Carissime lettrici e carissimi lettori,
alcune donne sono destinate a cambiare il mondo. Una ragazzina, poco più che ventenne
si aggira in biancheria intima per i vialetti dell’università, sfidando anche il freddo. È filmata da qualche finestra che affaccia sulla piazzetta sottostante. Cammina raccolta, timida, ma con passo spedito. È elegante nonostante la sua inaspettata nudità, quasi integrale.
È sabato 2 novembre. Lei, che poi sapremo chiamarsi Ahoo Daryaei, è una delle ragazze iscritte all’università di Azad a Teheran e la sua nudità ci appare, come giustamente è stata definita, “un gesto eretico” che reca disturbo e offesa all’integralismo della polizia “morale” dello Stato teocratico. Non indossa il velo, i lunghi capelli scuri le sfiorano i fianchi, è scalza ed è in slip e reggiseno. In un primo momento è seduta su un muretto. Le camminano intorno ragazzi e donne, altre ragazze universitarie, tutte vestite di nero, con il capo coperto dall’hijab, obbligatorio in Iran. La ragazza all’improvviso si alza, cammina su un viale finché arriva un’auto con alcuni uomini che la caricano a forza e la portano via. Attorno a lei nessuno interviene, tra sguardi e risatine.
Di Ahoo Daryaei non si sa più nulla. L’agenzia Iran International riferisce che, secondo una newsletter di studenti su Telegram, la ragazza è stata trasferita in un ospedale psichiatrico su ordine dell’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione. Dall’università confermano che la studentessa soffre di un grave disagio psichiatrico. «Eccola lì, la comoda diagnosi, la pazzia — scrive Mariangela Mianiti su Il Manifesto —. Per secoli, anche in occidente e fino a non molti decenni fa, quando una donna non era domabile, quando il suo agire era scomodo, quando si ribellava ai dogmi di una società soffocante, per liquidarla e smorzare qualunque tentativo di emulazione la si dichiarava pazza e veniva internata in manicomio, che allora era la tomba dei vivi… Per arrivare a spogliarsi in pubblico, oggi, in Iran bisogna avere dentro una forza di ribellione infinita, un coraggio senza limiti e anche una disperazione che non vede altri sbocchi. Bisogna essere consapevoli che potrai finire malissimo, che rischi la vita e che sei disposta anche a morire per affermare il tuo punto di vista, il tuo dissenso. Colpisce, poi, l’apparente indifferenza degli altri studenti che passano davanti a lei facendo finta di non vederla. Vuol dire che per ora la repressione e la paura hanno vinto? O quel gesto è così estremo che è difficile condividerlo? Durante le rivolte del 2022 — continua l’articolista — scoprire o tagliarsi i capelli era un gesto rivoluzionario che è costato caro, a volte la vita, a molte. Togliersi gli abiti in pubblico va ancora più in là in un contesto come quello dell’Iran. È come il rifiuto di abiurare ai tempi dell’Inquisizione, come il darsi fuoco di Jan Palach contro l’invasione sovietica che soffocò la primavera di Praga, è come dire che la vita a certe condizioni è così inaccettabile che non vale più la pena viverla. Infelici sono i popoli che hanno paura del corpo delle donne. Ma ancora più infelici sono le donne che lì sono costrette a vivere. Se Ahoo Daryaei è pazza, siamo tutte pazze». Tristissima conclusione. Un azzardo iniziato molto probabilmente per un hijab male indossato, come ai tempi dell’uccisione di Mahsa Amini, in quel “lontano” settembre di due anni fa.
Leggere Lolita a Teheran. Sembra che con la giovane e coraggiosa Ahoo entriamo nel libro della scrittrice iraniana Azar Nafisi, definito da Piero Citati «pieno di dolore e di nostalgia». La studentessa “eretica” e ribelle ci rimanda alle sette ragazze invitate dalla professoressa a lezione di letteratura “proibita” nella sua casa di Teheran. Anche loro sono affamate di cultura che il regime mette all’indice, anche loro sentono con la docente il peso delle restrizioni.
