martedì 26 maggio 2015

Di cosa parliamo quando parliamo di genere a scuola di Pina Caporaso

L'ideologia del gender non esiste.
Nelle classi si insegna ai più piccoli "a volare liberi"
Matilde era una mia alunna che in seconda elementare, a una mostra d’arte contemporanea, mi chiese se l’artista potesse essere una femmina, visto che in quella esposizione gli artisti erano solo maschi.
Mohammed, in quella stessa classe, nella gita di più giorni, lo trovammo una mattina al risveglio che aveva sistemato tutti i suoi compagni di stanza sui letti mentre dava il cencio sul pavimento perché in un posto sudicio non si dormiva bene.
Laura in prima elementare disse che da grande voleva fare la muratrice - non il muratore, proprio la muratrice - perché le piaceva il lavoro del suo babbo.
Giorgio ha un trasporto affettivo fisico verso tutti e tutte, maschi e femmine, ma il suo amico del cuore è Andrea ed è sempre lì a riempirlo di baci.
Edoardo ha messo in scena un teatro di burattini fatti con le bic e i tovagliolini di carta in cui prende le difese di un compagno che è un po’ più basso degli altri e lo fa diventare volante perché così si riscatta.
Anna elenca i compagni più importanti per lei e cita maschi e femmine perché ha sempre detto che lei si sente anche un po’ maschio, ma lo dice a bassa voce.
Luca non ha nessun imbarazzo nella pettinatura con la cresta alta che si fa lui stesso ogni mattina e nessuno lo ha mai preso in giro per la sua originalità.
Detesto di tutta questa campagna contro una non ben specificata “ideologia del gender” che alcune insegnanti starebbero veicolando nella scuola pubblica, detesto - dicevo - il non avere idea di cosa accada in una classe. Non sapere la complessità, non interrogarsi su chi entra in classe ogni giorno e sa di avere davanti una trentina di mondi che cercano di entrare in relazione tra loro e con noi.
Chi urla che le maestre indottrinano ha forse la famosa coda di paglia: pronto a concepire questo lavoro come un’opera di indottrinamento, di plagio e di riempimento di vuoti.
Ma insegnare è tutta un’altra faccenda.
La mia prima reazione di fronte agli attacchi scomposti e molteplici di quest’ultimo mese è stata un rifiuto. Si è trattato di un attacco ibrido: argomentazioni senza spessore, toni caricaturali, nessuna capacità di citare fonti, banalità, falsità ma anche diffidenza, toni violenti, diffamazione ed un’aggressiva chiamata alle armi dimenticando che, a fare così, il terreno di battaglia diventano i bambini e le bambine. Mi fa specie pensare che in alcuni casi siano stati dei genitori a gridare al lupo rivolgendosi alla stampa invece di cercare una spiegazione dalle insegnanti. Significa che queste persone consegnano i propri figli per otto ore al giorno a delle persone di cui non si fidano e di cui bisogna aspettare il passo falso, l’errore, la caduta così da poterle cogliere in flagrante.
Più è profonda la cattiva fede (qui nome omen), più io mi ritiro in classe dove, in questi giorni, abbiamo allestito una piccola officina/falegnameria e stiamo lavorando sulla bicicletta. Vorrei dire, infatti, di venire a titolare che anche nella nostra scuola si fa propaganda di “ideologia gender” perché - indovina un po’, caro sentinello in piedi - le bambine smontano i pezzi della bicicletta come fossero meccanici e - incredibile! - ne capiscono il funzionamento come fossero ingegneri. Ma allora il sentinello avrebbe gridato allo scandalo pure qualche mese fa, quando abbiamo fatto un laboratorio di cucito per realizzare delle stelline e dei pupazzini morbidi, ed è stato naturale che i bambini - maschi - imparassero e volessero cucire esattamente come le femmine.
La cattiva fede sta nell’attaccare la scuola pubblica e prima di tutto le insegnanti senza minimamente chiedersi su che basi la scuola scelga di attivare alcune pratiche. Nel 2010 mi capitò tra le mani il Rapporto Eurydice, la Rete di Informazione sull’Istruzione in Europa, dal titolo “Differenze di genere nei risultati educativi - Studio sulle misure adottate e sulla situazione adottata in Europa”. Leggendolo presi chiaramente visione del problema: l’Italia veniva richiamata perché sprovvista di sguardi e pratiche relative al genere, sia a livello politico che educativo. Analizzando la situazione, emergeva questo, ad esempio: “L’obiettivo più comune delle politiche di uguaglianza di genere nell’istruzione è la lotta contro i ruoli e gli stereotipi tradizionali [...] Sembra che si facciano sforzi per includere genere ed uguaglianza di genere come argomenti o temi interdisciplinari nei curricoli scolastici dei paesi europei. Lo stesso non si può dire riguardo allo sviluppo di adeguati metodi didattici e linee guida specificamente orientati al genere, che invece potrebbero avere un ruolo importante nel contrastare gli stereotipi di genere rispetto all’interesse e all’apprendimento”.
Che piaccia o meno a guardiani, sentinelle e altri crociati, la scuola era ed è un luogo in cui si veicolano disuguaglianze di genere. Certo, il genere non è l’unica variabile che incide sul successo scolastico e sul benessere in classe. Tra i fattori decisivi c’è sempre la condizione socio-economica di provenienza, cosa che dovrebbe accendere molti campanelli d’allarme quando si erodono soldi e finanziamenti alla scuola pubblica a vantaggio di quella privata. Leggendo, comunque, la variabile “genere” in molte ricerche e anche in alcune indagini internazionali (PIRLS, PISA, TIMMS) vengono fuori alcuni problemi: che le ragazze hanno un’autostima minore dei ragazzi nelle scienze nonostante abbiano il medesimo interesse; che le percezioni degli insegnanti sulle peculiarità maschili e femminili (peculiarità o stereotipi?) sono ancora decisive per promuovere equità tra i generi; che la presenza femminile è prevalente tra le insegnanti ma scarsa fra i dirigenti scolastici e che decresce al crescere della scala accademica; che le politiche per la formazione dei docenti non prendono in considerazione la prospettiva di genere.
A me, come insegnante, preoccupa molto il fatto di avere un così grande potere su delle giovani persone. Sono moltissimi gli studi su come le aspettative di chi insegna riescano ad influenzare l’autostima, la fiducia in se stessi, il successo scolastico di ragazzi e ragazze e, prima ancora, di bambini e bambine. Abbiamo discusso spesso con alcune colleghe del perché ci aspettiamo che le bambine siano più “diligenti” e i bambini più “intuitivi” in scienze e matematica e scagli la prima pietra chi può dire di essere totalmente immune da questi stereotipi. Siamo figlie di una cultura che ha prodotto “uomini che non sanno amare e donne che si tengono lontane dalla scienza”, come scriveva Evelyn Fox Keller in un bellissimo saggio di trent’anni fa (Sul genere e la scienza, Garzanti, Milano 1987), perciò decostruire questi schemi fa molto bene anche a noi, ci rende più responsabili delle nostre pratiche. Ci invita a pensare alle nostre proiezioni ed attese su bambini e bambine e su cosa trasmettiamo loro, ovvero a tutto ciò che non è ufficialmente presente nei programmi scolastici ma che veicola molti più contenuti di quanto immaginiamo. Gli esempi che cito all’inizio parlano, in un certo senso, di ruoli non così attesi rispetto al genere di appartenenza: bambini che imparano ad esprimere affetti ed emozioni, a prendersi cura dello spazio di tutti; bambine che si immaginano in ambiti in cui non sono rappresentate né immaginabili. Molti anni dopo gli scritti di Bruno Munari, il punto è ancora questo: aprire il ventaglio delle possibilità, ampliare le conoscenze, cercare di scegliere consapevolmente, sentirsi nello spazio aperto della relazione e non in quello chiuso del confine.
Non si tratta di pratiche che si attivano con un solo strumento - un libro, un gioco, un laboratorio - né in un tempo circoscritto. Si tratta di uno sguardo da allenare, di nuove lenti con cui guardare, di un clima senza censura da costruire quotidianamente. È facile e probabile che, sentendosi libera di esprimersi, una classe tiri fuori le peculiarità di ciascuno, permetta di osservare e conoscere altri punti di vista, ampliando così le possibilità di immaginarsi e di ispirarsi.
E allora di cosa parliamo, quando diciamo “genere” a scuola?
Di costruzione di uno spazio pubblico che è ambito diverso dal privato della casa e della famiglia e che ci insegna a riflettere sulla nostra identità. Su chi siamo e cosa immaginiamo di essere in futuro. La scuola serve anche a questo: a imparare che esistiamo in autonomia, che ci viene richiesto un pensiero nostro perché lo abbiamo e possiamo imparare a praticare la libertà di esprimerlo. Forse è questo che spaventa così tanto: immaginare che già da piccoli si voglia lasciare il nido per andare alla scoperta del mondo.

