sabato 7 febbraio 2015

La paradossale marcia delle donne verso l’emancipazione di Simona Sforza

Desidero proporvi questa mia traduzione di un articolo di Rémi Barroux, pubblicato su Le Monde il 12 gennaio 2015. Il mio francese è pessimo, ho cercato di fare del mio meglio perché l’argomento mi sembrava interessante, ma sono benvenute le vostre correzioni!
I progressi verso la parità tra donne e uomini sono reali, ma la strada è ancora lunga. I passi in avanti sono paradossali e incompleti, scrivono gli autori dell’Atlas mondial des femmes, il primo del genere, presentato lunedì 12 gennaio, presso l’Institut national d’études démographiques (INED) e pubblicato da Autrement.
La causa dei diritti delle donne è relativamente recente: solo nel 1945 l’ONU ha adottato una Carta che stabilisce i principi generali di eguaglianza tra i sessi. Da allora, diverse conferenze internazionali hanno chiarito gli obiettivi. Il 18 dicembre 1979 l’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato, in particolare, la Convenzione (qui) sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne.
E la quarta Conferenza mondiale tenutasi nel 1995 a Pechino – di cui quest’anno si celebra il ventennale – , si è conclusa con una Dichiarazione e un programma d’azione per l’emancipazione sociale, economica e politica delle donne
Com’è la situazione reale oggi? “Vi sono miglioramenti in vari settori, come ad esempio la sanità e l’istruzione, ma registriamo anche dei peggioramenti”, spiega Isabelle Attané, demografa e dell’INED e coautrice dell’Atlas. Meno numerose rispetto agli uomini dal 1950 – le donne sono quasi 3,6 miliardi rispetto a una popolazione mondiale di 7,4 miliardi di persone – vivono più a lungo, in qualunque parte del mondo. Ma si tratta di uno dei pochi vantaggi che possono vantare rispetto agli uomini. Nel 2010, il rischio per un uomo di morire a 20 anni era tre volte superiore a quello di una donna. Ahimè, questa speranza di vita maggiore nasconde un più rilevante degrado della salute della donna, a causa in particolare di “una difficoltà a conciliare vita professionale e vita familiare, poiché le attività domestiche poggiano maggiormente sulle spalle delle donne rispetto agli uomini, oltre a quelle lavorative” scrive la demografa Emmanuelle Cambois.
Per il resto le disuguaglianze sono sistematicamente contro le donne. Particolarmente esposte nella vita domestica, sono loro che soffrono maggiormente a causa delle violenze sessuali (75-85%). questo incremento nelle statistiche delle violenze, secondo la sociologa Alice Debauche, è dovuto a “una liberazione dell’espressione delle donne”. In Francia per esempio, il numero degli stupri denunciati è passato da circa un migliaio nel 1980 a circa dieci volte tanto nel 2000. Le misurazioni e i raffronti in merito alla violenza, tuttavia, restano complicate da fare, perché le definizioni giuridiche degli stupri, delle aggressioni o delle molestie, le possibilità di uscire dal silenzio differiscono da un paese all’altro.
Nel settore economico cresce l’accesso al lavoro, ma “vediamo che le donne restano una variabile di aggiustamento privilegiata in un contesto di liberalizzazione e di crisi economica”, sostiene Attané (in pratica sono le prime a pagare le conseguenze di una crisi e ad essere licenziate, ndr). Nei paesi in cui i lavori informali e domestici sono importanti, questo aspetto potrebbe essere meno percepito. Ma la maggiore vulnerabilità delle donne è reale. Più spesso disoccupate, sono anche coloro che rischiano maggiormente di perdere il loro posto di lavoro. Le donne hanno una maggiore propensione ad accettare il rischio di perdere il posto nei successivi sei mesi: in Finlandia (17% donne-11% uomini), in Danimarca (11% e 7%), in Belgio (quasi 10% e 4%), in Spagna o in Austria. In altri paesi come Francia, Portogallo e Regno Unito, la minaccia pesa sulle industrie tradizionalmente maschili, che porta a spiegare la minore paura delle donne di perdere il lavoro rispetto agli uomini. (In pratica, una donna si attende con maggiori probabilità di venire licenziata in caso di crisi, per questo sarebbe meno preoccupata e più propensa ad accettare l’eventualità: come dire, che ne siamo consapevoli, lo accettiamo meglio, insomma viviamo meglio le fregature, bah, sono perplessa, ndr).
