giovedì 31 marzo 2016

Dopo il caso delle minigonne vietate negli uffici di un quartiere di Amsterdam, c’è da chiedersi se in nome del rispetto di altre culture come quella islamica si possa imporre limiti a conquiste costate anni di battaglie di Michela Marzano

Pare che George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, avesse detto che gli «scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande cura e gentilezza». E che quindi, in nome della tolleranza, si sarebbe dovuta «accomodare» persino la legge. Ma fino a che punto si possono «accomodare» alcuni diritti? È giusto arretrare anche solo sulle proprie abitudini? È ammissibile, per le donne, rinunciare a quelle libertà conquistate da poco e con tanta fatica, come è accaduto recentemente ad Amsterdam dove sono stati vietati minigonne e stivali sexy negli uffici comunali per non urtare la sensibilità di una clientela multietnica? Si può, per dirla in altri termini, tollerare l’intolleranza altrui senza rischiare di cancellare la possibilità stessa della tolleranza?
La tolleranza, come ci insegnano Locke o Voltaire, non è solo quella virtù che porta a rispettare l’altro e le sue differenze. È anche e soprattutto ciò che permette di organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose diverse, spingendoci a sopportare anche ciò che si disapprova. In che senso? Nel senso che quegli «scrupoli di coscienza» di cui parlava Washington non dovrebbero impedire alle donne di vestirsi come vogliono o agli umoristi di ironizzare o far ridere su qualunque cosa. Esattamente come non dovrebbero impedire, a chi lo desidera, di augurare ad amici e a parenti «Buon Natale» o «Buona Pasqua», solo perché il Natale o la Pasqua sono festività cristiane. Ecco perché in ogni democrazia liberale e pluralista, pur non sopportando il fatto che una donna si veli, si dovrebbe essere capaci di accettarlo; esattamente come si dovrebbe accettare il fatto che alcune donne mettano la minigonna o vadano in giro con abiti sexy, anche quando la cosa infastidisce. A meno di non voler distruggere proprio la tolleranza, visto che «tolleranza» e «intolleranza» non fanno altro che elidersi reciprocamente. Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde con lo svuotare di senso il concetto stesso di tolleranza.
E' questo che vogliamo? Siamo sicuri che è il modo migliore per promuovere l’integrazione nei nostri Paesi? Non rischiamo così di aumentare la conflittualità e, nel nome della convivenza, di rinunciare a valori e ideali per i quali si sono battute generazioni intere di uomini e di donne?
L’integrazione non è mai facile. Non lo è per nessuno. Non lo è stato per gli Italiani, i Polacchi, gli Spagnoli e i Portoghesi che sono emigrati il secolo scorso. Lo è ancora meno per chi viene da una cultura o da una religione completamente diversa come l’Islam. In ogni caso, si è confrontati all’alterità. E l’alterità, per definizione, è difficilmente assimilabile. Anche perché l’altro, in quanto tale, è il contrario dell’identico, e quindi di tutto ciò che si conosce e che si è intuitivamente disposti ad accettare. Ci si può integrare, come spiega il filosofo Alasdair MacIntyre, solo a partire dalle proprie molteplici «appartenenze» (famiglia, quartiere, tradizioni, chiese…). «E la particolarità», scrive MacIntyre, «non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata rifugiandosi in un mondo di massime universali». Al tempo stesso, però, ci sono diritti, o anche solo abitudini, su cui sarebbe un grave errore arretrare vuoi per paura, vuoi per rispetto. Soprattutto quando si pensa a quei territori di libertà femminili che si sono conquistate pian piano, con sofferenze e sacrifici. Perché poi è sempre così che finisce: sono le donne — ma anche le persone omosessuali e transessuali — che rischiano di pagare sulla propria pelle il prezzo di quest’accomodarsi per paura di ferire la sensibilità altrui. Come si può anche solo pensare di vietare le minigonne o di coprire delle statue nude — come è accaduto in Italia in occasione della visita del presidente dell’Iran — solo perché il nudo potrebbe imbarazzare chi non si imbarazza affatto quando, a casa sua, si tratta di imporre i propri usi e costumi? Come si può anche solo immaginare di tollerare l’intolleranza di chi è convinto che un uomo non debba nemmeno sognarsi di stringere la mano di una donna?
Esplora il significato del termine: Oswald Spengler, ne Il Tramonto dell’Occidente, spiegava che il mondo si fa, si disfa e si rifà, indipendentemente da quello che possiamo fare o volere. Con queste parole, il filosofo tedesco anticipava profeticamente la fine della «Modernità». Al tempo stesso, però, affermava qualcosa di profondamente erroneo. Almeno per chi parte dal presupposto che, nonostante ci sia sempre qualcosa che sfugga al controllo, gli esseri umani sono comunque responsabili del proprio destino. E crede quindi che ci si debba sempre battere per salvaguardare i propri diritti ed evitare di arretrare. Tanto più che, oggi, sono numerosi coloro che vorrebbero cancellare anni di storia e di battaglie femminili.
Gli integralismi, quando si tratta delle donne, si assomigliano tutti. E con la scusa di difendere valori come la famiglia, l’onore, il pudore o la castità, vogliono di fatto tornare a quell’epoca in cui le donne, docili e silenziose per natura, dovevano accontentarsi di restare a casa, lasciando agli uomini gli oneri e gli onori della vita pubblica. Il diavolo si nasconde spesso nei dettagli: una minigonna vietata o un velo imposto, un «vergognati» o un «resta al posto tuo», un «era meglio prima» o un «questo è puro e questo è impuro». Tanti dettagli che, col tempo, rischiano però di diventare pericolosi. Soprattutto quando, nel nome della tolleranza e del rispetto, di fatto si impongono solo intolleranza e umiliazione. Ma come si può, nel nome della tolleranza, tollerare appunto l’intolleranza?
http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_31/tolleranza-non-ridurre-liberta-donne-fb276ad4-f697-11e5-b728-3bdfea23c73f.shtml


