettere il valore della lotta di liberazione nella conquista della libertà e della democrazia di questo Paese – sottolinea Ferretti – Sottovalutazioni e condizionamenti culturali ci sono stati anche nel mondo resistenziale, maggiormente impegnato nel riconoscimento dell’unicità e della pluralità della Resistenza nel suo complesso”.

Diventare “soggetti politici visibili”
Emergere dall’anonimato ha consentito alle donne di diventare soggetti storici finalmente visibili. Essere contro il fascismo significava non solo schierarsi politicamente, ma anche rompere con la separatezza della propria tradizionale “sfera domestica” per proiettarsi sulla scena pubblica.

“Nelle città come nelle campagne le donne svolsero un ruolo fondamentale nell’organizzazione clandestina e, nelle memorie dei partigiani, è costante il richiamo al ruolo fondamentale delle donne per garantire i collegamenti tra le formazioni, il supporto che oggi chiameremmo logistico, l’assistenza alimentare e sanitaria, l’informazione sulla dislocazione militare nazifascista nel territorio – afferma Ferretti – Le ragioni di fondo che hanno mosso la scelta di tante donne di aderire alla Resistenza sono derivate dal desiderio di pace e di riscatto. Come scrive la Partigiana Mirella Alloisio nel libro Volontarie della Libertà, le donne decisero di fare la Resistenza perché volevano fare guerra alla guerra. Eppure di queste motivazioni si è parlato poco, nel silenzio è stata lasciata anche quella che Nilde Iotti definiva l’irrinunciabile speranza nel futuro che aveva animato le scelte di libertà e di democrazia”.

Recuperare le storie non raccontate diventa essenziale per recuperare la memoria: “È bello e importante far conoscere alle giovani e ai giovani, a partire dalle scuole, le tante storie di donne che si sono battute per la libertà ed è quello che come ANPI e come Coordinamento donne da tempo siamo impegnate a fare” specifica Ferretti, ricordando anche Liliana Segre: “deportata nell’inferno dei campi di concentramento nazisti, sopravvisse a una delle marce della morte imponendosi di compiere un passo dopo l’altro: passo dopo passo è anche la storia della liberazione delle donne di cui tutte dovremmo avere profonda consapevolezza e coscienza perché i diritti non sono dati una volta per sempre ma vanno accuditi e salvaguardati come un bene prezioso”.

Le partigiane di oggi
Con l’iniziativa “Libere di essere. Donne resistenti ieri e oggi”, lo scorso novembre l’ANPI ha lanciato una rete per i diritti delle donne. Gli stessi che legano le partigiane di ieri a quelle di oggi: “Viviamo un tempo difficile e viene immediato rivolgere il pensiero alle battaglie delle giovani iraniane come alla resilienza delle donne afghane e dei tanti Paesi martoriati dalle guerre – aggiunge la responsabile del coordinamento nazionale donne ANPI – È da brividi pensare oggi alla condizione delle donne e delle bambine che vivono in Paesi in guerra e sotto le bombe, alle donne e alle bambine di Gaza come a quelle ucraine, del Myanmar o del Congo, a quelle che attraversano il deserto e vengono rinchiuse nei campi libici. Donne che nonostante tutto si battono e continuano a sperare in un futuro migliore, per il riscatto da condizioni di miseria, di paura, di violenze, di umiliazioni, di guerra. Le stesse motivazioni che portarono la gran parte delle donne italiane a sostenere la Resistenza”.

Il cammino delle donne è “il cammino della democrazia”
La battaglia per essere “libere di essere” si muove nel tempo e nelle generazioni: “La conquista della democrazia e la conquista della cittadinanza politica, il diritto di voto, sono state il presupposto per il riconoscimento del valore di una rappresentanza di genere e per il riconoscimento della cittadinanza sociale, cioè dei diritti uguali di cui ci parla la Costituzione” spiega Ferretti. Così come la nascita della Repubblica segnò anche la “visibilità” politica delle donne, oggi è lo stesso testo costituzionale a tutelarla – “la Costituzione è un faro che continuerà a illuminare il cammino delle donne per il riconoscimento di una reale parità” sostiene Ferretti – e a indicare la via della Resistenza attuale: difendere e celebrare la Repubblica antifascista, come indica l’appello “Viva la Repubblica antifascista” lanciato da ANPI per il 25 aprile.

“Il 25 aprile è il giorno in cui si ritrova nelle piazze di tutte le città, a cominciare da Milano, l’Italia antifascista e democratica” afferma ad Alley Oop il presidente Anpi Gianfranco Pagliarulo, che continua: “sta alle forze democratiche proporre una promessa di futuro, cioè un programma di trasformazione che abbia al centro il contrasto alle diseguaglianze nel più generale quadro di investimenti che consentano di affrontare la transizione digitale ed ecologica”. Per questo, serve partecipare: “il 25 aprile mi aspetto straordinaria partecipazione popolare unitaria – dice il presidente ANPI – a tutela della democrazia costituzionale, della pace e del lavoro: fondamenti costituzionali”. E le donne non posso che esserne protagoniste: “come sosteneva la partigiana Carla Nespolo –  aggiunge Ferretti – Il cammino delle donne è stato il cammino della democrazia. Per il nostro Paese e per l’Europa”.

giovedì 25 aprile 2024

25 Aprile: la Liberazione delle donne di Gianna Melis

Nella Resistenza italiana contro il nazifascismo migliaia di donne ebbero un ruolo chiave, ma questo impegno non fu riconosciuto, pienamente, neppure dai partigiani. Servì per creare il nostro futuro di libertà e parità.

Da staffette a combattenti

Portavano cibo nei nascondigli ai partigiani, li nascondevano e li curavano, facevano la staffetta trasportando armi e materiali di propaganda. Rischiavano la vita e quando venivano catturate dal nemico andavano incontro a torture e violenze sessuali. Ma incredibilmente poche partigiane erano armate. Le donne combattenti riconosciute – si legge nel sito dell’ANPI – furono 35 mila e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna, di queste 5mila furono arrestate e torturate, più di duemilacinquecento vennero deportate in Germania, oltre 2800 fucilate o impiccate. Ne caddero in combattimento più di mille ma solo 19, nel dopoguerra, vennero decorate con la Medaglia d’oro al valor militare: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu. 

L’impegno durante la resistenza fu utile per cambiare la percezione femminile del sé. Quelle donne, che fino ad allora avevano conosciuto soltanto divieti, durante la lotta di liberazione si incontravano, si organizzavano e prendevano coscienza che il loro ruolo era fondamentale per la Liberazione dell’Italia, ma anche per la loro emancipazione. Donne tradite, violentate – era meglio non dirlo per evitare di essere disonorate – alle quali non era permesso di pensare autonomamente, di studiare, di esprimere la loro intelligenza. Con la lotta di Liberazione, sperimentarono nuovi modi di vivere e acquisirono la consapevolezza di poter agire, imbracciare un fucile come gli uomini, dormire al freddo, fare la guardia, combattere contro i tedeschi. Un atto rivoluzionario per le partigiane che servì a dar loro il senso del proprio valore e della propria forza. Ovviamente non tutti, anche tra i compagni di lotta, erano d’accordo su queste scelte: molti criticavano la scelta femminile di abbandonare la casa e la famiglia per impegnarsi nella guerra partigiana, che implicava anche promiscuità e assenza di controllo familiare. Durante la Resistenza, la donna si scopre non solo più libera, ma anche piena di risorse: “Può sentirsi, finalmente, un individuo. Una persona degna d’attenzione e dotata di valore di per se stessa, non solo in relazione al proprio ruolo di moglie o madre” scrive Benedetta Tobagi in La Resistenza delle donne, dove riporta testimonianze su come molte partigiane fossero consapevoli che la promiscuità con gli altri uomini mettesse a rischio la loro reputazione, allora un bene essenziale per essere accettate in società. «È facile dire di una donna: “fa la puttana” quando vive con mille uomini. D’altronde, se entravo alla sera in una stalla con trenta ragazzi, non potevo mica pretendere che la gente pensasse che dicevo il rosario. Insomma, io lo sapevo e l’ho accettato tranquillamente che dicessero che facevo la puttana. Ma ho vissuto da cattolica» sottolinea l’ex partigiana, Tersilla Fenoglio, nome di battaglia Trottolina.