L’occupazione femminile resta confinata alle posizioni di minor conto, nell’agricoltura, nel commercio e nei servizi. Sono pagate meno e più colpite dalla povertà. Negli Usa, il tasso di povertà delle donne è stato del 14,5% contro il 10,9% degli uomini nel 2011. E soprattutto continuano a fare la “doppia giornata” di lavoro: tornate a casa, la maggior parte deve svolgere le mansioni domestiche, lavare i piatti, pulire, cura dei bambini e delle persone non autosufficienti ecc. In Francia questi compiti occupano 20,32 ore settimanali rispetto alle 8,38 ore degli uomini.Se includiamo bricolage, giardinaggio, shopping o giocare con i bambini, lo squilibrio si riduce ad appena 26,15 ore per le donne contro le 16,20 per gli uomini.
“L’uguaglianza di genere proclamato in numerosi testi non è acquisito di fatto, è necessario mettere in evidenza gli ostacoli”, avverte Isabelle Attané. Nella sfera privata, ad esempio, le rappresentazioni sono complicate. “Sappiamo che la politica scolastica è guidata dalla socializzazione di genere, già presente in ambito familiare”. Le donne laureate in materie scientifiche sono la maggioranza in Asia centrale, in Medio Oriente e Nord Africa, mentre in Europa occidentale e Nord America le donne sono poco presenti negli studi quali l’informatica e l’ingegneria, privilegiando ambiti quali la sanità, il sociale e la puericultura.
Le disuguaglianze si sono spostate, sostiene Wilfried Rault, sociologo presso l’INED e coautore dello studio. “Il tasso si scolarizzazione delle donne progredisce, i canali e l’accesso a determinate professioni sono più discriminanti. Questo avveniva già in passato, ma il confine si è spostato: le disuguaglianze si verificano più tardi”.
Nel mondo del cinema, dice Brigitte Rollet, esperta in audiovisivi e insegnante a Sciences-Po, le donne rappresentavano l’86% dei posti di lavoro nel settore dei costumi e il 62% in quello delle scenografie, ma il 32% nella regia o il 22% nel suono, secondo la ricerca sugli studenti diplomati alla Fémis, l’école nationale supérieure des métiers de l’image et du son, tra il 2000 e il 2010.
Il prodotto cinematografico, nonostante le protagoniste femminili siano presenti sui manifesti, è molto maschile. Infatti, la quota di donne nella redazione di Positif è solo del 12%, l’8% presso Première e il 22 % presso Cahiers du cinéma. Erano inesistenti nel CdA di UGC nel 2013, solo il 25% presso Pathé e il 30% in quello di Studio Canal e Gaumon. Per completare il quadro inglorioso, dalla creazione del premio César nel 1976, una sola donna, Tonie Marshall, ha vinto il premio come miglior regista.
L’offensiva del conservatorismo (qui un articolo) a livello nazionale e internazionale, attraverso stati come il Vaticano o i paesi più integralisti dell’Africa e del Golfo, rallentano la marcia verso l’uguaglianza. Al di là dei più reazionari, molti stati sono riluttanti all’idea che ci siano testi internazionali che fissino le regole. Ciò accade in Europa sul diritto di aborto, in Spagna come in Italia, o nel dibattito francese. C’è una vera e propria confusione tra la questione dell’uguaglianza e quella della differenza, ritiene Wilfried Rault. Non vi è alcuna legge naturale che colpisca uomini e donne. E nessun discorso può giustificare la disuguaglianza. Per dirla come Simone de Beauvoir, nel 1949, “Non si nasce donna, si diventa” (Il secondo sesso).
A complicare questa lunga marcia verso l’uguaglianza, i miglioramenti possono anche generare nuovi problemi. Ad esempio, l’accesso alla contraccezione mette più pressione alle donne che agli uomini, creando una nuova disuguaglianza. Tra tutti i contraccettivi, la sterilizzazione femminile è la più utilizzata al mondo (18,9%) (ndr qui un articolo recente su quello che accade in India), prima della spirale intrauterina (14,3 %) e della pillola (8,8 %) e ben prima del preservativo maschile (7,6%). “La sterilizzazione delle donne, usata soprattutto in Brasile e in Messico, preclude la via alla maternità dopo i primi figli, mentre gli uomini possono ancora diventare padri, spiega Carole Brugeilles, demografa e insegnante presso l’università Paris Ouest, e terza co-autrice dell’Atlas. Un altro esempio è la medicalizzazione del parto, un progresso innegabile, ma a volte porta a una iper-medicalizzazione che mette a repentaglio la salute della donna. Il cesareo dovrebbe essere una pratica accessibile a tutte le donne che ne hanno bisogno (e spesso (in alcuni paesi) non è così). Quando però si verificano delle percentuali di cesareo che superano il 30% dei parti, per esempio, ci si dovrebbe domandare se si può parlare di reale progresso, oppure non si debba parlare addirittura di una forma di violenza.

