lunedì 4 agosto 2014

IO RIVENDICO DI ESSERE ARRABBIATA E VETERO Michela Murgia

Per quanto da qualche tempo si cerchi di trasformare il termine in un insulto persino in certi insospettabili ambienti della sinistra colta, dirsi femministe in questo paese resta una necessità civile ineludibile. Io non me ne vergogno e anzi tenderei a mettere a fuoco con più precisione quali sfumature dell’insulto vorrei interpretare meglio nella mia azione femminista, perché sono convinta che le specificazioni che usano per denigrare chi si espone a difesa della dignità e parità delle donne siano proprio quelle di cui le donne hanno maggiore necessità. Se dunque potessi scegliere come essere insultata in merito, vorrei continuare a essere definita come sporca femminista. Lottare contro le disuguaglianze di genere era e rimane un lavoro socialmente lurido, con altissimi costi di relazione. Nella sfera privata si perdono le amicizie di chi ritiene che le priorità siano altre; in quella pubblica si viene categorizzate come specialiste della polemica di genere; in quella personale si diventa molto reattive alla disuguaglianza, perché si finisce per sviluppare un’attenzione acuta verso tutti i segnali di sessismo che ci circondano e che la maggior parte delle persone non riesce a vedere. Sporche femministe con fierezza, quindi, perché c’è un immenso bisogno di donne che vogliano accettare di essere chiamate così in nome del contatto con i peggiori aspetti della decomposizione sociale che stiamo vivendo. Confesso che non vorrei rinunciare nemmeno alla specificazione di femminista arrabbiata, termine usato dai detrattori verso la determinazione con cui è necessario che certe battaglie siano ancora portate avanti, fuori da ogni ipocrita trattativa al ribasso. La forza spesa nell’espressione di alcune posizioni è commisurata alla resistenza culturale che circonda le disuguaglianze strutturali contro le quali in questo paese è ancora necessario lottare. La docilità non è un attributo delle guerre e quella per la parità, non fosse altro che per il contrattacco che suscita, una guerra lo è a tutti gli effetti. Se mi fosse dato di potermi tenere addosso un ultimo aggettivo insultante, direi che mantengo anche l’epiteto di vetero femminista,
perché il passato del movimento delle donne rappresenta la ricchezza dalla quale tutte adesso possiamo permetterci di guardare avanti. Le lotte delle generazioni precedenti sono state tra i momenti più alti della vita civile di un paese, l’Italia, che non ne ha avuti poi così tanti altri ed è indubbio che molte di quelle battaglie non siano ancora compiute, o perché i risultati non sono stati raggiunti oppure perché oggi sono di nuovo in discussione. Il traguardo di poterci mettere la divisa nei corpi militari è ben poca cosa sul piano della parità rispetto al fatto che le donne che vogliono scegliere della propria maternità debbano scontrarsi con il 70% di obiettori negli ospedali, che quelle che lavorano prendano ancora meno dei colleghi di pari mansione, che vengano licenziate più facilmente, assunte più spesso con contratti a termine e dimissioni prefirmate per timore che restino incinte. Occorre essere molto “vetero” se si vuole essere “neo” femministe nel 2014, perché se cinquant’anni fa le nostre nonne sapevano che sarebbero esistiti solo i diritti per cui stavano lottando, oggi noi dobbiamo essere consapevoli che della loro eredità di conquiste continueranno a esistere solo quelle che rimarremo in grado di difendere. Che ci insultino, dunque: non ce la prenderemo. Siamo tutte consapevoli che ogni volta che quelle parole ci vengono rivolte è perché perdiamo tempo a difendercene ciascuna per sé, dimenticando che le nostre battaglie sono più alte e appartengono a tutte.

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