 Eppure è proprio così. Le nostre classi sono piene di Cipì. Per favore, lasciamoli liberi di imparare a volare.  

sabato 23 maggio 2015

24 maggio 1915 L'Italia dichiara guerra all'Austria - 24 maggio 2015 riflettiamo insieme sulle guerre e sulla pace

In occasione del centenari della dichiarazione di guerra abbiamo ritenuto opportuno condividere pensieri e riflessioni su questo fatto storico così grave di conseguenze e così esaltato dalla retorica nazionalista e mettere in evidenza l'apporto delle donne, protagoniste sempre dimenticate e oscurate dalla storia.
vi aspettiamo numerose e numerosi  per discuterne insieme


giovedì 21 maggio 2015

Anche le donne pensano: storia delle filosofe dimenticate

La storia della filosofia occidentale è una lista di nomi di uomini.
E le donne? Dimenticate, oscurate: per invidia e per noncuranza
Chi ancora sfogliasse i libri di storia della filosofia, anche senza molta attenzione, noterebbe, se non è troppo distratto, che di nomi di donna ne appaiono pochi.Prima del ’900, addirittura, non se ne trova quasi nessuno.
Concludere però che le donne non siano adatte al pensiero speculativo, come sosteneva invece Aristotele, non sarebbe corretto (non è solo una questione di buon senso). Nonostante le correnti femministe del ’900 non se ne siano granché accorte, nel passato sono esistite diverse donne filosofe. Soltanto, sono state rimosse o messe da parte.
Ad esempio, Émilie Du Châtelet, era una scienziata, filosofa, matematica. Era stata allieva di Newton e veniva citata da Immanuel Kant (proprio lui) come esempio da seguire in una delle sue opere (che, va detto, era la prima, del 1747, dal semplice titolo di: Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive e valutazione delle prove di cui si sono serviti in questa controversia il signor Leibniz e altri meccanici, insieme con alcune considerazioni preliminari riguardanti la forza dei corpi in generale, che non è che si leggono tutti). Aveva avuto anche un lungo e importante rapporto con Voltaire, che dopo la morte fece di tutto per infangarne la memoria. Invidia?
Un altro caso scuola è Margaret Cavendish, filosofa naturalista che respinse, nelle sue opere, l’aristotelismo e la filosofia meccanicistica del Seicento. Fu un personaggio fuori dagli schemi, che si fece notare molto e odiare anche di più: Samuel Pepys scrisse di lei che era “pazza, presuntuosa e ridicola”. Forse anche questo contribuì a farla dimenticare dagli storici della filosofia.
Se ancora servisse un esempio, si può pensare ad Anne Conway, platonista e razionalista che influenzò anche Leibniz. Scrisse i “Principi della filosofia più antica e più moderna”, dove mise in discussione diverse tesi di Cartesio, Hobbes e Spinoza.
Bene: per chi volesse saperne di più – e volesse anche contribuire a sollevare un velo che la storia ha calato sul mondo della filosofia femminile, non ha che da andare sul sito Project Vox, un sito open-source con testi e traduzioni delle filosofe del XVI e XVII secolo, finanziato da un fondo della Duke University. È pensato per aiutare studenti e professori che desiderano approfondire la questione e che hanno l’ambizione, se mai fosse ancora necessario, di smentire, anche in questo campo, il vecchio Aristotele.