Le disuguaglianze tra uomini e donne si riconfigurano, si spostano, si edulcorano, sostengono gli autori dell’Atlas. Per coloro che ci hanno messo più di un secolo per ottenere il diritto di voto – le donne neozelandesi votano dal 1893, mentre le kuwaitiane hanno potuto partecipare alle elezioni comunali solo nel 2006 – e coloro che ancora non possono farlo come in Arabia Saudita , le disuguaglianze sono ben lontane dallo scomparire.

venerdì 6 febbraio 2015

MUTILAZIONE GENITALE FEMMINILE, OGGI È LA GIORNATA MONDIALE DI SENSIBILIZZAZIONE di Susanna Panarese

Mutilazione genitale femminile, oggi è la Giornata Mondiale di sensibilizzazione – Il 6 febbraio è la Giornata Mondiale contro la mutilazione genitale femminile, istituita dall’Onu nel 2003 al fine di sensibilizzare il mondo verso una realtà tristemente diffusa che deve essere fermata.
In particolare, in Italia, si cerca di persuadere gli immigrati nel capire quale pratica inumana essa sia e convincer loro a non costringere le proprie figlie a sottoporsi ad essa. La mutilazione genitale femminile consiste nell’asportare, in parte o totalmente, gli organi genitali esterni, il più delle volte senza alcuna anestesia e in condizioni igieniche pessime che inevitabilmente aumentano il rischio di infezione, oltre quello di emorragia conseguente all’intervento, e di morte. Le donne sottoposte a questa pratica considerata tradizione appartengono a diverse fasce d’età, la maggior parte di esse però sono bambine tra i 4 e 12 anni in quanto per loro è visto come un necessario rito di passaggio all’essere donna.
Le stime nei Paesi – La mutilazione genitale femminile è una pratica condannata dall’Onu in quanto “violazione dei diritti umani e abuso irreversibile dell’integrità fisica di donne e bambine” ed è anche una lacerazione psicologica che reca un trauma perenne a chi la subisce.
Questa pratica è diffusa soprattutto nei Paesi dell’Africa dove, nonostante sia illegale in più zone, viene ugualmente attuata in maniera clandestina. Potrebbero suscitare pietà e rifiuto della tradizione le lacrime e le ferite delle donne mutilate ma ci sono ancora tante realtà non progredite che non hanno superato i dettami inumani della consuetudine tramandata. Per questo l’Onu istituisce la Giornata Mondiale contro la mutilazione genitale femminile, e ogni anno riporta numeri sempre più raccapriccianti: oltre 120 milioni le bambine violate per mano dell’uomo e di una cultura perversa, ma non è tutto. Non è solo l’Africa ad esserne interessata. Nuove stime hanno portato alla luce la presenza delle mutilazioni anche in Canada, negli Stati Uniti, in Australia e in particolare in Europa, dove sarebbero 500mila le donne sottoposte a questo abuso.
Infibulazione: purezza della donna – L’infibulazione è l’asportazione totale degli organi genitali femminili e ha il significato della purezza della donna. Questa concezione è del tutto improponibile, perché si parla di violenza contro la donna e mancanza di rispetto verso i suoi diritti di essere umano. La donna infibulata subisce defibulazione nel momento in cui il marito deve usarla per l’atto sessuale, come fosse un oggetto incapace di provare emozioni o dolore. La Giornata Mondiale contro la mutilazione genitale femminile ha l’obiettivo di porre fine a queste pratiche, inumane e inconcepibili.