mercoledì 30 marzo 2016

"Basta con gli insulti alle donne in politica"i

La condanna dell'Intergruppo per le pari opportunità, che fa un riferimento chiaro alle offese a Meloni, Bedori, Boldrini
 Il dibattito politico, negli ultimi giorni, sta toccando nuovi e preoccupanti livelli. Le donne di tutti gli schieramenti sono tornate protagoniste. Non però per quanto fanno o per i risultati che ottengono, quanto per gli attacchi di cui sono oggetto:  le avvilenti considerazioni sulle mamme-sindache; gli insulti volgari riferiti all’aspetto fisico; le vignette sessiste della campagna referendaria che invita a “trivellare” la sorella, per finire con l’invito alla terza carica dello Stato a “farsi curare, internare, mettere su un barcone in senso contrario”.
Dietro a tutto questo c’è quasi sempre la solita, vecchia idea: quella che la politica, specie nei ruoli decisionali,  non sia per le donne.
Come deputate del comitato direttivo dell’intergruppo parlamentare per le donne, i diritti e le pari opportunità  esprimiamo la nostra preoccupazione e la nostra ferma condanna per quanto sta accadendo e per l'inaccettabile escalation di toni che il discorso pubblico sta assumendo.
Vogliamo, per questo, esprimere la nostra solidarietà alle colleghe per le parole che sono state loro rivolte e a tutte le donne che nella società e nei diversi livelli istituzionali - dai Comuni, alle Regioni, ai Parlamenti – sono state e spesso sono ancora oggetto di offese.
Chiediamo a tutte le forze politiche e ai loro leader di attuare subito una moratoria di simili insulti e di tutti i linguaggi non appropriati e a sfondo sessista.
Non è infatti solo una questione di forma. Attacchi di questo genere diventano sostanza in un Paese in cui secondo l’Istat un terzo delle donne nel corso della vita subisce violenza, verbale o fisica. Finiscono infatti, inevitabilmente, per alimentare e dare legittimazione allo svilimento e alla discriminazione delle donne nella società, nel mondo del lavoro, nelle istituzione, nella vita politica e nei media.
In questi anni si sono compiuti molti sforzi e molti altri se ne devono ancora fare affinché, anche in Italia, si possa raggiungere una parità tra donne e uomini. Una parità intesa come possibilità di incidere e cambiare la società e come possibilità di mettere il proprio talento e la propria intelligenza liberamente al servizio dello sviluppo economico, sociale e politico delle nostre città e del nostro Paese.
Chi ricopre ruoli pubblici ha il dovere di porre fine a questi comportamenti e di schierarsi apertamente contro una tale deriva.
 Le deputate del Comitato direttivo dell’Intergruppo per le donne, i diritti e le pari opportunità

Dorina Bianchi, Elena Centemero,Tiziana Ciprini, Adriana Galgano, Chiara Gribaudo,Pia Locatelli, Lorena Milanato, Margherita Miotto, Marisa Nicchi, Caterina Pes, Anna Rossomando,  Marina Sereni, Valeria Valente.
http://www.repubblica.it/politica/2016/03/18/news/_basta_con_gli_insulti_per_le_donne_in_politica_-135798110/

