Il torto più grande che facciamo alle donne è quello di andare loro a dire che sono uguali agli uomini. Così facendo non le stiamo preparando alla realtà dei fatti che si troveranno davanti, le stiamo piuttosto imbarcando in una vita intera di sacrifici, delusioni e infelicità.
Gli uomini e le donne non sono uguali... sono diversi. Come le mele e le arance. Sì, siamo tutti frutti, ma solo con alcune di noi potrai preparare una torta di mele decente.
Tutta questa tiritera del cresci-le-tue-figlie-come-faresti-coi-tuoi-figli non ha alcun senso. Quand'è che abbiamo deciso che esiste un prototipo ideale d'essere umano, e che questo debba essere maschile? Allora perché nessuno cresce i propri figli come farebbe con delle figlie?
Molte donne della mia generazione sono state "cresciute come figli". Ci hanno mandato alle scuole e ai college migliori che i nostri genitori potevano permettersi. Non ci hanno semplicemente incoraggiato ad essere ambiziose, ma ci hanno insistito parecchio su. Ci è stato chiesto di sognare, e noi abbiamo sognato in grande. Ci è stato detto che avremmo potuto fare tutto quello che facevano gli uomini, e per un periodo di tempo incredibilmente lungo ci abbiamo anche creduto. Ci siamo prese dei buoni voti, ci siamo guadagnate i posti di lavoro più prestigiosi, e li abbiamo svolti bene. Ci siamo sposate gli uomini che ci siamo scelte, e loro ci hanno "permesso" di spiegare le ali in modi in cui le nostre madri non avrebbero mai potuto neanche sognarsi all'interno dei loro matrimoni.
E poi abbiamo avuto dei bebè.
Avere un figlio è la cosa più caratteristica del proprio genere che una donna possa fare -- e per quanto siano carini, i bebè afferrano qualunque idea tu possa esserti formata in merito all'uguaglianza fra uomo e donna, te la sbattono in testa finché non ti passa del tutto, e alla fine tu ti riduci a un mucchio di ormoni materni, nello stesso identico modo in cui è accaduto a innumerevoli altre donne prima di te. Solo che oggi è tutto molto peggio.
"Perché stiamo sempre lì a sperare che la madre se ne vada, alla ricerca d'ulteriori modi per trasformarla in una 'donna in carriera', mettendosi in fila per poter andare a svolgere tutte le attività che svolgono gli uomini?".
I bambini non hanno la minima idea del fatto che oggi, essendo nati nel ventunesimo secolo, dovrebbero trattare diversamente le proprie madri. Avere un figlio continua quindi a portare con sé il medesimo carico di lavoro: il parto resta un'impresa difficile, e gli impulsi biologici di una madre continuano a legarla al figlio con la stessa forza prevista dalla natura. Ma le nostre aspettative nei confronti delle donne adesso sono molto diverse. Perché in teoria loro dovrebbero essere degli uomini.
Ci si aspetta che siano degli uomini, ma non possono neanche smettere di esser donne. Ciò che ne consegue è che in India oggi la donna con le più alte competenze, la più istruita ed economicamente indipendente risulta anche terribilmente impreparata ad affrontare la propria realtà.
Tante delle battute che si fanno sul conto delle donne si basano sul presupposto che siano umorali, irrazionali, e che non sappiano mai ciò che che vogliono. In realtà la cosa non è per niente divertente -- perché in tutta onestà non abbiamo veramente idea di ciò che vogliamo. La natura ci ha programmato perché restassimo in quasi costante prossimità fisica dei nostri figli, dotandoci di un feroce istinto di protezione e nutrimento. Il capitalismo e la gamma delle sue definizioni di successo c'impongono di non assentarci dal lavoro e di darci sempre dannatamente da fare. I nostri genitori ci hanno detto che avremmo potuto essere i loro "figli", ma sarebbero proprio loro i primi ad allarmarsi se mai ci azzardassimo a trascurare le nostre abitazioni, i nostri figli, e se smettessimo d'essere le loro "figlie". Così siamo sempre, sempre lacerate.
Possiamo lottare quanto ci pare, ma contro la biologia il dibattito non lo vinceremo mai. Dov'è il riconoscimento dell'importanza del ruolo che una madre riveste all'interno di una casa nel periodo della crescita di un figlio? Perché trattiamo le madri come se all'interno della vita di un bambino fossero un elemento rimpiazzabile da un padre presente o da un sistema d'assistenza all'infanzia efficiente? Non si tratta di una questione di "genere", come invece direbbero alcune delle mie amiche femministe - l'effetto che il pianto di mio figlio esercita su di me non è lo stesso che avrebbe su suo padre. E se mi sfidate su questo tema sono pronta a scendere in guerra.
Com'è allora che non siamo disposti a riconoscere quest'aspetto essenziale dell'esser donna, e non lasciamo che entri a far parte della nostra realtà? Perché stiamo sempre lì a sperare che la madre se ne vada, alla ricerca d'ulteriori modi per trasformarla in una 'donna in carriera', mettendosi in fila per poter andare a svolgere tutte le attività che svolgono gli uomini?
Quand'ero piccola mia madre mi diceva spesso che avrei dovuto scegliere una carriera "adatta a una donna". Come quella di un'insegnante o di un medico in un ospedale pubblico - come lei - di modo che sarei potuta rincasare a un "orario decente", trovando del tempo libero da poter trascorrere, in generale, a casa. All'epoca il suggerimento mi mandava su tutte le furie, ma adesso mi suona come un consiglio terribilmente sensato. Di fronte a tutte le cose che oggi ho bisogno di fare, e voglio fare, se mi trovassi a svolgere un lavoro che non fosse in grado d'offrirmi questo genere di benefit, sarebbe un incubo - e infatti per tante donne lo è.
"[L]'effetto che il pianto di mio figlio esercita su di me non è lo stesso che avrebbe su suo padre. E se mi sfidate su questo tema sono pronta a scendere in guerra".
Mi trovo a lavorare all'interno di un settore che rappresenta a tutti gli effetti un baluardo dell'eguaglianza uomo-donna, con ampi margini per i propri dipendenti, fra i quali i benefit di maternità. Il mio capo è una persona eccezionalmente accomodante, che non solo mi permette di avere un lavoro, ma una carriera, con tutta la flessibilità di cui posso aver bisogno. Quando mi soffermo a riflettere su come io sia riuscita ad ottenere questo posto, la risposta è un po' una combinazione di mera, fortunata casualità con il fatto che, prima che avessi un figlio, nella mia carriera sono riuscita a compiere delle scelte piuttosto avventurose, finendo per acquisire una serie di capacità che oggi mi rendono preziosa agli occhi del datore di lavoro.
Gran parte di tutto questo è accaduto a causa di una felice coincidenza, ma in retrospettiva avrei tanto voluto che qualcuno mi avesse dato dei consigli, quando ancora ero intenta a valutare le mie alternative di carriera, o a programmare quelle che sarebbero state le mie mosse successive nell'ambito degli studi e nel mondo del lavoro. Avrei voluto che qualcuno m'avesse avvertito che in seguito sarebbe giunta una fase della vita in cui le decisioni da prendere nel corso della carriera avrebbero avuto ben poco a che fare con le mie priorità professionali, e tutto a che vedere con altre questioni prevalentemente non-negoziabili -- e che mi avessero spiegato come prepararmi.
Forse è arrivato il momento di presentare alle nostre figlie la verità su ciò che significa essere una donna, e insegnare loro a non doversene mai scusare.
Potremmo cominciare smettendola di negare loro le nostre differenze, e insegnando come affrontare la propria realtà. Cioè come riuscire ad essere economicamente indipendenti, trovando un lavoro che abbia un senso per sé, e che sia capace d'entusiasmarti, come avere la capacità di tenere sempre un piede dentro -- e allo stesso tempo come esser presenti per il proprio figlio, senza pestare così tanto sull'acceleratore da spezzare qualcosa, da qualche parte dentro di sé. Nella vita questa è una capacità essenziale, ma alle nostre ragazze nessuno gliela insegna.
Non si tratta di moderare l'ambizione, quanto di superare degli ostacoli. Però si tratta anche di fornire una definizione alternativa del concetto stesso d'ambizione, allineandola a ciò che le donne vogliono davvero - non a ciò che s'insegna loro ad anelare. D'individuare e ricavarsi degli spazi per se stesse man mano che le circostanze vanno mutando, d'esser consapevoli della propria biologia e di prepararsi al meglio a ciò che essa scaglierà loro contro, di saper chiedere aiuto man mano che le tradizionali strutture familiari si vanno disintegrando, di chiedere orari di lavoro flessibili, di saper formare le proprie capacità lavorative in modo tale da riuscire ad assicurarsi quel genere di flessibilità, di smetterla di sentire di doversi scusare quando ci si allontana [dal lavoro] o quando poi vi si ritorna nel momento in cui i nostri corpi e i nostri cuori ce lo chiedono, di non sentirsi obbligate a lottare contro i propri istinti naturali solo perché ci si ispira a un qualche prototipo ideale di donna in grado d'impegnarsi e di riuscire ad avere tutto ciò che vuole.
"Ma poi in realtà che c'è di male nei lavori "women friendly"? Se sono "friendly" nei confronti delle donne non dovrebbe forse essere una cosa buona?".
Nulla di quanto sopra serve a negare l'importanza della lotta per il riconoscimento delle pari opportunità e dei benefit di maternità da parte delle nostre istituzioni, né si tratta di un ragionamento che mira a spingere le ragazze a svolgere esclusivamente lavori "women friendly". Ma non sarebbe bello se, crescendo, sapessimo già di doverci un giorno trovare a combattere queste battaglie? Magari alcune di noi finirebbero per compiere altre scelte, e magari altre no. Però ciascuna di noi potrebbe prendere decisioni più informate.
Ma poi in realtà che c'è di male nei lavori "women friendly"? Se sono "friendly" nei confronti delle donne non dovrebbe forse essere una cosa buona?
Una mia amica si dice convinta che "offendendo il movimento femminista" io stia rendendo un pessimo servizio alle donne. Non sto facendo niente di simile. E - c'è da esserne grati - il movimento femminista è sufficientemente sfaccettato, e ha già trattato tutti questi aspetti in numerose opere... solo che noi ci siamo dimenticate di tutte le sue sottigliezze.
Sto semplicemente dicendo che ormai è una vita che ci siamo impegnate in questa battaglia, e ne stiamo scontando il prezzo -- lo scontiamo sulla nostra serenità interiore, sulla nostra sanità mentale, sui nostri rapporti e sulle nostre carriere. Noi non siamo uomini, noi vogliamo cose diverse da loro, e noi possiamo offrire cose diverse. Se non riconosceremo queste differenze non faremo altro che condannarci da sole al fallimento.
Un "bravo" padre è colui che è in grado di cambiare un pannolino sporco, e che si presenta agli incontri fra genitori e insegnanti della scuola di suo figlio. Invece a me non è mai capitato di sentire qualcuno che definisse "brava" una madre. Tutto ciò che le madri fanno non è altro che routine, uno standard, e non merita quindi alcuna menzione speciale. Ma se nei confronti dei nostri uomini abbiamo delle aspettative tanto basse, perché poi di fronte a noi stesse ci prefiggiamo degli standard talmente irraggiungibili? Dobbiamo smetterla di renderci martiri della nostra stessa causa, perché non è così che si vincono le cause. Vorrei tanto che la smettessimo d'appuntarci orgogliosamente sul petto le nostre vite stressate come se fossero medaglie al valore, e ci trattenessimo dall'attribuire tutto questo valore al principio del "multitasking".