giovedì 5 febbraio 2015

Le donne e lo “spirito di cordata” di Lilly M.Bozzo-Costa

Nella valigia ho messo diversi articoli che dovevo assolutamente leggere entro il 2014. Avendo davanti a me un lungo viaggio in treno, avrei avuto tutta la notte per leggere.
Uno di questi è tratto da Die Zeit, il settimanale tedesco che ormai leggo fedelmente da quasi 20 anni e che non mi ha mai deluso: “Donna. Presidentessa di CDA. Sospesa”, di Kerstin Bund.
L’articolo cerca di rispondere alla domanda del perché tante donne, una volta arrivate nella stanza dei bottoni, falliscano.
“Per motivi personali” è la classica motivazione di tante donne che in Germania spariscono dalla scena.
Nel 2014 nei Consigli di Amministrazione una donna ogni due si ritira, mentre tra gli uomini se ne ritira solo uno ogni quattro.
Un uomo che si ritira lo fa per migliorare la sua posizione e cercare un posto migliore, mentre una donna che si ritira sparisce spesso completamente dal mondo del lavoro. Il fenomeno non riguarda solo le donne tedesche. Oggi si discute sulle “quote donna” e la legge che deve essere fatta al riguardo. Nel 2016 la percentuale di donne al timone dovrebbe passare al 30%.
Se si chiede direttamente alle interessate il perché del loro “ritiro”, sono loro stesse a non voler affrontare l’argomento. Spesso i contratti non sono ancora conclusi, per molte è meglio dunque tacere. Poche hanno il coraggio e la forza di parlare e denunciare il trattamento che si è avuto nei loro riguardi.
Una donna che ha “fallito” prova vergogna, imbarazzo, pensa di avere sbagliato qualcosa, è probabilmente colpa sua.
Interessante è l’opinione di due uomini intervistati da Kerstin Bund di Die Zeit sull’argomento.
Heiner Thorborg, uno dei più noti intermediari d’impresa in Germania, ritiene che spesso le donne si ritirino perchè non sono all’altezza dei loro compiti, perché non hanno abbastanza esperienza. Una legge sulle “quote donna” sarebbe per lui controproducente.
La seconda intervista è stata fatta a Thomas Sattelberger, ex capo della Telekom in Germania.
Secondo lui rendere responsabili le donne del loro fallimento è un modo disonesto di capovolgere i fatti reali. Non sono le donne ad essere responsabili del loro fallimento , ma gli uomini che vogliono tenere il potere per sè. Le donne dal canto loro devono imparare a stare in cordata . Quando si scala una montagna si è legati e ci si assicura uno con l’altro per evitare di cadere. Attraverso la competenza e il sapere, stando uniti, si riesce ad arrivare in vetta. Le donne ai vertici sono spesso guerriere solitarie, lottano preferibilmente da sole. Una donna che arriva al potere e rimane un caso isolato non cambierà nulla: bisogna raggiungere la massa critica del 30% e stare in cordata con le altre donne.
Anch’io sono d’accordo con il signor Sattelberger. Perciò oggi penso che una vera rivoluzione non sarà avere una donna come capo di Stato, rivoluzionario sarà il fatto di considerarlo un fatto normale. E questo forse avverrà dopo che avremo raggiunto la massa critica del 30% di donne ai vertici d’azienda.

mercoledì 4 febbraio 2015

Il pane e le rose delle donne del Maghreb di Maddalena Vianello

La povertà, l'ignoranza e l'estremo sfruttamento. Ma anche la consapevolezza di donne che, attraverso il loro lavoro, cercano qualcosa in più del semplice sostentamento
La terra schiacciata da un cielo carico e minaccioso. Le case di pietra e mattoni a vista incorniciati dalla calce. Le donne rompono l’immobilità: abiti colorati, capi celati dalle stoffe, movimenti eleganti. Le mani sono spaccate. I visi scavati dal vento e dal sole. La povertà straripa violenta nelle aree rurali del Maghreb, dove possedere la terra è una prerogativa maschile, ma lo sfruttamento selvaggio della manodopera è una peculiarità che riguarda unicamente le donne. L’analfabetismo femminile raggiunge picchi del 70%. Molte donne non studiano o smettono. Mancano le strutture scolastiche. Spesso lavorare è l’unica alternativa alla fame.
Eco de femmes è un documentario. Bellissimo. Poetico. Duro. Racconta il seme del cambiamento. Trae il nome dall’omonimo progetto promosso da GVC Onlus che sostiene la nascita di cooperative agricole e artigianali come strumenti di emancipazione femminile.
Sei protagoniste: Zina, Cherifa, Halima, Fatima, Mina, Jamila. Sei storie di consapevolezza, di determinazione, di trasformazione, raccontate da Carlotta Piccinini.
Le donne sono assetate di conoscenza. Sanno di essere semianalfabete e per questo più esposte allo sfruttamento e alla manipolazione. Mostrano una lucidità disarmante. La conoscenza è il primo passo verso l’emancipazione. La conoscenza permette di non doversi affidare, riduce il rischio di essere ingannate, consente di pensare con la propria testa. Il lavoro rende indipendenti, regala dignità e una posizione sociale riconosciuta. Contribuire al budget familiare attenua le differenze di genere. Non regala lussi, se non quello di saziare la fame. Però rende un po’ più libere. Consente di comprare libri, quaderni e penne per mandare i figli a scuola. E a loro sì, tentare di offrire un futuro diverso.
«La condizione delle donne è grave: la povertà, l’ignoranza, l’analfabetismo sono i limiti che impediscono alle donne di partecipare e le mantengono in una condizione di dipendenza. Lo studio e la cultura sono gli strumenti per la conquista progressiva dell’emancipazione e dell’indipendenza. Strumenti contro un’ideologia che riduce le donne all’inferiorità e alla reinterpretazione della religione. Strumenti contro l’imposizione del pensiero comune. Una donna che non sa niente non è nessuno». Sono parole loro.
Le piccole cooperative sostenute da GVC Onlus compiono grandi miracoli. Le donne riescono a sottrarsi ai lavori agricoli più massacranti, spesso nocivi per la salute e svolti senza alcuna protezione. Usate come macchine. Per qualche dollaro. Studiano, imparano, insegnano, tramandano competenze. E così sorgono scuole che insegnano a leggere e a scrivere, rendendo le donne autonome dagli uomini nella lettura delle bollette come del Corano. Nascono attività artigianali legate alla tessitura dei tappeti e alla produzione di argan e cous cous. Contesti dove le donne si formano, conquistano un salario e una ragione riconosciuta per uscire dalle mura domestiche.
Queste donne sognano. Sognano di allargare la loro attività, di migliorarla. Sognano di includere le altre e aiutarle a emanciparsi. Sognano di cambiare il mondo.