mercoledì 20 maggio 2015

Cosa (non) è la teoria del gender

No, l’ideologia del gender non esiste davvero. È una trovata propagandistica che distorce gli studi di genere
Si salvi chi può da coloro che, per combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, vogliono colonizzare le menti di bambini e bambine con una visione antropologica distorta, con un’azione di indottrinamento gender. Il monito l’ha lanciato, a più riprese, il mondo cattolico.
Lo ha fatto, per esempio, il cardinale Angelo Bagnasco in apertura del Consiglio della Conferenza episcopale italiana. Il Forum delle associazioni familiari dell’Umbria ha stilato addirittura un vademecum per difendersi dalla pericolosa introduzione nelle scuole italiane di percorsi formativi e di sensibilizzazione sul gender. Che si parli di educazione all’effettività, educazione sessuale, omofobia, superamento degli stereotipi, relazione tra i generi o cose simili, tutto secondo loro concorre a un unico scopo: l’indottrinamento. E anche l’estrema destra a Milano (ma non solo) ha lanciato la sua campagna “contro l’aggressione omosessualista nelle scuole milanesi” per frenare eventuali seminari “diseducativi”.
La diffusione dell’ideologia gender nelle scuole, secondo ProVita onlus, l’Associazione italiana genitori, l’Associazione genitori delle scuole cattoliche, Giuristi per la vita e Movimento per la Vita, è una vera emergenza educativa. Perché in sostanza, dietro al mito della lotta alla discriminazione, in realtà spesso si nasconde “l’equiparazione di ogni forma di unione e di famiglia e la normalizzazione di quasi ogni comportamento sessuale”. Tanto che, nello spot che ProVita ha realizzato per promuovere la petizione contro l’educazione al genere, una voce fuori campo chiede “Vuoi questo per i tuoi figli?”. Ma cos’è la teoria/ideologia gender?
La teoria del gender
Non esiste. Nessuno, in ambito accademico, parla di teoria del gender. È infatti un’espressione usata dai cattolici (più conservatori) e dalla destra più reazionaria per gridare “a lupo a lupo” e creare consenso intorno a posizioni sessiste e omofobe.
Significativa, per esempio, la posizione di monsignor Tony Anatrella che, nel libro La teoria del gender e l’origine dell’omosessualità, ci mette in guarda da questa fantomatica teoria, tanto pericolosa quanto oppressiva (più del marxismo), che si presenta sotto le mentite spoglie di un discorso di liberazione e di uguaglianza e vuole inculcarci l’idea che, prima d’essere uomini o donne, siamo tutti esseri umani e che la mascolinità e la femminilità non sono che costruzioni sociali, dipendenti dal contesto storico e culturale. Un’ideologia (udite, udite) che pretende che i mestieri non abbiano sesso e che l’amore non dipenda dall’attrazione tra uomini e donne. Talmente perniciosa, da essersi ormai insediata all’Onu, all’Unesco, all’Oms, in Parlamento europeo.
“Ma non ha alcun senso parlare di teoria del gender e men che mendo di ideologia del gender”, sostiene Laura Scarmoncin, che studia Storia delle donne e di genere alla South Florida University. “È un’arma retorica per strumentalizzare i gender studies che, nati a cavallo tra gli anni 70/80, affondano le loro radici nella cultura femminista che ha portato il sapere creato dai movimenti sociali all’interno dell’accademia. Così sono nati (nel mondo anglosassone) i dipartimenti dedicati agli studi di genere” e poi ai gay, lesbian e queer studies.
In sostanza, come spiega Sara Garbagnoli sulla rivista AG About Gender, la teoria del gender è un’invenzione polemica, un’espressione coniata sul finire degli anni ’90 e i primi 2000 in alcuni testi redatti sotto l’egida del Pontificio consiglio per la famiglia con l’intento di etichettare, deformare e delegittimare quanto prodotto in questo campo di studi. Poi ha avuto una diffusione virale quando, in particolare negli ultimi due-tre anni, è entrata negli slogan di migliaia di manifestanti, soprattutto in Francia e in Italia, contrari all’adozione di riforme auspicate per ridurre le discriminazioni subite dalle persone non eterosessuali.
“È un blob di slogan e di pregiudizi sessisti e omofobi”. Un’etichetta fabbricata per distorcere qualunque intervento, teorico, giuridico, politico o culturale, che voglia scardinare l’ordine sessuale fondato sul dualismo maschio/femmina (e tutto ciò che ne consegue, come subordinazione, discriminazione, disparità, ecc.) e sull’ineluttabile complementarietà tra i sessi.
Secondo gli ideatori dell’espressione teoria/ideologia del genere, nasciamo maschi o femmine. Punto. Il sesso biologico è l’unica cosa che conta. L’identità sessuale non si crea, ma si riceve. E il genere è una fumisteria accademica, come scrive Francesco Bilotta, tra i soci fondatori di Avvocatura per i diritti Lgbti – Rete Lenford.
In realtà gli studi di genere costituiscono un campo di indagine interdisciplinare che si interroga sul genere e sul modo in cui la società, nel tempo e a latitudini diverse, ha interpretato e alimentato le differenze tra il maschile e il femminile, legittimando non solo disparità tra uomini e donne, ma anche negando il diritto di cittadinanza ai non eterosessuali.
L’identità sessuale
Gli studi di genere non negano l’esistenza di un sesso biologico assegnato alla nascita, né che in quanto tale influenzi gran parte della nostra vita. Sottolineano però che il sesso da solo non basta a definire quello che siamo. La nostra identità, infatti, è una realtà complessa e dinamica, una sorta di mosaico composto dalle categorie di sesso, genere, orientamento sessuale e ruolo di genere.