Detto francamente, se proprio vogliamo essere come gli uomini, non dovremmo far altro che restarcene a casa dei nostri genitori, facendo il minimo indispensabile, dandoci da soli una pacca sulle spalle per il benché minimo successo, scaricando sugli altri la colpa di qualsiasi nostro fallimento, e andare a farci una birra.
mercoledì 2 dicembre 2015
martedì 1 dicembre 2015
Fatima Mernissi, il femminismo islamico e le battaglie dal basso di Nina zu Fürstenberg
La scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi si è spenta il 30 novembre, all’età di 75 anni. Conosciuta in Italia e nel mondo soprattutto per i suoi romanzi, Fatema Mernissi ha lasciato un’impronta importante nel pensiero femminista islamico, di cui è considerata una delle apripista. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Le donne del profeta, (ECIG, 1992), La terrazza proibita, (Giunti, 1996), L’harem e l’Occidente, (Giunti, 2000), e Islam e democrazia (Giunti, 2002). Pubblichiamo qui di seguito l’intervista che Nina zu Fürstenberg raccolse per il n° 115 di Reset.
RABAT – «Non mi importa dell’Occidente, dei musulmani in Europa, di Hirsi Ali; non m’importa della laicità né della democrazia “delle bombe”». Questo grido di protesa contro le democrazie occidentali, la loro arroganza e il tradimento dei valori umani non proviene da un fanatico fondamentalista, ma dalla scrittrice e sociologa marocchina Fatima Mernissi: «Sono un’intellettuale e uno spirito libero». Parla, e intanto mi guida per la sua amata e affollata medina, il mercato di Rabat, dove il rosa vivido degli abiti spicca, forte e brillante, quanto la sua popolarità e il suo carattere, e commenta ritrovando il suo abituale entusiasmo mite: «Guarda, questi giovani indaffarati, sono tutti esperti di nuove tecnologie. Il Marocco e il mondo arabo stanno cambiando. Osserva il dinamismo della nuova medina digitale. Ho bisogno del tuo punto di vista, dello sguardo di un estraneo per comprendere meglio la mia realtà».
Ci fermiamo in un angolo dove numerosi libri in vendita sono sparpagliati a terra. «Se vuoi capire cosa sta succedendo in questo paese, dai un’occhiata qui». Riconosco i volumi di Al Qaradawi sul lecito e il proibito nell’islam e un libro di un altro telepredicatore musulmano; e poi raccogliamo dal bancone Fear of Flying, (Paura di volare) di Erica Jong, in originale. Una icona del femminismo occidentale, globale, mentre Mernissi ha rappresentato il femminismo musulmano. Potenza della narrativa: questa autrice globale, tradotta ovunque, ancora riesce a stupirsi quando riceve e-mail da New York, da Parigi o dalla Malesia. Fatima Mernissi è stata per le donne musulmane quel che Erica Jong è stata per le occidentali. I suoi libri, Harem, Islam and Democracy e altri, hanno preparato il terreno emotivo e intellettuale su cui le donne marocchine hanno potuto combattere la battaglia per i diritti. Affinità e distanze: mentre Jong scriveva di liberazione sessuale, invocando la Zipless Fuck, il femminismo di Mernissi portava alla luce i luoghi e i passi in cui il Corano dà alle donne il diritto ai diritti.
Tuttavia, il presente di Fatima Mernissi non è assorbito affatto dai temi politici e giuridici, la scrittrice di quei saggi su islam e democrazia è assorbita oggi dalla sua gente, dal suo impegno sociale nella «Umma» locale: l’artigianato, l’hip hop, la necessità di fermare l’esodo dalle montagne dell’Atlante, l’Arte-terapia contro la depressione e lo stress, il lavoro con le Ong locali e il potere illuminante della rivoluzione delle tecnologie digitali.
Sono questi gli ingredienti della sua ricetta: «Il mio problema oggi è comprendere come combattere il consumismo che trasforma le persone in macchine. Noi tutti dobbiamo ritrovare la dimensione umana, la forza della coesione nella comunità. So che anche in Occidente si cercano risposte alle stesse domande». Per un attimo parla la scrittrice di fama internazionale che ha vissuto in America, poi torna a pensare ai giovani del suo paese: «Io sono di Fes, che è ciò che conosco meglio; vivo a Rabat. E mi voglio occupare di piccoli progetti locali, non sono una Sinbad. La sua Caravane Civique è un progetto itinerante, una libreria su ruote, che gira per le aree più remote del paese per presentare alla popolazione i libri e la bellezza delle storie locali o spiegare la nuova legge di famiglia, per illustrare la bellezza dei mestieri artigiani, la tessitura dei tappeti, e anche l’utilità di creare nuovi mercati digitali».
Fatima è orgogliosa del suo impegno sociale in numerose Ong; sta cercando sostegno per i suoi progetti. Poi ammette, quasi come il ritorno di una vecchia tentazione peccaminosa, che sta scrivendo il suo prossimo libro, riceverà inviti dai giornali e dovrà tenere conferenze in tutto il mondo. Ma il suo impegno qui rimane al primo posto: «Il mio workshop più importante ha avuto come oggetto la realizzazione di una guida turistica del paese interamente a opera di marocchini del sud. Fino ad allora infatti tutte le guide erano state realizzate da stranieri. Finalmente invece la nuova guida mostrerà come ai marocchini piace illustrare il proprio paese. Anche se alcuni dei partecipanti al progetto erano analfabeti, sono stati aiutati dagli altri. Dar loro visibilità è ciò di cui hanno bisogno; questo è il mio contro-terrorismo. Recluto aiutanti, ma guarda tu stessa». Usciamo fuori dalla Medina ed entriamo attraverso una piccola porta in uno spazio ampio pieno di dipinti: «Qui è dove Rashid vende arte e l’artigianato dei giovani artisti. Non so come riesca a mandare avanti questo posto, penso sia la nostra educazione sufi a renderci inclini a donare. C’è così tanta creatività in questo paese; guarda il dinamismo di questa medina digitale».
Ho capito che il Marocco sta crescendo rapidamente. Ovunque nascono grandi centri commerciali e, come la chiama lei, la “religione del mercato” si espande anche qui specie nelle grandi città. Ma l’emigrazione continua verso l’Europa, la Spagna, l’Italia, continua.
Molti lasciano l’Atlante e scendono giù fino Marrakesh. Perdono il contatto con la natura, con il loro bestiame, con l’ arte della tessitura dei tappeti. Ho provato ad aiutare i tessitori a creare la loro galleria digitale, come hanno fatto i tibetani, in modo che potessero sopravvivere, ma non basta. Tradizioni artigianali e creatività hanno bisogno di essere sostenute. È l’unico modo che abbiamo per evitare che le persone lascino questo paese, o il loro ambiente di montagna, per trasferirsi in città più grandi. Sono quelli che potrebbero finire in Italia. Nel 1960 solo il 9% della popolazione viveva nelle città; oggi siamo al 70%. Lo stesso fenomeno in Europa è avvenuto in un tempo compreso tra i 200 e 300 anni. Tuttavia, anche in queste nuove città allargate le persone tornano alle tradizioni e all’artigianato. E imparano a usare internet per la vendita dei manufatti realizzati, grazie anche all’aiuto della banca mondiale. Le Ong sono aumentate enormemente. Il clima è fortemente dinamico. Se lo Stato mettesse le mani su queste iniziative, le ucciderebbe, si innescherebbe un processo di corruzione. Questa attività tiene i giovani fuori dalla portata dei fanatici. I numerosi festival, gli eventi dove i giovani ballano l’hip hop, così come le mostre di arte e artigianato hanno questi stessi effetti positivi.
Abbiamo visto alcune zone di Rabat in cui le baraccopoli sono state sostituite con nuove abitazioni per i più poveri. Ma le donne possono lavorare oggi in queste realtà?
Con la mia Ong ci occupiamo molto di queste aree. Le donne qui hanno più possibilità. Lavorano a casa e vendono il loro cibo o vestiti per le strade. C’è una rinascita dei caffettani, moderni e tradizionali; una moda che ha prodotto un forte aumento della domanda. Le donne non sono più legate alla casa. Inoltre, per i più giovani, l’hip hop sta diventando molto importante. Non vogliono cantare soltanto in arabo ma mescolare le lingue. Inizialmente il fenomeno è stato considerato in modo negativo e alcuni di loro sono stati messi in prigione, ma si è sviluppato un importante movimento giovanile che è riuscito ad allontanare i fondamentalisti.
Creatività in aumento e movimenti artistici di massa sembrano opporsi al fanatismo religioso. Sebbene l’islam sia sempre stato molto importante per te, nei tuoi libri c’è un forte accento su un’interpretazione umanistica del corano e dei diritti delle donne.
Samuel Huntington attaccò la mia considerazione positiva dell’islam perché, dal suo punto di vista, ciò significava che io non credevo nella democrazia. Quando cominciai a studiare il ruolo delle donne nel Corano mi recai dalle autorità religiose per un consulto. Mi indicarono un passo contenuto nel sedicesimo volume, in cui una donna si rifiutava di indossare il velo sostenendo che, se Allah l’aveva creata così bella, allora probabilmente non voleva che si nascondesse. Si mostrarono aperti nei confronti della mia ricerca e mi aiutarono molto. Al contrario, le autorità politiche del tempo vietarono di indossare il velo. E questa non è libertà. L’islam non è una religione, è una visione del mondo a cui siamo legati, non c’è chiesa. L’islam non riguarda il pregare. Io ad esempio non vado in moschea ma festeggio alcune ricorrenze con gli amici. Sono credente, ma considero la definizione di «musulmana» una gabbia.
E il riformismo musulmano, potresti definirti una musulmana riformista? Consideri la laicità una risposta?
Anche il riformismo musulmano è una gabbia. E io rifiuto che mi sia tolta la libertà. Mi dicono spesso che per essere moderna dovrei diventare laica; questo a dire il vero mi fa ridere. La laicità? L’Occidente mi fa venire in mente un dio pagano e sorrido quando gli occidentali parlano di democrazia: prima ci hanno inflitto il colonialismo, adesso ci impongono la democrazia a mano armata, in Iraq. Ma non voglio emettere qui sentenze politiche, voglio parlare il linguaggio della psicologia. Concordo con Soudir Kakar, il famoso psicanalista indiano: il problema dell’Occidente è l’individualismo, di un individuo slegato dalla natura.
Tuttavia, il femminismo, la libertà individuale, il pensiero critico sono aspetti della modernità occidentale che hanno portato benefici non solo in Europa e in America ma anche nel vostro mondo.
Il femminismo non è di dominio occidentale, così come non lo sono la libertà individuale o il pensiero critico. Il primo verso del Corano recita: «Decodifica, non seguire ciecamente, comprendi e impara». Mi piace giocare con il pensiero, in fondo anche l’islam è individualista, ma il suo individualismo è puro, non c’è nessuno tra questo dio invisibile e la persona. Il primo verso del Corano dice: «Eclal», che significa appunto «decodifica tu stesso». Per secoli il mondo musulmano è stato segnato da questo principio e, negli ultimi decenni, questa nozione è stata promossa con un’aperta discussione amplificata dalle 500 tv satellitari e dalla rete. E nessuno può tenere a freno questi sconvolgenti cambiamenti. La propaganda politica è finita, l’interattività è diventata centrale. Non sono più i produttori a decidere, ma il consumatore, è lui che comanda. Ciò rende dinamica questa realtà. Anche al Jazeera deve sforzarsi di non perdere audience e pubblicità. Abbiamo 90 canali soltanto dedicati alla musica; ciò sta incidendo sulla cultura molto più delle discussioni teologiche. I mezzi di comunicazione hanno un ruolo davvero importante in questo processo.
Come mai ti sei allontanata dal femminismo?
In Marocco ci sono femministe giovani e attive che hanno agito e agiscono meglio e più di me. Io ho scritto dei libri, loro si sono impegnate per cambiare la legge. Il Marocco è stato il primo paese ad avere un giudice della sharia donna e un imam di sesso femminile. Nel 1991 ho iniziato a occuparmi dell’impatto della Tv satellitare. Credo che le donne stiano conquistando potere in questo nuovo spazio. Ciò che è importante è che abbiano ruoli chiave in questi show. Le donne nell’islam sono forti e costituiscono un potere strategico, hanno invaso la Tv, la nuova industria, e al contempo detengono il potere all’interno della famiglia.