martedì 3 febbraio 2015

MARTEDI' 3 FEBBRAIO ore 21 Assemblea delle socie di ventunesimodonna

MARTEDI' 3 FEBBRAIO  ore 21 presso il Centro Foscolo,via Foscolo 3-D Corsico 

è convocata l'assemblea delle socie dell'Associazione "ventunesimodonna", col seguente ordine del giorno:
1) valutazione del lavoro svolto

2) approvazione bilancio 2014
3) programmazione annuale (allegato alla presente)
4) varie ed eventuali
Vi aspettiamo numerose e propositive

ps.è possibile rinnovare l'iscrizione all'Associazione prima e dopo l'assemblea

lunedì 2 febbraio 2015

Cosa siamo disposte a fare per non tornare sottomesse?di Alessandra Bocchetti*

La nostra libertà è stata guadagnata. Saremo capaci di difenderla? O sarà facile riportarci «a casa»?
Come tanti sono rimasta a guardare alla televisione la grande manifestazione di Parigi. Un po’ commossa, un po’ confusa ma con la sensazione che stesse succedendo qualcosa di buono.
C’erano tutti, sono sicura, tutte le razze erano presenti, tutte le religioni e anche tutti i tipi di atei che possiamo immaginare. Ma qualcuno mancava. Anzi qualcuna mancava. Sono stata attenta, ho cercato con intenzione in quel mare di gente almeno una donna che portasse il velo ma non l’ho trovata. Non dico il velo pesante, che non sarebbe stato possibile, ma quello che lascia scoperto tutto il viso. Delle donne con il velo sicuramente c’erano i loro mariti, i loro figli, i loro padri ma loro no. Eppure sono sicura che stavano condividendo tutto, la commozione, la rabbia, la speranza di un mondo senza odio. Ma lì non c’erano. Erano a casa, perché «a casa» è il loro mondo, il loro posto.
C’erano invece, mi dicono. Erano poche, una piccolissima parte di quella marea umana. La televisione non le ha mai inquadrate, almeno nelle immagini che sono arrivate in Italia. Peccato, perché sono state molto coraggiose e libere. Ma perché le cercavo così ansiosamente in quella marea umana? Devo ora spiegare quella mia assoluta necessità.
Non vorrei stare ora nei panni di Houellebecq. Certo guadagnerà un sacco di soldi, ma sono sicura che non avrebbe mai desiderato uno scenario simile per l’uscita del suo libro. Il suo libro è una profezia di perdita, racconta come l’Occidente a poco a poco verrà guadagnato dall’Islam. Solo pochi anni e la Francia, dice, avrà un presidente della Repubblica islamico sia pur moderato, e le donne di nuovo «a casa», sottomesse alla volontà e padronanza degli uomini.
Onestamente devo dire che non ho letto ancora il libro di Houellebecq, penso che lo farò, ma da quello che se ne racconta, e dal modo in cui se ne racconta, che è anche già molto significativo, c’è una cosa che mi fa scandalo. Il fatto che le donne siano rimesse «a casa», le donne occidentali, dico noi, perché di noi si parla a questo punto, viene rappresentato come un fatto quasi meccanico, una deriva facile, senza grandi complicazioni, senza lacrime né maledizioni. Prima dentro, poi fuori, poi di nuovo dentro come fossimo dei corpi inerti, senza desideri, senza volontà, corpi facilmente spostabili. E’ questa l’impressione che diamo? Come mai oggi ci si può ancora immaginare che si possa prescindere dalla volontà delle donne, dai nostri desideri, dal nostro amore per il mondo? La nostra immagine è così ancora debole? Le radici della nostra libertà sono ancora così corte?
Certo la libertà delle donne è cosa nuova, una manciata di anni di fronte al peso della storia. Che le ragazze ascoltino, per favore.
Una donna francese, che oggi è lì a place de la Republique per la dignità di tutti, fino al 1968 ha avuto bisogno del permesso di suo marito per firmare un assegno. Sembra incredibile, no? Sembra incredibile che fosse cosa saggia picchiare una donna se questa donna magari saggia non sembrava. Siamo state proprietà degli uomini per lunghi secoli della storia, nel nome e nei fatti. Abbiamo avuto anche noi i nostri califfi prima di poter viaggiare, votare, scegliere, decidere, leggere scrivere e fare di conto. La nostra libertà è stata guadagnata. Ed ecco la domanda: saremo capaci di difenderla? O sarà facile riportarci «a casa»? Dove potremmo arrivare? Saremmo capaci di uccidere per la libertà delle donne?
