venerdì 4 settembre 2015

Anche le donne cattoliche abortiscono di Chiara Lalli, bioeticista

Sono sempre stata molto affascinata dalla confessione. Da quell’idea di perdono onnicomprensivo e soprattutto anticipatorio: sto per fare questa cosa non proprio morale o dichiaratamente ripugnante, poi tanto chiedo perdono. Per magari ricominciare il giorno dopo, in un eterno ripetere di abusi e peccati mondati.
Alcuni prendono il perdono molto sul serio. E a volte è davvero un nobile gesto, è forse anche qualcosa di saggio, soprattutto quando siamo noi a dover perdonare. Mantenere risentimenti è faticoso e inutile.
Ieri papa Bergoglio ha detto che in occasione dell’imminente giubileo le donne che hanno abortito potranno essere perdonate. Non è una novità perché già accadeva in alcuni periodi dell’anno. Tuttavia ci sono alcune novità tecniche: ogni sacerdote può perdonare.
Una fetta di torta
Ma che cosa vuol dire? Che si devono pentire, d’accordo. Cioè che non lo rifarebbero mai? E come lo si garantisce? E se poi lo rifanno? È facile, poi, dirlo ora per ieri. Il revisionismo delle circostanze passate che ci hanno portato a fare o a non fare qualcosa è una tentazione irresistibile. Non ci capacitiamo di non aver resistito a quella fetta di torta. Non ci spieghiamo come mai non siamo andate in palestra. Pensare che era pure lunedì!
Molti dei presunti ripensamenti rispetto all’aborto non sono che effetti di un ricordo parziale. Moltissimi sono semplicemente falsi: la maggior parte delle donne che ha scelto di abortire non se ne pente e non soffre necessariamente per tutta la vita. Molte donne abortiscono e stanno bene.
Il conflitto tra essere cattolici e compiere peccati rimane intatto e nessun perdono potrà scalfirlo
Manco a dirlo, il giudizio papale nei confronti dell’aborto è immutato: “Il dramma dell’aborto è vissuto da alcuni con una consapevolezza superficiale, quasi non rendendosi conto del gravissimo male che un simile atto comporta”. D’altra parte se non fosse un peccato terribile, una “sconfitta” e “un dramma esistenziale e morale” non ci vorrebbe il perdono.
Le donne che hanno abortito – anche questo è piuttosto ovvio e prevedibile – hanno subito condizionamenti. Ovvio e prevedibile appunto, e purtroppo condiviso da molti che non sono o non si considerano cattolici rispettosi delle gerarchie. L’aborto come una lettera scarlatta. Chi ammette questa visione semplicistica secondo cui ogni aborto è un dramma e un fallimento morale, ammetterà anche un rimedio altrettanto semplicistico. Hai abortito? Ti perdono.
L’aspetto un po’ più complicato riguarda l’assoluzione dal peccato di aborto verso “quanti lo hanno procurato”. Vale solo per i medici che hanno smesso di eseguire aborti? O pure per loro si può aprire una stagione di peccati e assoluzioni, così possiamo metterci tutti l’anima in pace?
Il conflitto tra essere cattolici e compiere peccati rimane intatto e nessun perdono potrà scalfirlo. A meno che non si ammetta di poter essere cattolici anche senza seguire la gerarchia. Fino a quando si rimane cattolici? È ammesso un qualche spazio di autonomia e di indifferenza ai comandamenti?
Molte donne cattoliche abortiscono e usano anticoncezionali ma continuano a considerarsi cattoliche
Ciò che è innegabile è che le donne cattoliche, rimanendo in tema, abortiscono e usano anticoncezionali, hanno rapporti fuori dal matrimonio e non considerano il sesso come un mero strumento riproduttivo. Per alcune di loro, forse, il perdono sarà un regalo gradito, ma può pure essere che a molte altre non importerà molto di questo gesto un po’ ipocrita e consolatorio. Perché continuano a dirsi cattoliche, ma hanno già scelto di violare profondamente quelle condizioni necessarie per esserlo davvero.
Oppure quel conflitto è considerato tale solo dagli osservatori esterni? A leggere la storia di Kim Davis sembrerebbe di sì. Davis è una funzionaria di una contea del Kentucky e tra i suoi doveri c’è quello di rilasciare licenze matrimoniali. Davis rifiuta di concedere licenze a persone dello stesso sesso, perché i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono immorali e contrari alla Bibbia. Essere costretta a farlo violerebbe la sua libertà.
E già qui si è tentati di consigliarle di cambiare lavoro, visto che non è “l’autorità di dio” che le paga lo stipendio. Ma c’è di più: Davis ha divorziato tre volte e si è sposata quattro volte.
Come ha commentato Dan Savage, i principi ferrei di Davis sembrano valere solo quando le fanno comodo. Manco a dirlo, Davis ha chiesto perdono a Gesù. E tutti i peccati sono stati lavati via.



giovedì 3 settembre 2015

Aborto, il Papa fa il suo mestiere. Sta al Parlamento difendere la salute delle donne di Nadia Somma |

Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio, l’ho pensato da non cattolica leggendo l’annuncio di Jorge Maria Bergoglio: in occasione del Giubileo la Chiesa perdonerà le donne che si saranno pentite di aver abortito. Bergoglio fa il suo mestiere di Papa e temo non rientri tra i suoi compiti occuparsi di autodeterminazione delle donne. Se ogni cittadino e ogni cittadina avesse ben chiaro dentro di sé ciò che appartiene allo spazio religioso e privato e ciò che deve essere invece della sfera pubblica e delle leggi vivremmo in una società maggiormente rispettosa dei diritti di tutti e in particolare di quelli delle donne. Ma nel nostro Paese c’è una scarsa distinzione tra quegli spazi.
In un momento di riaffermazione dell’integralismo cattolico con tanto di sentinelle in piedi, deliranti ossessioni contro il “mostro” del gender e feti portati in processioni cariche di odio per le donne assassine (con la partecipazione di sindaci in fascia tricolore) mi pare siano da cogliere con interesse le parole di misericordia per le donne che hanno abortito se non altro perché rinfrescano la memoria ai cattolici fanatici. Il Cristianesimo nacque come religione del perdono e i cattolici e le cattoliche che scagliano pietre di odio contro le donne che hanno abortito non sono molto in sintonia con i principi della fede che dicono di professare. Non possiamo pretendere che la Chiesa cessi di esprimersi contro l’aborto nella speranza di poter esercitare finalmente il diritto laico alla salute riproduttiva e alla scelta delle donne, né tantomeno pensare che i diritti civili (riconoscimento delle coppie di fatto e matrimonio tra omosessuali) siano ostacolati solo a causa del veto del Vaticano che certo svolge bene il suo lavoro anche perché trova scarse resistenze sul suo cammino.
Qualche giorno fa è stata diffusa la notizia che all’Ospedale Bassini di Milano è stato sospeso il servizio di interruzione volontaria della gravidanza. Si sta avverando quanto i ginecologi della Laiga denunciano da tempo, in Italia da qui a qualche anno la legge 194 sarà resa completamente inefficace a causa dell’obiezione di coscienza. Il sabotaggio della legge non eliminerà l’aborto come fenomeno bensì lo ricaccerà nella clandestinità da dove, la società civile lo aveva sottratt0 trentanni fa. Le donne più povere saranno quelle maggiormente penalizzate perché si sottoporranno ad aborti eseguiti senza l’assistenza sanitaria adeguata mentre le donne abbienti potranno abortire in maggior sicurezza pagando medici o recandosi all’estero.
La società laica che accoglie i diritti delle donne sta perdendo la partita contro l’integralismo cattolico e il diritto all’autodeterminazione delle donne sta lasciando lo spazio ad antiche prassi di controllo sul corpo femminile. Ma chi è rimasto in campo a disputare la partita? La grande beffa è che una delle conquiste più importanti delle donne per la loro salute riproduttiva sta capitolando sotto i colpi dell’obiezione di coscienza con un Parlamento che non ha mai avuto una maggioranza di donne così alta nella storia della Repubblica. La ministra Lorenzin inforcando un paio di occhiali rosa continua a sostenere che i rapporti annuali sull’applicazione della legge 194 rivelano che va tutto bene e grazie al nuovo che avanza nel governo Renzi si è ispirata a Mussolini e a Ottaviano Augusto varando un progetto per la fertilità degli italiani.
Ora vogliamo prendere atto che in Italia neppure il movimento delle donne riesce a catalizzare una protesta adeguata per la posta che c’è in gioco? Forse dobbiamo davvero cominciare ad affrontare il tabù laico sull’aborto come scriveva Loredana Lipperini poco più di un anno fa dopo il tradimento dei sei eurodeputati Pd che bocciarono la risoluzione Estrela rivelandoci che in Italia non abbiamo partiti laici e purtroppo la società laica è incredibilmente inerte.