Il libro oggi è diventato un film, con lo stesso titolo, girato in Italia, per la regia di Eran Riklis. Il film, non ancora nelle sale cinematografiche (arriverà dal 21 novembre) è stato premiato alla diciannovesima Festa del Cinema di Roma, appena terminata. «Azar Nafisi ci ha donato un’impresa tra le più ardue: nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze, Nafisi ha dovuto spiegare la letteratura dell’Occidente a ragazzi e ragazze esposti in maniera sempre crescente all’indottrinamento islamico. Quando le condizioni politiche e sociali non glielo consentono più, la professoressa lascia l’insegnamento all’Università di Teheran e riunisce segretamente a casa sua sette delle sue studentesse più impegnate per leggere dei classici occidentali. Mentre i fondamentalisti prendono il controllo, queste giovani donne tolgono il velo, parlano delle loro speranze più intime, dei loro amori e delle loro delusioni, della loro femminilità e della loro ricerca di un posto in una società sempre più oppressiva. Leggendo Lolita a Teheran, celebrano il potere liberatorio della letteratura nell’Iran rivoluzionario e formano il loro futuro».
Le donne non piacciono al popolo degli Stati Uniti d’America? Forse. Sono due volte che si propongono come inquiline della Casa Bianca e sonoramente hanno perso. Hanno perso nei voti dati dagli elettori e dalle elettrici. Ma hanno perso anche contro il maschilismo più becero arrivato loro addosso, direi furiosamente, da chi per i prossimi quattro anni sarà il Presidente degli U.S.A. Donald Trump è stato anche applaudito da tanti e tante americane (ahinoi anche dalle donne) che hanno esultato (!) quando nel comizio di chiusura della campagna elettorale, già stracolmo di diverse uscite razziste e allusioni violente, il futuro Presidente Trump ha parlato anche dell’ex speaker della Camera Nancy Pelosi pronunciando prima le sillabe iniziale poi la parola intera. Trump ha detto di Pelosi: «È una persona cattiva. È una cattiva, malata, pazza…». Poi dopo una pausa ha pronunciato le prime due sillabe della parola Bitch, un sessismo e una volgarità inaudita.
«Questo è il Presidente che gli elettori americani hanno deciso che li governerà per i prossimi quattro anni — dice un commento su Fanpage —: una persona che non solo rivolge insulti sessisti alle sue avversarie politiche, ma aizza le folle a fare altrettanto, e osserva compiaciuto la loro reazione. Molti commentatori hanno fatto notare come Trump si sia lasciato andare negli ultimi giorni di campagna elettorale, dicendo cose sempre più estremiste e sconclusionate. Ma il sessismo nei confronti di Kamala Harris e di altre avversarie si era manifestato sin dall’inizio, anche da parte dei suoi collaboratori. Il futuro vicepresidente J.D. Vance aveva definito la candidata democratica «una gattara senza figli». Il super PAC di Elon Musk, l’organizzazione da lui fondata per finanziare le elezioni, ha diffuso un messaggio pubblicitario con la scritta «Kamala è una parola con la C». Nel gergo comune la “parola con la C” è cunt, puttana. Solo alla fine del video si rivelava che la parola con la C cui si faceva riferimento era comunista… È impossibile pensare che un politico — continua l’articolo — che si abbassa a usare questi mezzi così meschini abbia un qualche interesse nei confronti del genere femminile… Trump ha sempre avuto un basso sostegno fra le donne e la sua campagna elettorale del 2016 contro Hillary Clinton era stata caratterizzata da un sessismo forse ancora più sboccato di quella attuale: in un’occasione Trump disse che se non era capace di soddisfare il marito (alludendo allo scandalo di Monica Lewinsky), non avrebbe soddisfatto l’America come presidente. Nel 2020 Joe Biden gli fornì meno occasioni di palesare la sua misoginia, ma ormai il comportamento di Trump nei confronti delle donne era venuto a galla, come uomo — accusato più volte di violenze sessuali, alcune delle quali dimostrate in tribunale — e come presidente». Non c’è proprio altro da aggiungere!