martedì 29 marzo 2016

CHI ERA VIRGINIA WOOLF? di Ali Smith

Ieri era l’anniversario della morte di Virginia Woolf. Ci eravamo dimenticati di omaggiarla. La ricordiamo oggi con la prefazione di Ali Smith a Virginia Woolf. Diario di una scrittrice di Ali Smith
Chi era Virginia Woolf? Aveva qualcosa in comune col ritratto che viene fuori dal film The Hours? Era cioè una scrittrice nevrotica con il nasone e gli occhi sempre bassi, talmente timida da non riuscire a rivolgere la parola nemmeno ai domestici, e talmente malata che se rimaneva da sola per un po’ di tempo finiva per compiere gesti folli o autolesionisti? O era l’esatto opposto, come suggerisce una delle sue biografie più recenti, scritta da Hermione Lee: e cioè una donna vivace e intelligente, con un umorismo caustico e sfrenato, dalla risata squillante e sonora, che amava scorrazzare su una vecchia moto nel parco della villa dove vivevano sua sorella e i suoi amici bohémien e che una volta si mise dei baffoni finti e un turbante in testa, salì su una nave e per un’intera serata riuscì a far credere a tutte le autorità civili e militari a bordo di essere un principe abissino?
Se si confrontano diversi episodi della sua vita si scopre che Virginia Woolf aveva una personalità governata da impulsi spesso diametralmente opposti. A noi adesso sembra impossibile che negli anni Cinquanta, a meno di quindici anni dalla sua morte, sia stata praticamente cancellata dalla storia della letteratura inglese da critici del calibro di Walter Allen, che la definì con miope sessismo «una scrittrice molto limitata». E aggiungeva: «A mio avviso, la sua scrittura è viziata da una affettazione di fondo […] e i momenti di rivelazione e illuminazione in realtà sembrano illuminare ben poco se non ansiti e sospiri di estasi muliebre […] Nel futuro sarà senz’altro considerata una scrittrice minore». Se oggi è considerata non solo fra i grandi del ventesimo secolo, ma anche tra gli scrittori più innovativi e originali della letteratura in lingua inglese, è soprattutto merito della critica femminista che, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, l’ha riportata alla luce.
Ma chi era realmente Virginia Woolf e perché in lei c’erano tutti questi impulsi contrastanti? In fondo, ha senso chiedersi chi è realmente una persona? È possibile trovare in un diario una risposta a questa domanda, una risposta sincera?
Il Diario di una scrittrice è la prima versione pubblicata dei molti diari della Woolf. Dopo la morte della moglie, lo stesso Leonard curò l’edizione del volume concentrandosi soprattutto sulla figura della Woolf scrittrice. Leonard ebbe sempre un atteggiamento teneramente protettivo nei confronti di Virginia, anche dopo morta, e infatti decise di eliminare tutte le osservazioni più caustiche e ironiche. Ciononostante il libro rivela al lettore una miniera di particolari sulla Woolf, anche come persona. In realtà questo volume si potrebbe considerare uno dei primi veri studi sulla figura dell’artista impegnato, anticipando quella che alla fine del Novecento sarebbe poi diventata un’ossessione: è un’esplorazione dell’artista alle prese con la celebrità e la sua stessa personalità, una riflessione sull’incontro del mondo esterno con quello interiore e sul fatto che l’arte, cosa di cui la Woolf era profondamente convinta, implichi sempre la soppressione o l’annullamento della personalità.
Il libro copre la sua vita dai trentasei ai cinquantanove anni, cioè gli anni della fama, gli anni in cui lei e suo marito Leonard gestivano la Hogarth Press, una casa editrice di successo che pubblicò scrittori importanti quali Katherine Mansfield, T.S. Eliot e la stessa Woolf, diventando così uno dei punti cardine del modernismo. Questo libro è in pratica la trascrizione della vita stessa, in tutto il suo splendore e in tutti i suoi sentimenti a volte diametralmente opposti, racchiusi in una persona sola.
Ora la Woolf dice di essersi sporcata la bocca d’inchiostro perché stava mordicchiando distrattamente la penna e un momento dopo descrive «lo splendore di questa impresa – la vita: la capacità di morire: un’immensità mi circonda». Ora è superba, tutta esaltata e felice di essere apprezzata dagli altri, e un attimo dopo è talmente insicura di sé che visualizza il manoscritto del suo ultimo romanzo come il corpo di un gatto morto e l’unica cosa che vorrebbe fare è bruciarlo. Ora si sente troppo male e non riesce a fare nulla: «Questo è un giorno in cui non posso camminare e non devo lavorare». E un attimo dopo la vediamo che passeggia, o meglio che immagina di farlo. «Cosa non darei adesso per venire fuori dal bosco di Firle, sporca e accaldata, col naso puntato verso casa, con tutti i muscoli indolenziti e il cervello impregnato di lavanda, lucida e fresca e pronta ad affrontare il compito del giorno dopo. Niente mi sfuggirebbe – mi verrebbe subito la frase giusta, quella che calza a pennello […] Oh, meno male! Scrivendo sono riuscita a sfogare metà del mio nervosismo». Il diario è un luogo dove può imbrigliare la sua immaginazione per farla andare dove vuole.