Vi racconto quello che mi spaventa. I diritti si possono perdere, magari non di colpo, ma poco a poco. A poco a poco è arrivato il fascismo, e così è arrivato il nazismo perché le idee più tremende per affermarsi devono guadagnare l’anima delle persone, i corpi non bastano. Il vero potere non si esercita sui corpi ma sulle anime, mutando i desideri e i sogni della gente e per questo ci vuole tempo, un tempo lento. Con gli ebrei hanno cominciato con le caricature, anche gli ebrei ne ridevano. Poi un giorno dissero che gli ebrei non potevano tenere in casa animali domestici, un altro giorno che gli ebrei non potevano sedersi sulle panchine dei giardini pubblici, un altro giorno ancora che non potevano mandare i loro figli a scuola… e così… e così … La fine di questa storia la conosciamo tutti. Eppure se avessero raccontato tutto questo ad un uomo degli anni ’20, ad un tedesco, non ci avrebbe mai creduto.
Ci riporteranno «a casa» così ? A poco a poco? Un giorno ci diranno che le donne non possono più guidare una macchina, un altro giorno che non possono avere il passaporto, un altro giorno che saranno possibili solo alcune professioni … Molte donne, che si trovano in queste condizioni ancora oggi , sono molto vicine a noi, in senso geografico intendo.
Guardiamo lo stesso mare. Ah!…Quanti rideranno di quello che sto dicendo, increduli, proprio come quel tedesco degli anni ’20.
Ma io la domanda la rifaccio. Potremmo scivolare così? O siamo disposte a lottare? A morire per questo, a morire e a far morire, come tante donne hanno fatto per tutte quelle rivoluzioni da cui poi alla fine sono state sempre tradite. Per questa rivoluzione che è la nostra, cosa siamo disposte a fare?
Se un giorno una mediazione ci dovrà essere fra Oriente e Occidente sarà sul corpo delle donne, perché è il controllo sul corpo delle donne l’oggetto del contendere. Il corpo delle donne è preziosissimo per gli uomini, non solo perché garantisce la discendenza, ma perché nel gioco delle parti a lei è stata assegnata quella che serve a confermare la forza di lui, la sua supremazia, il suo potere. E questo gioco, come la fonte dell’eterna giovinezza garantiva freschezza e bellezza a tutti, garantisce anche agli uomini più sprovveduti e più imbecilli, i più poveri di spirito quella forza immaginaria che fa dire loro: io possiedo, io comando, io do il nome. La produzione di forza simbolica della sottomissione delle donne è enorme. Per tutti gli uomini la tentazione è grande. Gli uomini sono molto deboli.
In Occidente ci troviamo in un passaggio difficile dove gli uomini devono rinunciare alla loro supremazia. Passaggio epocale. Forse non ci rendiamo neanche noi donne conto della nostra rivoluzione in atto. E questa inconsapevolezza è un grande rischio. Qui non ci vuole il falso femminismo, quello che pensa alle donne, qui ci vuole il femminismo vero, quello che fa pensare le donne. Possiamo dar luogo a un nuovo Rinascimento, aprire lo scenario inedito di un diverso e più vero stare insieme tra uomini e donne, dove nessuno è servo all’altro, oppure possiamo sprofondare nel disastro. Molto dipende da noi .
Il rischio è sempre là, nella nostra specialità. Perché noi siamo state le serve che hanno amato i loro padroni, le prigioniere che hanno amato i loro carcerieri, le oppresse che hanno amato i loro despoti, lungo tutto il corso della storia, con poche eccezioni. Questo amore che è insieme tenerezza, affetto, pietas è quello che mi fa capace di guardare il viso dei fratelli Kouachi e di sentire che sono ragazzi, poveri ragazzi, ingannati e perduti, che meritano anch’essi le mie lacrime.