Il sesso è determinato biologicamente: appena nati, cioè, siamo categorizzati in femmine o maschi in base ai genitali (a volte, però, genitali ambigui rendono difficile collocare il neonato o la neonata nella categoria maschio o femmina, si parla allora di intersessualità).
Il genere invece è un costrutto socioculturale: in altre parole sono fattori non biologici a modellare il nostro sviluppo come uomini e donne e a incasellarci in determinati ruoli (di genere) ritenuti consoni all’essere femminile e maschile. La categoria di genere ci impone, cioè, sulla base dell’anatomia macroscopica sessuale (pene/vagina) e a seconda dell’epoca e della cultura in cui viviamo, delle regole cui sottostare: atteggiamenti, comportamenti, ruoli sociali appropriati all’uno o all’altro sesso.
Il genere, in sostanza, si acquisisce, non è innato, ha a che fare con le differenze socialmente costruite fra i due sessi. Non a caso nel tempo variano i modelli socioculturali, e di conseguenza le cornici di riferimento entro cui incasellare la propria femminilità o mascolinità.
L’identità di genere riguarda il sentirsi uomo o donna. E non sempre coincide con quella biologica: ci si può, per esempio, sentire uomo in un corpo da donna, o viceversa (si parla in questo caso di disforia di genere).
Altra cosa ancora è l’orientamento sessuale: l’attrazione cioè, affettiva e sessuale, che possiamo provare verso gli altri (dell’altro sesso, del nostro stesso sesso o di entrambi).
Educare al genere
“Nelle nostre scuole – sottolinea Nicla Vassallo, ordinario di filosofia teoretica all’Università di Genova – a differenza di quanto si è fatto in altri Paesi, non c’è mai stata una vera e propria educazione sessuale e anche per questo l’Italia è arretrata rispetto alla considerazione delle categorie di sesso e genere. Eppure, educare i genitori e dare informazioni corrette agli insegnanti affinché parlino in modo ragionato, e non dogmatico, di sesso, orientamento sessuale, identità e ruoli di genere, a figli e scolari è molto importante perché sono concetti determinanti per comprendere meglio la nostra identità personale. E per essere cittadini occorre sapere chi si è”.
Educare al genere (come si legge nel bel saggio Educare al genere) significa, in fondo, sostenere la crescita psicologica, fisica, sessuale e relazionale, affinché i bambini e le bambine di oggi possano progettare il proprio futuro al di là delle aspettative sulla mascolinità e la femminilità.
Basti pensare, come scrivono le curatrici nell’introduzione, all’appellativo effeminato che viene usato per descrivere quegli uomini che non si comportano da “veri maschi” (coraggiosi, determinati , tutti di un pezzo, che non devono chiedere mai) e danno libero sfogo alle emozioni tradendo lo stereotipo dominante. E la scuola può (deve) avere un ruolo fondamentale per scalfire gli stereotipi di genere, ancora fin troppo radicati nella nostra società, offrendo a studenti e studentesse gli strumenti utili e necessari per diventare gli uomini e le donne che desiderano.
Educare al genere significa dunque interrogarsi sul modo in cui le varie culture hanno costruito il ruolo sociale della donna e dell’uomo a partire dalle caratteristiche biologiche (genitali). Contrastare quegli stereotipi e quei luoghi comuni, socialmente condivisi, che finiscono col determinare opportunità e destini diversi a seconda del colore del fiocco (rosa o azzurro) che annuncia al mondo la nostra nascita.
Concedere diritto di cittadinanza ai diversi modi di essere donna e uomini. E significa anche riflettere “sul fatto che le attuali dicotomie di sesso (maschio/femmina) e di genere (uomo/donna) non sono in grado, di fatto, di descrivere la complessità della realtà” sottolinea Vassallo. E dietro questa consapevolezza non ci sono le famigerate lobby Lgbt, ma decenni di studi interdisciplinari.
A scuola per scalfire stereotipi e pregiudizi
Trasmettere ai bambini e alle bambine, attraverso alcune attività ludico-didattiche, il valore delle pari opportunità e abbattere tutti quegli stereotipi che, fin dalla più tenera età, imprigionano maschi e femmine in ruoli predefiniti, granitici, e sono alla base di molte discriminazioni, è l’obiettivo del progetto Il gioco del rispetto.
Dopo la fase pilota dello scorso anno, sta per partire in alcune scuole dell’infanzia del Friuli Venezia Giulia. Accompagnato però da non poche polemiche alimentate, ancora una volta, da chi vuole tenere lontano dalle scuole l’educazione al genere. Come se possa esserci qualcosa di pericoloso nell’illustrare (lo fa uno dei giochi del kit didattico) un papà alle prese con il ferro da stiro e una mamma pilota d’aereo. Alcuni l’hanno definito “una pubblica vergogna”, un tentativo di “costruire un mondo al contrario“, l’ennesima propaganda gender, “lesivo della dignità dei bambini” e inopportuno, perché non avrebbe senso sensibilizzare i bambini contro la violenza sulle donne, “come se un bambino di 4 o 5 anni potesse essere un mostro, picchiatore o stupratore“.
Eppure, poter riflettere sugli stereotipi sessuali, combattere i pregiudizi, sviluppare consapevolezza dei condizionamenti storico-culturali che riceviamo, serve anche a prevenire comportamenti violenti e porre le basi per una società più civile.
Le esperienze italiane
Lungo lo Stivale sono diversi i progetti che si prefiggono di abbattere pregiudizi e stereotipi in classe. Per esempio, l’associazione Scosse ha promosso l’anno scorso a Roma La scuola fa differenza, per colmare, attraverso percorsi formativi rivolti a educatori e insegnanti dei nidi e delle scuole dell’infanzia, le carenze del nostro sistema scolastico in merito alla costruzione delle identità di genere, all’uso di un linguaggio non sessista e al contrasto alle discriminazioni. Da diversi anni lo fa anche la Provincia di Siena nelle scuole di ogni ordine e grado.