Alla conquista della parità

Le donne che hanno partecipato direttamente alla lotta armata, a volte, hanno dovuto affrontare grandi ostacoli nelle stesse brigate partigiane. Lo racconta bene Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana, vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica) nel libro Con cuore di donna. Per esempio, i suoi compagni ritenevano che non dovesse avere la pistola. Lei all’apposto era convinta che in alcuni casi l’arma le avrebbe permesso di difendersi dai nemici. E così, su un autobus affollato, ne rubò una a un uomo, ma i compagni cercarono di sottrargliela. “Il problema è il tabù delle donne che esercitano la violenza, che era molto forte in un contesto culturale tradizionalista come quello italiano. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’uguaglianza di genere. Le pochissime donne a cui alla fine fu consentito l’uso delle armi hanno sempre raccontato in seguito i problemi che questo creava loro, in termini culturali e pratici”. afferma la storica Simona Lunadei, autrice di diversi testi sull’argomento, tra cui Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80. “Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione dai ruoli tradizionali”, afferma la storica. Uno dei pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani del 1965, Le donne nella resistenza e il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato nel 1949.

Altri partigiani, invece, erano consci che le donne stavano facendo qualcosa di grande che peraltro non era richiesto dalla legge: “Il primo riconoscimento – scriveva Marisa Ombra, partigiana, in un suo articolo pubblicato su Patria Indipendente del novembre 2016 – l’abbiamo avuto proprio dai partigiani con i quali vivevamo, perché loro sapevano che noi donne non eravamo obbligate a fare la guerra. I ragazzi erano obbligati, perché c’erano i bandi dei tedeschi, dei repubblichini, e se non si presentavano diventano disertori, rischiando la fucilazione o la deportazione. Per noi non c’erano stati bandi, l’abbiamo fatto perché ci credevamo, volevamo fare la nostra parte. Io credo che riconoscessero che era la prima volta che le donne entravano in guerra, e ci entravano in quel modo, in prima fila; uscivano dal ruolo familiare e si assumevano responsabilità fondamentali, militari, politiche, sociali”. Marisa Ombra ha scritto anche il bellissimo libro ”Libere Sempre” Una ragazza della resistenza a una ragazza di oggi.

Sebben che siamo donne, paura non abbiamo

Armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale o tradizione familiare, le donne hanno dato alla Resistenza un grande contributo, partecipando attivamente anche alla lotta armata. La lotta di Liberazione ha offerto alle donne la «prima occasione storica di politicizzazione democratica» ma ci vorranno molti decenni per scalfire veramente i modelli culturali maschili e patriarcali. A Liberazione avvenuta, infatti, in alcune città liberate le donne sono state escluse da molte sfilate partigiane. Elsa Oliva, comandante di una brigata, col titolo di tenente, racconta “Nella lotta di liberazione non sempre la donna era accettata come lo sono stata io. Anche nelle formazioni dei garibaldini la donna serviva per lavare, rammendare, al massimo fare la staffetta. E rischiava più dell’uomo, perché le staffette rischiavano moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata, e fare quello che faceva. E se era presa….”

Le donne sono le protagoniste principali (non uniche) anche della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa ottengono risultati estremamente importanti da un punto di vista strategico e politico. Due esempi: le donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando così la miccia dell’insurrezione cittadina. Ancora, le cittadine di Carrara, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica. 

Durante la Resistenza si sono intrecciati, antifascismo e femminismo, e un forte appello alla bella politica, fatta di onestà e serietà, inestricabilmente connessa con la responsabilità, individuale e collettiva, che rimane una costante nelle storie di tante. “Sono ex prof, ex tante altre cose, ma non ex partigiana: perché essere partigiani è una scelta di vita”, dichiarò Lidia Menapace, un’altra grande figura di donna impegnata fino alla fine dei suoi giorni.

 La lotta di liberazione delle donne dal nazifascismo è stata l’inizio dell’emancipazione femminile. Credendo in un futuro migliore, con il loro coraggio, lo resero possibile. Noi siamo l’avvenire per il quale hanno lottato. A loro la nostra immensa riconoscenza. Per sempre.

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lunedì 22 aprile 2024

Continua l'attacco alla libertà delle donne

Il giorno prima della votazione in Parlamento del disegno di legge 19/2024  “Disposizioni urgenti per l'attuazione del PNRR”, viene presentato da Fratelli d'Italia un emendamento in cui si prevede che le Regioni nella riorganizzazione dei Consultori possono “avvalersi di soggetti del Terzo Settore che abbiano qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”. 

I Consultori sono nati come luoghi di prevenzione ed erogazione di servizi rivolti alle singole persone, ad adolescenti, alle coppie ed alle famiglie, offrono informazione, accoglienza, consulenze e prestazioni specialistiche sui temi delle relazioni, della contraccezione, della salute sessuale e riproduttiva. Dopo l'età dell'oro, hanno vissuto una stagione di “menefreghismo” che ne ha prodotto lo “svuotamento”: poche risorse investite, chiusure, accorpamenti, mancanza di personale, obsolete strumentazioni, riduzione dei servizi erogati e degli orari. Fanalino di coda del Servizio Sanitario hanno favorito la nascita e la crescita dei Consultori privati.

A distanza di cinquanta anni i Consultori andrebbero ripensati e riorganizzati anche alla luce dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti. A partire dall'educazione all'affettività ed alla sessualità di ragazze e ragazzi che spesso avviene attraverso la rete e i suoi contenuti pornografici devastanti. 

Invece furbescamente vengono inseriti [con quale urgenza ?] soggetti del Terzo Settore come i ProVita, noti antiabortisti... 

Le donne si rivolgono ai Consultori per interrompere una gravidanza dopo aver valutato l'impossibilità di sostenere una maternità. L'equipe, con cui le donne sostengono un colloquio per capire i motivi della scelta, può avvalersi di eventuali collaborazioni, se ritenute necessarie, non generalizzate e fatte poi da soggetti la cui qualificata competenza deve essere verificata [e poi da chi?]. E' una pressione, il tentativo di interferire nella scelta delle donne e colpevolizzarle in un momento delicato e in un luogo in cui andrebbero accolte e sostenute. 

La presenza di questi “soggetti” nei Consultori rappresenta un ennesimo attacco alla legge 194 e la messa in discussione della autodeterminazione delle donne sul proprio corpo. La maternità deve essere voluta, responsabile e consapevole, non imposta come destino da una cultura arcaica. 

Se poi attraverso queste forzature si pensasse di risolvere il problema della natalità, sarebbe aggiungere alla furbizia la beffa. Serve un nuovo welfare, asili nido, conciliazione famiglia lavoro, congedi parentali, lavoro stabile e ben retribuito... 

Ed ancora una volta il corpo delle donne viene strumentalizzato e usato a fini politici.

Dulcis in fundo

Sul nostro territorio (Assago, Buccinasco, Cesano Boscone, Corsico, Cusago) con una popolazione di 100.000 abitanti dovrebbero esserci 5 Consultori, uno ogni 20.000 abitanti. Oggi ce n'è uno solo, a Cesano Boscone, aperto solo alcuni giorni.

giovedì 11 aprile 2024

LE DONNE NON SANNO SCRIVERE D’ALTRO CHE D’AMORE, PER FORTUNA Giulia Caminito,

Ho letto su Doppiozero questo articolo di Gianni Bonina e anche il dibattito che ne è conseguito.

Il primo pensiero è la grande confusione, confusione tra scrittrici molto diverse tra loro, confusione rispetto al loro pubblico, confusione rispetto alla storia della scrittura delle donne e l’elemento amoroso/sentimentale.

Intanto vengono messe insieme scrittrici diversissime, sia quelle la cui scrittura ha una vera connotazione di genere romance come Erin Doom sia altre che con questo non c’entrano nulla, per esempio Viola Di Grado. Sfido a leggere “Fuoco al cielo” e a tornare qui per parlarne come di un romance, anche se tratta di una relazione amorosa.

Seguendo questo criterio allora dovrebbe essere una romance anche “Il colibrì” di Sandro Veronesi? Mi chiedo.

Sappiamo tutte che dai secoli dei secoli la scrittura delle donne viene definita romantica, rosa, femminile e quindi di secondo livello. Non a caso Ginzburg e Morante volevano essere chiamate ‘scrittore’. Perché le scrittrici per i critici erano quella cosa lì, e basta.