I tuoi libri e in generale il tuo lavoro sul femminismo e l’islam hanno avuto molto successo in paesi come l’Indonesia o l’Arabia Saudita, in cui i diritti delle donne sono ancora marginali e dove l’adulterio viene punito con la morte per lapidazione.
L’Arabia Saudita è uno strano paese, così come lo sono Afghanistan e Pakistan. Le persone che praticano la lapidazione invece non sono solo strane, direi che sono folli criminali. Non appartiene alla mia cultura, non ne ho mai sentito parlare in Marocco. Certo i folli, come è noto, sono ovunque. Ad esempio, qualche tempo fa in Germania una donna è stata uccisa da un pazzo soltanto perché indossava il velo. Anche quella dei talebani è follia. I musulmani invece sono contrari alla violenza – ora più che mai, anche per reazione. Il ritratto di un islam sanguinario è un prodotto dell’Occidente, non appartiene al paesaggio dell’islam che conosco direttamente. Io stessa non andrei in Arabia Saudita perché lì non sarei libera. Tutto sta nella libertà di scelta – di indossare o non indossare il velo, di pregare nella moschea o celebrare le feste con gli amici. E l’islam lascia questa libertà. Se qualcuno volesse togliercela, scenderei in strada a protestare. Osserva le spiagge di Rabat, sono lo specchio della nostra società: alcune donne nuotano in bikini, altre in jeans o con una gonna lunga. Ma sono felici, gli uomini e le donne giocano sulla sabbia e si godono le vacanze. Ripongo anche delle speranze negli intellettuali occidentali poiché essi non credono di appartenere all’unico, fantastico, infallibile sistema, che tutti gli altri dovrebbero seguire. La tecnologia è stato il miglior dono dell’Occidente, poiché ha messo in moto l’individuo e la sua libertà. E credo che sia proprio questo «boom» a spaventare l’Ovest: l’islam è la bestia nascosta dell’Occidente. Perché infatti fa così tanta paura? Forse perché proietta all’esterno l’inconscio dell’Occidente? Ho scritto per la Tate Gallery un testo proprio dedicato all’inconscio.
RABAT – «Non mi importa dell’Occidente, dei musulmani in Europa, di Hirsi Ali; non m’importa della laicità né della democrazia “delle bombe”». Questo grido di protesa contro le democrazie occidentali, la loro arroganza e il tradimento dei valori umani non proviene da un fanatico fondamentalista, ma dalla scrittrice e sociologa marocchina Fatima Mernissi: «Sono un’intellettuale e uno spirito libero». Parla, e intanto mi guida per la sua amata e affollata medina, il mercato di Rabat, dove il rosa vivido degli abiti spicca, forte e brillante, quanto la sua popolarità e il suo carattere, e commenta ritrovando il suo abituale entusiasmo mite: «Guarda, questi giovani indaffarati, sono tutti esperti di nuove tecnologie. Il Marocco e il mondo arabo stanno cambiando. Osserva il dinamismo della nuova medina digitale. Ho bisogno del tuo punto di vista, dello sguardo di un estraneo per comprendere meglio la mia realtà».
Ci fermiamo in un angolo dove numerosi libri in vendita sono sparpagliati a terra. «Se vuoi capire cosa sta succedendo in questo paese, dai un’occhiata qui». Riconosco i volumi di Al Qaradawi sul lecito e il proibito nell’islam e un libro di un altro telepredicatore musulmano; e poi raccogliamo dal bancone Fear of Flying, (Paura di volare) di Erica Jong, in originale. Una icona del femminismo occidentale, globale, mentre Mernissi ha rappresentato il femminismo musulmano. Potenza della narrativa: questa autrice globale, tradotta ovunque, ancora riesce a stupirsi quando riceve e-mail da New York, da Parigi o dalla Malesia. Fatima Mernissi è stata per le donne musulmane quel che Erica Jong è stata per le occidentali. I suoi libri, Harem, Islam and Democracy e altri, hanno preparato il terreno emotivo e intellettuale su cui le donne marocchine hanno potuto combattere la battaglia per i diritti. Affinità e distanze: mentre Jong scriveva di liberazione sessuale, invocando la Zipless Fuck, il femminismo di Mernissi portava alla luce i luoghi e i passi in cui il Corano dà alle donne il diritto ai diritti.
Tuttavia, il presente di Fatima Mernissi non è assorbito affatto dai temi politici e giuridici, la scrittrice di quei saggi su islam e democrazia è assorbita oggi dalla sua gente, dal suo impegno sociale nella «Umma» locale: l’artigianato, l’hip hop, la necessità di fermare l’esodo dalle montagne dell’Atlante, l’Arte-terapia contro la depressione e lo stress, il lavoro con le Ong locali e il potere illuminante della rivoluzione delle tecnologie digitali.
Sono questi gli ingredienti della sua ricetta: «Il mio problema oggi è comprendere come combattere il consumismo che trasforma le persone in macchine. Noi tutti dobbiamo ritrovare la dimensione umana, la forza della coesione nella comunità. So che anche in Occidente si cercano risposte alle stesse domande». Per un attimo parla la scrittrice di fama internazionale che ha vissuto in America, poi torna a pensare ai giovani del suo paese: «Io sono di Fes, che è ciò che conosco meglio; vivo a Rabat. E mi voglio occupare di piccoli progetti locali, non sono una Sinbad. La sua Caravane Civique è un progetto itinerante, una libreria su ruote, che gira per le aree più remote del paese per presentare alla popolazione i libri e la bellezza delle storie locali o spiegare la nuova legge di famiglia, per illustrare la bellezza dei mestieri artigiani, la tessitura dei tappeti, e anche l’utilità di creare nuovi mercati digitali».
Fatima è orgogliosa del suo impegno sociale in numerose Ong; sta cercando sostegno per i suoi progetti. Poi ammette, quasi come il ritorno di una vecchia tentazione peccaminosa, che sta scrivendo il suo prossimo libro, riceverà inviti dai giornali e dovrà tenere conferenze in tutto il mondo. Ma il suo impegno qui rimane al primo posto: «Il mio workshop più importante ha avuto come oggetto la realizzazione di una guida turistica del paese interamente a opera di marocchini del sud. Fino ad allora infatti tutte le guide erano state realizzate da stranieri. Finalmente invece la nuova guida mostrerà come ai marocchini piace illustrare il proprio paese. Anche se alcuni dei partecipanti al progetto erano analfabeti, sono stati aiutati dagli altri. Dar loro visibilità è ciò di cui hanno bisogno; questo è il mio contro-terrorismo. Recluto aiutanti, ma guarda tu stessa». Usciamo fuori dalla Medina ed entriamo attraverso una piccola porta in uno spazio ampio pieno di dipinti: «Qui è dove Rashid vende arte e l’artigianato dei giovani artisti. Non so come riesca a mandare avanti questo posto, penso sia la nostra educazione sufi a renderci inclini a donare. C’è così tanta creatività in questo paese; guarda il dinamismo di questa medina digitale».
Ho capito che il Marocco sta crescendo rapidamente. Ovunque nascono grandi centri commerciali e, come la chiama lei, la “religione del mercato” si espande anche qui specie nelle grandi città. Ma l’emigrazione continua verso l’Europa, la Spagna, l’Italia, continua.
Molti lasciano l’Atlante e scendono giù fino Marrakesh. Perdono il contatto con la natura, con il loro bestiame, con l’ arte della tessitura dei tappeti. Ho provato ad aiutare i tessitori a creare la loro galleria digitale, come hanno fatto i tibetani, in modo che potessero sopravvivere, ma non basta. Tradizioni artigianali e creatività hanno bisogno di essere sostenute. È l’unico modo che abbiamo per evitare che le persone lascino questo paese, o il loro ambiente di montagna, per trasferirsi in città più grandi. Sono quelli che potrebbero finire in Italia. Nel 1960 solo il 9% della popolazione viveva nelle città; oggi siamo al 70%. Lo stesso fenomeno in Europa è avvenuto in un tempo compreso tra i 200 e 300 anni. Tuttavia, anche in queste nuove città allargate le persone tornano alle tradizioni e all’artigianato. E imparano a usare internet per la vendita dei manufatti realizzati, grazie anche all’aiuto della banca mondiale. Le Ong sono aumentate enormemente. Il clima è fortemente dinamico. Se lo Stato mettesse le mani su queste iniziative, le ucciderebbe, si innescherebbe un processo di corruzione. Questa attività tiene i giovani fuori dalla portata dei fanatici. I numerosi festival, gli eventi dove i giovani ballano l’hip hop, così come le mostre di arte e artigianato hanno questi stessi effetti positivi.
Abbiamo visto alcune zone di Rabat in cui le baraccopoli sono state sostituite con nuove abitazioni per i più poveri. Ma le donne possono lavorare oggi in queste realtà?
Con la mia Ong ci occupiamo molto di queste aree. Le donne qui hanno più possibilità. Lavorano a casa e vendono il loro cibo o vestiti per le strade. C’è una rinascita dei caffettani, moderni e tradizionali; una moda che ha prodotto un forte aumento della domanda. Le donne non sono più legate alla casa. Inoltre, per i più giovani, l’hip hop sta diventando molto importante. Non vogliono cantare soltanto in arabo ma mescolare le lingue. Inizialmente il fenomeno è stato considerato in modo negativo e alcuni di loro sono stati messi in prigione, ma si è sviluppato un importante movimento giovanile che è riuscito ad allontanare i fondamentalisti.
Creatività in aumento e movimenti artistici di massa sembrano opporsi al fanatismo religioso. Sebbene l’islam sia sempre stato molto importante per te, nei tuoi libri c’è un forte accento su un’interpretazione umanistica del corano e dei diritti delle donne.
Samuel Huntington attaccò la mia considerazione positiva dell’islam perché, dal suo punto di vista, ciò significava che io non credevo nella democrazia. Quando cominciai a studiare il ruolo delle donne nel Corano mi recai dalle autorità religiose per un consulto. Mi indicarono un passo contenuto nel sedicesimo volume, in cui una donna si rifiutava di indossare il velo sostenendo che, se Allah l’aveva creata così bella, allora probabilmente non voleva che si nascondesse. Si mostrarono aperti nei confronti della mia ricerca e mi aiutarono molto. Al contrario, le autorità politiche del tempo vietarono di indossare il velo. E questa non è libertà. L’islam non è una religione, è una visione del mondo a cui siamo legati, non c’è chiesa. L’islam non riguarda il pregare. Io ad esempio non vado in moschea ma festeggio alcune ricorrenze con gli amici. Sono credente, ma considero la definizione di «musulmana» una gabbia.
E il riformismo musulmano, potresti definirti una musulmana riformista? Consideri la laicità una risposta?
Anche il riformismo musulmano è una gabbia. E io rifiuto che mi sia tolta la libertà. Mi dicono spesso che per essere moderna dovrei diventare laica; questo a dire il vero mi fa ridere. La laicità? L’Occidente mi fa venire in mente un dio pagano e sorrido quando gli occidentali parlano di democrazia: prima ci hanno inflitto il colonialismo, adesso ci impongono la democrazia a mano armata, in Iraq. Ma non voglio emettere qui sentenze politiche, voglio parlare il linguaggio della psicologia. Concordo con Soudir Kakar, il famoso psicanalista indiano: il problema dell’Occidente è l’individualismo, di un individuo slegato dalla natura.
Tuttavia, il femminismo, la libertà individuale, il pensiero critico sono aspetti della modernità occidentale che hanno portato benefici non solo in Europa e in America ma anche nel vostro mondo.