Così come “da un po’ di anni ”, spiega Davide Zotti, responsabile nazionale scuola Arcigay, “attività di prevenzione dell’omofobia e del bullismo omofobico sono organizzate nelle scuole italiane da Arcigay, Agedo e altre associazioni, attraverso percorsi di educazione al rispetto delle persone omosessuali”.
In Toscana, per esempio, la Rete Lenford ha coordinato una rete di associazioni impegnate in percorsi didattici contro le violenze di genere e il bullismo omotransfobico, per una scuola inclusiva. E a Roma l’Assessorato alla scuola, infanzia, giovani e pari opportunità ha promosso, in collaborazione con la Sapienza, il progetto lecosecambiano@roma, rivolto alle studentesse e agli studenti degli istituti superiori della Capitale. Apripista, però, è stato il Friuli Venezia Giulia, dove da cinque anni Arcigay e Arcilesbica portano avanti il progetto A scuola per conoscerci, che nel 2010 ha ricevuto l’apprezzamento da parte del Capo dello Stato, per il coinvolgimento degli studenti nella formazione civile contro ogni forma di intolleranza e di discriminazione.
Inoltre, il ministero per le Pari opportunità e l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali a difesa delle differenze) hanno elaborato una strategia nazionale per la prevenzione, rispondendo a una raccomandazione del Consiglio d’Europa di porre rimedio alle diffuse discriminazioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere (nelle scuole, nel mondo del lavoro, nelle carceri e nei media). In quest’ambito, l’Istituto Beck ha realizzato degli opuscoli informativi per fornire ai docente strumenti utili per educare alla diversità, facendo riferimento alle posizioni della comunità scientifica nazionale e internazionale sui temi dell’orientamento sessuale e del bullismo omofobico. E sono stati organizzati dei corsi di formazione per tutte le figure apicali del mondo della scuola, al fine di contrastare e prevenire la violenza, l’esclusione sociale, il disagio e la dispersione scolastica legata alle discriminazioni subite per il proprio orientamento sessuale.
Da qui la levata di scudi contro l’ideologia gender che destabilizzerebbe le menti di bambini e adolescenti. Perché non solo tra moglie e marito, ma anche tra genitori e figli non si deve mettere il dito: guai a mettere in discussione la famiglia tradizionale e a istillare domande nella testa di bambini e adolescenti che abbiano a che fare con l’identità (sessuale), l’affettività o la sessualità.
Il genere come ideologia
“Se qualcuno del gender ha fatto un’ideologia è stata la Chiesa cattolica”. Non ha dubbi in proposito la Vassallo che, nel suo ultimo libro Il matrimonio omosessuale è contro natura (Falso!), ci mette in guardia dall’errore grossolano di far coincidere la femmina (quindi il sesso, categoria biologica) con la donna (il genere, categoria socioculturale), o il maschio con l’uomo: negando, in questo modo, identità e personalità a ogni donna e a ogni uomo.
“Nei secoli, infatti, la Chiesa cattolica ha costruito l’idea che uomo e donna siano complementari e si debbano accoppiare per riprodursi”. Questo, in pratica, sarebbe il solo ordine naturale possibile. “Invece, se oggi parliamo di decostruzione del genere, non lo facciamo per una presa di posizione ideologica, ma partendo dalla costatazione che, di fatto, non ci sono solo due sessi (ce lo dice la biologia, si pensi all’intersessualità), ci sono più generi e non c’è un unico orientamento sessuale: ovvero quello eterosessuale, che la Chiesa ha sempre promosso, etichettando come contro natura quello omosessuale”.
Ma la natura non è omofoba. Anzi. Nel libro In crisi d’identità, Gianvito Martino, direttore della divisione di Neuroscienze del San Raffaele di Milano, spiega (e documenta) che è un gran paradosso etichettare l’omosessualità, ma anche il sesso non finalizzato alla riproduzione, come contro natura. Ci sono infatti organismi bisessuali, multisessuali o transessuali, la cui dubbia identità di genere è essenziale per la loro sopravvivenza. Additare quindi come contro natura certi comportamenti significa ignorare la realtà delle cose, scegliendo deliberatamente di essere contro la natura.
“Inoltre, – aggiunge lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi, ordinario di psicologia dinamica alla Sapienza di Roma – non solo ciò che è considerato caratteristico della donna o dell’uomo cambia nel corso della storia e nei diversi contesti culturali, ma anche il concetto di famiglia ha conosciuto e sempre più spesso conosce configurazioni diverse: famiglie nucleari, adottive, monoparentali, ricombinate, omogenitoriali, allargate, ricomposte, ecc. Delegittimarle significa danneggiare le vite reali di molti genitori e dei loro figli. Ci sono molti modi, infatti, di essere genitori (e non tutti sono funzione del genere). Non lo affermo io, ma le più importanti associazioni scientifiche e professionali nel campo della salute mentale dopo più di quarant’anni di osservazioni cliniche e ricerche scientifiche, dall’American Academy of Pediatrics, alla British Psychological Society, all’Associazione Italiana di Psicologia”.
“In sostanza – conclude Lingiardi – adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori. Ciò di cui i bambini hanno bisogno è sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, responsabili. Una famiglia, infatti, non è soltanto il risultato di un accoppiamento riproduttivo, ma è soprattutto il risultato di un desiderio, di un progetto e di un legame affettivo e sociale”.