Nell’articolo mi pare si segua di pari passo esattamente questa solita e quindi banale constatazione. Le donne scrivono libri sentimentali e vendono libri. Stessa cosa che si è sempre detta anche delle nostre maestre.

Ciò che disturba è il fatto che dopo molto tempo non ci sia la capacità di evolversi nelle opinioni e che si senta la necessità di ripetersi senza mettere in dubbio nulla di questa ripetizione, ciclica e snervante.

Di recente ho scritto un articolo sulla morte del romanzo (che uscirà su La Stampa) e anche lì sono andata a spulciare i precedenti articoli dei nostri critici e scrittori che si lamentavano di questo decesso, dicendo sempre le stesse cose, a distanza di qualche anno, preoccupandosi sempre di ribadire che però loro vanno in direzione altra, di segnalare chi ancora fa il grande romanzo, e cioè altri uomini.

L’articolo ci dice alcune verità però, che andrebbero ragionate in maniera più lucida invece di buttare nomi a caso e generalizzare.

Intanto sì, oggi il mercato del libro lo reggono le lettrici e c’è un’altra evidente novità segnalata dai dati della lettura, e cioè che lo reggeranno a lungo, perché la fascia che ha perso più punti percentuali in termini di lettura è quella degli adolescenti maschi, sono loro che stiamo perdendo in questi anni, che non vanno più in libreria o ci vanno molto poco.

Quindi perché non chiedersi il contrario? Perché non chiedersi cosa sta succedendo ai lettori uomini di varie età? Sono schiacciati da questa massa di autrici e dalla loro produzione sentimentale? È un po’ sciocco fermarsi a questa constatazione.

Il problema è più ampio e più difficile da interpretare.

Altro punto, i romanzi che vendono sono tutte scartoffie? O sono scartoffie quando li vendono le donne? La vendita di un libro ne fa la sua qualità? Se è tanto non vale molto, se è poco vale di più? Sono questi i criteri sensati di un’analisi critica contemporanea?

Certo, è vero che negli ultimi anni una grande scrittrice ha varcato i confini nazionali, ed è Elena Ferrante, lei ha posto un trend visibile, evidente, che riguarda il racconto di figure femminili e delle loro relazioni all’interno di un contesto storico e sociale per loro svantaggioso. È vero che molti editori italiani ed esteri hanno quindi cercato di pubblicare romanzi in linea con questo trend. Ma veramente vogliamo ridurre la scrittura di Ferrante a una operazione a tavolino di vendita? Siamo ancora fermi lì? Nonostante tutta la critica femminista che in questi anni ne ha spiegato il valore? Perché non la leggete questa benedetta critica femminista, signori?

Inoltre, sulla questione dello scrivere d’amore. Anche qui propongo di leggere di più e di interpretare di più.

Esiste il filo rosso nella scrittura delle donne che riguarda il sentimento, questo è certo.

Potrei fare tre esempi di scrittrici a cavallo del Novecento che in pochi leggono come Amalia Guglielminetti, Pia Rimini e Matilde Serao. Tre scrittrici diverse che tra le molte cose scritte hanno scritto d’amore. E come ne hanno scritto? Se le torniamo a leggere ci rendiamo conto che con stili diversi, registri ironici o drammatici, giochi letterari o scene teatrali, quello che raccontano si chiama “mal d’amore”.

Il mal d’amore non va confuso con il semplice anelito all’altro, con la ricerca dell’amore romantico, con la voglia di unirsi a un uomo, ma va letto come bisogno sociale, bisogno che le donne hanno avuto e ancora oggi hanno culturalmente e socialmente di essere amate, di essere riconosciute, di essere soggetti inquanto amate.

La donna ha sofferto per secoli di un posizionamento sociale non solo svantaggioso ma anche violentemente escludente, in cui la relazione con l’uomo spesso era l’unica fonte di visibilità possibile. Se eri amata, allora esistevi.

Mentre gli uomini dicevano “penso quindi sono”, le donne dovevano dire “sono pensata quindi sono”.

Non è questo che ci racconta Jane Austen? Non è questo che ci racconta Alcott, non è questo che ci racconta Katherine Mansfield quando parla della galera che era il matrimonio borghese e ci fa apparire le sue donne tragicamente felici perché amate e poi tragicamente infelici perché abbandonate o tradite? Non è questo che racconta con grande precisione proprio Elena Ferrante ne “I giorni dell’abbandono”?

Le donne si sono dibattute tutto questo tempo nel cercare la propria autonomia sentimentale, la propria identità a prescindere, sia dall’essere amate, che dall’essere madri, per poter amare e diventare (o non diventare) madri a propria scelta, guidate dalla propria libertà e non per essere accettate dal mondo.

Avete letto, signori, “È stato così” di Natalia Ginzburg? Uno dei migliori racconti che abbiamo sul mal d’amore, un tormento costante e avvilente di una ragazza che non verrà mai riconosciuta dal marito, mai, e che tenterà in ogni modo di venire notata, rappresentata, pensata. E la sua pazzia, il suo delirio, si scioglieranno proprio in questa assenza di parità. L’amore è sentito come sentimento paritario, come sentimento in cui si esiste insieme all’altro, e per secoli le donne sono state le mogli tradite, le amanti dimenticate, le suore confiscate alla società, le donne pubbliche da usare per lo sfogo sessuale. Non sono state solo questo, ma spesso questi sono i ruoli anche linguistici che hanno ricoperto. Vogliamo quindi pensare che non avrebbero dovuto scrivere di questo? Vogliamo dirci che questo nodo identitario le donne non avrebbero dovuto affrontarlo nella loro narrativa?

O vogliamo constatare che come sono state silenziate in altri aspetti anche in questo, quello della scrittura, pur di non specchiarsi nel terrore che crea il mal d’amore, nel senso di colpa che può generare, si sono e si continuano a relegare le prove di scrittura delle donne come forme di sentimentalismo di ampio consumo?

E perché, signori, secondo la vostra linea, gli uomini non vogliono consumare questo tipo di narrativa, cosa non li attrae lì? Ce lo siamo chiesto? Cosa li spaventa del sentimento, cosa ancora gli fa credere che scriverne sia degradante?

È vero che le donne vanno in libreria più degli uomini, ed è anche vero che tutti i romanzi osannati dai critici, che sono per la maggior parte scritti da altri uomini, sono le donne ad averli letti di più. Vogliamo dirci che tutti i vari thriller e gialli, che nell’articolo di cui sopra vengono indicati come produzioni di consumo maschile, non vengano portati in classifica dalle donne?

La verità, ed è tempo venga affrontata, è che le donne sono culturalmente abituate a leggere tutto, ciò che è scritto da uomini, da donne, da persone non binarie, da chiunque, perché hanno sempre fatto così, hanno sempre studiato sui testi degli uomini, e ancora lo fanno, hanno sempre amato questi testi, hanno sempre saputo comprenderne il valore letterario. C’è da chiedersi quando, dio santo, accadrà lo stesso per voi, signori.

https://www.letteratemagazine.it/2024/04/03/le-donne-non-sanno-scrivere-daltro-che-damore-per-fortuna/?fbclid=IwAR0JKBoh5xVc7I6LbKljtAGMrOVEbYwsCpmV1BtExjhAwtNLqy_ywVhhf1Q_aem_AZqTS6G7Dgzfoeg7Zy9KHxfVx7sB217DtdcdVR7RvCZ-X16EQm3qvQbqgQWCHw6Cqvut3sVMr6jfv_v5Uc2g3GUI


venerdì 5 aprile 2024

Importanza della Medicina di Genere. La parola alla dr.ssa Elena Ortona di Valentina Capati

Nata negli anni Novanta, la medicina di genere ha una storia giovanissima. Facciamo il Punto con la dirigente Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto superiore della Sanità

Importanza della Medicina di Genere. La parola alla dr.ssa Elena OrtonaGiovedi, 28/03/2024 - Nata negli anni Novanta, la Medicina di Genere ha una storia giovanissima. La medicina dovrebbe essere la scienza illuminata dal faro della buona pratica, ma a che titolo lo è, allora, se la sua è una storia di dimenticanza del corpo femminile? Lo stesso corpo che, invece, è stato l’oggetto di un ossessivo controllo politico, è assente nella storia della scienza medica.