Il femminismo non è di dominio occidentale, così come non lo sono la libertà individuale o il pensiero critico. Il primo verso del Corano recita: «Decodifica, non seguire ciecamente, comprendi e impara». Mi piace giocare con il pensiero, in fondo anche l’islam è individualista, ma il suo individualismo è puro, non c’è nessuno tra questo dio invisibile e la persona. Il primo verso del Corano dice: «Eclal», che significa appunto «decodifica tu stesso». Per secoli il mondo musulmano è stato segnato da questo principio e, negli ultimi decenni, questa nozione è stata promossa con un’aperta discussione amplificata dalle 500 tv satellitari e dalla rete. E nessuno può tenere a freno questi sconvolgenti cambiamenti. La propaganda politica è finita, l’interattività è diventata centrale. Non sono più i produttori a decidere, ma il consumatore, è lui che comanda. Ciò rende dinamica questa realtà. Anche al Jazeera deve sforzarsi di non perdere audience e pubblicità. Abbiamo 90 canali soltanto dedicati alla musica; ciò sta incidendo sulla cultura molto più delle discussioni teologiche. I mezzi di comunicazione hanno un ruolo davvero importante in questo processo.
Come mai ti sei allontanata dal femminismo?
In Marocco ci sono femministe giovani e attive che hanno agito e agiscono meglio e più di me. Io ho scritto dei libri, loro si sono impegnate per cambiare la legge. Il Marocco è stato il primo paese ad avere un giudice della sharia donna e un imam di sesso femminile. Nel 1991 ho iniziato a occuparmi dell’impatto della Tv satellitare. Credo che le donne stiano conquistando potere in questo nuovo spazio. Ciò che è importante è che abbiano ruoli chiave in questi show. Le donne nell’islam sono forti e costituiscono un potere strategico, hanno invaso la Tv, la nuova industria, e al contempo detengono il potere all’interno della famiglia.
I tuoi libri e in generale il tuo lavoro sul femminismo e l’islam hanno avuto molto successo in paesi come l’Indonesia o l’Arabia Saudita, in cui i diritti delle donne sono ancora marginali e dove l’adulterio viene punito con la morte per lapidazione.
L’Arabia Saudita è uno strano paese, così come lo sono Afghanistan e Pakistan. Le persone che praticano la lapidazione invece non sono solo strane, direi che sono folli criminali. Non appartiene alla mia cultura, non ne ho mai sentito parlare in Marocco. Certo i folli, come è noto, sono ovunque. Ad esempio, qualche tempo fa in Germania una donna è stata uccisa da un pazzo soltanto perché indossava il velo. Anche quella dei talebani è follia. I musulmani invece sono contrari alla violenza – ora più che mai, anche per reazione. Il ritratto di un islam sanguinario è un prodotto dell’Occidente, non appartiene al paesaggio dell’islam che conosco direttamente. Io stessa non andrei in Arabia Saudita perché lì non sarei libera. Tutto sta nella libertà di scelta – di indossare o non indossare il velo, di pregare nella moschea o celebrare le feste con gli amici. E l’islam lascia questa libertà. Se qualcuno volesse togliercela, scenderei in strada a protestare. Osserva le spiagge di Rabat, sono lo specchio della nostra società: alcune donne nuotano in bikini, altre in jeans o con una gonna lunga. Ma sono felici, gli uomini e le donne giocano sulla sabbia e si godono le vacanze. Ripongo anche delle speranze negli intellettuali occidentali poiché essi non credono di appartenere all’unico, fantastico, infallibile sistema, che tutti gli altri dovrebbero seguire. La tecnologia è stato il miglior dono dell’Occidente, poiché ha messo in moto l’individuo e la sua libertà. E credo che sia proprio questo «boom» a spaventare l’Ovest: l’islam è la bestia nascosta dell’Occidente. Perché infatti fa così tanta paura? Forse perché proietta all’esterno l’inconscio dell’Occidente? Ho scritto per la Tate Gallery un testo proprio dedicato all’inconscio.
lunedì 30 novembre 2015
domenica 29 novembre 2015
A volte non diciamo nulla (“Sometimes, We Don’t Say Anything”, di Feminist Aspie – pseudonimo di una studente inglese, trad. Maria G, Di Rienzo.)
Forse sto attestando l’ovvio, qui, ma la maggior parte delle donne in effetti non menziona ogni singola cosa sessista che le capita. A volte la affrontiamo direttamente, a volte ci sfoghiamo con un’amica, a volte ne parliamo online, ma un mucchio di volte… niente.
Ci sono alcune ragioni per questo.
In primo luogo, c’è la faccenda del sessismo giornaliero così normalizzato da non essere immediatamente notato.
Secondo, abbiamo delle vite e non è che desideriamo particolarmente stare a parlare del sessismo tutto il giorno. Dire “mi è capitata questa stronzata oggi.” non è sempre possibile – non sempre c’è qualcuno che possa ascoltarti, non sempre internet è disponbile, non sempre hai l’energia o la voglia di dire qualcosa. A volte intendiamo parlarne in un secondo momento; a volte ce ne dimentichiamo.
A volte, pensiamo “non ne vale la pena”, il che può significare un certo numero di cose diverse. A volte non vale la pena fare lo sforzo di cominciare una conversazione o di mandare un tweet; evidentemente, a volte dobbiamo scegliere le nostre battaglie e quando le altre persone non possono comunque risolvere il problema sembra un po’ privo di senso tirarlo fuori.
A volte non vale la pena spendere energia per la solita vecchia solfa in cui dobbiamo spiegare che non siamo ipersensibili e che gli ormoni non hanno nulla a che fare con come queste storie si accumulano, e che è dannoso e che le loro intenzioni non cancellano il danno fatto, e che non dovrebbe avere alcuna importanza come siamo vestite e tutte le altre cose che abbiamo già maneggiato un milione di volte prima.
A volte non vale la pena sentirsi dare della “stronza” o della “guastafeste” o dell’ “irrazionale” o comunque siano chiamate questa settimana le donne che difendono se stesse, in special modo quando siamo chiamate così per aver menzionato una singola istanza femminista, lasciando perdere il resto; e persino quando non te importa di cosa la gente pensa di te, ci sono pur sempre situazioni (come sul posto di lavoro) dove le opinioni delle altre persone su di te hanno rilevanza e conseguenze pesanti. A volte, specialmente nel confronto diretto o sui forum pubblici, non vale la pena delle molestie e degli abusi che possiamo ricevere per aver parlato.
A volte, decidiamo che la cosa è troppo insignificante per essere menzionata. A volte non ha avuto quel grande impatto su di noi personalmente e non ci importa abbastanza per raccontarla. A volte sembra così piccola che pensiamo nessun altro vorrà ascoltarla. A volte pensiamo che è improbabile essere prese sul serio.
A volte il significato di quel che è accaduto diventa chiaro solo nel contesto di una diseguaglianza più vasta, dal lavoro domestico alle persecuzioni, che può essere davvero difficile comunicare ad altri, in particolare a coloro che sembrano star attivamente impegnandosi per non ascoltare.
A volte non c’è modo di articolare questo schema senza menzionare, ad un certo punto del discorso, che i perpetratori sono uomini e quando diciamo questo, molte persone ignorano completamente la nostra dichiarazione iniziale preferendovi una massa di “non tutti gli uomini sono così”, come se noi questo non lo sapessimo già, come se una generalizzazione (persino dovesse esistere) fatta da poche persone avesse più o meno lo stesso potere degli stereotipi e dei ruoli che la società forza su di noi, come se la semantica importasse di più del problema di cui stiamo parlando.
Per cui, quando qualcuna si apre ricordate che lo fa nonostante l’enorme numero di ragioni per non farlo, il che dimostra che l’impatto dell’evento è stato rilevante. Potrebbe essere stato particolarmente grave o flagrante. Potrebbe essere stato uno dei parecchi “piccoli accadimenti” che si sono dati in un solo giorno. Potrebbe essere la goccia finale per qualcuna che è già nervosa, arrabbiata o ansiosa per qualcosa di interamente diverso.
Qualsiasi sia la ragione, quando voi sentite parlare del sessismo quotidiano probabilmente significa che la donna in questione ne ha davvero abbastanza di maneggiare ‘sta roba un giorno dopo l’altro e di stare zitta al proposito.
E prima di risponderle con “perché fai tutto questo casino” o “smetti di essere così permalosa” o “non tutti gli uomini”, dovreste probabilmente prendere ciò in considerazione.
Ci sono alcune ragioni per questo.
In primo luogo, c’è la faccenda del sessismo giornaliero così normalizzato da non essere immediatamente notato.
Secondo, abbiamo delle vite e non è che desideriamo particolarmente stare a parlare del sessismo tutto il giorno. Dire “mi è capitata questa stronzata oggi.” non è sempre possibile – non sempre c’è qualcuno che possa ascoltarti, non sempre internet è disponbile, non sempre hai l’energia o la voglia di dire qualcosa. A volte intendiamo parlarne in un secondo momento; a volte ce ne dimentichiamo.
A volte, pensiamo “non ne vale la pena”, il che può significare un certo numero di cose diverse. A volte non vale la pena fare lo sforzo di cominciare una conversazione o di mandare un tweet; evidentemente, a volte dobbiamo scegliere le nostre battaglie e quando le altre persone non possono comunque risolvere il problema sembra un po’ privo di senso tirarlo fuori.
A volte non vale la pena spendere energia per la solita vecchia solfa in cui dobbiamo spiegare che non siamo ipersensibili e che gli ormoni non hanno nulla a che fare con come queste storie si accumulano, e che è dannoso e che le loro intenzioni non cancellano il danno fatto, e che non dovrebbe avere alcuna importanza come siamo vestite e tutte le altre cose che abbiamo già maneggiato un milione di volte prima.
A volte non vale la pena sentirsi dare della “stronza” o della “guastafeste” o dell’ “irrazionale” o comunque siano chiamate questa settimana le donne che difendono se stesse, in special modo quando siamo chiamate così per aver menzionato una singola istanza femminista, lasciando perdere il resto; e persino quando non te importa di cosa la gente pensa di te, ci sono pur sempre situazioni (come sul posto di lavoro) dove le opinioni delle altre persone su di te hanno rilevanza e conseguenze pesanti. A volte, specialmente nel confronto diretto o sui forum pubblici, non vale la pena delle molestie e degli abusi che possiamo ricevere per aver parlato.
A volte, decidiamo che la cosa è troppo insignificante per essere menzionata. A volte non ha avuto quel grande impatto su di noi personalmente e non ci importa abbastanza per raccontarla. A volte sembra così piccola che pensiamo nessun altro vorrà ascoltarla. A volte pensiamo che è improbabile essere prese sul serio.
A volte il significato di quel che è accaduto diventa chiaro solo nel contesto di una diseguaglianza più vasta, dal lavoro domestico alle persecuzioni, che può essere davvero difficile comunicare ad altri, in particolare a coloro che sembrano star attivamente impegnandosi per non ascoltare.
A volte non c’è modo di articolare questo schema senza menzionare, ad un certo punto del discorso, che i perpetratori sono uomini e quando diciamo questo, molte persone ignorano completamente la nostra dichiarazione iniziale preferendovi una massa di “non tutti gli uomini sono così”, come se noi questo non lo sapessimo già, come se una generalizzazione (persino dovesse esistere) fatta da poche persone avesse più o meno lo stesso potere degli stereotipi e dei ruoli che la società forza su di noi, come se la semantica importasse di più del problema di cui stiamo parlando.
Per cui, quando qualcuna si apre ricordate che lo fa nonostante l’enorme numero di ragioni per non farlo, il che dimostra che l’impatto dell’evento è stato rilevante. Potrebbe essere stato particolarmente grave o flagrante. Potrebbe essere stato uno dei parecchi “piccoli accadimenti” che si sono dati in un solo giorno. Potrebbe essere la goccia finale per qualcuna che è già nervosa, arrabbiata o ansiosa per qualcosa di interamente diverso.