Questo ci perderà ancora una volta? O sarà invece proprio quello che ci salverà, che potrà salvare tutti, uomini e donne. Perché, se è il corpo delle donne l’oggetto del contendere, proprio per questo solo il corpo delle donne può essere frontiera invalicabile alla barbarie del dominio come fondamento dei rapporti umani. Ma questo sarà possibile solo se noi donne sapremo difendere la nostra libertà. Solo se saremo capaci e forti da scoprire, fare resistenza e combattere quei grandi e piccoli attentati che quotidianamente la nostra libertà riceve.
C’è un fatto grave che segna ancora profondamente la nostra cultura: il nome della madre viene fatto sparire. Questo deve cambiare. Anche il nome della madre deve dare senso allo stare al mondo dei figli, proprio per un mondo migliore. Non credo più a una parola di quegli uomini che si dichiarano favorevoli alla libertà delle donne e che non mettano in atto questo cambiamento subito, che non lo ritengano un’urgenza. E’ una prova, è un test. Sono stufa di salamelecchi, di falsa attenzione, di condiscendenza, di chiacchiere.
Quando guardo i miei figli curare con amorevole grazia i loro bambini, penso di aver fatto un buon lavoro, penso di aver migliorato il mondo. Voglio fare una campagna pubblicitaria su questo. Tanti grandi manifesti da per tutto: Un padre e il suo bambino malato, e il pay off che dice: «Curalo, sarai un uomo migliore». Un padre che aiuta la sua bambina a fare i compiti: «Aiutala, sarai un uomo migliore». Con un bambino che piange: «Consolalo, sarai un uomo migliore». E così via. Crescere un figlio non è un servizio, è un’opera. Cerco finanziatori.
La nostra scuola è una scuola da califfi, dove si impara che il mondo tutto, la storia, l’arte, gli eventi sono stati fatti da uomini. Le donne vengono completamente private di senso. Le grandi pensatrici, poete, filosofe, artiste sono ignorate, sistematicamente taciute. E la storia poi è la storia quasi esclusivamente del potere e delle lotte per guadagnarlo. La scuola deve cambiare. E’ fondamentale nutrire ragazzi e ragazze di un buon cibo. Mi perdonino quegli insegnanti eccellenti capaci di un equilibrato racconto. Lo so che ci siete, che lavorate come pazzi, ma siete troppo pochi e siete troppo poveri. Anche questo deve cambiare.
Mi devono anche perdonare quelle donne che in questi anni si sono adoperate per darci un Dio possibile, un Dio da amare, un Dio felice della nostra libertà. Non ho saputo vedere l’importanza politica di questo lavoro. Solo ora la scopro. Ho sempre pensato che si potesse fare a meno della religione e questo è sempre vero per quanto mi riguarda, ma i terribili fatti del presente mi spingono ad essere più prudente. Certo per le donne libere ci vuole un Dio migliore. Anche Dio deve cambiare.
Ed eccomi a voi bambine che un giorno vi hanno messo alla vita una cintura di tritolo e vi hanno ucciso e vi hanno fatto uccidere. Siete state scoppiate. Tutta la stampa non vi ha dato grande attenzione. In tempi di orrore è stato un orrore come un altro. Ma c’è un dolore in più per me. Avevate dieci anni, un corpo già impegnato in quell’impresa difficile, a volte disperante, a volte gioiosa di diventare donne. Disperante perché c’è una pedagogia crudele per le bambine: quella di dover piacere. E gioiosa, perché è soprattutto l’idea di un mondo che ci sta aspettando a farci crescere. Questa è l’adolescenza.
Come vi hanno scelto? Forse eravate senza grazia, forse non piacevate a nessuno o non c’era nessuno che vi amasse? O è stata la sorte, o il caso. Avete avuto paura? Vi hanno costretto? Avete pianto? Il cuore vi batteva forte? Vi tremavano le gambe? O vi hanno imbrogliato e vi hanno detto che era un gioco? E allora siete andate sorridendo verso quel mercato, un gioco bello che poi ci sarebbe stato un premio. Certo a voi non hanno potuto promettere il Paradiso con tante vergini per la vostra gioia.
Già, dove vanno le donne dopo morte secondo la religione islamica? Non lo so, mi dovrò informare. Bambine mie, piccole bambine tortorelle. Perdono.
(buio)