Come scrittrice la Woolf è sempre consapevole dell’estrema duttilità di questa «vecchia confidente dal volto gentile e inespressivo». È severa con se stessa, si ricorda costantemente cos’è che vuole fare con la scrittura e tiene la sua persona, per molti versi, lontana o fuori dai suoi romanzi. «Scrivo così anche per sfuggire alla fatica di raccontare».
Nel diario ha la possibilità di inventare un’altra se stessa, e può così rivolgersi a una se stessa del futuro, al di là del momento presente, fuori dal «solito, estenuante vortice dello scrivere in lotta col tempo». Nel diario può immaginare una Virginia più vecchia e molto più saggia, che è sopravvissuta ed è riuscita a superare con estrema classe tutti gli inutili problemi che affliggono la Virginia più giovane. «Perfino la vecchia Virginia salterà a piè pari un bel po’ di tutto questo».
Ma la cosa più evidente è che lei spesso e volentieri usa il diario per portare se stessa da una posizione di positività a una di negatività e viceversa. In realtà il suo diario è una sorta di sforzo di autopersuasione durato una vita intera. Leggendolo scopriamo le paure sommerse della Woolf per le cose più disparate: dal timore di fare brutte figure alle questioni molto più serie riguardanti la sopravvivenza. Ogni volta che si trova ad affrontare una sfida, qualsiasi sia l’abisso che si trova davanti in quel momento – la malattia o una recensione negativa o problemi di scrittura – la Woolf si incoraggia da sola a cercare di fare il meglio. «E se non vivessimo audacemente, prendendo il toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi, senza dubbio; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino».
Si rimprovera da sola, esige sincerità da se stessa e usa il diario per darsi dei punti di riferimento saldi quando sta male o ha molto da fare. E quando mai non ha avuto molto da fare? Leggendo il diario ci rendiamo conto dell’intensità del suo lavoro. Nel diario si lascia andare, cosa che di solito non fa, e affronta la scrittura in modo diverso: con impeto, senza metodo, scrive le cose che le saltano in testa, così come le vengono. «Se io mi fermassi a pensarci sopra, [questo diario] non verrebbe mai scritto; e il vantaggio di questo metodo è di cogliere al volo accidentalmente materiali diversi e dispersi, che scarterei se esitassi, ma che sono i diamanti tra la spazzatura». Un’annotazione di dieci minuti può rivelare una profondità e un’acutezza sorprendenti. Prendiamo per esempio l’annotazione del 18 dicembre 1939: la Woolf butta giù qualche riga in fretta e furia prima di cena e ci fornisce una profezia di quello che si potrebbe definire l’atteggiamento del ventesimo e del ventunesimo secolo nei confronti della guerra in genere. «Oh, la Graf Spee salpa oggi da Montevideo, dritta nelle fauci della morte. E i giornalisti e i ricchi affittano aeroplani per godersi lo spettacolo. Questo mi sembra che sposti la guerra in una nuova angolazione; e anche la nostra psicologia».
La Woolf amava le proprietà «inconscie» che venivano alla luce scrivendo il diario e per lei avevano qualcosa a che fare con quella che definiva la sua filosofia dell’anonimato. Paradossalmente, il diario le permette di «esercitare l’anonimato». Paradossalmente il diario è un importantissimo mezzo espressivo che le consente di liberarsi della sua personalità. «Vorrei essere soltanto una sensibilità», dice. Ma chi può essere pura sensibilità e basta? E intanto il mondo fa il suo corso. La prima guerra mondiale finisce e la gente si ubriaca e canta per le strade. Madame Lenglen perde una partita a tennis. In Europa fa la sua comparsa il fascismo. Una delle cose più importanti custodite nel Diario di una scrittrice è una versione molto vera, molto fisica di Virginia Woolf, la persona vivente che è parte del suo tempo, che lo guarda e lo giudica. Era un tempo di cambiamenti epocali. Virginia ci descrive uno di questi cambiamenti con grande perspicacia e stupore quando visita il vecchio Thomas Hardy che con un semplice gesto della mano liquida tutte le questioni estetiche che sono alla base della scrittura della Woolf e non fa altro che parlare, come anche sua moglie e con grande disappunto di Virginia, del suo vecchio cane asmatico. «Proprio il classico vecchio vittoriano, che tutto compie con un semplice gesto della mano (mani normali, piccoline, accartocciate), che non dà grande importanza alla letteratura ma mostra un enorme interesse per gli aneddoti, i fatti; e in qualche modo si è portati a pensare che tenda a immaginare e a creare naturalmente, senza soffermarsi a pensare che sia qualcosa di difficile o di notevole».