Qualsiasi sia la ragione, quando voi sentite parlare del sessismo quotidiano probabilmente significa che la donna in questione ne ha davvero abbastanza di maneggiare ‘sta roba un giorno dopo l’altro e di stare zitta al proposito.
E prima di risponderle con “perché fai tutto questo casino” o “smetti di essere così permalosa” o “non tutti gli uomini”, dovreste probabilmente prendere ciò in considerazione.
sabato 28 novembre 2015
Perché non ti ho detto che mi picchiava. Una traduzione da This Is Why I Didn’t Tell You He Was Beating Me di Janice Fuller-Roberts
Quando sono fuggita dal mio rapporto con un uomo maltrattante per l’ultima volta (sì, l’ho lasciato e sono tornata), una delle prime cose che i miei ben intenzionati amici e i miei familiari mi hanno chiesto è il motivo per cui non ho mai detto loro quello che mi stava succedendo.
“Perché non hai detto qualcosa”, mi hanno chiesto, preoccupati e confusi. “Avremmo potuto aiutarti. Avremmo potuto fare qualcosa!”
Ci credo. Se avessero saputo quanto orribile la mia vita era diventata, non ho dubbi che avrebbero fatto del loro meglio per aiutarmi. Ma tutto questo è successo più di vent’anni fa. Oggi sono guarita, emotivamente sana, ne sono definitivamente uscita, e col senno di poi è facile vedere con chiarezza che i miei amici e la famiglia mi avrebbero aiutato.
Ma allora non era così. Perché quando sei nel bel mezzo delle cose, nel bel mezzo di un inferno del quale sei convinta di essere responsabile, non puoi vedere nulla in modo chiaro. La paura e la vergogna ti consumano: sono costantemente al tuo fianco. E quando guardi la tua famiglia e gli amici, li immagini mentre ti giudicano e ti deridono. Perché conosci le loro opinioni sulle donne coinvolte in relazioni violente.
Considerate questo scenario: avete un’amica d’infanzia alla quale siete sempre stati vicino. Ultimamente, non la vedete in giro tanto quanto eravate abituati a vederla. Ne deducete che sia presa dal suo nuovo rapporto. E in un primo momento era proprio così. All’inizio non poteva fare a meno di lui. Hanno trascorso quasi ogni momento della giornata insieme.
Ma in quel periodo ancora la sentivate, vi chiamava. E anche se lei per lo più parlava del suo nuovo amore, non aveva importanza. Era felice.
Poi le telefonate sono diventate meno frequenti. E quando avete provato a chiamarla voi, si è sottratta alla conversazione, con tono frettoloso e distratto. Amici comuni vi dicono che non la vedono da tempo. “E’ il suo nuovo ragazzo,” commentate fra voi “Non si separano mai ultimamente.”
Presto vi abituate alla sua assenza, non parlate più di lei tanto spesso. Vi manca, ma non volete essere quelli che cercano di sabotare il suo nuovo amore.
Un giorno vi imbattete in lei mentre fate la spesa, e rimanete sconvolti dal suo aspetto. Era sempre stata così attenta al suo aspetto, soprattutto in pubblico. E ora indossa una tuta macchiata di sudore con la quale non si sarebbe mai fatta vedere fuori di casa o fuori dalla palestra! Eppure eccola, non solo in tuta, ma una tuta sporca, e indossa una maglietta sformata, mentre i suoi capelli, di solito perfettamente acconciati, sono raccolti in una sciatta coda di cavallo. Le sue unghie sono trascurate.
Ha l’aria stanca.
Ma siete così felici di rivederla che subito l’abbracciate. Si irrigidisce tra le vostre braccia, come se le aveste fatto male. La lasciate andare, sorpresi. E osservate il suo viso.
Non vi guarda negli occhi. La sua bocca trema un po’, e le sue labbra sono screpolate. “È l’ombra di un livido quella sulla sua guancia?” pensate. No, deve essere l’illuminazione.
A questo punto vi scambiate convenevoli, ma non c’è una vera conversazione. Avete la sensazione che lei voglia andarsene … che lei non sia felice di vedervi. Vi sentite a disagio, ma non sapreste dire perché.
“Come stai?” le chiedete di nuovo, solo che questa volta sul serio.
“Bene”, risponde bruscamente. “Sto veramente bene. Ma vado di fretta. Ho bisogno di tornare a casa. ” “Non voglio trattenerti, allora.”
Qualcosa vi dice che non va bene affatto. Avete una voglia inspiegabile di prenderla di nuovo fra le braccia, ma non lo fate. Ignorate il vostro istinto e la lasciate andare per la sua strada. Ma dentro sentite che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in quella che una volta era la vostra estroversa, vivace, bella amica.
Ecco quello che non sapete: la vostra amica vorrebbe rifugiarsi fra le vostre braccia e chiedervi aiuto. Ma non lo farà. Non può. E’ troppa la vergogna. Se voi avete pensato che il suo aspetto fosse terribile, lei si vede ridotta in uno stato peggiore. In un lasso relativamente breve di tempo, lui è entrato nella sua testa e l’ha convinta che è brutta, stupida, senza valore.
Non si cura più, perché lui la accusa di vestirsi per qualche “altro uomo”, o perché in ogni caso lui le dirà che sta di merda, quindi non ha alcun senso provare a dimostrare il contrario.
La tuta è il suo nuovo migliore amico.
Lei non chiama più perché si vergogna della sua vita. Quel ragazzo meraviglioso del quale vi raccontava in principio si è trasformato in un mostro. E lei sa che se i suoi amici sapessero quanto male vanno le cose, penserebbero che lei è stupida proprio come lui la descrive, e che quindi forse lei lo è davvero. Dopo tutto, lei lo ama ancora. Quindi forse ha esattamente quello che si merita. Almeno questo è quello che pensa.
Non l’avete più vista in giro perché è questo che fanno gli uomini violenti: isolano le loro vittime da amici e familiari. Lo fanno in modo sottile, però. Non arrivano mai fino al punto di dire che lei non è autorizzata a vedervi, sarebbe troppo diretto e lui è molto più intelligente di così. Invece la convince a tenersi a distanza facendo cose come litigare con lei quando torna a casa. In questo modo, la prossima volta che sarà invitata fuori, lei declinerà, al fine di evitare un altro conflitto. Oppure la accusa di amare i suoi amici più di lui. In modo che lei resti a casa per non turbarlo. Lui usa l’amore di lei come un’arma.
E quei conflitti che lei è così ansiosa di evitare? “Conflitto” non è esattamente la parola giusta, non quando finisci sempre distesa sul pavimento. In un primo momento, si trattava più che altro di urla. Lei era capace di controllare la situazione allora. E’ sempre stata in grado di rispondere a tono. Ma poi lui è diventato crudele, ha cominciato a dire cose che la ferivano nel profondo. Ha preso le sue stesse parole e le ha usate contro di lei. E per tutto il tempo, ha interpretato il ruolo di quello ferito, che non riusciva a capire come lei potesse trattarlo così male, mentre lui la amava tanto. Accuse, recriminazioni, scenari selvaggi forgiati nelle valli profonde della sua mente contorta. Le risposte ragionevoli non potevano nulla contro la sua brutalità emotiva.
Quando il primo pugno ha colpito la sua mascella, la sua psiche era già stata picchiata a sangue. E non fatevi ingannare da quel fantasma di donna che avete appena visto al supermercato. Lei ha reagito. E’ riuscita a mandare a segno qualche colpo, specialmente quella prima volta. Ma lui è più forte di lei. Più grande di lei. Lui ha tirato pugni per tutta la vita e non ha mai ricevuto nemmeno una sculacciata da bambino, non c’è gara fra loro due, neanche fisicamente.
Vi chiedete: “Se sta così male perché non mi ha detto nulla? Ero proprio lì! Siamo amici fin dall’infanzia. Sicuramente lei sa che io l’avrei aiutata!”
Lo sa? Lo sa davvero? Oppure lei ti guarda, la sua amica d’infanzia, e pensa a quella volta che hai detto: “Io non capisco perché le donne stanno con gli uomini che le picchiano”?
Ricordate quando è uscita fuori la storia di Ray Rice, e ne avete parlato tra un drink e l’altro? Ricordate quello che avete detto? Avete detto: “Se un uomo mi picchia una volta, la colpa è sua; se mi picchia una seconda volta, la colpa è mia. Quella donna è stata un idiota a sposarlo dopo quello che lui le ha fatto in quel ascensore! ”
Lei si ricorda quelle parole. E anche se sa che la amate e la sosterreste, non può fare a meno di chiedersi cosa pensereste di lei se sapeste che cosa sta realmente accadendo. Lei vuole disperatamene uscire da quella situazione, ma non sa come. Può anche essere convinta che lui farà del male a chi cerca di aiutarla. Dovete ricordare che lui è sempre nei suoi pensieri, anche quando non è lì a picchiarla.
Fidatevi del vostro istinto. Conoscete la vostra amica. E da quell’incontro nel negozio, sapete che c’è qualcosa che non va. Quindi, per favore, non abbiate paura di approfondire.
Iniziate con una telefonata. Ma non entrate subito in argomento: non dite subito che avete paura che lui la maltratti, o cose del genere. Se lui è in casa, in quel momento, lei non dirà nulla in ogni caso. Semplicemente trasmettetele il messaggio che vi importa di lei e volete aiutarla. Siate amorevoli e gentili senza farle pressioni.
Dire qualcosa come: “lo so che sei occupata ora. Ma quando hai un po’ di tempo per te, fammi una telefonata. Sono preoccupata per te e ti voglio aiutare. Ti voglio bene.” Siate brevi, ma chiari: siete preoccupati, la volete aiutare, le volete bene.
Se lei non richiama dopo quella prima telefonata, chiamatela di nuovo. Cercate di avviare un dialogo con lei. Cercare di raggiungerla quando sapete che è sola, o almeno lontano da lui. Ricordate che il vostro obiettivo è aiutarla, non metterla in pericolo.
Siate pronti alle sue smentite. Vergogna, senso di colpa, paura, e anche la preoccupazione per la vostra sicurezza sono tutte cose che le impediranno di aprirsi con voi. Basta ricordarle con delicatezza che, se lei è nel tipo di guai che sospettate, non ha motivo di vergognarsi. Le volete bene, avete stima di lei, volete solo aiutarla.
Il tentativo di persuaderla potrebbe non funzionare. Un intervento concreto, possibilmente a norma di legge, potrebbe rendersi necessario. Se questo è il caso, non tentate di gestire la situazione da soli. Coinvolgete altri amici e la famiglia, e, soprattutto, affidatevi a degli esperti. (…)
Dovete sapere che in media una vittima di violenza lascia il suo aguzzino sette volte prima di lasciarlo per sempre. Quindi, anche se la vostra amica lo abbandona, può sempre tornare sui suoi passi. E’ a questo punto che la vostra amicizia sarà messa a dura prova. Sarete delusi e anche arrabbiati visto che, dopo tutta la fatica fatta per aiutarla a fuggire, lei torna al punto di partenza. E la vostra rabbia è comprensibile.
Ma l’arma più letale di un violento è la sua capacità di manipolare la mente della sua vittima. Per rompere quel legame ci vuole tempo, pazienza, un aiuto professionale, e un sacco di duro lavoro da parte vostra. Dovete solo continuare ad amarla e sostenerla, anche quando lei vi delude. Cercate di trattenervi dal giudicarla: potrà solo peggiorare le cose.