domenica 1 febbraio 2015

Le donne di Kobane: le più belle del mondo

Mi sono perso nel guardare le foto dei festeggiamenti dei curdi, l’altro giorno. Mi sono perso nei loro sorrisi, nei volti puliti, nei capelli sciolti e nei pugni sollevati al vento, contro un cielo nero, buio, di una notte illuminata a giorno.
Non mi sono sentito rincuorato o felice quando ho letto la notizia di Kobane libera; lo sono stato quando ho visto queste foto – quando ai vincitori, ho potuto associare un volto. E che bellezza c’era in questo volto. Un volto di donna, giovane; un volto finalmente libero – com’è finalmente libera Kobane – dall’ansia e dallo stress, ringiovanito della contentezza della vittoria, rilassato come non lo era da mesi.
La notizia della liberazione di Kobane ci ha raggiunti qualche ora dopo la vittoria di Tsipras in Grecia. E per questo, dice qualcuno, è passata un po’ in sordina. I pochi quotidiani che ne hanno parlato hanno l’hanno ridotta a niente, a un passaggio necessario, a una svolta attesa e non così tanto sperata. Kobane libera è stata solo terra tolta all’Isis, per questi quotidiani. Eppure, e lo sanno bene i curdi, non è così. Kobane libera segna la vittoria dell’umanità, un’umanità che riprende fiato dalla pesantezza della solitudine e dell’estremismo. Abbandonata da tutti, ricordata da pochi, celebrata dai più deboli.
Non sono un attivista e forse non lo sarò mai. Non sono nemmeno uno dei sostenitori della prima ora, eppure anche io mi sono innamorato di Kobane, delle donne di Kobane, le più belle del mondo. Belle di una bellezza nuova, rigenerata, scaturita come una fiamma dall’incontenibile gioia di ritornare per le strade della propria città, da donne libere.
L’esempio virtuoso di Kobane, piccolo e allo stesso tempo grande, è anch’esso passato in sordina. Tra chi ne ha parlato riducendolo a passaggio forzato della cronaca e chi – forse esagerando, forse no – l’ha definito modello vincente, nuovo e moderno (la parità assoluta tra uomini e donne, nessuna discriminazione, nessuna differenza) ha fatto da cappello ad articoli e da ciccia agli editoriali. È stata l’ambientazione perfetta per una storia che dopo i primi mesi di interesse internazionale è caduta nel dimenticatoio. I giornalisti rimasti sul posto sono diminuiti: alla resistenza curda, è stato “preferito” l’attentato francese. Perché parlare di più cose, a una platea costantemente bombardata da input e informazioni com’è quella che popola il web e legge i giornali oggi, è un azzardo. E si rischierebbe di perdere l’attenzione.
Anche per questo la vittoria delle donne di Kobane è stata più bella: perché hanno lottato quanto e più degli uomini, e sono state protagoniste del loro destino e della loro vita. Prima schiacciate, allontanate a forza dalle loro case, costrette a vedere i loro conquistatori padroni nella loro città attraverso le fessure della rete metallica alzata sul confine, e poi libere, trionfatrici, sorridenti.
Le donne di Kobane sono le più belle del mondo, e in quelle foto di ieri, del loro trionfo, lo resteranno per sempre. Simboli di una lotta povera, del più debole contro il più forte, della giustizia e della libertà contro l’estremismo cieco e nero; l’urlo di dolore di una città, di una nazione, di un popolo rimasto inascoltato, e che da solo, non per miracolo ma per la forza di coloro che hanno resistito e combattuto, si è fatto largo tra le macerie e le strade abbandonate, tra i razzi, i proiettili, la morte. Il sorriso di quelle donne è un sorriso che sa di vita.