Chi altri se non la Woolf potrebbe schivare un cliché uscito dalla sua stessa penna, «un semplice gesto della mano», passando subito a descrivere le mani di Hardy? Chi altri potrebbe sentire la presenza di E.M. Forster a un livello così acutamente fisico e politico? «Ci siamo scambiati una stretta di mano molto cordiale; eppure ho sempre l’impressione che lui si ritragga un po’ davanti a me, perché sono una donna, una donna intelligente, una donna al passo coi tempi». Anche il suo rapporto di amore e odio nei confronti di Katherine Mansfield si esprime in termini fisici: «La sua dura compostezza è in gran parte di superficie». Eliot la lascia indifferente. George Bernard Shaw è «molto cordiale. È la sua arte, questa, di dare l’impressione che gli si è simpatici».
Questa attenzione alla fisicità rende molto vive le descrizioni che la Woolf fa dei suoi colleghi scrittori, morti o viventi che siano. Si può dire che il suo rapporto con la scrittura sia principalmente fisico. Il suo spirito acuto è anch’esso una forma di vitalità e il suo intelligente senso dell’umorismo è una lama a doppio taglio. «Dov’è il mio tagliacarte? Devo tagliare lord Byron».
Riesce a tradurre la sua interessante e feroce rivalità con ­James Joyce in termini di contrasto sociale: ancora una volta punta l’attenzione su questioni di personalità, di modi di fare, e finisce per domandarsi se l’autorità dell’io sia reale o meno. Ma dal diario emerge anche uno spirito critico estremamente generoso: la Woolf all’interno dello stesso paragrafo riesce a portarsi da sola da una posizione di chiusura a una di apertura; camminando in giro per Londra, in una via del ventesimo secolo, riesce vedere la Londra di duecento anni prima, la Londra di Defoe. Esprime le sue opinioni sugli altri scrittori con un’immediatezza e una vivacità incantevoli. «Il magistrale Scott mi tiene ancora una volta per i capelli».
Chi era Virginia Woolf? Una donna molto spiritosa. Le piaceva la vita frenetica delle città. Aveva idee politiche contraddittorie. Era onesta con se stessa, spesso quasi spietata. Era profondamente insicura; la sua creatività sembra essere alimentata da un misto di sfiducia e autostima. Era spesso molto malata. E la sua malattia è parte della creatività tanto quanto il suo atteggiamento calvinista nei confronti del lavoro. Era una specie di ribelle: rifiutava l’«impostura» delle «onorificenze» accademiche: «No, grazie al cielo non ho nessun bisogno di riemergere dal mio romanzo a luglio per farmi mettere in testa un tocco di pelliccia». Sapeva di essere «poliedrica». Ma il dono maggiore di questo diario per i lettori di Virginia Woolf è quello di avere la possibilità di vedere da vicino, dettagliatamente, il processo della sua scrittura in uno stato ancora embrionale, nel momento in cui l’autrice deve sopportare la «pressione» dei libri che aspettano di essere scritti, la pressione della scrittura e poi la pressione derivante dall’attesa della risposta del pubblico per poi rompere lo stampo che ha creato per il romanzo che ha appena finito in modo da crearne uno nuovo per il seguente.
«Di quando in quando, sono ossessionata da una vita di donna quasi mistica, molto profonda, che vorrei narrare tutta in una sola occasione; e il tempo sarà del tutto cancellato; il futuro fiorirà in qualche modo dal passato. Un solo avvenimento – diciamo il cadere di un fiore – potrebbe racchiudere il tutto». Nel diario si nota continuamente la predilezione per le immagini riguardanti la natura, l’acuta consapevolezza dell’assenza di consapevolezza della natura. Ma quando in un’annotazione dell’ottobre 1940 una delle sue immagini preferite, quella della falena, si trasforma in un Messer­schmidt schiantato al suolo, anche la fede della Woolf nella sopravvivenza viene messa a dura prova.
È straordinario poter leggere cose riguardanti la seconda guerra mondiale scritte da una persona che non ha avuto modo di vederne la fine, e che proprio per questo è estremamente vulnerabile e ce la presenta come un’incognita spaventosa. «L. dice che in garage ha della benzina per suicidarsi». Leonard Woolf era ebreo e sia lui che la moglie sapevano che se i nazisti avessero invaso l’Inghilterra loro sarebbero stati arrestati, con ogni probabilità. Ogni giorno ormai pensavano che forse era il caso di «andare a letto a mezzogiorno»; le condizioni di salute di lei peggioravano, come anche i suoi impulsi suicidi. Virginia Woolf faceva fatica a continuare a credere nel potere della sopravvivenza.
Gli ultimi straordinari giorni del periodo dal 1940 al 1941, il suo ultimo anno di vita, di cui troviamo testimonianza nel Diario di una scrittrice, ci rivelano il suo spirito tormentato, disperato con un’intensità quasi insopportabile. E nonostante tutto, fino alla fine, la Woolf si occupa del rapporto tra le parole e la realtà, sempre portando avanti questo processo di autopersuasione. Chi era Virginia Woolf? Quasi paradossalmente, le ultime pagine ci rivelano un coraggio di proporzioni monumentali. Più ci avviciniamo alla fine del Diario di una scrittrice, più diventa intollerabile il pensiero che questa persona sta per morire. E ciò dimostra ancora una volta che la vita e l’arte della Woolf erano attuali all’epoca e sono attuali ancora oggi. Oltre sessant’anni dopo le ultime annotazioni, questo diario è ancora vivo e ci spinge a riflettere.
http://www.minimaetmoralia.it/wp/chi-era-virginia-woolf/