mercoledì 2 settembre 2015

AISHA, FATIMA E LE ALTRE…DI DANIELA DOMENICI

Come Sheherazade vi voglio narrare una fiaba che mi è accaduta in varie puntate ma che proverò a riassumervi tutta in quest’unico racconto con cui spero di trasmettervi anche le tante emozioni nuove e belle che ho provato…
…una fiaba dei tempi moderni in un luogo che di fiabesco non ha nulla: le carrozze di un treno, per l’esattezza quello che ogni giorno parte da Firenze alle 7.53 e arriva a Viareggio alle 9.30…
…ci sono salita più di una volta nei mesi scorsi per andare a trovare i miei genitori in vacanza là; appena seduta mi sono sempre precipitata a tirar fuori il libro del momento da leggere e i miei amati schemi in bianco di enigmistica…
…nella prima puntata di questa storia è salito nel mio scompartimento un gruppo di donne, che poi ho saputo essere tutte senegalesi, nelle due stazioni prima di quella di Pisa, dirette alla spiaggia che da Viareggio arriva fino a Forte dei Marmi a vendere le loro mercanzie e le loro abilità a fare le creazioni più straordinarie sui capelli (ma questo l’ho scoperto nelle puntate seguenti)…
…quella prima volta vengo “circondata” da queste donne, splendidamente chiassose e colorate, che mi attraggono a tal punto da aver voglia di comunicare con loro ma non sapendo da dove iniziare attacco bottone con quella seduta di fronte a me che sta controllando le cose del suo sacco: mi piacciono i sandaletti di plastica che ha in mano ma sono di misura da bambini e le chiedo se capisce l’italiano e se ne ha, per caso, uguali ma della mia misura (purtroppo no altrimenti me li sarei regalati)…
…da questo primo scambio di parole nasce una conversazione che coinvolge tutto lo scompartimento perché un’altra delle donne senegalesi, che diventerà la mia interprete (e la mia amica) perché parla perfettamente, oltre all’italiano, l’inglese e il francese, tradurrà per tutti e tutte quello che io dico e le loro risposte a me…
…ci salutiamo con calore alla fermata di Viareggio quando ci dobbiamo separare ripromettendoci di ritrovarci in una delle mattine seguenti: stesso treno, stessa ora, stesso scompartimento…
…la volta dopo che mi capita di tornare a Viareggio alla fermata in cui sapevo che sarebbe salita la mia nuova amica con le sue colleghe mi affaccio per controllare che ci sia, la vedo salire in un altro scompartimento e mi ci dirigo con la voglia di continuare la nostra conversazione precedente…
…Aisha, così si chiama, sgrana gli occhi quando mi vede arrivare e mi chiede incredula: “Sei venuta di proposito qui? Hai lasciato il tuo posto per noi?” e io: ”certo” e mi siedo in mezzo a loro; era l’unica non senegalese in tutto lo scompartimento e mi ci sentivo così a mio agio…
…Aisha mi parla della sua famiglia, dei suoi bimbi, della vita che fa lei e le sue colleghe, della sua terra, della sua religione sempre facendo partecipare anche le altre amiche di cui lei traduce ogni frase se non sanno parlare bene in italiano…
…la terza volta che salgo su quel treno ripeto il gesto della volta precedente e mi siedo di fronte a una mamma che sta allattando il suo bebè, tutto occhi, morbidoso, di 5 mesi che mi guarda mentre ciuccia e mi tiene la manina…appena finisce le chiedo se me lo dà in braccio un pochino, lei accetta e lui rimane con me fino a Viareggio sempre sorridendo come se ci conoscessimo da sempre…poco prima di scendere un’altra donna senegalese mi si avvicina e mi dice: “questo bambino non sta con nessuna di noi, solo con la sua mamma, con le altre piange, con te gioca e sorride, devi avere un cuore buono, i bambini percepiscono questo anche senza parlare la stessa lingua…” e io mi sono commossa e ho ringraziato…
…nel frattempo Aisha e le sue amiche mi hanno spiegato tante altre cose della loro civiltà, delle loro usanze, della loro fede islamica, della loro lingua e io mi arricchisco sempre di più…
…oggi, purtroppo, è stata l’ultima volta che ho visto le mie amiche senegalesi sul treno perché non andrò più a Viareggio fino all’estate prossima; loro, invece, continueranno fino al 15 settembre, me l’hanno detto oggi Aisha e Fatima, una nuova amica con cui abbiamo parlato di tanti argomenti importanti e seri come, per esempio, menopausa, aborto, gravidanza, malocchio, vita dopo la morte; Aisha oggi aveva tra le mani un rosario islamico che mi ha colpito e sul quale le ho chiesto tante informazioni a cui lei ha risposto con la sua solita disponibilità e sempre sorridente…
…anche oggi un episodio simile con un altro bebè un po’ più grande, un anno, stessi occhioni stupendi e stesso allattamento, appena finito stessa richiesta che viene esaudita e anche questa volta il bebè sta tranquillamente sulle mie gambe giocando con tutto senza piangere fino a Pisa quando la sua mamma deve scendere e mi dice delle parole che Aisha poi mi traduce: “ha detto che hai un animo gentile, non ti conosceva prima ma si è fidata subito, ti ringrazia…”, di nuovo commozione…
Una delle cose che più mi ha divertito in questi momenti con le mie amiche senegalesi sul treno è stato il vedere le facce di alcuni passeggeri “bianchi”, soprattutto donne, che mi guardavano come se fossi fuori di testa non riuscendo a percepire minimamente la mia gioia nello stare in mezzo a loro, il sentirmi così a mio agio, accolta, alcune di quelle signore hanno addirittura cambiato scompartimento mentre invece intorno a me si sedevano, anche sui braccioli, altre ragazze e ragazzi senegalesi che intervenivano nelle nostre conversazioni con riflessioni e sorrisi…
Non so se sia riuscita a comunicarvi almeno una minima parte delle emozioni di questa fiaba che ho vissuto, ho provato a essere una Sheherazade africana per voi…
Mi rimangono impresse le prime parole che Aisha mi ha detto oggi spontaneamente appena mi ha visto entrare nel suo scompartimento (me le ha dette in inglese per non farle capire alle sue amiche): “I missed you…” e mi ha sorriso…