E’ doloroso vedere qualcuno che amate soffrire a causa della violenza domestica. E ‘anche difficile capire perché le donne rimangono assieme o tornano con degli uomini che fanno loro del male. Ma lasciarli è molto più difficile di quanto si pensi. La paura, la mancanza di risorse finanziarie e la vergogna sono solo alcuni dei motivi per cui le donne rimangono (o ritornano). Se ci sono dei figli coinvolti, è ancora più complicato. Molte donne non hanno un posto dove andare. I rifugi si riempiono velocemente, sono pochi e lontani tra loro. E purtroppo, nonostante tutto quello che è stato fatto a livello legislativo per proteggere le vittime di violenza domestica, è ancora troppo facile per i violenti rintracciare le loro vittime e ucciderle. Così alcune donne scelgono di restare, nella speranza che questo le mantenga in vita.
In quanto amici di vittime di abusi, dobbiamo informarci sulle dinamiche della violenza domestica. E soprattutto, abbiamo bisogno di abbandonare i nostri pregiudizi sulle vittime. Hanno bisogno del nostro sostegno e di empatia. Io l’ho imparato nel modo più duro. Anche io giudicavo le donne che rimangono con un partner violento. E ho continuato a giudicarle fino al momento in cui l’uomo che amavo mi ha colpito con un pugno.
“Perché non hai detto qualcosa”, mi hanno chiesto, preoccupati e confusi. “Avremmo potuto aiutarti. Avremmo potuto fare qualcosa!”
Ci credo. Se avessero saputo quanto orribile la mia vita era diventata, non ho dubbi che avrebbero fatto del loro meglio per aiutarmi. Ma tutto questo è successo più di vent’anni fa. Oggi sono guarita, emotivamente sana, ne sono definitivamente uscita, e col senno di poi è facile vedere con chiarezza che i miei amici e la famiglia mi avrebbero aiutato.
Ma allora non era così. Perché quando sei nel bel mezzo delle cose, nel bel mezzo di un inferno del quale sei convinta di essere responsabile, non puoi vedere nulla in modo chiaro. La paura e la vergogna ti consumano: sono costantemente al tuo fianco. E quando guardi la tua famiglia e gli amici, li immagini mentre ti giudicano e ti deridono. Perché conosci le loro opinioni sulle donne coinvolte in relazioni violente.
Considerate questo scenario: avete un’amica d’infanzia alla quale siete sempre stati vicino. Ultimamente, non la vedete in giro tanto quanto eravate abituati a vederla. Ne deducete che sia presa dal suo nuovo rapporto. E in un primo momento era proprio così. All’inizio non poteva fare a meno di lui. Hanno trascorso quasi ogni momento della giornata insieme.
Ma in quel periodo ancora la sentivate, vi chiamava. E anche se lei per lo più parlava del suo nuovo amore, non aveva importanza. Era felice.
Poi le telefonate sono diventate meno frequenti. E quando avete provato a chiamarla voi, si è sottratta alla conversazione, con tono frettoloso e distratto. Amici comuni vi dicono che non la vedono da tempo. “E’ il suo nuovo ragazzo,” commentate fra voi “Non si separano mai ultimamente.”
Presto vi abituate alla sua assenza, non parlate più di lei tanto spesso. Vi manca, ma non volete essere quelli che cercano di sabotare il suo nuovo amore.
Un giorno vi imbattete in lei mentre fate la spesa, e rimanete sconvolti dal suo aspetto. Era sempre stata così attenta al suo aspetto, soprattutto in pubblico. E ora indossa una tuta macchiata di sudore con la quale non si sarebbe mai fatta vedere fuori di casa o fuori dalla palestra! Eppure eccola, non solo in tuta, ma una tuta sporca, e indossa una maglietta sformata, mentre i suoi capelli, di solito perfettamente acconciati, sono raccolti in una sciatta coda di cavallo. Le sue unghie sono trascurate.
Ha l’aria stanca.
Ma siete così felici di rivederla che subito l’abbracciate. Si irrigidisce tra le vostre braccia, come se le aveste fatto male. La lasciate andare, sorpresi. E osservate il suo viso.
Non vi guarda negli occhi. La sua bocca trema un po’, e le sue labbra sono screpolate. “È l’ombra di un livido quella sulla sua guancia?” pensate. No, deve essere l’illuminazione.
A questo punto vi scambiate convenevoli, ma non c’è una vera conversazione. Avete la sensazione che lei voglia andarsene … che lei non sia felice di vedervi. Vi sentite a disagio, ma non sapreste dire perché.
“Come stai?” le chiedete di nuovo, solo che questa volta sul serio.
“Bene”, risponde bruscamente. “Sto veramente bene. Ma vado di fretta. Ho bisogno di tornare a casa. ” “Non voglio trattenerti, allora.”
Qualcosa vi dice che non va bene affatto. Avete una voglia inspiegabile di prenderla di nuovo fra le braccia, ma non lo fate. Ignorate il vostro istinto e la lasciate andare per la sua strada. Ma dentro sentite che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in quella che una volta era la vostra estroversa, vivace, bella amica.
Ecco quello che non sapete: la vostra amica vorrebbe rifugiarsi fra le vostre braccia e chiedervi aiuto. Ma non lo farà. Non può. E’ troppa la vergogna. Se voi avete pensato che il suo aspetto fosse terribile, lei si vede ridotta in uno stato peggiore. In un lasso relativamente breve di tempo, lui è entrato nella sua testa e l’ha convinta che è brutta, stupida, senza valore.
Non si cura più, perché lui la accusa di vestirsi per qualche “altro uomo”, o perché in ogni caso lui le dirà che sta di merda, quindi non ha alcun senso provare a dimostrare il contrario.
La tuta è il suo nuovo migliore amico.
Lei non chiama più perché si vergogna della sua vita. Quel ragazzo meraviglioso del quale vi raccontava in principio si è trasformato in un mostro. E lei sa che se i suoi amici sapessero quanto male vanno le cose, penserebbero che lei è stupida proprio come lui la descrive, e che quindi forse lei lo è davvero. Dopo tutto, lei lo ama ancora. Quindi forse ha esattamente quello che si merita. Almeno questo è quello che pensa.
Non l’avete più vista in giro perché è questo che fanno gli uomini violenti: isolano le loro vittime da amici e familiari. Lo fanno in modo sottile, però. Non arrivano mai fino al punto di dire che lei non è autorizzata a vedervi, sarebbe troppo diretto e lui è molto più intelligente di così. Invece la convince a tenersi a distanza facendo cose come litigare con lei quando torna a casa. In questo modo, la prossima volta che sarà invitata fuori, lei declinerà, al fine di evitare un altro conflitto. Oppure la accusa di amare i suoi amici più di lui. In modo che lei resti a casa per non turbarlo. Lui usa l’amore di lei come un’arma.
E quei conflitti che lei è così ansiosa di evitare? “Conflitto” non è esattamente la parola giusta, non quando finisci sempre distesa sul pavimento. In un primo momento, si trattava più che altro di urla. Lei era capace di controllare la situazione allora. E’ sempre stata in grado di rispondere a tono. Ma poi lui è diventato crudele, ha cominciato a dire cose che la ferivano nel profondo. Ha preso le sue stesse parole e le ha usate contro di lei. E per tutto il tempo, ha interpretato il ruolo di quello ferito, che non riusciva a capire come lei potesse trattarlo così male, mentre lui la amava tanto. Accuse, recriminazioni, scenari selvaggi forgiati nelle valli profonde della sua mente contorta. Le risposte ragionevoli non potevano nulla contro la sua brutalità emotiva.
Quando il primo pugno ha colpito la sua mascella, la sua psiche era già stata picchiata a sangue. E non fatevi ingannare da quel fantasma di donna che avete appena visto al supermercato. Lei ha reagito. E’ riuscita a mandare a segno qualche colpo, specialmente quella prima volta. Ma lui è più forte di lei. Più grande di lei. Lui ha tirato pugni per tutta la vita e non ha mai ricevuto nemmeno una sculacciata da bambino, non c’è gara fra loro due, neanche fisicamente.
Vi chiedete: “Se sta così male perché non mi ha detto nulla? Ero proprio lì! Siamo amici fin dall’infanzia. Sicuramente lei sa che io l’avrei aiutata!”
Lo sa? Lo sa davvero? Oppure lei ti guarda, la sua amica d’infanzia, e pensa a quella volta che hai detto: “Io non capisco perché le donne stanno con gli uomini che le picchiano”?
Ricordate quando è uscita fuori la storia di Ray Rice, e ne avete parlato tra un drink e l’altro? Ricordate quello che avete detto? Avete detto: “Se un uomo mi picchia una volta, la colpa è sua; se mi picchia una seconda volta, la colpa è mia. Quella donna è stata un idiota a sposarlo dopo quello che lui le ha fatto in quel ascensore! ”
Lei si ricorda quelle parole. E anche se sa che la amate e la sosterreste, non può fare a meno di chiedersi cosa pensereste di lei se sapeste che cosa sta realmente accadendo. Lei vuole disperatamene uscire da quella situazione, ma non sa come. Può anche essere convinta che lui farà del male a chi cerca di aiutarla. Dovete ricordare che lui è sempre nei suoi pensieri, anche quando non è lì a picchiarla.
Fidatevi del vostro istinto. Conoscete la vostra amica. E da quell’incontro nel negozio, sapete che c’è qualcosa che non va. Quindi, per favore, non abbiate paura di approfondire.
Iniziate con una telefonata. Ma non entrate subito in argomento: non dite subito che avete paura che lui la maltratti, o cose del genere. Se lui è in casa, in quel momento, lei non dirà nulla in ogni caso. Semplicemente trasmettetele il messaggio che vi importa di lei e volete aiutarla. Siate amorevoli e gentili senza farle pressioni.
Dire qualcosa come: “lo so che sei occupata ora. Ma quando hai un po’ di tempo per te, fammi una telefonata. Sono preoccupata per te e ti voglio aiutare. Ti voglio bene.” Siate brevi, ma chiari: siete preoccupati, la volete aiutare, le volete bene.
Se lei non richiama dopo quella prima telefonata, chiamatela di nuovo. Cercate di avviare un dialogo con lei. Cercare di raggiungerla quando sapete che è sola, o almeno lontano da lui. Ricordate che il vostro obiettivo è aiutarla, non metterla in pericolo.
Siate pronti alle sue smentite. Vergogna, senso di colpa, paura, e anche la preoccupazione per la vostra sicurezza sono tutte cose che le impediranno di aprirsi con voi. Basta ricordarle con delicatezza che, se lei è nel tipo di guai che sospettate, non ha motivo di vergognarsi. Le volete bene, avete stima di lei, volete solo aiutarla.
Il tentativo di persuaderla potrebbe non funzionare. Un intervento concreto, possibilmente a norma di legge, potrebbe rendersi necessario. Se questo è il caso, non tentate di gestire la situazione da soli. Coinvolgete altri amici e la famiglia, e, soprattutto, affidatevi a degli esperti. (…)
Dovete sapere che in media una vittima di violenza lascia il suo aguzzino sette volte prima di lasciarlo per sempre. Quindi, anche se la vostra amica lo abbandona, può sempre tornare sui suoi passi. E’ a questo punto che la vostra amicizia sarà messa a dura prova. Sarete delusi e anche arrabbiati visto che, dopo tutta la fatica fatta per aiutarla a fuggire, lei torna al punto di partenza. E la vostra rabbia è comprensibile.
Ma l’arma più letale di un violento è la sua capacità di manipolare la mente della sua vittima. Per rompere quel legame ci vuole tempo, pazienza, un aiuto professionale, e un sacco di duro lavoro da parte vostra. Dovete solo continuare ad amarla e sostenerla, anche quando lei vi delude. Cercate di trattenervi dal giudicarla: potrà solo peggiorare le cose.