martedì 19 maggio 2015

Chiara Saraceno: "La teoria gender non esiste" L'intervista in occasione del 17 maggio, giornata mondiale contro l'omofobia di Pasquale Quaranta

La sociologa Chiara Saraceno prova a spiegare le ragioni di chi si oppone al riconoscimento dei diritti delle persone gay e lesbiche.

Professoressa Saraceno, quando si parla di famiglie in Italia se ne parla sempre al singolare. Perché ci si ostina a non riconoscere la pluralità dei modelli familiari?
Esiste una specie di doppio binario: uno è quello dei principi, l'altro quello della pratica. Basta che la pratica non interroghi mai, o non metta mai in discussione i principi - ciò che in fondo dà sicurezza - che va tutto bene. Nel nostro Paese la politica e i politici hanno pensato che intorno alla famiglia si giocasse parte del consenso elettorale veicolato dalla Chiesa cattolica. In realtà c'è chi non è molto liberale ed è convinto di quello che pensa, ma c'è anche chi molto più cinicamente si comporta come gli pare ma pensa sia meglio non entrare in rotta di collisione con la Chiesa. Se pensiamo alla Francia o alla Spagna invece, dove pure la Chiesa si è opposta a modifiche della legge sulla famiglia, i cattolici non hanno lo stesso potere che viene dato loro dalla politica.
In Italia c'è quindi una delega della politica alla Chiesa su questi temi?
Quando ero più giovane ho scritto che in Italia c'è stato una sorta di patto di Yalta. Del lavoro si occupa la Sinistra, della famiglia si occupa la Chiesa, la Democrazia Cristiana. A lungo si è andati avanti su questo compromesso. Pensi a quanto tempo abbiamo impiegato per introdurre il divorzio nel nostro Paese o legalizzare la contraccezione, cose tutto sommato meno radicali concettualmente rispetto alla tradizione che non il matrimonio o la genitorialità omosessuale.

Nei suoi studi si è occupata dei significati culturali e sociali che attribuiamo al maschile e al femminile, quindi all'identità e al genere delle persone. Oggi contro i diritti delle persone omosessuali si agita lo spauracchio della "teoria gender": di cosa si tratta e qual è la posta in gioco?

In realtà esistono tante teorie di genere. Il concetto di genere è stato sviluppato dalle femministe americane per sottolineare come i ruoli sociali attribuiti all'uno o all'altro sesso siano costruzioni sociali. In parole povere: non discende dalla conformazione del corpo il fatto che l'uomo lavori in modo remunerato e la donna stia in casa, o che gli uomini guadagnino più delle donne, o che gli uomini si occupino di politica e le donne meno, così come non discende dalla conformazione del corpo il fatto che le donne siano per natura più passive, dolci, e gli uomini più aggressivi e così via: sono tutti costrutti sociali. Il corpo è importante, la conformazione del corpo è anche qualcosa che va riflettuta, pensata, elaborata, insomma non ignoriamo come siamo fatti, ma da questo non discendono né caratteristiche psicologiche né comportamenti sociali.
Cei, Bagnasco: "Reagire al gender: teoria che edifica un transumano"
Tutto ciò, in modo diverso, è stato articolato in diverse posizioni teoriche, le teorie di genere. Ma più recentemente, da qualche anno, alcune studiose che venivano dal femminismo e che si sono avvicinate alla Chiesa cattolica – così come la stessa gerarchia cattolica in Italia - hanno invece tradotto le teorie del genere in un'unica grande teoria, costruita come nemico da combattere. La costruzione di questa teoria monolitica ha come bersaglio l'accettazione dell'omosessualità come uno dei modi in cui si può stare al mondo come uomini e come donne. La teoria del genere è stata tradotta come una sorta di teoria dell'androgino in cui la differenza sessuale non conta nulla, come una teoria che dice: "Se io voglio, posso diventare omosessuale. Come se essere omosessuali voglia dire andare alla Seychelles o stare a casa propria". Questo è un uso malinteso delle teorie di genere, che non riguardano l'omosessualità e l'eterosessualità, che sono solo alcuni dei modi di stare al mondo.

Cosa spaventa dell'ideologia del genere?