Papa Francesco, ho abortito e non mi pento di Eretica

Ho letto che Papa Francesco parla di amnistia e perdono per le donne che hanno abortito e si mostrano pentite. Tutte le altre finiranno all’inferno, immagino. E sapete che c’è? Che all’inferno si sta bene, tra peccatori e peccatrici che non si dolgono dei “peccati”, così definiti da chi non sposta la lancetta dell’orologio di un millimetro giacché è rimasto fermo a secoli fa.
Per esempio, vorrei raccontarvi di un aborto senza pentimento. Scelto con criterio, senza esitazione e senza strascichi. Non è stato per nulla semplice, e il trauma che ti porti dietro è dovuto a quel che in realtà ti fanno patire per le scarse cure in ospedale, perché devi aspettare un tempo infinito affinché arrivi il tuo turno, e quando succede sono le varie figure sanitarie di passaggio che ti fanno sentire una “cosa”.
E’ difficile trovare chi ti ascolti senza tentare di sovradeterminarti. C’è chi ti ricorda che l’abbraccio madre figlio può riservare grandi emozioni. C’è chi decide al posto tuo stabilendo che da quel momento in poi vivrai tutta la vita con dolore. Peccato che l’unico dolore l’ho provato prima e dopo l’aborto. Un dolore fisico, terribile, per un inizio di gravidanza che non mi ha lasciato tregua e per un post aborto in cui sembrava che qualcuno prendesse a martellate il mio utero.
So a cosa mi espongo raccontando questa mia esperienza, perché conosco la crudeltà e la violenza verbale, e talvolta non solo, di chi si dice pro/life e poi condannerebbe volentieri al rogo una come me. Ma devo dirlo, per le donne che sono un po’ meno forti. Per le ragazze che vengono definite assassine perché pretendono di usare contraccettivi, di trovare una pillola del giorno dopo quando la cercano e si aspettano di trovare la pillola abortiva, la ru486, senza trovare nessuno a far terrorismo psicologico.
L’aborto è un’esperienza soggettiva e io non mi permetto di definire in termini universali quel che ho vissuto io. E sono vicina, con tutto il cuore, alle donne che invece volevano un figlio e l’hanno perduto, o non riescono ad averlo nonostante il fatto che si sottopongano a terapie dolorose. Vi sono vicina ma esistono anche quelle come me.
Ho abortito e non mi pento, ancora oggi, a distanza di anni, perché la mia è stata una scelta ponderata, e non dirò null’altro che possa essere confuso con una giustificazione. Non devo giustificarmi di nulla perché era mio diritto scegliere liberamente e ho usato quella libertà per poter decidere, con il mio compagno, valutando i pro e i contro, di abortire.
Non c’era ancora l’ru486 e mi è toccato un aborto chirurgico, invasivo, arrivato dopo due mesi dal momento in cui ho messo piede in un consultorio. Due mesi di vomito, dolore, con la sensazione di essere stata espropriata del mio corpo. Sono arrivata in ospedale assieme a molte altre, tutte accompagnate da qualcuno, il che chiarisce il fatto che le donne non abortiscono quasi mai senza informare i partner, gli altri figli, gli affetti.
Stavamo in uno stanzone, ciascuna su una diversa barella, per essere anestetizzate. Nel dormiveglia sento uno stronzo che dice, di una ragazza molto bella che stava nella barella accanto alla mia, che chissà con quanti era stata. L’aveva data a tutti e poi arriva in ospedale a riparare il danno, la zoccola. Distese, una accanto all’altra, come vacche da allevamento. Poi fu il mio turno. Ero in dormiveglia. La musica in sottofondo, medici e infermiere che parlottavano, e mi ritrovo in una stanza d’ospedale con tutta la mia famiglia ad aspettare il mio risveglio.
Mi@ figli@ mi chiede se è stato doloroso. Non lo so ancora, ho risposto, e avevo ragione. Le donne devono partorire o abortire con molto dolore. Torno a casa dopo un paio d’ore, tramortita, con la prescrizione di un farmaco che avrei dovuto prendere per un po’ di tempo. Quel tempo è stato terribile. Un dolore insopportabile. Molto più che le doglie di un parto. L’utero urlava all’infinito dall’interno.
E già vedo gli antiabortisti a dire “ben ti sta, assassina!”. Perché nella loro fanatica visione del mondo le donne non sono neppure soggetti aventi diritto ad una “vita”, a parte la parentesi riproduttiva. Invece non va bene il fatto che si debba soffrire così tanto. Dal punto di vista fisico e da quello psicologico.
Per me non c’è stato nessun trauma. Non sono diventata come una di quelle folli alla ricerca del bimbo perduto che cantano ninne nanne da brividi tenendo in braccio i figli delle altre. Non ho provato nessun rimpianto, mai. Nulla di quel che le no/choice vanno blaterando in giro per terrorizzare le ragazze che vogliono abortire.
Non mi pento di nulla. Dovrebbero pentirsi quelli che hanno fatto battute volgari e sessiste, e chissà quanti, ciascuno in un ospedale diverso. Dovrebbero pentirsi quelli che trattano le donne che abortiscono come carne da macello. Fuori una, avanti l’altra. Dovrebbe pentirsi chi non ha trovato un modo meno doloroso di curare il post aborto. Dovrebbero pentirsi le no/choice che nel reparto maternità, dove le donne che abortiscono vengono talvolta piazzate accanto a quelle che hanno partorito, fanno di tutto per farti sentire in colpa.
Un pentimento me lo aspetto dai troppi obiettori di coscienza. Da chi rende inaccessibile la contraccezione d’emergenza. Da chi stabilisce che il tuo corpo, il mio corpo, non è poi così tuo o mio.
Quel che infine vorrei dire è
“grazie“, alle donne che sono finite in galera per ottenere la garanzia di un diritto del quale io ho fruito.
Grazie alle donne che hanno combattuto e che continuano a combattere per quelle che verranno. Grazie alle persone tutte che in anni terribili, quando l’aborto era da noi ancora illegale, si prestavano a fare abortire le donne con l’assistenza data da medici che talvolta finivano in galera.
Grazie a chi svela che il business dell’aborto clandestino ha arricchito tanti ipocriti medici, obiettori in apparenza e macellai in privato.
Grazie a chi ricorda che l’aborto clandestino è stato causa di tante vite spezzate. Parlo delle donne morte dopo un aborto fatto di prezzemolo, ferri da calza, persone che usavano mezzi non sterilizzati e tutti quelli che non hanno mai espresso un’ombra di pentimento per le donne, in quel caso, uccise per omissione di soccorso dettata dallo Stato.
Allora a Papa Francesco vorrei dire, senza che in me vi sia interesse a legittimare il giudizio morale espresso dalla chiesa cattolica, giacché non abbiamo bisogno del perdono di nessuno né di esprimere pentimento per abbracciare una redenzione.
Vorrei solo chiedere se il Papa ha mai pensato alle donne morte di aborto clandestino. Io le ricordo e sono felice di non essere stata una di loro. Ma quel che hanno patito è orrendo e quel che ancora oggi gli antiabortisti vorrebbero far patire alle donne è disumano.