E’ doloroso vedere qualcuno che amate soffrire a causa della violenza domestica. E ‘anche difficile capire perché le donne rimangono assieme o tornano con degli uomini che fanno loro del male. Ma lasciarli è molto più difficile di quanto si pensi. La paura, la mancanza di risorse finanziarie e la vergogna sono solo alcuni dei motivi per cui le donne rimangono (o ritornano). Se ci sono dei figli coinvolti, è ancora più complicato. Molte donne non hanno un posto dove andare. I rifugi si riempiono velocemente, sono pochi e lontani tra loro. E purtroppo, nonostante tutto quello che è stato fatto a livello legislativo per proteggere le vittime di violenza domestica, è ancora troppo facile per i violenti rintracciare le loro vittime e ucciderle. Così alcune donne scelgono di restare, nella speranza che questo le mantenga in vita.
In quanto amici di vittime di abusi, dobbiamo informarci sulle dinamiche della violenza domestica. E soprattutto, abbiamo bisogno di abbandonare i nostri pregiudizi sulle vittime. Hanno bisogno del nostro sostegno e di empatia. Io l’ho imparato nel modo più duro. Anche io giudicavo le donne che rimangono con un partner violento. E ho continuato a giudicarle fino al momento in cui l’uomo che amavo mi ha colpito con un pugno.
venerdì 27 novembre 2015
Eve Ensler e il "Monologo dell'Is", un grido contro la violenza sulle donne
Penso al listino del mercato delle schiave sessuali dell'Is in cui donne e bambine sono prezzate come il bestiame. L'Is ha dovuto calmierare i prezzi, temeva un calo del mercato: 40 dollari per le donne tra i 40 e i 50 anni, 69 dollari per le trenta-quarantenni, 86 per le venti- trentenni fino a 172 per le bimbe da 1 a 9 anni. Quelle sopra i cinquanta non compaiono neppure in lista, considerate prive di valore di mercato. Vengono scartate come cartoni di latte scaduti. Ma non ci si limita ad abbandonarle in qualche fetida discarica. Prima probabilmente vengono torturate, stuprate, decapitate. Penso al corpicino in vendita di una bambina di un anno, a come dev'essere per un soldato trentenne, corpulento, affamato di guerra e sesso, comprarla, impacchettarla e portarsela a casa come un televisore nuovo.
Penso che nel 2015 io sto davvero leggendo un manuale online con le buone pratiche di schiavitù sessuale. Ci sono istruzioni passo per passo e regole su come trattare la tua schiava, lo pubblica un'istituzione molto ben organizzata(l'Ufficio della schiavitù sessuale) di un governo canaglia, incaricata di regolamentare gli stupri, le percosse, l'acquisto e la riduzione in schiavitù delle donne.
Ecco qualche esempio tratto dal manuale: "È permesso percuotere la schiava come [forma di] darb ta'deeb [percosse disciplinari], [ma ] è vietato [ricorrere alle ] darb al-takseer [letteralmente percosse massacranti], [darb] al-tashaffi [percosse allo scopo di ottenere gratificazione], oppure [darb] al-ta'dheeb [percosse come tortura]. Inoltre è proibito colpire al volto". Mi chiedo come facciano i burocrati dell'Is a distinguere i pugni, i calci e lo strangolamento inflitti a scopi disciplinari dagli atti mirati alla gratificazione sessuale. Interviene una squadra tutte le volte che una schiava viene picchiata, per controllare se c'è erezione? E come fanno poi a stabilire che cosa, con esattezza, l'ha provocata? Certi uomini si eccitano soltanto nel momento in cui affermano il proprio potere. E se si stabilisce che il soldato picchia, strangola e prende a calci la sua schiava per puro piacere, qual è la punizione per lui? Verrà costretto a restituire la schiava e a perdere il deposito, dovrà pagare una multa salata, o semplicemente pregare di più?
Penso alla facilità con cui si considera l'Is una mostruosa aberrazione, mentre in realtà è l'esito di una lunga serie ininterrotta di crimini e disordini. Le atrocità sessuali inflitte dall'Is si differenziano solo nella forma e nella prassi da quelle perpetrate da molti altri signori della guerra in altri conflitti. Sconvolgente e nuovo è lo sfoggio sfrontato e impudente che si fa di questi crimini pubblicizzati su internet, lo sdoganamento commerciale di queste atrocità, le app, dove il sesso è un mezzo per reclutare. Le azioni e la rapida proliferazione dell'Is non nascono dal nulla. Sono il frutto di un'escalation legittimata da secoli di dilagante impunità della violenza sessuale. Questo mi fa venire in mente le Comfort women , le prime schiave sessuali dell'era moderna, giovani donne asiatiche rapite nel fiore degli anni dall'esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra mondiale e detenute nelle comfort stations , per soddisfare le esigenze sessuali dei soldati al servizio del loro Paese. Le donne subivano anche settanta stupri al giorno. Quando, esauste, non riuscivano più a muoversi, venivano incatenate al letto e stuprate ancora come sacchi molli. A queste donne la vergogna ha tappato la bocca per quarantacinque anni e per altri venticinque hanno marciato e atteso, vigili, sotto la pioggia, chiedendo giustizia. Sono rimaste in poche ormai e non più tardi di un mese fa il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha perso l'ennesima occasione di fare ammenda.
Io penso all'inerzia, al silenzio, alla paralisi che ha bloccato e impedito le indagini e l'incriminazione degli abusi sessuali ai danni delle donne musulmane, croate e serbe stuprate nei campi dell'ex Yugoslavia, delle donne e delle bambine afroamericane stuprate nelle piantagioni del Sud, delle donne e delle bambine ebree stuprate nei campi di concentramento tedeschi, delle donne e delle bambine native americane stuprate nelle riserve degli Stati Uniti. Mi sembra di sentire i lamenti delle anime in pena di donne e bambine violate in Bangladesh, Sri Lanka, Haiti, Guatemala, Filippine, Sudan, Cecenia, Nigeria, Colombia, Nepal, e la lista si allunga. Penso agli ultimi otto anni che ho trascorso nella Repubblica democratica del Congo dove un'analoga conflagrazione di capitalismo rapace, secoli di colonialismo, guerra e violenza senza fine ha lasciato migliaia di donne e bambine prive di organi, salute mentale, famiglia o futuro. E penso a parole come "ri-violentata", sostituita ormai da "ri-ri-riviolentata".
Vedete, è come se stessi raccontando la stessa storia da vent'anni. Ci ho provato con i numeri, il distacco, la passione, le suppliche, la disperazione esistenziale, e anche ora, mentre scrivo, mi chiedo se abbiamo creato un linguaggio adatto a questo secolo che sia più potente del pianto.
Penso che le istituzioni patriarcali non hanno saputo intervenire in maniera efficace e che le strutture come l'Onu amplificano il problema nel momento in cui le forze di peacekeeping che dovrebbero proteggere le donne e le bambine si macchiano a loro volta di stupri.
Penso all'operazione Shock and Awe ("colpisci e terrorizza")e a come ha contribuito a scatenare questa, che potremmo definire "Stupra e decapita". Quando noi cittadini, a milioni, in tutto il mondo, manifestavamo contro la guerra inutile e immorale in Iraq restando inascoltati, eravamo perfettamente consapevoli del dolore, dell'umiliazione e dell'oscurità che avrebbero generato quei letali tremila missili Tomahawk americani.
Penso al fondamentalismo religioso e a Dio padre, a quante donne sono state stuprate in suo nome, a quante massacrate e assassinate. Penso al concetto di stupro come preghiera, alla "teologia dello stupro", alla religione dello stupro. Questa pratica è una delle più diffuse religioni al mondo, in crescita con centinaia di conversioni al giorno, dato che un miliardo di donne nella sua vita subirà percosse o uno stupro (i dati sono dell'Onu).
Penso alla velocità folle a cui si moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi delle donne in un siste- ma in cui ciò che più è vivo, sia esso la terra o le donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la crescita e l'amnesia.
Penso alle migliaia di giovani occidentali, uomini e donne, tra i quindici e i vent'anni, che si sono arruolati nell'Is. In cerca di cosa, in fuga da cosa? Povertà, alienazione, islamofobia, desiderio di avere un senso e un obiettivo?
Penso a quello che mi ha detto la mia sorella attivista in una conversazione su Skype da Baghdad questa settimana: "L'Is è un virus e l'unica cosa da fare con i virus è sterminarli". Mi chiedo, come si stermina una mentalità, come si bombarda un paradigma? Come si fanno saltare la misoginia, il capitalismo, l'imperialismo e il fondamentalismo religioso?
Penso, o forse non riesco a pensare, prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo. Da un lato sono consapevole che l'unico modo per andare avanti è riscrivere da zero la storia attuale, procedere a un esame collettivo approfondito e ponderato delle cause che stanno alla base delle varie violenze in tutte le loro componenti economiche, psicologiche, razziali, patriarcali, che richiedono tempo. Allo stesso tempo, so che in questo preciso istante tremila donne yazide subiscono percosse, stupri e torture.
Penso alle donne, alle migliaia di donne che in tutto il mondo hanno operato senza pausa per anni e anni, esaurendo ogni fibra del loro essere per denunciare lo stupro, per porre fine a questa patologia di violenza e odio nei nostri confronti. E la razionalità, la pazienza, l'empatia, la mole della ricerca, le cifre che mostriamo, le sopravvissute che curiamo, le storie che ascoltiamo, le figlie che seppelliamo, il cancro di cui ci ammaliamo non contano: la guerra contro di noi infuria ogni giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.
Penso che l'Is, come l'aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature assassine sia forse il segnale che per le donne si avvicina lo scontro finale. È giunta l'ora in cui secoli eterni di rabbia femminile devono fondersi in un'impetuosa forza vulcanica, scatenando la furia globale della vagina delle divinità femminili Kali, Oya, Pele, Mama Wati, Hera, Durga, Inanna e Ixchel, lasciando che sia la nostra ira a guidarci.
Penso alla cantante folk yazida Xate Zhangali, che dopo aver visto le teste delle sue sorelle penzolare dai pali nella piazza del suo villaggio ha chiesto al governo curdo di armare e addestrare le donne, e penso alle Sun Girls, la milizia femminile da lei creata, che combatte l'Is sulle montagne del Sinjar. E in questo momento, dopo anni di attivismo contro la violenza, sogno che migliaia di casse piene di ak47 cadano dal cielo sui villaggi, le fattorie e le terre delle donne, questi guerrieri con il seno che insorgono combattendo per la vita.
Così sono arrivata a pensare all'amore, a come il fallimento di questo secolo sia un fallimento dell'amore. Cosa siamo chiamati a fare, di che cosa siamo fatti tutti noi che siamo in vita su questo pianeta oggi. Che tipo di amore serve, quanto deve essere profondo, intenso e bruciante. Non un amore ingenuo sentimentale, neoliberista, ma un amore ossessivamente altruista.
Un amore che sconfigga i sistemi basati sullo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi. Un amore che trasformi il nostro disgusto passivo di fronte ai crimini contro le donne e l'umanità in una resistenza collettiva inarrestabile. Un amore che veneri il mistero e dissolva la gerarchia. Un amore che trovi valore nella connessione e non nella competizione tra noi. Un amore che ci faccia aprire le braccia ai profughi in fuga invece di costruire muri per tenerli fuori, bersagliarli con i lacrimogeni o rimuovere i loro corpi gonfi dalle nostre spiagge.
Un amore che bruci di fiamma viva tanto da pervadere il nostro torpore, squagliare i nostri muri, accendere la nostra immaginazione e motivarci a uscire infine, liberi, da questa storia di morte. Un amore che ci dia la scossa,
spingendoci a dare la nostra vita per la vita, se necessario.
Chi saranno i coraggiosi, furibondi, visionari autori del nostro manuale di amore rivoluzionario?
Parigi, settembre 2015. Per Yanar e le mie sorelle in Iraq e in Siria
(Traduzione di Emilia Benghi)
Penso che nel 2015 io sto davvero leggendo un manuale online con le buone pratiche di schiavitù sessuale. Ci sono istruzioni passo per passo e regole su come trattare la tua schiava, lo pubblica un'istituzione molto ben organizzata(l'Ufficio della schiavitù sessuale) di un governo canaglia, incaricata di regolamentare gli stupri, le percosse, l'acquisto e la riduzione in schiavitù delle donne.