C'è il timore che l'eterosessualità non sia poi così sicura, così garantita. Temere che le persone omosessuali possano esprimere il proprio orientamento liberamente, facendo anche famiglia se vogliono in modo altrettanto legittimo e riconosciuto delle persone eterosessuali, significa, per chi teme gay e lesbiche, ritenere che l'eterosessualità sia molto meno forte di quanto non vorrebbero farci credere. Un’altra paura è quella di diventare omosessuali, per cui mi basta vedere che è possibile essere omosessuali senza essere condannati che allora anch'io, che sono eterosessuale, dico: "Sai che c'è? Mi trasformo in un omosessuale".
Mentre l'orientamento sessuale è qualcosa di ascritto alla propria personalità, insomma non si può cambiare dall'oggi al domani...
Non so quanto ci sia di ascritto o acquisito nell'eterosessualità e nell'omosessualità, è una cosa che si impara: siamo psicologicamente e fisicamente addestrati a riconoscere il nostro desiderio sessuale.
Papa Francesco e la teoria dei gender: "Sintomo di frustrazione"

C'è da aspettarsi un'apertura da parte della Chiesa cattolica su questo tema?

L'apertura che c'è stata riguarda la non-condanna, per lo meno nella parte più illuminata della Chiesa. Ma quando si è detto che non era una tara morale, che non era un peccato, si è rimasti sempre sulla soglia: "Sei omosessuale, poveretto, ti è capitato di nascere così ma è meglio che tu non agisca su questo". Come dire: "Sei zoppo e non puoi camminare normalmente come gli altri". Oggi non è più una tara morale essere omosessuali ma certamente l'omosessualità resta un minus di umanità che non può essere pienamente espressa.ari?
Esiste una specie di doppio binario: uno è quello dei principi, l'altro quello della pratica. Basta che la pratica non interroghi mai, o non metta mai in discussione i principi - ciò che in fondo dà sicurezza - che va tutto bene. Nel nostro Paese la politica e i politici hanno pensato che intorno alla famiglia si giocasse parte del consenso elettorale veicolato dalla Chiesa cattolica. In realtà c'è chi non è molto liberale ed è convinto di quello che pensa, ma c'è anche chi molto più cinicamente si comporta come gli pare ma pensa sia meglio non entrare in rotta di collisione con la Chiesa. Se pensiamo alla Francia o alla Spagna invece, dove pure la Chiesa si è opposta a modifiche della legge sulla famiglia, i cattolici non hanno lo stesso potere che viene dato loro dalla politica.






lunedì 18 maggio 2015

ADOLESCENZA TRANS: VALORIZZARE LE DIFFERENZE A SCUOLA E IN FAMIGLIA – di Laura G. – NarrAzioni Differenti

La settimana scorsa, il Time ha pubblicato l’elenco dei 25 teenager più influenti del mondo.
Tra campionesse dello sport, giovanissime attrici, la recente premio Nobel Malala Yousafzai, c’è anche Jazz Jennings, quattordicenne transgender divenuta nota grazie a I Am Jazz, libro semi autobiografico per bambini e bambine. Strumento per genitori e insegnanti di condivisione di valori di parità con figli e alunni, trans o meno.
Jazz dichiara: “Ho scritto questo libro per aiutare a educare altri giovani transgender e le loro famiglie al fatto che essere “differenti” sia OK. [...] Mi auguro che possa avere un grande impatto nel lasciare che ognuno sappia che deve accettare gli altri perché siamo parte tutti della stessa società”
Jazz è stata riconosciuta come un maschio alla nascita, ma ha iniziato a vivere come una femmina già a 5 anni. All’età di sei anni la sua famiglia ha iniziato a fare dei brevi video su come crescere una figlia transgender, condividendo in rete le scoperte fatte insieme. Da questi video nasce anche un documentario I Am Jazz: A Family in Transition, che riunisce le esperienze fondamentali della famiglia Jennings.
Sua madre racconta, ad esempio, di aver sempre scelto di raccontare a sua figlia ciò che stava accadendo e provando come qualcosa di molto speciale. D’altronde “non ci sono molte bambine con un pene”.
Nel 2004 a Jazz è stato diagnosticato un disturbo dell’identità di genere, disforia di genere. Dal 2012 Jazz ha preso parola, discutendo della sua identità di genere e del suo orientamento sessuale con la giornalista americana Barbara Walters durante il programma 20/20. Da quel momento, non ha mai smesso di lottare per i diritti e le libertà trans.
Il 2014 è stato un anno di grande esposizione mediatica per le transgender. Pensiamo a Laverne Cox, attrice e produttrice televisiva, diventata nota grazie alla serie tv Orange is the new black, ma anche a Conchita Wurst, cantante che ha vinto l’Eurovision suscitando un polverone di domande circa la sua identità di genere – pur non essendo trans. E come ogni volta che le identità vengono rappresentate, queste aiutano a essere almeno considerate esistenti, a smettere di essere completamente invisibili. Danno l’occasione di parlare di sé come differenti eppure ugualmente narrabili. Sempre su un sottile discrimine tra sfruttamento del “fenomeno” trans e reale inclusione delle rappresentazioni.
Per eccesso di chiarezza, vale la pena ribadire che il termine transessualismo indica l’esperienza vissuta da tutte quelle persone che non sentono di appartenere al sesso biologico acquisito con la nascita e che quindi intraprendono un percorso di adattamento del proprio fisico alla percezione psicologica ed emozionale che hanno di sé. In Italia, la legge del 14 aprile 1982, n. 164: “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, prevede che con il concerto di psicologi ed endocrinologi, sia possibile la riconversione del sesso.
Solo una volta completato questo lungo processo, è possibile avanzare domanda al Tribunale competente per ottenere l’autorizzazione alla riassegnazione del sesso ed al cambiamento del nome.
Una norma a doppio taglio che obbliga ad un processo chirurgico tutti e tutte coloro vogliano vedersi riconosciute secondo la loro identità transgender.
Questo risponde alla necessità culturale del nostro sistema di volere gli individui tutti inquadrati in un sistema binario maschio/femmina. La stessa che affligge ad esempio le persone intersessuali, il cui genere è patologizzato e quindi trattato nell’ottica di ristabilire il binarismo di genere, procurando gravi danni al corpo e all’identità delle persone intersex.
Il preteso binarismo si ripercuote sulle persone trans soprattutto durante l’infanzia, quando la riconversione del sesso non è nemmeno un’opzione e l’identità rimane sospesa tra corpo e percezione.
Quando si incontra ostilità e pregiudizio legato a una scarsissima cultura in fatto di quei diritti e quelle libertà per cui si battono tanti, compresa Jazz.
Quando cioè spesso si preferisce quella invisibilità, all’esposizione al giudizio della comunità
Il momento più difficile è sicuramente la pubertà, quando, se si ha avuto la fortuna di una famiglia di sostegno, questa può sempre meno nella relazione con il mondo.
Per una persona trans, vedere il proprio corpo cambiare senza rispettare la percezione della propria identità può essere shockante, perché nel perdere l’androginia infantile, vedere comparire il seno per un ragazzo o le spalle larghe e i peli folti per una ragazza trans diventa un passaggio davvero complesso della crescita. Non è raro che adolescenti trans vengano emarginati, stigmatizzati, subiscano bullismo e quindi si spingano verso atteggiamenti autolesionisti o tristemente verso il suicidio. L’ultimo a togliersi la vita è stato Riley, 17enne statunitense che ad agosto di quest’anno ha lasciato un biglietto con su scritto solo “Sono prigioniero del mio stesso corpo”.
Secondo il Family Acceptance Project, ovviamente fa la differenza il modo in cui i genitori accettano la confidenze, i sentimenti e i dolori dei propri figli, ma sarebbe altrettanto importante un’educazione alle differenze, anche trans, a scuola, per educatori e insegnanti.
In Italia per un libro a tematica omosessuale in un liceo si sollevano orde di neofascisti e cattolici; sarà mai possibile sviluppare un sistema didattico capace di insegnare il rispetto e l’inclusività?
Primo criterio da diffondere sarebbe ad esempio l’invito a non dover correggere nulla dell’identità di un essere umano, del suo corpo, della sua percezione di sé, l’invito a repellere la “normalizzazione”, ma invece a valorizzare le differenze. Permettendo a bambine col pene e bambini con la vagina di non sentirsi prigionieri, ma solo in attesa di potersi sentire davvero a proprio agio nel loro corpo.