Allora chi deve chiedere “perdono” a chi?

martedì 1 settembre 2015

La rappresentanza femminile nei parlamenti di Cristina Carpinelli

La media mondiale delle elette è del 22%, passando dallo zero di Qatar, Yemen e Tonga fino al 63% del Ruanda. La graduatoria mondiale di “Women in national parliaments”
 L’Unione Interparlamentare (UIP - organizzazione internazionale che riunisce i rappresentanti dei parlamenti del mondo eletti democraticamente) ha di recente compilato una classifica dei paesi che hanno nei loro parlamenti (Camere basse) il maggior numero di donne. La classifica documenta la presenza femminile anche nei seggi delle Camere alte; tuttavia, questo dato non consente una comparazione completa, poiché alcuni paesi non hanno le Camere alte. I dati nelle tabelle che seguono sono stati elaborati dall’Unione interparlamentare sulla base delle informazioni fornite dai vari parlamenti nazionali al 1° giugno 2015. Per chi desidera approfondire ulteriormente la materia, si rimanda direttamente al sito “Women in national parliaments” (http://www.ipu.org/wmn-e/arc/classif010615.htm)
Come si può vedere dai dati delle tabelle riportate, la media mondiale della presenza delle donne nella combinazione delle due Camere del parlamento (alta e bassa) corrisponde al 22,2%, mentre quella relativa alle Camere basse - al 22,5% e quella relativa alle Camere alte (senato) - al 20,6%.
Per quanto riguarda, invece, le medie mondiali, ripartite su base regionale, grazie ai progressi fatti da Italia, Austria e Malta, l’Europa (paesi che fanno parte dell’OCSE - esclusi quelli del Nord Europa) registra una presenza femminile pari al 24,2% (Camera bassa). 
Tuttavia, è il mondo arabo che registra i maggiori progressi con la nomina, per la prima volta nella storia, di 30 donne nel Consiglio consultivo dell’Arabia Saudita (a dicembre di quest’anno, le donne potranno, inoltre, sempre per la prima volta nella storia, votare per le municipali, dove avranno anche la possibilità di candidarsi senza il permesso del marito/padre/fratello di turno), e l’elezione di 18 donne nel parlamento della Giordania. La media regionale della presenza femminile negli Stati Arabi corrisponde al 19% (Camera bassa). 
In Africa (subsahariana), la presenza femminile corrisponde al 22,2% (Camera bassa), in Asia – al 19%e nei Paesi del Pacifico – al 13,1%. 
La situazione più progressista riguarda in generale i paesi del Nord Europa (41,3%), in cui un avanzato sistema culturale e di welfare contribuisce a colmare il divario di genere.
Da notare che i paesi con una percentuale di donne pari a zero, sono gli Stati Federati di Micronesia (in Oceania), Palau e la Repubblica di Vanuatu (entrambi nell’Oceano Pacifico), il Qatar e lo Yemen (in Medio Oriente) e il Tonga (Polinesia). 
Gli Stati Uniti si collocano, nella “world classification” (140 paesi mappati - in ordine decrescente di % di donne), al 71mo posto (19,4%), la Russia al 95mo (13,6%) e l’Italia al 32mo, con il 31%. Sotto l’Italia, si trovano Portogallo, Svizzera, Francia, Australia, Canada e Regno Unito, tra gli altri. 
Sorprendentemente, il paese che si situa al primo posto della classifica è il Ruanda con una presenza femminile alla Camera bassa che supera il 63%. Dopo il genocidio del 1994, le donne hanno cominciato a esercitare un forte ruolo su più fronti, incluso quello della politica. Il presidente Paul Kagame ha favorito il processo di partecipazione delle donne alla crescita economica e politica del paese. Con le elezioni politiche del settembre 2013, la presenza femminile nei seggi della Camera bassa è stata del 63,8%.
Anche se le donne hanno una maggiore rappresentanza al Parlamento europeo in confronto ai parlamenti nazionali della gran parte dei singoli Stati, la percentuale è ancora sensibilmente bassa (35,3%). Si riafferma con urgenza un tema sempre di attualità e mai risolto, in Europa come in Italia. La presenza delle donne in politica. La parità tra uomini e donne è un obiettivo ancora piuttosto lontano, anche se a ogni tornata elettorale si registrano dei progressi significativi, fin dalla prima legislatura (1979-1984) quando le donne eurodeputate erano soltanto il 16%. 
Nonostante l’uguaglianza di genere sia considerata in Europa un valore fondamentale e un requisito indispensabile per una reale democrazia, le donne sono ancora poco presenti nei processi politici decisionali. In molti paesi, persiste un effettivo squilibrio di genere nei parlamenti e nei governi. Tra i fattori che influenzano la presenza di donne in parlamento, bisogna tenere presente sia il sistema elettorale che l’uso delle quote. Tutti i paesi europei che hanno raggiunto una percentuale femminile del 30% adottano, in genere, un sistema di elezione proporzionale a liste bloccate. 
In alcuni paesi del Mondo è evidente come vi sia stato l’impegno a bilanciare le rappresentanze di genere nelle istituzioni politiche con l’uso delle quote. Alcuni Stati come il Marocco, la Giordania e l’Iraq hanno introdotto un sistema di quote “rosa” nelle elezioni parlamentari. In Marocco, la prima donna fu eletta al parlamento solo nel 1993, nella primavera del 2002 il numero era salito a 35 grazie all’introduzione delle quote. Oggi siedono in parlamento (Camera bassa) 67 donne (il 17% dei deputati). Le elezioni parlamentari giordane del 2007 hanno visto la candidatura di 199 donne; oltre il triplo del 2003, quando si candidarono solo 54 donne, incoraggiate dalla quota minima di 6 seggi voluta dal re. Oggi, in Giordania, ci sono 18 donne alla Camera bassa (12%) e 8 al Senato (10,7%). In Iraq sono state elette in parlamento 87 donne (il 26,5% dei deputati). Ci sono, tuttavia, delle eccezioni. Ad esempio, nel Nord Europa, precisamente in Finlandia e Danimarca, che hanno percentuali alte di rappresentanza femminile, non sono presenti meccanismi interni ai partiti per la presentazione di liste paritarie o quote stabilite per legge. In questi casi, fattori come quello “culturale” o politiche di welfare a favore di donne e famiglie sono determinanti nel favorire la presenza femminile in politica.
In conclusione, le donne sono ancora chiaramente sottorappresentate nella sfera politica sia a livello nazionale, europeo che mondiale. D’altro canto, è giusto sottolineare i cambiamenti positivi che si sono verificati nel corso degli anni come, ad esempio, negli organismi politici istituzionali dell’UE -grazie soprattutto al contributo delle donne del Nord Europa: Finlandia, Svezia ed Estonia. Quest’ultimo paese mostra una perfetta parità di rappresentanza di donne e uomini (50%), frutto di una scelta politica perseguita da anni. Non così nel Riigikogu - parlamento nazionale estone - dove, al contrario, le donne sono considerevolmente sottorappresentate: 23,8%. Anche a livello mondiale, il genere femminile ricopre sempre più spesso incarichi di primo piano nel campo della politica internazionale. In Ruanda e Bolivia, le donne in parlamento superano addirittura gli uomini (rispettivamente 63,8% e 53,1%). Seguono Cuba (48,9%), Seychelles (43,8%) e Svezia (43,6). In media, la percentuale di donne presenti nei parlamenti di tutto il mondo è pari al 22%. 

lunedì 31 agosto 2015

Le politiche educative attente al genere sono un’arma per combattere le disuguaglianze di Francesca Brezzi* e Laura Moschini**