lunedì 28 marzo 2016

Auguri di "resurrezione " a tutte le sopravvissute alla violenza machista.A nome delle "cadute" invoco lotta e giustizia! Barbara Spada

UNA VOCE FUORI DAL CORO (La mia Pasqua)
A fronte dei milioni di persone nel mondo che in questi giorni commemorano il calvario,la morte e la resurrezione di Cristo..più o meno sentitamente...più o meno per mera tradizione...più o meno religiosamente o consumisticamente...io voglio commemorare il Calvario misconosciuto di milioni di donne ammazzate nel mondo...la loro silenziosa"Passione"...la loro crocifissione senza gloria e senza storia...la loro morte "comune"....non salvifica,non santifica...non misterica.Voglio commuovermi per le torture che loro hanno subito,per le ferite inferte al loro costato,per le spine intorno al loro capo,per le ingiurie subite dai loro carnefici;voglio rendere onore al loro martirio,alla faticosa salita sul loro Golgota,alla croce che hanno trascinato lungo il corso della loro vita..quella croce a cui sono state inchiodate dalla Storia e da Dio,dagli uomini e dai governi,dalla cultura e dalle tradizioni,dalle leggi e dalla società.Voglio ricordare le morti che non contano nulla,quelle che cadono nel silenzio e nell'indifferrenza,nell'accettazione o nella mera condanna verbale...quelle per cui nessuno si commuove o piange,quelle che non cambiano la Storia,quelle che non annunciano il Regno dei cieli,quelle che non hanno giorni di commemorazione e della memoria.Voglio onorare la purezza e l'innocenza di milioni di agnelli"non di Dio"scannati nel mondo nei secoli dei secoli ,di volta in volta e di luogo in luogo,in nome di qualunque cosa o di qualsiasi pretesto possa consentire l'uccisione di una donna...leggi morali ,politiche ,religiose ,ideologiche ,familiari,patriarcali,sessuali...leggi maschili...leggi che condannano ogni giorno,che crocifiggono ogni giorno,che uccidono ogni giorno.Diversamente dall'Uomo-Dio a cui è consentito risorgere ed assurgere alla Gloria dei Cieli...le anonime ed umane crocifisse non potranno risorgere...non c'è Pasqua per loro...non ci sono cattedrali,nè monumenti,nè commemorazione,nè onori.Solo la Donna,in quanto soggetto storico e politico che racchiude in sè tutte le donne,può lottare per ottenere la resurrezione...per darsi e dare giustizia a tutte...per abbandonare il sentiero del Golgota e rifiutarsi di essere sacrificata...per inchiodare sulla croce delle responsabilità la società e la cultura androcentrica e patriarcale.Solo la Donna può e deve, ai piedi di quella croce su cui milioni di donne vengono torturate e uccise,raccogliere quel sangue e farne frecce,asce e stendardi per capire,per lottare..per rinascere...Questo è il nostro Graal...questo sangue è la nostra eredità...è l'urlo che proviene dagli abissi del dolore....dalle gole di quelle che hanno taciuto...dagli occhi di quelle che hanno chiesto pietà...dal ventre di quelle che sono state fatte a pezzi .... è l'urlo della rabbia e della vita..che grida giustizia...che chiede memoria....ed invoca riscatto.(B.SPADA)
https://www.facebook.com/barbara.spada.96/posts/1024044144308755