Abbiamo interpellato su questo tema la dottoressa Elena Ortona, che dirige il Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto Superiore della Sanità.

“Con Medicina di Genere intendiamo definire lo studio dell’impatto che il genere ed il sesso hanno sullo stato di salute di ogni persona. Dove per sesso intendiamo l’insieme di caratteristiche biologiche, i cromosomi, le gonadi, gli ormoni di ognuno. Mentre il genere è ciò che distingue a livello sociale il maschile ed il femminile ed i ruoli e le relazioni che ai due generi sono ascritti. È ovviamente un’ottica, quella di genere, trasversale che interessa tutte le specialità mediche. L’interesse nei confronti della Medicina di Genere è nato agli inizi degli anni Novanta, ma una vera e propria considerazione di questa necessaria ottica si comincia ad avere nel 2018, quando all’Istituto Superiore della Sanità in fase di riordino ha istituito il Centro per la Medicina di Genere che ha come obiettivo quello di promuovere, condurre e coordinare attività in ambito sanitario che tengano conto dei differenti bisogni delle persone”.

Quella delle donne e del corpo delle donne nella storia della medicina è una storia di sotto rappresentazione e svantaggio. A venire meno nella decodificazione del corpo a scopo terapeutico non è stata solo la differenza tra i sessi, ma l’intera soggettività femminile, la cui raffigurazione è stata assoggettata all’ottimizzazione di tempi e all’agilità dei processi.

“Lo sviluppo della rete è stata fondamentale per fare in modo che anche la politica comprendesse fino in fondo l’importanza della Medicina di Genere. Nel 2018 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, ed è stata la prima volta nel mondo - la legge 3/2018 “Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della Salute”. L’articolo 3 di questa legge, “Applicazione e la diffusione della Medicina di Genere nel Servizio sanitario nazionale”, richiedeva la predisposizione di «un Piano volto alla diffusione della Medicina di Genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale in modo omogeneo sul territorio nazionale» ricorda Ortona.

La sperimentazione non fluttua

Uno dei temi su cui il Centro di riferimento per la Medicina di Genere è al lavoro è la ricerca.

“E’ necessario strutturare dei percorsi di ricerca che tengano conto delle differenze tra i generi e arruolare soggetti (che siano animali o umani) di entrambi i sessi al fine di analizzare i risultati in maniera disaggregata, proprio per metterne in evidenza le differenze soprattutto in ordine all’aspetto farmacologico” ci spiega ancora la direttrice del Centro.

“Nella maggior parte degli studi farmacologici, specialmente negli studi sulle prime fasi che riguardano la tossicità e la tollerabilità della sostanza vengono quasi sempre arruolati solamente soggetti di sesso maschile, questo per evitare la variabilità data dalle fluttuazioni ormonali tipiche del sesso femminile. Ma anche per evitare danno ad una eventuale futura gravidanza”.

La crucialità di quanto emerge è evidente soprattutto alla luce del fatto che sono state le donne ad accusare la maggior parte degli effetti avversi nei farmaci che sono stati tolti dal commercio nel corso della storia.

Perché questo? Perché di quei farmaci venivano valutate tossicità e tollerabilità su un corpo che comunque è completamente differente da quello delle donne, non solo per dimensione e per peso, ma proprio per composizione.

Le donne si ammalano in maniera differente dagli uomini?

L’abbiamo chiesto ancora alla Dottoressa Ortona: “Molte malattie hanno una incidenza indicativa. Prendiamo per esempio quelle autoimmuni che per incidenza sono l’esempio paradigmatico; tra queste il Lupus Eritematoso Sistemico o la sindrome di Sjögren. Hanno un rapporto donna/uomo davvero sbilanciato anche a livello di dieci/quindici a uno, sembrano delle malattie esclusivamente femminili , ma riguardano anche molti uomini. Perfino le cause di morte per queste malattie possono essere diverse e anche la risposta ai trattamenti. Questo aspetto è fondamentale perché dobbiamo comunque sapere che un farmaco può avere degli effetti differenziati. Per esempio i farmaci biologici, i farmaci anti TNF, hanno un effetto diverso in uomini e donne. Gli uomini rispondono meglio, hanno una risposta più efficace a questi farmaci. Come anche ai farmaci sintetici, al methotrexate. La differenza nella risposta deve comunque essere tenuta da conto quando si fa un trattamento per la malattia, le cui manifestazioni anche possono essere diverse. Le differenze possono essere non solo nell’incidenza ma anche nel decorso, nella prognosi, nelle manifestazioni cliniche, nella risposta alla terapia. Possono essere tantissime. La medicina di genere studia queste differenze, le mette in evidenza tramite una ricerca epidemiologica che per prima cosa osserva le differenze, poi tramite una ricerca di base va a studiare proprio i meccanismi e i motivi per cui esistono queste differenze che possono essere motivi genetici ma anche motivi legati agli ormoni, legati all’epigenetica. Come anche il microbiota e gli stili di vita, la dieta, l’esposizione differente a sostanze tossiche dovuto anche a motivi lavorativi, a motivi occupazionali. Vanno studiati i fattori responsabili delle differenze e solo allora potremo veramente indicare quali possono essere prevenzione, diagnosi e cura equi, che diano quindi agli uomini e alle donne le stesse possibilità di guarire”.

“Anche se pensiamo agli studi preclinici: qualsiasi studio che si effettua sulle cellule, proprio per andare a valutare l’effetto di un ambiente, di una radiazione ultravioletta o comunque una sostanza tossica o un farmaco sulle cellule. Non viene quasi mai tenuto conto del sesso dell’organismo da cui queste cellule vengono prelevate e questo è un altro aspetto veramente importantissimo perché si è visto molto bene che cellule femminili e cellule maschili hanno una risposta differente allo stress: le cellule femminili sono di più, sono più resilienti, mettono in atto una serie di meccanismi che portano alla loro sopravvivenza, insomma si difendono meglio. Le cellule isolate da un organismo maschile, che siano animali che siano uomini, vanno più facilmente incontro a morte in presenza dello stesso stress. Non sono in grado di mettere in atto quei meccanismi di difesa e di protezione delle cellule femminili. Quindi di una stessa sostanza, se non si dichiara di che sesso è la cellula su cui viene testata si può avere un risultato completamente diverso. Questo porta a dei bias importantissimi. Probabilmente la ricerca non è fatta nella maniera più corretta? Questo è uno dei fattori per cui le donne sono state penalizzate. Anche gli studi sugli animali vengono arruolati animali di sesso maschile sempre per evitare le fluttuazioni ormonali. Si usano i maschi che sono sempre uguali e quindi non hanno bisogno di determinati esami, di analisi. In realtà le risposte sono completamente differenti. Vengono arruolati sempre in maggioranza gli uomini anche nelle sperimentazioni inerenti i farmaci che poi devono essere utilizzati per le malattie autoimmuni la cui incidenza è quasi esclusivamente a carico del sesso femminile”.

Bisogna ancora lavorare tanto, fare tanta formazione, tanta comunicazione.

D’altra parte in medicina il nostro corpo ha a malapena 40 anni.

https://www.noidonne.org/articoli/importanza-della-medicina-di-genere-la-parola-alla-drssa-elena-ortona.php?fbclid=IwAR14NyJSVXroER0BqFbMeoah7lVLIluiYwT2Ex5v_6h9gvdaJKNPLY4mW2w_aem_AcUXL2JC2s1olhHhMp9h9CZpYn80vsaL30f5vN-

martedì 2 aprile 2024

Nadia Murad, sopravvissuta alla schiavitù sessuale dell’Isis e premio Nobel per la pace, nominata donna dell’anno dal Time articolo e traduzione di Patrizia Cordone©

 E’ un riconoscimento prestigioso dell’autorevole rivista conferito a marzo annualmente per la valorizzazione di donne di diversi settori, le quali si stanno distinguendo per la costruzione di un mondo più equo, a misura femminile, creando i ponti attraverso le generazioni, le comunità ed i confini geografici.