Questa settimana passata è di nuovo arrivata alle cronache la violenza compiuta da giovanissimi e giovanissime. Aveva appena dodici anni la ragazzina che ha ferito un suo coetaneo “reo” di aver detto all’insegnante che la sua compagna aveva copiato il compito con l’aiuto del cellulare. La vendetta è arrivata repentina: la mattina di fronte alla scuola la compagna di classe lo ferisce con un coltello portato da casa e il ragazzino finisce in ospedale, per fortuna non in modo grave. L’episodio triste e violento apre ad altri problemi purtroppo centrali nella Scuola. Primi fra tutti il bullismo e il conseguente isolamento di qualche adolescente, spesso già carico/a di problemi che lo/a espongono a comportamenti scorretti da parte di altri coetanei. Così è accaduto alla dodicenne di Santa Maria delle Mole, a pochi chilometri da Roma.
Giovane, appena 21 anni, era anche il ragazzo, di origine egiziana, che ha accoltellato il capotreno “colpevole” di aver chiesto il biglietto a lui e alla sua ragazza, lei addirittura sedicenne. Viaggiavano tra Brignole e Busalla (nel genovese) nei pressi della stazione di Rivarolo, quartiere di periferia. I due ragazzi rispondono malamente al capotreno e dicono che non vogliono pagare né il biglietto né tantomeno la multa. Il treno viene fermato e i due ragazzi urlano contro il capotreno e la sua collega. Partono insulti e sputi, poi anche calci e schiaffi. Inizialmente la più agitata è la ragazzina ma, una volta scesi sul binario, il 21enne estrae dalla tasca un coltello e colpisce il capotreno. Viene ferito a una spalla e per pochi centimetri non vengono raggiunti organi vitali. Il lavoratore è in un bagno di sangue, a terra, sul binario, sotto gli occhi dei passeggeri e della collega, mentre i due giovani fuggono.
Poi ci sono le malattie mentali, psichiatriche. Appena a questa estate risale l’aggressione di Moussa che ha ucciso per strada una sconosciuta. Le cronache ci hanno parlato di un altro ragazzo, Riccardo, che ha sterminato la sua famiglia. Di nuovo però il punto comune: la giovane o giovanissima età. «Si potrà scendere nel dettaglio, studiare in modo approfondito i due casi — osserva lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Del Missier, presidente della Cooperativa Sociale di Psicoterapia Medica di Roma — ed evidenziare anche le differenze tra loro, che non sono di poco conto. È chiaro comunque che si tratta di due rotture psicotiche insorte in due personalità diverse e con storie diverse alle spalle in cui la violenza materiale rende palese e concreta una precedente, più o meno silenziosa, gravissima perdita, sia cognitiva che affettiva, del rapporto interumano (generalizzato a tutti per il trentenne Moussa, specifica nei confronti della famiglia per il diciasettenne Riccardo). È la perdita della naturale, originaria sensibilità umana che ci guida nel rapporto con gli altri e con se stessi e che ci dà il senso dei rapporti interumani. Essa viene sostituita dall’irruzione di un altro senso del tutto errato, alieno, disumano, ovvero, in tal caso accade che il senso della propria realizzazione starebbe nella eliminazione di altri esseri umani. Un “essere per la morte” psicologicamente molto “nazista”, come dire “io sarò se un altro morirà…. La prevenzione, qui il discorso rischia di farsi aspro e polemico perché l’obiettivo della prevenzione rivolta ovviamente ai giovani si allaccia necessariamente in tal caso al tema della formazione degli insegnanti ovvero il tema è come si diventa adulti e questo vale per gli uni come per gli altri. Allora azzardiamo un paragone tra le malattie del corpo e quelle della psiche e rileviamo che mentre in medicina siamo arrivati al concetto di immunizzazione ovvero alla possibilità di potenziare le difese naturali verso gli agenti patogeni mettendo artificialmente in contatto il fattore nocivo con il sistema immunitario del soggetto affinché esso prima conosca l’agente aggressiva e lo riconosca poi per potersene difendere, questo non è ancora accaduto in psicologia».