domenica 17 maggio 2015

Ilga «mappa» l’omofobia in Europa L’Italia la peggiore (tranne gli ex sovietici) di Elena Tebano


Il nostro Paese perde due posizioni nella classifica annuale che misura l'uguaglianza di gay, lesbiche e trans. La sorpresa di Malta

Mentre gli altri Paesi facevano passi verso una maggiore uguaglianza e la tutela dei diritti delle persone lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, trans) e intersex, l’Italia andava indietro. Secondo l’annuale rapporto diIlga, la più importante ong europea che si occupa dei diritti umani di omosessuali e trans, il nostro Paese è quello dell’Europa occidentale che li tutela peggio e dove maggiori sono le discriminazioni. Non solo, rispetto all’anno scorso abbiamo perso ben due posizioni nella classifica generale, scivolando al 34esimo posto su 49, dopo Paesi quali la Georgia, la Slovenia, la Romania. Peggio di noi solo le repubbliche ex sovietiche e i microstati (come San Marino o Cipro).
In testa alla classifica ci sono Gran Bretagna, Belgio e, a sorpresa, Malta, grazie alla legislazione approvata a marzo che riconosce a ogni individuo il diritto alla libera autodeterminazione della propria identità di genere e vieta la chirurgia «riparativa» sui bambini intersex (quelli che un tempo con un termine scorretto si chiamavano ermafroditi). In coda Armenia, Russia, Azerbaijan.

«Abbiamo visto molti Stati fare storici passi in avanti, mente in altri i progressi verso l’uguaglianza si sono bloccati – ha detto il co-presidente di Ilga Europe Paulo Côrte-Real –. Il fattore fondamentale, nei Paesi che hanno scalato le posizioni della nostra Rainbow Map (la «mappa arcobaleno», ndr) è una solida capacità di leadership da parte di attivisti e politici». Un elemento che non a caso manca in Italia, dove il movimento lgbt è diviso e la politica spesso assente sui diritti civili.
Basti pensare che la maggior parte dei progressi in termini di maggiore tutela dei dritti sono arrivati dai singoli cittadini che si sono appellati ai tribunali e che il riconoscimento delle unioni gay (l’Italia è l’unico Paese dell’Europa occidentale, insieme alla Grecia, a non prevedere per le coppie dello stesso sesso né unioni civili né matrimonio) annunciato dapprima dal governo per l’inizio del 2015 ancora non è arrivato.
La legge sulle unioni civli, se pure ha avuto parere favorevole da parte della Prima Commissione Permanente del Senato è ostacolata in aula da oltre quattromila emendamenti. Di recente il premier Renzi è tornato a impegnarsi in prima persona in proposito, e il Pd ha annunciato che il provvedimento sarebbe arrivato entro la fine di questo mese. Si vedrà se la sua maggioranza riuscirà, almeno su questo, ad avvicinare l’Italia all’Europa.