venerdì 25 marzo 2016

INSEGNIAMO ALLE RAGAZZE AD ESSERE CORAGGIOSE, NON PERFETTE DI SUSANNA MARSIGLIA

Qualche anno fa feci qualcosa di davvero coraggioso, o come direbbero alcuni, davvero stupido. Mi candidai al Congresso degli Stati Uniti.
Per anni ero rimasta al sicuro dietro le quinte dello scenario politico in qualità di organizzatrice di raccolte fondi, ma nel mio cuore avevo sempre desiderato candidarmi. La congressista in carica occupava quel posto dal 1992. Non aveva mai perso un’elezione e nessuno si era mai realmente candidato contro di lei in una primaria democratica. Ma questo, nella mia testa, era il mio modo per fare la differenza, per sovvertire uno status quo. I sondaggi però raccontavano una storia del tutto diversa. I sondaggisti con cui parlai mi dissero che era una pazzia candidarmi, che non avevo alcuna possibilità di vincere.
Reshma SaujaniMa mi candidai lo stesso, e nel 2012 divenni una parvenu delle elezioni newyorkesi. Ero davvero convinta di vincere. Avevo l’approvazione del New York Daily News, il Wall Street Journal mi fece un servizio fotografico il giorno delle elezioni, e la CNBC definì quelle elezioni tra le più combattute della storia. Raccolsi fondi da chiunque conoscevo, incluse le zie indiane che erano così felici che ci fosse una ragazza indiana candidata per quel posto. Ma il giorno delle elezioni i sondaggi si rivelarono nel giusto e ottenni solo il 19% dei voti. Gli stessi media che mi avevano definita una stella nascente della politica ora mi rimproveravano il fatto di aver gettato al vento 1.3 milioni di dollari per 6.321 voti. Non fate i calcoli. Fu umiliante.
Ora, prima che vi facciate un’idea sbagliata, sappiate che questo non è un discorso sull’importanza del fallimento. E nemmeno sul buttarsi a capofitto. Vi sto raccontando la storia della mia candidatura perché avevo 33 anni ed era la prima volta in tutta la mia vita in cui facevo qualcosa di veramente coraggioso, in cui non mi preoccupavo di essere perfetta.
E non sono sola: così tante donne con cui parlo mi confessano di gravitare attorno a carriere e professioni in cui sanno che sarebbero perfette, e non c’è da stupirsi. Alla maggior parte delle ragazze viene insegnato a evitare i rischi e i fallimenti. Ci insegnano a sorridere, essere cordiali, stare al sicuro, prendere bei voti. I ragazzi, d’altra parte, vengono educati a giocare, sporcarsi, rotolarsi e buttarsi a terra. E quando diventano adulti, sia che stiano negoziando un aumento di stipendio sia che stiano invitando qualcuno a uscire con loro, sono abituati ad affrontare i rischi uno dopo l’altro. Vengono premiati per questo. Alla Silicon Valley si dice spesso che nessuno ti prende sul serio se non hai almeno due startup fallite alle spalle. In altre parole, stiamo crescendo le nostre ragazze insegnandogli ad essere perfette e i nostri ragazzi ad essere coraggiosi.
Alcune persone si preoccupano del nostro deficit federale, ma io mi preoccupo del deficit di coraggio. La nostra economia, la nostra società, tutto sta andando a rotoli perché non insegniamo alle ragazze il coraggio. Il deficit di coraggio è la ragione per cui le donne sono poco rappresentate nei consigli di amministrazione, in politica, nelle forze dell’ordine, e più o meno ovunque guardiate.
Negli anni 80, la psicologa Carol Dweck studiò il comportamento dei bambini di 10 anni quando veniva assegnato loro un compito troppo difficile. Notò che le ragazze si arrendevano molto in fretta. Più era alto il loro QI, più era probabile che si arrendessero. I bambini, d’altro canto, trovavano le difficoltà stimolanti. Erano più propensi a raddoppiare i loro sforzi per arrivare alla soluzione.
Cosa sta succedendo? Beh, a quell’età le bambine surclassano i maschi praticamente in ogni materia, incluse matematica e scienze, quindi non è una questione di abilità. La differenza sta nell’approccio. E purtroppo questo tipo di atteggiamento non finisce alle scuole elementari.
Una ricerca svolta da HP ha evidenziato il fatto che gli uomini solitamente si candidano per una posizione lavorativa quando hanno il 60% dei requisiti richiesti, mentre le donne lo fanno solo se sono certe di averne il 100%. Cento per cento.
Questa ricerca è spesso portata ad esempio di quanto le donne abbiano bisogno di più confidenza. Ma penso che sia ovvio, a questo punto, che le donne sono state cresciute per aspirare alla perfezione e che questo le rende terribilmente prudenti.
E anche quando siamo ambiziose, persino quando abbiamo ruoli di leadership, questo schema sociale che ci impone la perfezione ci porta ad affrontare meno rischi nella nostra carriera. Per questo le 600.000 posizioni aperte nel settore informatico non attirano candidate donne, e ciò significa che le stiamo lasciando indietro. L’intera industria è un passo indietro se non può beneficiare delle idee, del problem solving e delle abilità femminili che potremmo portare alle aziende se solo fossimo abbastanza coraggiose.
Nel 2012 ho fondato una società per insegnare alle ragazze a programmare, e ho scoperto che al contempo stavo insegnando loro ad essere coraggiose. Programmare è un continuo processo fatto di prove ed errori, di tentativi di inserire la giusta linea di codice al giusto posto, dove spesso una parentesi in più o in meno segna la differenza tra successo e fallimento. Il codice si rompe e si sgretola, e spesso servono molti, moltissimi tentativi prima che arrivi il momento magico in cui ciò che stavi cercando di fare prende vita. Programmare richiede perseveranza. Richiede imperfezione.
Ci accorgiamo immediatamente che le ragazze nel nostro programma hanno paura di sbagliare qualcosa, di non essere perfette. Ogni insegnante di Girls Who Code mi racconta la stessa storia. Nella prima settimana, quando le alunne si stanno approcciando al codice, c’è sempre una studentessa che la chiama da parte per dirle “non so che codice scrivere”. L’insegnante guarda il suo monitor e vede l’editor di testo totalmente bianco. Se non conoscesse a fondo la storia, potrebbe pensare che la studentessa ha passato gli ultimi 20 minuti a fissare lo schermo. Ma se preme il pulsante per annullare le modifiche un paio di volte si accorge che la ragazza ha scritto del codice per poi cancellarlo. Ci ha provato, ci è andata vicina, ma non ha azzeccato totalmente. Anziché mostrare all’insegnante i progressi fatti, preferisce non mostrare nulla. Perfezione o fallimento.
Le ragazze sono molto brave a programmare, ma insegnare loro a farlo non è abbastanza.
Il mio amico Lev Brie, un professore all’università della Columbia che insegna Java, mi racconta della sua routine lavorativa con gli studenti di informatica. Quando i ragazzi hanno difficoltà su un compito, vanno da lui e dicono “prof, c’è qualcosa che non va nel mio codice”. Le ragazze dicono “prof, c’è qualcosa che non va in me”.
Abbiamo bisogno di cessare questa cultura della perfezione, e cercare di combinarla con la costruzione di una sorellanza che permetta alle ragazze di sapere di non essere sole. Perché provarci più duramente non riparerà un sistema che non funziona. Non potete immaginare quante donne mi dicono “Ho paura ad alzare la mano, ho paura a fare domande, perché non voglio essere l’unica che non capisce e che si sta sforzando”. Quando insegniamo alle ragazze ad essere coraggiose e le circondiamo di altre ragazze che le supportano, riescono a costruire cose incredibili, e lo noto ogni giorno.
Prendete, per esempio, due studentesse delle superiori che hanno creato un gioco intitolato “Tampon Run” (la corsa degli assorbenti) contro il tabù delle mestruazioni e il sessismo nel mondo del gaming. O la rifugiata siriana che ha voluto dimostrare il suo amore per il suo nuovo Paese creando un’app per aiutare gli americani a votare. O la ragazza di 16 anni che ha costruito un algoritmo per aiutare a distinguere un cancro maligno da uno benigno con l’intenzione di salvare suo padre che ne è affetto. Questi sono solo pochi esempi su migliaia, migliaia di ragazze a cui è stato insegnato a essere imperfette, a continuare a provare, ad essere perseveranti. E sia che diventino programmatrici, oppure le prossime Hillary Clinton o Beyoncé, non rinvieranno i loro sogni.
E questi sogni non sono mai stati così importanti per il nostro Paese. Per la crescita dell’economia americana, per quella di qualsiasi economia, per innovare sul serio, non possiamo lasciare indietro metà della popolazione. Abbiamo bisogno di educare le nostre ragazze ad essere a loro agio con l’imperfezione, e dobbiamo farlo ora. Non possiamo aspettare che imparino ad essere coraggiose come ho fatto io a 33 anni. Dobbiamo insegnarlo loro a scuola e all’inizio delle loro carriere, quando hanno il potenziale per stravolgere le loro vite e quelle altrui, e dobbiamo mostrare loro che saranno amate ed accettate non per essere perfette ma per essere coraggiose. Per questo ho bisogno che ognuno di voi dica ad ogni giovane donna che conosce – sorella, nipote, impiegata, collega – di essere a suo agio con le sue imperfezioni, perché quando insegniamo loro ad essere imperfette e ad accettarlo, diamo vita a un movimento di giovani donne che costruiranno un mondo migliore per loro stesse e per ognuno di noi.
http://www.forelsket.it/ragazze-coraggiose-non-perfette/