«Ci si limita a dare buoni consigli ovvi e inutili: siate buoni, rispettatevi, non fatevi del male (sarà l’educazione affettiva?) penso invece che, per potenziare le nostre naturali difese verso la malattia psichica cioè quell’istintiva allerta e/o rifiuto di fronte ad una aggressione psichica da qualunque parte provenga e che ci vuole rendere sofferenti e magari anche malati, bisogna conoscere e sapere di questa violenza psichica cioè invisibile che a volte scatta in rapporti interumani difficili. Un tempo le favole ci aiutavano in questo, facevano sapere ai bambini che in verità esistono eccome! La rabbia dell’orco e l’odio della strega, ma che queste non sono onnipotenti e si possono anche battere». (Sicilia24.it).
Si chiama Mail poetry Project. È una bella, importante e, possiamo dire, necessaria iniziativa rivolta più che agli artisti e alle artiste a chi vuole contribuire, unendo arte grafica e visiva insieme a quella poetica, a fermare la violenza sulle donne. Una cartolina da spedire all’indirizzo di Avellino (Corso Vittorio Emanuele 312, 83100 Avellino) da inviare entro il 25 novembre, che è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in ricordo dell’uccisione delle sorelle Mirabal per mano del Governo dittatoriale di Trujillo (Repubblica Dominicana). La Cartolina poetica deve consistere un cartoncino 10×15, diviso a metà. Sulla sinistra si realizza la parte grafica (disegno, fumetto, collage, fotografia, acquerello, tempera…), sulla destra si scrivono dei versi, propri o di un/una poeta nota/o. Le opere verranno esposte nel corso della mostra di Mail Poetry nel prossimo mese di Gennaio.
«La poesia può essere un linguaggio della liberazione»: così definisce la sua vocazione Athena Farrokhzad. Classe 1983 di origine iraniana è emigrata con la sua famiglia in Svezia, a Stoccolma. Lei, una poeta iraniana è la nostra “consolazione” di questa settimana. Poeta, critica letteraria, traduttrice, drammaturga e insegnante di scrittura creativa. Dopo diversi anni di progetti poetici collaborativi e collaborazioni internazionali (uno tra svedesi, palestinesi e iraniani/e), nel 2013 ha pubblicato il suo primo volume di poesia, Vitsvit (White Blight). Il libro ruota attorno ai temi della rivoluzione, della guerra, della migrazione e del razzismo, e di come queste esperienze condizionino la vita dei diversi membri di una famiglia. Vitsvit è stato tradotto in diverse lingue e trasformato in un’opera teatrale. Nello stesso anno, la sua prima opera teatrale, Päron, ha debuttato all’Ung Scen /Öst. Ha tradotto in svedese scrittori come Marguerite Duras, Adrienne Rich, Monique Wittig. Nel 2015 ha pubblicato il suo secondo volume di poesie, Trado, scritto insieme alla poeta rumena Svetlana Carstean.
Ci sono persone che non hai mai conosciuto
eppure ti amano, dico a mia figlia, lei capisce:
Come papà ama la sua squadra e come io amo una sirena
Proibisco al mio amato di rispondere quando squilla il telefono
Se è morto qualcuno, non voglio saperlo
Le grida di mia zia al cielo, chi ricorderà quanto era magnifica
Tutti i pesi che si è portata addosso e tutte le catastrofi che ha affrontato
La treccia dell’infanzia in un cassetto, come un promemoria mangiato dalle tarme
Non smette mai di vestirsi di nero, il suo dolore finale non arriva mai
Siamo intrappolati in un luogo tra la terra e l’inferno, dice lei
sotto una pellicola di smog, ci battiamo la schiena a sangue con le catene
ci pugnaliamo l’un l’altro alla coscia con i forconi
Pas kei miaee, grida al telefono, tu sei la mia figlia maggiore
Verrò presto, mento, chissà
come mi stringerà il domani.
Athena Farrokhzad
(Traduzione dallo svedese all’inglese a cura di Jennifer Hayashida, pubblicata su Adi Magazine; versione italiana di Pina Piccolo).
Buona lettura a tutte e a tutti.
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