Educazione di genere? Cosa è? E perché tante polemiche? Saremmo tentate di rispondere: lo chiede l’Europa, e non sarebbe solo una battuta o una risposta evasiva perché con questo termine recepiamo le indicazioni che provengono dall’Unione europea che considera la Gender Equality, vale a dire una partecipazione equa e non discriminatoria di ognuno/a alla vita familiare e sociale, il presupposto fondamentale per la cittadinanza democratica.
Conseguentemente, educare in ottica di genere secondo l’Unione europea vuol dire utilizzare una categoria d’interpretazione che consente di comprendere come l’organizzazione sociale delle relazioni tra i sessi abbia stabilito le attività più adatte a uomini e donne in base alla loro “natura” dando vita a ruoli e spesso a gerarchie sessuali all’interno della famiglia e della società. Gli studi di genere permettono quindi di scoprire l’origine sociale, culturale e non biologica/naturale dei ruoli sessuali caratteristici del sistema patriarcale, che assegna agli uomini l’ambito pubblico e alle donne la sfera del privato con tutte le attività connesse. I rapporti di potere tra i sessi si sono codificati in norme e leggi in base alle quali, fino a tempi molto recenti, alle donne sono stati negati i diritti che caratterizzano la cittadinanza. Norme che è molto difficile scardinare anche ora che la parità formale dei diritti è stata raggiunta perché continuano ad influenzare la nostra cultura attraverso modelli e stereotipi che si trasmettono soprattutto attraverso l’educazione. Pregiudizi che generano tuttora disuguaglianze sociali ed economiche alle quali gli organismi internazionali cercano di porre rimedio anche attraverso politiche educative attente al genere.
Per quanto riguarda poi l’espressione genere/gender, oggi oggetto di forti polemiche, dai documenti ufficiali di Onu, Ue, Eige (European Institute for Gender Equality) e da ultimo dalla Convenzione di Istanbul emerge che «con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività, attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini»; pertanto laddove “sesso” indica la differenza naturale - secondo alcune scuole filosofiche definibile anche ‘ontologica'- gender fa riferimento alla differenza di ruoli sociali, politici, economici e familiari.
L’ottica di genere come metodologia d'indagine e analisi dell'esistente pertanto non comporta “nessun rischio” se non quello di stimolare il pensiero critico verso una comprensione più libera perché basata sulla conoscenza (massima tra le virtù fin dall’antichità e oggi obiettivo Ue) e non sul pregiudizio. Il genere non interviene sugli aspetti biologici (gender/transgender) e non facilita fenomeni di omosessualità, trans-sessualità o omogenitorialità; è quindi infondato sostenere che il genere annulli la differenza tra uomo e donna in nome dell’uguaglianza, dove per uguaglianza s’intende esclusivamente la parità dei diritti. Il genere consente invece di restituire valore alle differenze, smascherando i pregiudizi e gli stereotipi e restituendo dignità a ogni individuo senza esclusioni.
Vorremmo quindi sottolineare la fecondità dell'ottica di genere nei corsi universitari e nell’educazione scolastica, dal momento che essa, indagando oltre le ”evidenze”, consente di riportare alla luce e all’attenzione pubblica studi e ricerche autorevoli che permettono un’analisi più realistica e veritiera dei fatti e delle situazioni. “Evidenze” basate su “leggi di natura” e quindi sulla “naturale” inferiorità della donna rispetto all’uomo come quelle che portarono fino al XX secolo molti uomini “di ingegno” ad affermare che a causa del loro cervello più piccolo le donne fossero meno intelligenti e incapaci di svolgere certi compiti e professioni. Tale pregiudizio -che stenta ancora a essere rimosso- ha impedito dapprima alle donne di accedere ai diritti tra i quali quello allo studio, poi di impegnarsi in attività considerate “maschili” e oggi ostacola la condivisione dei compiti di cura alla casa e alla famiglia -“per natura” a loro carico- impedendo di fatto la loro affermazione professionale o almeno la loro indipendenza economica. 
Gli studi di genere costituiscono un approccio radicalmente innovativo, diremmo rivoluzionario, che consente di indagare su aspetti sociali inesplorati o non considerati e sul persistere anche nelle società più “aperte” di stereotipi e pregiudizi. Innovatività che produce opposizioni più o meno esplicite da parte di chi vuole mantenere lo status quo nei ruoli e nelle gerarchie in famiglia e nella società. Se ne deve invece cogliere l’enorme portata educativa comprendendo il significato preciso dei termini per evitare polemiche o contrapposizioni ideologiche basate su una non corretta o almeno non coerente rispetto a quella adottata dagli organismi internazionali concezione di genere. Polemiche come quelle a cui assistiamo in questi giorni contro l’educazione di genere nelle scuole. 