Nel 2018 insignita del premio Nobel per la pace Nadia Murad é la giovane yazida, rapita e schiavizzata sessualmente dall’Isis nel 2014, che si è liberata e rifugiata in Germania quello stesso anno. Da allora non ha mai smesso di far sentire la sua voce, non soltanto per mera testimonianza, ma quale attivista infaticabile presso le sedi istituzionali internazionali, quali l’Onu, affinché siano garantite le indagini, le incriminazioni ed i processi all’Isis, a causa delle violenze sessuali perpetrate alle donne, soprattutto della sua comunità yazida. L’altro obiettivo del suo impegno é il riconoscimento dei risarcimenti alle donne violate nei contesti di guerra, incluse le yazide come lei. Nel 2018, anno del conferimento del premio Nobel per la pace a lei, questo sito le ha dedicato l’articolo “La coraggiosa Nadia Murad Basee Nobel per la pace” puntualmente aggiornato.

In occasione della sua nomina a “Donna dell’anno” ha rilasciato al Time un’intervista, che qui trovate tradotta in italiano:

TIME ha nominato Nadia Murad, fondatrice e presidente della Nadia’s Initiative, come una delle donne dell’anno 2024. L’elenco riconosce leader straordinari che lottano per un mondo più equo. Nella sua intervista alla rivista (Nadia Murad’s Mission to Protect Survivors | TIME) ha parlato del suo desiderio di giustizia e di “fine all’uso sistematico della violenza contro donne e ragazze“.

Nadia Murad sognava di gestire il proprio salone di bellezza a Kojo, un piccolo villaggio agricolo nel nord dell’Iraq: Nella mia immaginazione, il salone era uno spazio sicuro in cui donne e ragazze potevano condividere idee, imparare cose e avere qualcosa per se stesse“. Quel sogno è stato infranto, quando i combattenti dello Stato Islamico hanno invaso il suo villaggio nel 2014, con l’intento di distruggere una comunità yazida che chiamavano infedeli. Sua madre, i fratelli, i parenti e gli amici furono uccisi. Nadia Murad, allora 21enne, era una delle quasi 6.000 donne e bambini yazidi tenuti prigionieri e sottoposti a stupro per quasi tre mesi. Alla fine è scappata e si è reinsediata in Germania nel 2015. Oggi, trentenne, incanala quel trauma nella difesa dei sopravvissuti al genocidio e alla violenza sessuale: “Quando sopravvivi a una guerra e conosci così tante persone che non ce l’hanno fatta, ti senti responsabile di fare qualcosa per loro“.

In qualità di presidente dell’organizzazione no-profit Nadia’s Initiative esercita pressioni sui governi e sulle organizzazioni internazionali per conto di coloro che sono in crisi, concentrandosi sulla riforma politica e sulle risorse per la ricostruzione della comunità. I suoi sforzi hanno avuto eco in tutto il mondo:il suo libro autobiografico del 2017 è diventato un best seller e nel 2018 le è stato assegnato il Premio Nobel per la pace. Murad, che incontra spesso altri sopravvissuti, dice che tutti condividono il desiderio di “giustizia e di vedere la fine di questo uso sistematico della violenza contro donne e ragazze”.

A dicembre è emersa come principale attore in una causa intentata con circa 400 americani yazidi contro Lafarge, il conglomerato industriale francese del cemento che nel 2022 si è dichiarato colpevole di aver pagato milioni all’Isis per una fabbrica in Siria. L’avvocata per i diritti umani Amal Clooney, collaboratrice di lunga data e sostenitrice di Murad, ha intentato una causa ai sensi delle disposizioni civili della legge antiterrorismo. “Le aziende che sostengono l’Isis o altri gruppi che la pensano allo stesso modo devono essere ritenute responsabili” afferma Murad.

Oltre al suo sostegno Nadia Murad sarà la prima della sua famiglia a laurearsi quest’anno, con una laurea in sociologia presso l’American University. Dopodiché non vede l’ora di provare piccole gioie come “più capelli e trucco“, dice sorridendo. “So che non ho potuto aprire il mio salone, ma sono orgoglioso di dire che almeno posso aiutare altre donne e ragazze in Iraq a farlo“.


traduzione di Patrizia Cordone© titolare di questo sito L’Agenda delle Donne – copyright – tutti i diritti riservati

https://lagendadelledonneilsitodipatriziacordone.wordpress.com/2024/03/07/nadia-murad-sopravvissuta-alla-schiavitu-sessuale-dellisis-e-premio-nobel-per-la-pace-nominata-donna-dellanno-dal-time/?fbclid=IwAR1yvKAZ9UjOzD-4moZCAyvdyKM

martedì 19 marzo 2024

I nuovi papà chiedono il congedo per stare con i figli: triplicate le richieste di SIMONA SIRIANNI

Se nel 2013 erano 51.745 nel 2023 sono diventati 172.797. Un dato molto importante vista l'importanza di condividere le responsabilità tra madri e padri per impedire che la donna sia obbligata a dimenticarsi la carriera

Non più solo mamme tra culle, biberon e pannolini: sempre più papà scelgono di restare a casa ad accudire i figli appena nati. E questo succede, secondo Save the Children che ha diffuso una ricerca su dati Inps in occasione del 19 marzo, festa del papà, grazie alla legge sui congedi parentali. Se nel 2013, infatti, poco meno di 1 padre su 5 aveva chiesto il congedo, nel 2022 il tasso di utilizzo del congedo di paternità è più che triplicato. Un dato molto importante vista l’importanza di condividere le responsabilità tra madri e padri per impedire che la maternità continui a essere ostacolare le donne che vogliono lavorare.

Com’è cambiato il congedo di paternità

Qualcosa, quindi, si muove nell’universo della paternità, anche se sono ancora le donne a dover rinunciare alla carriera o addirittura al posto di lavoro perché il carico di cura è sempre in maniera del tutto sbilanciata sulle loro spalle. Lo squilibro di genere tra i due genitori nella cura dei figli c’è sempre, ma i dati mostrano che oggi, i padri che usufruiscono del congedo di paternità a dieci anni dalla sua introduzione, sono ben 172.797 rispetto ai 51.745 del 2013, con poche differenze a seconda che si tratti di genitori del primo (65,88%), secondo o successivo figlio (62,08%). Questo è dovuto anche ai vari cambiamenti che la misura ha avuto negli anni: all’inizio, infatti, prevedeva un solo giorno obbligatorio e due facoltativi, attualmente ne garantisce 10 obbligatori e uno facoltativo ed è fruibile tra i due mesi precedenti e i 5 successivi al parto.

Chi ne usufruisce di più

L’aumento di chi fa richiesta di questo diritto all’astensione lavorativa si registra in tutta Italia, ma al Sud il tasso si abbassa molto, rispetto al Nord. I numeri più elevati di chi ne usufruisce, superiori all’80%, si registrano nelle province di Bergamo, Lecco, Treviso, Vicenza e Pordenone. A utilizzare maggiormente il congedo sono gli uomini nelle fasce d’età comprese fra i 30 e i 39 anni e fra i 40 e i 49. Inoltre, è più probabile che il padre usufruisca del congedo di paternità se lavora in aziende medio-grandi.

Chi ha un contratto vero lo chiede di più

Purtroppo, esistono delle disuguaglianze e queste dipendono dal tipo di contratto che si ha. Tra coloro che hanno un contratto di lavoro più stabile le richieste sfiorano il 70%, tra quelli con contratto a tempo determinato scende al 35,95%, mentre tra gli stagionali arriva solo al 19,72%. Per quanto riguarda le fasce di reddito, invece, l’utilizzo del congedo di paternità è più diffuso tra i padri con un reddito compreso fra i 15mila e i 28mila euro (73,3%) e fra quelli con reddito superiore a 28mila euro e inferiore a 50mila (85,68%). Salendo ancora la correlazione si interrompe. Permettersi nido e baby sitter aiuta.