Ecco qualche esempio tratto dal manuale: "È permesso percuotere la schiava come [forma di] darb ta'deeb [percosse disciplinari], [ma ] è vietato [ricorrere alle ] darb al-takseer [letteralmente percosse massacranti], [darb] al-tashaffi [percosse allo scopo di ottenere gratificazione], oppure [darb] al-ta'dheeb [percosse come tortura]. Inoltre è proibito colpire al volto". Mi chiedo come facciano i burocrati dell'Is a distinguere i pugni, i calci e lo strangolamento inflitti a scopi disciplinari dagli atti mirati alla gratificazione sessuale. Interviene una squadra tutte le volte che una schiava viene picchiata, per controllare se c'è erezione? E come fanno poi a stabilire che cosa, con esattezza, l'ha provocata? Certi uomini si eccitano soltanto nel momento in cui affermano il proprio potere. E se si stabilisce che il soldato picchia, strangola e prende a calci la sua schiava per puro piacere, qual è la punizione per lui? Verrà costretto a restituire la schiava e a perdere il deposito, dovrà pagare una multa salata, o semplicemente pregare di più?
Penso alla facilità con cui si considera l'Is una mostruosa aberrazione, mentre in realtà è l'esito di una lunga serie ininterrotta di crimini e disordini. Le atrocità sessuali inflitte dall'Is si differenziano solo nella forma e nella prassi da quelle perpetrate da molti altri signori della guerra in altri conflitti. Sconvolgente e nuovo è lo sfoggio sfrontato e impudente che si fa di questi crimini pubblicizzati su internet, lo sdoganamento commerciale di queste atrocità, le app, dove il sesso è un mezzo per reclutare. Le azioni e la rapida proliferazione dell'Is non nascono dal nulla. Sono il frutto di un'escalation legittimata da secoli di dilagante impunità della violenza sessuale. Questo mi fa venire in mente le Comfort women , le prime schiave sessuali dell'era moderna, giovani donne asiatiche rapite nel fiore degli anni dall'esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra mondiale e detenute nelle comfort stations , per soddisfare le esigenze sessuali dei soldati al servizio del loro Paese. Le donne subivano anche settanta stupri al giorno. Quando, esauste, non riuscivano più a muoversi, venivano incatenate al letto e stuprate ancora come sacchi molli. A queste donne la vergogna ha tappato la bocca per quarantacinque anni e per altri venticinque hanno marciato e atteso, vigili, sotto la pioggia, chiedendo giustizia. Sono rimaste in poche ormai e non più tardi di un mese fa il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha perso l'ennesima occasione di fare ammenda.
Io penso all'inerzia, al silenzio, alla paralisi che ha bloccato e impedito le indagini e l'incriminazione degli abusi sessuali ai danni delle donne musulmane, croate e serbe stuprate nei campi dell'ex Yugoslavia, delle donne e delle bambine afroamericane stuprate nelle piantagioni del Sud, delle donne e delle bambine ebree stuprate nei campi di concentramento tedeschi, delle donne e delle bambine native americane stuprate nelle riserve degli Stati Uniti. Mi sembra di sentire i lamenti delle anime in pena di donne e bambine violate in Bangladesh, Sri Lanka, Haiti, Guatemala, Filippine, Sudan, Cecenia, Nigeria, Colombia, Nepal, e la lista si allunga. Penso agli ultimi otto anni che ho trascorso nella Repubblica democratica del Congo dove un'analoga conflagrazione di capitalismo rapace, secoli di colonialismo, guerra e violenza senza fine ha lasciato migliaia di donne e bambine prive di organi, salute mentale, famiglia o futuro. E penso a parole come "ri-violentata", sostituita ormai da "ri-ri-riviolentata".
Vedete, è come se stessi raccontando la stessa storia da vent'anni. Ci ho provato con i numeri, il distacco, la passione, le suppliche, la disperazione esistenziale, e anche ora, mentre scrivo, mi chiedo se abbiamo creato un linguaggio adatto a questo secolo che sia più potente del pianto.
Penso che le istituzioni patriarcali non hanno saputo intervenire in maniera efficace e che le strutture come l'Onu amplificano il problema nel momento in cui le forze di peacekeeping che dovrebbero proteggere le donne e le bambine si macchiano a loro volta di stupri.
Penso all'operazione Shock and Awe ("colpisci e terrorizza")e a come ha contribuito a scatenare questa, che potremmo definire "Stupra e decapita". Quando noi cittadini, a milioni, in tutto il mondo, manifestavamo contro la guerra inutile e immorale in Iraq restando inascoltati, eravamo perfettamente consapevoli del dolore, dell'umiliazione e dell'oscurità che avrebbero generato quei letali tremila missili Tomahawk americani.
Penso al fondamentalismo religioso e a Dio padre, a quante donne sono state stuprate in suo nome, a quante massacrate e assassinate. Penso al concetto di stupro come preghiera, alla "teologia dello stupro", alla religione dello stupro. Questa pratica è una delle più diffuse religioni al mondo, in crescita con centinaia di conversioni al giorno, dato che un miliardo di donne nella sua vita subirà percosse o uno stupro (i dati sono dell'Onu).
Penso alla velocità folle a cui si moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi delle donne in un siste- ma in cui ciò che più è vivo, sia esso la terra o le donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la crescita e l'amnesia.
Penso alle migliaia di giovani occidentali, uomini e donne, tra i quindici e i vent'anni, che si sono arruolati nell'Is. In cerca di cosa, in fuga da cosa? Povertà, alienazione, islamofobia, desiderio di avere un senso e un obiettivo?
Penso a quello che mi ha detto la mia sorella attivista in una conversazione su Skype da Baghdad questa settimana: "L'Is è un virus e l'unica cosa da fare con i virus è sterminarli". Mi chiedo, come si stermina una mentalità, come si bombarda un paradigma? Come si fanno saltare la misoginia, il capitalismo, l'imperialismo e il fondamentalismo religioso?
Penso, o forse non riesco a pensare, prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo. Da un lato sono consapevole che l'unico modo per andare avanti è riscrivere da zero la storia attuale, procedere a un esame collettivo approfondito e ponderato delle cause che stanno alla base delle varie violenze in tutte le loro componenti economiche, psicologiche, razziali, patriarcali, che richiedono tempo. Allo stesso tempo, so che in questo preciso istante tremila donne yazide subiscono percosse, stupri e torture.
Penso alle donne, alle migliaia di donne che in tutto il mondo hanno operato senza pausa per anni e anni, esaurendo ogni fibra del loro essere per denunciare lo stupro, per porre fine a questa patologia di violenza e odio nei nostri confronti. E la razionalità, la pazienza, l'empatia, la mole della ricerca, le cifre che mostriamo, le sopravvissute che curiamo, le storie che ascoltiamo, le figlie che seppelliamo, il cancro di cui ci ammaliamo non contano: la guerra contro di noi infuria ogni giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.
Penso che l'Is, come l'aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature assassine sia forse il segnale che per le donne si avvicina lo scontro finale. È giunta l'ora in cui secoli eterni di rabbia femminile devono fondersi in un'impetuosa forza vulcanica, scatenando la furia globale della vagina delle divinità femminili Kali, Oya, Pele, Mama Wati, Hera, Durga, Inanna e Ixchel, lasciando che sia la nostra ira a guidarci.
Penso alla cantante folk yazida Xate Zhangali, che dopo aver visto le teste delle sue sorelle penzolare dai pali nella piazza del suo villaggio ha chiesto al governo curdo di armare e addestrare le donne, e penso alle Sun Girls, la milizia femminile da lei creata, che combatte l'Is sulle montagne del Sinjar. E in questo momento, dopo anni di attivismo contro la violenza, sogno che migliaia di casse piene di ak47 cadano dal cielo sui villaggi, le fattorie e le terre delle donne, questi guerrieri con il seno che insorgono combattendo per la vita.
Così sono arrivata a pensare all'amore, a come il fallimento di questo secolo sia un fallimento dell'amore. Cosa siamo chiamati a fare, di che cosa siamo fatti tutti noi che siamo in vita su questo pianeta oggi. Che tipo di amore serve, quanto deve essere profondo, intenso e bruciante. Non un amore ingenuo sentimentale, neoliberista, ma un amore ossessivamente altruista.
Un amore che sconfigga i sistemi basati sullo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi. Un amore che trasformi il nostro disgusto passivo di fronte ai crimini contro le donne e l'umanità in una resistenza collettiva inarrestabile. Un amore che veneri il mistero e dissolva la gerarchia. Un amore che trovi valore nella connessione e non nella competizione tra noi. Un amore che ci faccia aprire le braccia ai profughi in fuga invece di costruire muri per tenerli fuori, bersagliarli con i lacrimogeni o rimuovere i loro corpi gonfi dalle nostre spiagge.
Un amore che bruci di fiamma viva tanto da pervadere il nostro torpore, squagliare i nostri muri, accendere la nostra immaginazione e motivarci a uscire infine, liberi, da questa storia di morte. Un amore che ci dia la scossa,
spingendoci a dare la nostra vita per la vita, se necessario.
Chi saranno i coraggiosi, furibondi, visionari autori del nostro manuale di amore rivoluzionario?
Parigi, settembre 2015. Per Yanar e le mie sorelle in Iraq e in Siria
(Traduzione di Emilia Benghi)
giovedì 26 novembre 2015
25 Novembre da Il corpo delle donne
Come ho già scritto, non scriverò di questo 25 novembre.
Le donne vengono picchiate ed ammazzate durante tutto l'anno: non fornirò scusanti a chi le ricorda solo 1 giorno all'anno.
La ricetta per diminuire i casi di violenza io ce l'ho:
- corsi di educazione alla relazione e all'affettività nelle scuole
- corsi per uomini maltrattanti
-finanziamenti decorosi ai centri antiviolenza
-corsi di formazione, urgenti, per chi opera nei tribunali e per la polizia
-eliminazione delle immagini oggettivanti e deumanizzanti dai media tutti, pubblicità e tv
-formazione per i giornalisti che imparino a raccontare la violenza
Il problema oggi siamo noi donne italiane: conniventi con un sistema che disprezza e umilia le donne.
Ci vorrebbe più coraggio, più determinazione e meno bisogno della costante approvazione maschile per esistere: sta diventando ributtante questa insicurezza che vediamo in molte politiche cosi come nella società.
Un esercito di yes women che ha fatto entrare il tema della violenza in quella " spirale del silenzio" in cui rientrano i temi che non godono di popolarità.
Basterebbe farsi valere.
Ma per farlo, ci vuole una bella dose di orgoglio di essere Donne
Le donne vengono picchiate ed ammazzate durante tutto l'anno: non fornirò scusanti a chi le ricorda solo 1 giorno all'anno.
La ricetta per diminuire i casi di violenza io ce l'ho:
- corsi di educazione alla relazione e all'affettività nelle scuole
- corsi per uomini maltrattanti
-finanziamenti decorosi ai centri antiviolenza
-corsi di formazione, urgenti, per chi opera nei tribunali e per la polizia
-eliminazione delle immagini oggettivanti e deumanizzanti dai media tutti, pubblicità e tv
-formazione per i giornalisti che imparino a raccontare la violenza
Il problema oggi siamo noi donne italiane: conniventi con un sistema che disprezza e umilia le donne.
Ci vorrebbe più coraggio, più determinazione e meno bisogno della costante approvazione maschile per esistere: sta diventando ributtante questa insicurezza che vediamo in molte politiche cosi come nella società.
Un esercito di yes women che ha fatto entrare il tema della violenza in quella " spirale del silenzio" in cui rientrano i temi che non godono di popolarità.
Basterebbe farsi valere.
Ma per farlo, ci vuole una bella dose di orgoglio di essere Donne
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