Facendo riferimento alla nostra esperienza, da molti anni, noi adottiamo l’ottica di genere in sintonia con altri atenei europei per sollecitare in chi studia con noi il pensiero critico, proprio dell’educazione liberale cara a Socrate e agli Stoici, e la consapevolezza del valore di ogni differenza come presupposto per una vera parità dei diritti e delle opportunità.
A tutto ciò vorremmo aggiungere che in tanti anni di docenza la risposta da parte di studentesse e studenti è stata oltremodo positiva. Avvicinarsi a quei contenuti ha rappresentato un momento di crescita e questo non solo nel master in Pari opportunità che Roma Tre da 12 anni organizza e arricchisce in ogni edizione di contenuti e itinerari, ma in tanti convegni, corsi, seminari che si svolgono con grande partecipazione (e serenità) nel nostro paese. 
Riteniamo quindi che l’ottica di genere sia necessaria negli insegnamenti scolastici e universitari perché, come abbiamo detto, anche se per legge donne e uomini sono ormai pari, nell’ambito familiare e lavorativo le donne continuano a essere emarginate, spesso doppiamente penalizzate se appartengono ad altre categorie oggetto di discriminazioni. La discriminazione di genere, infatti, presenta una sua specificità che attraversa e può combinarsi con tutte le altre forme di discriminazione.
La potenzialità formativa se compresa e svolta da competenti è grande: introdurre l’educazione di genere a tutti i livelli scolastici significa non solo formarsi alle tematiche attinenti le pari-eque opportunità tra uomo e donna, ma altresì focalizzare l’attenzione e la prassi all’effettiva parità tra persone. Ciò consente, oltre la lotta agli stereotipi già indicati, di opporsi alla violenza (la Convenzione di Istanbul considera l’educazione di genere uno strumento indispensabile per contrastarla) e al bullismo che affligge le scuole, di rifiutare le discriminazioni sociali e politiche, di riconoscere il valore e la dignità di persone diverse dai modelli tradizionali per affermare una mentalità inclusiva. 
Gli studi di genere, per loro natura interdisciplinari, non possono costituire un capitolo a parte, ma riguardare trasversalmente ogni ambito e materia. Attraverso di essi si riesce a scoprire, per esempio, che se l’intelligenza non è legata alle dimensioni del cervello, al contrario, sono le pluralità di interconnessioni che consentono le capacità multitasking alle donne tanto utili nella nostra società (e tanto sfruttate quanto sottovalutate); in economia che i bilanci e il modo in cui vengono spesi i soldi pubblici non sono affatto neutri, ma riproducono le gerarchie esistenti tra i generi, che la raccolta e l’analisi dei dati disaggregati per genere restituiscono la vera realtà delle condizioni di vita e lavoro e i bisogni delle persone tutte, uomini e donne, nella quotidianità.
Ancora si può ricordare come gli studi sulla storia delle donne, dai quali l’ottica di genere deriva, costituiscono una base di partenza, ma non esauriscono il discorso che s’intreccia positivamente con tanti altri ambiti tra i quali la filosofia soprattutto morale, l’economia, le scienze politiche e sociali, architettoniche, urbanistiche, i saperi scientifico-tecnologici e quelli riguardanti la comunicazione e i mass media. Un tale approccio favorisce una collaborazione interdisciplinare fra docenti ed esperti/e di differenti discipline, e un confronto nelle diverse aree umanistiche e scientifiche anche nelle scuole che può portare a una riformulazione del sapere dato.
Se lo scopo dell’educazione e della formazione è l’insegnamento di un pensiero critico e l’apertura alla realtà che ci circonda, crediamo –come docenti - che tali tematiche debbano essere presenti nella scuola, anche per evitare distorsioni, fanatismi e intolleranze.
L’educazione in ottica di genere può quindi efficacemente contribuire all’educazione di un buon cittadino e di una buona cittadina, dotati di senso critico, di autostima e consapevoli del valore delle proprie differenze e del proprio punto di vista anche se diverso da quello dominante.
Il nostro auspicio (seguendo del resto due recenti determinazioni del Miur del 2011 e del 2013 e i richiami presenti nella legge sulla Buona scuola) è che si realizzi l’inserimento dell’ottica di genere nei programmi scolastici, per promuovere quel cambiamento radicale nella nostra cultura che disegnerà una nuova idea di cittadinanza, attiva, responsabile, nella quale il valore di ogni individuo può essere riconosciuto e perché no utilizzato per il progresso dell’intera società.