Verso una maggiore condivisione di responsabilità

Il coinvolgimento dei padri nella cura dei figli, quindi, sembra stia cambiando anche in Italia: per sostenere questo cambiamento, però, sostiene Giorgia D’Errico, Direttrice Affari pubblici e Relazioni istituzionali di Save the Children, è necessario andare nella direzione di un congedo di paternità per tutti i lavoratori, non solo i dipendenti fino ad arrivare all’equiparazione con il congedo obbligatorio di maternità. Coinvolgere e incoraggiare i nuovi padri nella piena condivisione della cura dei figli, è al momento l’unico modo di eliminare uno de più tanti ostacoli che ancora oggi bloccano lo sviluppo professionale delle madri nel mondo del lavoro.

https://www.iodonna.it/attualita/famiglia-e-lavoro/2024/03/18/congedo-paternita-per-stare-con-i-figli-triplicate-le-richieste/?fbclid=IwAR1q9HFvZzfnhh9XhhjJcP9FGaoiViob2ifFng7O0LP5rU0EAPgmCec6quE

Le donne attorno ai Monumenti alla Pace

“I saperi ed il saper fare delle donne” alla base della manifestazione di domenica 17 marzo a Corsico

 

Ventunesimodonna, le donne di Itaca, di Anpi, dell'Amministrazione Comunale e cittadine di Corsico hanno messo a disposizione le loro competenze “I saperi ed il saper fare delle donne ” per dare voce alla Pace, un bene prezioso devastato da uomini di potere e terroristi.

Costruzioni di gru origami durante il Laboratorio gestito da Antonella Prota Giurleo, Yuko Takeda ed Elena Giberti a cui hanno partecipato con grande entusiasmo bambine, bambini, adulte e adulti.

La mostra “Donne di Pace”. Donne insignite del Premio Nobel per la Pace e Movimenti  di Donne per la Pace elaborata da ventunesimodonna.

Canzoni e poesie selezionate da Valentina Ferrari, attrice e cantante.

Alunne e alunni che ragionano di Pace.

Le studentesse di Itaca, la scuola di italiano per stranier*, con le Donne Nobel di Pace.

Le dipendenti comunali alle prese con delibere e aspetti tecnici.

Fili annodati, ricerca di contatti, condivisioni hanno reso possibile l'Inno collettivo alla Pace.

La coreografia. Gru depositate davanti al Monumento, disegni di Pace di alunn* sui cespugli, bandiere della Pace che sventolano, la Mostra “Donne di Pace” su una parete, l'angolo del Concerto di Pace.

Le donne delle associazioni leggono brani per raccontare il ruolo delle donne costruttrici di Pace, i saluti di Chiara Pellegrini la scultrice che ha ideato l'installazione “ Omeostasi di Pace”, un gruppetto di alunn* recita poesie di Pace, le alunne di Itaca leggono i pensieri delle Donne Nobel di Pace, i saluti dell'assessora Angela Crisafulli per l'Amministrazione Comunale.

E poi nell'angolo del Concerto il canto e le poesie di Valentina Ferrari che ha emozionato ed ammaliato il pubblico.

E non sono mancati gli uomini: Carlo Zerri per l'accompagnamento musicale, Gianluca Vitali per la strumentazione e alcuni tecnici del Comune.

La conclusione con l'esposizione dello striscione CESSATE IL FUOCO con la voce di Valentina Ferrari che  legge l'appello delle donne israeliane e palestinesi.

Le gru, salutate dalle colombe simboli di Pace del Monumento di Corsico, voleranno verso il Memoriale di Pace di Hiroshima in ricordo di Sadako, la bambina dalle Mille gru, vittima delle radiazioni della bomba atomica e di tutte le bambine e di tutti i bambini vittime della follia della guerra.




domenica 10 marzo 2024

Il nostro 8 marzo

Ecco un puzzle delle iniziative che ci vedono presenti per la Giornata internazionale della donna. 

Abbiamo aderito nei giorni scorsi allo sciopero delle donne e ai momenti organizzati dall'Amministrazione Comunale c/o il saloncino La Pianta.

Per i prossimi giorni  segnaliamo lo spettacolo teatrale “Stai Zitta” tratto dall’omonimo libro di Michela Murgia al cinema/teatro Cristallo di Cesano Boscone in programmazione per lunedì 11 marzo e il film “Past Lives “ in programmazione venerdì 15 marzo ai quali aderiamo insieme alle amiche del Circolo Donne Sibilla Aleramo di Cesano Boscone e Demetra Donne di Trezzano sul Naviglio.
 
Il momento Clou di questo 8 marzo sarà per noi l’iniziativa “Donne di Pace” che si svolgerà nel prossimo fine settimana in due momenti : sabato 16 nel pomeriggio col laboratorio di origami e domenica 17 nel pomeriggio con reading letterario e musicale davanti al monumento della Pace 

Che sia per  tutte noi “Buon 8 marzo dal 9 in poi”




8 MARZO PER DIFENDERE I DIRITTI

LIBERE DI SCEGLIERE

Un mondo
Nella Costituzione viene inserito un articolo che norma il diritto all'interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) con la maggioranza parlamentare necessaria (780 a favore, 72 contro) per modificare la Costituzione .
E' la Francia. Sulla Torre Eiffel scintilla la scritta “Il mio corpo, la mia scelta”.


Un altro
Una legge, la 194, messa in discussione con un referendum, lentamente svuotata nella sua attuazione [obiezioni di coscienza, chiusure di Consultori pubblici, riduzione di fondi e personale, disinformazioni], viene ancora attaccata pesantemente.
In questa legge la proposta di inserire un comma all'articolo 14 che obbliga la donna che intende interrompere la gravidanza ad ascoltare il “battito del cuore” del feto [in realtà un sistema cardiovascolare fetale sviluppato].
E' quella parte dell'Italia che “non rispetta le scelte delle donne” e attiva un'ennesima battaglia sul corpo delle donne.

La nostra scintillante scritta “Non si torna indietro”.

giovedì 7 marzo 2024

Rettrici d’Italia: ecco chi sono le 12 magnifiche di GABRIELLA CANTAFIO E CRISTINA LACAVA

Le rettrici sono ancora poche, ma agguerrite, e decise a sostenere la crescita delle ragazze, insieme a quella dei loro atenei. A iO Donna spiegano come

L’ ultimo rapporto “Analisi di genere” dell’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università, conferma che le donne partono in testa, poi rallentano e si fermano nella loro carriera accademica: ogni anno le matricole di sesso femminile sono il 55 per cento, le laureate il 57, al dottorato uomini e donne si pareggiano. Da qui, la forbice: le associate sono il 42,3, le ordinarie il 27. In cima alla classifica, 12 donne su un totale di 85 rettori. Poche, certo. Ma la novità è che da qualche mese al vertice della Crui, la Conferenza che li rappresenta, si è insediata una donna, Giovanna Iannantuoni, rettrice di Milano Bicocca.

Per Iannantuoni, «Il Gender Gap negli atenei e sul mercato del lavoro è una delle questioni prioritarie nel nostro Paese: abbiamo più donne iscritte e laureate ma la carriera non è per tutte. Serve un cambiamento culturale: promuovere fin dall’infanzia attività per raccontare ai più piccoli storie di donne coraggiose che hanno realizzato i loro sogni senza sacrificare qualcosa della vita. L’empowerment femminile passa anche attraverso l’incremento delle politiche attive di Welfare per favorire il lavoro delle donne, tema centrale per la Crui, così come la promozione in tutti gli atenei di sportelli antiviolenza e di servizi che consentano alle donne di sentirsi accolte e tutelate nel denunciare episodi di molestie e violenze». Per capire meglio chi sono, cosa intendono fare per la loro comunità e in particolare per sostenere le studentesse, abbiamo intervistato le 12 rettrici, ponendo loro le stesse domande.

Eccole: 1. Il suo percorso 2. L’università che vorrei 3. L’obiettivo concreto del mio mandato 4. Che cosa possiamo fare perché le studentesse trovino un ambiente sereno e ugualitario

Tiziana Lippiello, Ca’ Foscari, Venezia: 

1. Ho studiato Lingue e letterature orientali a Venezia e sono stata all’università di Pechino e Shangai e in Olanda, dove ho conseguito il dottorato di ricerca. Rientrata a Venezia,mi sono laureata e ho proseguito la carriera in quest’ateneo, in cui sono diventata professoressa ordinaria di Lingua cinese classica e, dal 2020, rettrice.

2. Sogno un’università che continui a costruire ponti. Aperta alla città, al mondo, alla società, per promuovere il dialogo interculturale e interreligioso.

3. Abbiamo avviato progetti per incrementare gli spazi e rendere l’ateneo un campus. Inoltre, per il 700° anniversario della morte di Marco Polo è stato istituito il Comitato Nazionale per le celebrazioni, di cui faccio parte.