giovedì 24 marzo 2016

Un francobollo per Tina Anselmi, la donna che è stata prima in tutto

Un francobollo per Tina Anselmi, la donna che è stata prima in tuttoDal francobollo Tina Anselmi sorride. Le è toccato uno strano destino "alla Tina", come la chiamano familiarmente a Castelfranco Veneto, il paese dove è nata 89 anni fa, il 25 marzo per l'esattezza.

È stata prima in tutto: staffetta partigiana a 17 anni nella brigata Cesare Battisti, prima ministra donna nella storia italiana nel 1976, primo politico coraggioso a cercare di chiarire il groviglio di interessi e opacità della loggia P2. A lei è dedicato il francobollo che sarà emesso il 2 giugno giorno della festa della Repubblica. Per la prima volta le Poste scelgono una protagonista della storia pubblica mentre è in vita. Ci sono stati sì due Papi e sei presidenti della Repubblica ma ritratti in gruppo.
La Tina invece lo spazio se lo prende tutto per sé e - come sempre ha ripetuto fino alla sua ultima intervista proprio con Repubblica nel 2007, prima che la malattia la provasse - se lo prende per sé e per le donne.
"Dico alle mie nipoti, attente fate la guardia perché le conquiste non sono mai definitive". Comincia così domani sera, martedì, il documentario su Rai Storia alle 21,15 che Anna Vinci, l'autrice, ha voluto intitolare Tina Anselmi, la grazia della normalità. "La normalità - dice Vinci - significa rispetto della norma".
Perché "la Tina" nella sua lunga e travagliata vita politica ha mantenuto fermo un faro: "La democrazia ha bisogno di normalità". E ha spesso parlato della solitudine che ha accompagnato la sua battaglia contro i poteri oscuri che hanno piagato la storia d'Italia, quella P2 su cui non è stata fatta piena luce.  Dei pericoli come quei tre chili di tritolo accanto a casa, che non esplosero per un caso, e delle molte intimidazioni. Forte, ostinata e timida, alla vigilia dei suoi 89 anni Tina Anselmi viene raccontata dalla sorella Maria, da Dacia Maraini, da Enzo Giaccotto segretario politico durante l'impegno di ministro della Anselmi prima al dicastero del Lavoro poi alla Sanità, da Giovanni Di Ciommo che è stato suo collaboratore nella commissione d'inchiesta sulla P2. E poi ci sono le amiche, come Maria Luisa Gazzolo. E c'è la voce di Tina quando ricorda e svela. Parla della politica sommersa e dei fatti di sangue tra il 1976 e il 1981. Rivendica con una passione non banale il ruolo delle donne in politica: "Quando le donne si sono impegnate nelle battaglie - dice - le vittorie sono state vittorie per tutta la società. La politica che vede le donne in prima linea è politica d'inclusione, di rispetto delle diversità, di pace".
http://www.repubblica.it/politica/2016/03/21/news/un_francobollo_per_tina_anselmi_la_donna_che_e_stata_prima_in_tutto-136009308/
L'anno scorso per il compleanno Renzi le mandò un telegramma di auguri. Il ritratto solenne dell'Anselmi oggi è in quel francobollo con cui l'Italia la ringrazia