*Delegata del Rettore di Roma Tre per le Pari opportunità
** Coordinatrice del Master in Pari opportunità di Roma Tre

domenica 30 agosto 2015

Il corpo delle donne

Vi chiedo una riflessione:
esiste ora una legge per cui si viene perseguiti se si insulta qcuno online. Si è colpevoli anche se si mette un "like" ad un insulto verso qcuno/a.
Bene, dico io.
La violenza, la maleducazione, la volgarità, le offese sui social network hanno raggiunto livelli insopportabili: chi insulta danneggia non solo il ricevente gli insulti, ma tutti noi che leggiamo.

Poi leggo l'articolo di Repubblica di qualche giorno fa: in prima pagina la foto, grande, di una 16 enne trovata morta sulla spiaggia. Foto presa dal suo profilo fb.
Lei che fuma.
La giornalista descrive la ragazza morta,Ilaria:
"Ilaria domenica sera cercava pasticche di ecstasy. Un paio di birre con gli amici in centro, nei pressi di piazza Duomo, la solita “canna” e poi la proposta: «Dai,andiamo a farci una pasticca». Era particolarmente inquieta questa ragazzina di 16 anni con il viso sfigurato da cinque piercing, compreso una perla sulla lingua, il lobo dell’orecchio destro sfondato, i capelli cortissimi rasati alle tempie a darle un aspetto ancor più mascolino così come l’abbigliamento, jeans larghi, maglietta nera e scarpe da tennis."
Questa non è una descrizione come il giornalismo imporrebbe. Questo è un giudizio negativo su di una sedicenne appena morta.
Il fratello non ha permesso ai giornalisti di entrare in Chiesa, sostenendo che la descrizione che di Ilaria era stata fatta era falsa e terribilmente offensiva. 
Fino a qualche tempo fa articoli così apparivano sui giornali di gossip. Ora sono in prima pagina di uno dei maggiori quotidiani.
Chi legge non ha la consapevolezza di molte di noi qui.
Quindi si "fiderà" di Repubblica e si farà un'idea di Ilaria e degli adolescenti sulla base di quanto ha letto.
ALLORA:
Se io scrivo sulla pagina FB di Repubblica un insulto ad un giornalista, giustamente, molto giustamente, potrei essere denunciata.

La mia domanda è: fa più danno scrivere un insulto su facebook, o scrivere un articolo come quello qui sopra?
Rispondo per me : l'articolo qui sopra fa danni peggiori, enormi e nel tempo, contribuisce a formare un'idea di mondo errata, stigmatizza gli e le adolescenti e interrompe il patto intergenerazionale.
L'altra domanda è : COSA FA L'ORDINE DEI GIORNALISTI?