4. Siamo la prima università italiana ad aver ottenuto la certificazione per la parità di genere Uni/PdR 125:2002. Promuoviamo il progetto LEI Leadership, Energia, Imprenditorialità – per favorire l’occupabilità delle giovani donne e rafforzare il loro ruolo sociale ed economico nel mondo.

Giovanna Iannantuoni, presidente della Crui e rettrice dell’università di Milano Bicocca

1. Mi sono laureata in Discipline economiche e sociali alla Bocconi e ho conseguito un dottorato in Economics all’università Cattolica di Louvainla – Neuve, in Belgio. Dopo un periodo di insegnamento all’estero, dal 2006 sono diventata docente di Economia politica a Milano – Bicocca. Dal 2015 sono stata presidente della scuola di dottorato e nel 2019 mi sono candidata come rettrice.

2. Ritengo necessario rendere il sistema universitario leader culturale e scientifico del Paese. Lo possiamo fare innovando la didattica, lavorando con i privati per avere impatto tecnologico,facendo conoscere quello che accade negli atenei ai cittadini. Inoltre vorrei un sistema di reclutamento legato più ai risultati che ai concorsi.

3. In questi anni Milano Bicocca è cresciuta nel numero di studenti (38mila), nell’offerta formativa (80 corsi di studio), anche post laurea con la creazione della Bicocca Academy, la scuola dell’Alta formazione, e nella qualità della ricerca (396 contratti di ricerca attualmente attivi con 351 aziende ed enti privati per un valore di oltre 11 milioni di euro). Per il futuro l’ateneo intende investire ancor più nel rapporto con il territorio. Attraverso il progetto MUSA, finanziato dal Ministero dell’università nell’ambito del Pnrr, trasformerà l’area metropolitana milanese in un ecosistema di innovazione per la rigenerazione urbana.

4. Le università possono diffondere una cultura improntata al rispetto e al contrasto di ogni forma di molestia. Sono importanti percorsi formativi per tutte le componenti. È fondamentale inoltre garantire l’ascolto e l’accoglienza, con iniziative concrete come l’introduzione di sportelli antiviolenza.La nostra università ci sta già lavorando.

Alessandra Petrucci, rettrice dell’università di Firenze.

. Mi sono laureata in Ingegneria civile a Firenze, dove ho iniziato la carriera accademica come ricercatrice, poi professoressa di statistica sociale. Sono stata direttrice di dipartimento,componente del Senato accademico e membro del Cda. Dal 2021 sono alla guida dell’università.

2. Vorrei un ateneo attento e concreto, che metta al centro competenza, coinvolgimento e trasparenza, con lo sguardo alla sostenibilità e allo sviluppo economico e tecnologico. Sogno un’università che attiri e formi capitale umano giovane, internazionale e qualificato.

3. Mi sono impegnata per semplificare le procedure formali. Così riusciamo a ottimizzare l’offerta didattica, l’accesso allo studio e lo sviluppo della ricerca. Reputo importante stabilire un patto generazionale tra pubblico e privato per incoraggiare investimenti di supporto a opportunità formative.

4. Utilizziamo il linguaggio di genere, attiviamo la carriera alias per studenti transgender, abbiamo borse di studio per studentesse Stem, la Consigliera di fiducia e uno sportello che garantisce pari opportunità. Promuoviamo anche gesti semplici, come l’affissione del numero anti violenza sulle porte dei bagni.

Sabina Nuti, rettrice della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

1. Laureata in Scienze Politiche a Pisa, grazie a una borsa di studio ho frequentato l’Mba in Bocconi, che mi ha fatto scoprire la matematica e l’utilizzo dei numeri. Qui ho proseguito le mie ricerche fin quando ho iniziato a collaborare con la Scuola Superiore Sant’Anna, dove ho fondato il laboratorio Management e Sanità e nel 2019 sono diventata rettrice.

2. Una comunità in cui il talento è coltivato e il merito è valorizzato, senza barriere per chi ha un background più debole. Bisogna rendere concreta la mobilità sociale,come stiamo provando a fare con il progetto Me.Mo, acronimo di merito e mobilità sociale.

3. Ho lavorato per migliorare la qualità della formazione e della ricerca di frontiera. Stiamo ampliando gli spazi: grazie all’accordo con il Comune di Pisa, abbiamo acquisito un ex convento che ospiterà circa 70 allievi. Abbiamo attivato un parternariato pubblico e privato per la costruzione di un nuovo polo scientifico che sarà pronto nel 2026.

4. Abbiamo attivato il fondo a sostegno delle giovani ricercatrici, per permettere un rientro precoce dalla maternità.

Antonella Polimeni, rettrice dell’università La Sapienza di Roma. 

1. Sin dall’inizio ho avuto la convinzione che nel mio futuro si dovessero coniugare insegnamento, ricerca e professione medica. È quello per cui mi sono impegnata e che ho realizzato con determinazione e passione, anche grazie al supporto della famiglia. A ciò si aggiungono incarichi come la direzione di Dipartimento, la presidenza della Facoltà di Medicina e Odontoiatria e infine la carica di rettrice.

2. Mi impegno da sempre affinché gli atenei siano uno spazio inclusivo ed accogliente, che risponda alle aspettative di chi la sceglie e sappia formare cittadine e cittadini consapevoli, muniti degli strumenti necessari a incidere nel presente e viverlo da protagonisti.

3. A metà del mio mandato posso dire che tanti impegni presi sono stati raggiunti o sono in fase avanzata di realizzazione. Penso, ad esempio, alla riqualificazione e alla creazione di luoghi per lo studio, all’aumento dei bonus alloggi e delle borse di collaborazione, al rafforzamento degli strumenti per il benessere psico-fisico e per il contrasto alle discriminazioni.

4. Bisogna lavorare con attività formative e orientative. La Sapienza ha attivato un programma di orientamento con centinaia di scuole e ha istituito corsi come quelli in “Gender Studies” e “Politiche e strumenti per la Gender Equality”. Al contempo occorre lavorare per il superamento dei possibili ostacoli alla vita universitaria e al post lauream. Abbiamo il Centro Antiviolenza, il Counselling psicologico, la Consigliera di fiducia e il Comitato unico di garanzia. A ciò si aggiunge il Servizio Placement che supporta la comunità studentesca anche in settori in cui le donne hanno più difficoltà ad emergere.

Paola Inverardi, rettrice del Gran Sasso Science Institute.

1. Laureata a Pisa in Scienze dell’informazione, ho lavorato all’Olivetti finché ho vinto un concorso da ricercatrice al Cnr a Pisa, dove sono rimasta fino al 1994, quando ho preso servizio all’università dell’Aquila come professoressa ordinaria di Informatica. Dal 2022 sono rettrice della Scuola superiore Gran Sasso Science Institute, nata per il rilancio del territorio dopo il terremoto del 2009.

2. Sogno un’università capace di intervenire attivamente nel dibattito sociale imponendo qualità e rigore alla discussione. Così come accaduto durante il Covid in ambito sanitario, dovremmo attivare maggiormente quest’intervento anche per i temi dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, della sostenibilità dei nostri sistemi di sviluppo, dei cambiamenti climatici.

3. Intendo fornire sostegno a ricercatori e ricercatrici per migliorare la competitività nei progetti di ricerca di punta europei, ma anche per conciliare la vita familiare. Stiamo realizzando nuovi edifici e laboratori, migliorando la qualità della vita nell’istituto anche con aree di ristoro/relax.

4. Il Comitato unico di garanzia, la consigliera di fiducia e i servizi di assistenza psicologica ci consentono di monitorare la qualità dell’ambiente di studio.

Mariagrazia Russo, rettrice di Unint, Roma.

1. Laureata in Lingue alla Sapienza di Roma, dove ho conseguito anche il dottorato e il post dottorato, ho insegnato per 15 anni all’università della Tuscia di Viterbo, finché ho vinto il concorso per professore ordinario all’Unint, dove è iniziata la mia carriera sino a diventare rettrice, a settembre 2023. Non è stato un percorso facile, ma sono fiera di non essermi mai arresa.

2. Sogno e lavoro per un’università inclusiva, capace di adeguarsi ai cambiamenti, che coincida con le aspettative degli studenti e permetta a tutti di studiare indipendentemente dalla classe sociale. Vorrei venisse introdotto un buono accademico da spendere in qualsiasi ateneo.

3. Cerco di rafforzare i contatti con altri Paesi attraverso i valori della pace e della cultura. Quotidianamente mettiamo le nostre competenze a disposizione per una cultura dell’inclusione, offriamo corsi gratuiti di lingua italiana a profughi afghani e ucraini.

4. Abbiamo creato una banca dati che raccoglie tesi sulle questioni di genere e istituito il Centro interdisciplinare di ricerca sulle culture di genere.

Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico di Milano.

1. Il mio percorso inizia a Varese, poi ingegneria elettronica al Politecnico di Milano, dottorato negli Stati Uniti e il rientro in Italia per la carriera accademica.Questo per la parte professionale. Credo però che nella vita i percorsi siano tanti e non sempre lineari. Mi riferisco agli insuccessi, agli ostacoli. Lo dico a favore delle giovani donne che hanno ancora tanta strada davanti a sé.Una cosa non accetto: le scorciatoie.

2. L’università che vorrei è quella che vivo al Politecnico: aperta,inclusiva,internazionale. Dove ciò che conta è il talento, la determinazione, l’impegno indipendentemente da chi sei. Ci stiamo lavorando. Non è un sogno, è un progetto. Da ingegnere ho bisogno di sapere che le aspirazioni possano tradursi in qualcosa di concreto.

3. “Non continuo sibi vivit, qui nemini”, Chi non vive per nessuno non vive nemmeno per sé (Seneca). Mi sono prefissata di servire una grande istituzione, di farlo come modello per tante ragazze, che se vogliono possono fare la differenza. Il mio mandato ha un grande obiettivo, quello della sostenibilità, che significa affrontare le grandi sfide tecnologiche in modo responsabile, e quello della riduzione delle disuguaglianze.Nel caso del genere, il traguardo che mi sono data da qui al 2025, a metà mandato, è portare al 40 per cento la rappresentanza femminile tra i ricercatori in ingresso e al 30 i corsi con studenti in equilibrio di genere,cioè per metà ragazzi e per metà ragazze.

4. Le università possono dare strumenti come le borse di studio. Lo abbiamo fatto con Girls@polimi per incentivare la presenza dove le donne sono meno del 15 per cento (ingegneria meccanica,informatica) e spesso non osano. Possono, come già fanno, educare le loro comunità al rispetto. Possono dare servizi di supporto,dal Welfare all’ascolto psicologico, dalle iniziative di mentoring a quelle imprenditoriali.

Giovanna Spatari, rettrice dell’università di Messina. 

1. Il mio percorso è iniziato in quest’università, dove mi sono laureata, ho conseguito la specializzazione in Ematologia e in Medicina del Lavoro e ho intrapreso la carriera accademica, affiancando l’attività di ricerca soprattutto nell’ambito della Società Italiana di Medicina del Lavoro, di cui sono presidente.

2. Sogno un’università incentrata sui bisogni degli studenti e aperta al territorio. Mi sono insediata da soli 4 mesi, ma vorrei promuovere interazioni multiculturali per consentire ai giovani di abbattere le barriere che si frappongono alle loro aspirazioni.

3. Stiamo ampliando l’offerta formativa per garantire una formazione che punti all’eccellenza e sia a km 0, così da non dover far gravare sulle famiglie i costi, talvolta eccessivi, di un percorso di studi fuori sede. Mi impegnerò anche per l’efficientamento delle infrastrutture telematiche e il potenziamento digitale delle attività a servizio di docenti e studenti del nostro ateneo.

4. Nella sede centrale dell’ateneo abbiamo creato la Stanza Rosa; le neomamme possono allattare e conciliare i tempi di studio o lavoro con quelli della vita familiare. Inoltre abbiamo un fondo di supporto per la prosecuzione dell’attività di ricerca durante la maternità.

Manuela Ceretta, rettrice dell’università della Val d’Aosta.

1. Mi sono laureata in Filosofia alla Statale di Milano, poi ho fatto il dottorato a Torino, dove sono diventata ricercatrice e poi professoressa. Ho sempre ritenuto che, al fianco della attività di ricerca e didattica, fosse importante contribuire alla gestione dell’istituzione accademica. Da poco meno di un anno sono rettrice dell’università della Valle d’Aosta.

2. Sogno un’università seria, curiosa e coraggiosa. Capace di testimoniare col proprio operato il valore dell’impegno e l’importanza dei saperi scientifici.Aperta alle trasformazioni scientifiche, storiografiche, sociali e tecnologiche, consapevole della propria autorevolezza.

3. Miro a rinnovare l’offerta didattica attivando nuovi corsi di studi su intelligenza artificiale e innovazione sociale, cambiamento climatico e rischi geologici. Per gli studenti – atleti, avvieremo il programma Dual Career che permette di conciliare attività agonistica e carriera universitaria.

4. Dal 2023, il nostro ateneo applica il Codice di condotta per la tutela della dignità e la prevenzione di discriminazioni e molestie. Abbiamo attivato un servizio di counseling psicologico e a breve prenderà servizio la Consigliera di fiducia.

Daniela Mapelli, rettrice dell’università di Padova.

1. Sono nata a Lecco, Padova mi ha accolto a metà degli anni Ottanta; sono stata attratta da quella psicologia sperimentale che vedeva la città del Santo come avanguardia. Insegno Neuropsicologia e Riabilitazione Neuropsicologica. Sono la prima rettrice donna in 800 anni di storia.

2. Inclusiva, equa, rispettosa dell’ambiente, in una parola: giusta.

3. Stiamo aumentando il numero di corsi di studio internazionali, arrivati a 46, per attirare ancor più studenti dall’estero, ormai già il 10 per cento del totale. Si sta avviando un importante progetto sull’apprendimento permanente, con l’erogazione di microcredenziali per professionisti. Incremento dei laureati e degli adulti coinvolti nell’apprendimento permanente sono le due grandi sfide che ci pone l’Europa. Allo stesso tempo siamo sempre più competitivi, grazie ad azioni mirate nell’ambito della ricerca, già di altissimo livello.

4. Stiamo migliorando il gap di donne nelle posizioni apicali grazie a progetti ad hoc, così come stiamo aumentando le studentesse ai corsi Stem. Siamo attentissimi al benessere fisico e psicologico: nel 2023 sono state organizzate 70 iniziative dedicate a benessere ed esercizio fisico, alcune aperte anche alla cittadinanza. Abbiamo tre organi di tutela (Comitato unico di garanzia, consigliera di fiducia, difensora civica) e lo strumento del whistleblowing, che garantisce l’anonimato delle segnalazioni. E,nel 2023 il Centro di ateneo dedicato ai servizi psicologici ha erogato più di 12.800 prestazioni, gratuite per gli studenti, a costo minimo per i dipendenti.

Laura Ramaciotti, rettrice dell’università di Ferrara.

1. Dopo la laurea in Economia a Bologna, ho incontrato quello che poi è diventato il mio “maestro”, il prof. Patrizio Bianchi. Ai tempi stava lavorando per dar vita al Dipartimento di Economia e management di Ferrara, che ho avuto l’onore di dirigere dal 2018 fino al 2021, anno dell’elezione a rettrice. In questi 20 anni, ho partecipato allo sviluppo di progetti che ora rappresentano realtà consolidate.

2. Sogno un’università che rafforzi le politiche per la valorizzazione della ricerca pubblica e della Terza Missione, ovvero delle attività di economia per la scienza e delle dinamiche di OpenScience,all’insegna del dialogo,del rispetto reciproco e del riconoscimento delle competenze.

3. Intendiamo ampliare la rete di collaborazioni con istituzioni, organizzazioni e imprese. Stiamo migliorando la vivibilità degli spazi e la semplificazione e digitalizzazione dei servizi. Miriamo a ottimizzare le condizioni in cui operano i ricercatori, favorendo l’interdisciplinarità e il dialogo tra le culture.

4. Chiunque studi o lavori da noi e ritenga di avere subito atti lesivi può rivolgersi alla Consigliera di fiducia. Abbiamo, inoltre, attivato il servizio di counseling psicologico “Da soli mai”, per favorire l’equilibrio psicofisico.

https://www.iodonna.it/attualita/costume-e-societa/2024/03/07/rettrici-atenei-universita-italia-dodici-magnifiche/?fbclid=IwAR1TwRP05x5VgJnwTf-y-ElaRJE6WaB_2Skhx02RlYmlt8r7bDyVY36kskw