lunedì 18 novembre 2024

Mese della violenza di genere: prendiamoci cura delle nuove generazioni Paola Centomo

 Nella fascia d’età più giovane sfuma in maniera preoccupante il confine tra espressioni d’amore e di violenza, e la gelosia diventa persino misura del sentimento. Aspettando la Giornata del 25 novembre, ripetiamocelo tante volte: urgono persone adulte “autentiche, autorevoli e responsabili”

L’ultima a morire aveva tredici anni, un volo dal settimo piano. Era una bambina, minutissima, hanno scritto che pesava poco più di trenta chili, uno scricciolo che puoi schiacciare con una mano. Il fidanzato è in stato di fermo, la giustizia è al lavoro. E vogliamo tanto che la verità, quando sarà definitivamente accertata, sia diversa dalla verità che temiamo. Anche l’età delle vittime di violenza sessuale si abbassa, come l’età di chi le viola. 

Dice il report sui giovani e la violenza di genere da poco realizzato dal Servizio analisi criminale della Polizia che cresce il numero delle vittime minorenni – erano il 24% nel 2020, sono state il 27% nel 2023 – e che le violenze di gruppo sulle bambine sotto i 13 anni sono balzate negli ultimi cinque anni dal 4 al 10%. A commettere i reati sono spesso giovani o, anche loro, giovanissimi: impressiona che la fascia d’età tra i 14 e i 17 anni arrivi a superare il 25%. La violenza di genere non può essere liquidata come uno strascico del passato, comunica la Polizia nel rapporto, e perciò occorre lavorare molto sulle nuove generazioni, in sintesi prendersene cura.

Violenza di genere tra i 14 e i 19 anni: i dati 

Ci è piaciuto tanto immaginarli oramai emancipati – i giovani e i giovanissimi -, ci è piaciuto crederli costruttori di amori paritari e responsabili, proiettati in futuri liberati dal sessismo e dai modelli di potere dei vecchi padri padroni. E invece. Certo, molti, moltissimi lo sono per davvero, ma stanno prendendo forma trend che indicano per il futuro differenti traiettorie possibili. Nella Survey Teen 2024 della Fondazione Libellula, che ha coinvolto 1600 ragazze e ragazzi dai 14 ai 19 anni, emerge che un terzo non ritiene che controllare e limitare la libertà del partner sia una forma di abuso. Un giovane su cinque non è in grado di riconoscere gli abusi nelle relazioni, come toccare una persona o baciarla quando non vuole; la grande maggioranza non valuta in maniera seria l’importanza del consenso, né tiene nella dovuta considerazione la tossicità del controllo. Sfuma in maniera preoccupante il confine tra espressioni d’amore ed espressioni di violenza, e la gelosia diventa persino misura del sentimento: il 32% delle ragazze pensa che la gelosia sia il segnale che il o la partner ci tiene, il 56% dei ragazzi che sia un’espressione naturale dell’amore. Di più: un terzo del campione non riconosce come violenza al o alla partner dire quali vestiti possa indossare e quali no o chiedere di geolocalizzarsi quando si è fuori e voler sapere sempre con chi è. Il 40% non considera una forma di violenza mandare insistentemente messaggi a chi piace, dimostrando di ignorare completamente l’esperienza soggettiva di chi riceve i messaggi. 

Ma il punto della ricerca ancora più impressionante è questo: è successo di aver ricevuto strattoni da parte del o della partner a 1 adolescente su 5, di aver ricevuto pugni, schiaffi o colpi da parte del o della partner a più di 1 adolescente su 10, è successo di vedersi lanciare addosso oggetti a quasi 1 adolescente su 10.  La violenza di genere balza, dunque, in pieno dentro le prime esperienze sentimentali: il dossier parla di teen dating violence, per definire violenze subite proprio in quelle relazioni che si presentano come primi amori. 

Urgono adulti autentici, autorevoli e responsabili

Commentando il fatto della ragazzina di 12 anni andata a scuola con il coltello, uno dei più bravi psicologi dell’adolescenza, Matteo Lancini, ha appena scritto su La Stampa che urgono adulti autentici, autorevoli e responsabili. Ma le famiglie sembrano non esistere più, a scuola non si sa cosa fare. E allora dobbiamo chiederci: perché mai fa paura, nelle scuole, un’educazione che si chiama sessuale, considerato che a nove anni i bambini si scambiano foto pornografiche attraverso il loro cellulare? E cosa si teme, nelle case, a parlare ai figli e alle figlie dell’amore vissuto con attenzione, con cura, del piacere di lui e di lei, delle emozioni, dei corpi, dei corpi che sono sempre legati a un nome? Cosa temono le madri e soprattutto i padri a dire chiaro ai figli maschi, e anche alle femmine ovviamente, che esiste un limite, un confine che mette da una parte l’amore e il sesso e dall’altra la violenza e che il limite è quanto di più lontano ci sia dai divieti e dalla repressioni, e anzi è bello perché è la sponda che segna un al di qua dove ogni desiderio è legittimo, dove i giochi, le parole, le libertà sono tutte possibili e che la linea del consenso aiuta a costruire relazioni nutrite dalla fiducia reciproca, dall’attenzione, dal rispetto? Aspettando il 25 novembre, la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne durante la quale sentiremo profluvi di proclami e dichiarazioni pubbliche dalle ottime intenzioni, ripetiamocelo tante volte: urgono adulti autentici, autorevoli e responsabili. 

Qui è possibile scaricare la survey Survey Teen 2024 in versione completa.

https://startupitalia.eu/valoreresponsabile/mese-della-violenza-di-genere-prendiamoci-cura-delle-nuove-generazioni/?fbclid=IwY2xjawGoe_NleHRuA2FlbQIxMAABHX77y70gzNi54BcueFPRAE5qhQWZwf66NSE-No1dzEUCc_Xf4e1PPaRn1Q_aem_xUn


Panuelos rojos 23 novembre 2024

Sabato 23 novembre parleremo delle vittime di femminicidio nel mondo alla panchina rossa di via Cavour e appenderemo un fazzoletto rosso col nome di ogni donna uccisa in Italia dal novembre 2023 al novembre 2024 alla cancellata di piazza 1 maggio 


 

sabato 16 novembre 2024

Il pericolo dell'adescamento di adolescenti online

Cristina Obber scrittrice e formatrice esperta di stereotipi e violenza di genere  presenta il suo libro 
"Ci vediamo in chat" 



“Nella vicenda di Anna Chiara, Obber srotola il percorso passo dopo passo di una ragazzina normale, con le sue amichette e il fidanzatino, verso la tana del lupo: l’amicizia innocente su Instagram  con Viola, la fiducia concessa e tradita da “Viola che non è Viola”, la vergogna e la colpa, la difficoltà degli adulti a capire, fino alla ricostruzione di sé attraverso gli altri e la rete degli affetti.  

Uno dei punti chiave è proprio la vergogna e poi il senso di colpa della protagonista, che la tiene prigioniera. Di fatto una vittimizzazione secondaria introiettata che inibisce la ribellione a quella che si configura come la forma più “aggiornata” di violenza di genere, che utilizza i nuovi mezzi digitali e per nulla viene ostacolata dagli algoritmi, concepiti per trasformare lo spazio intimo di una chat in una terra di nessuno. 
«Tutto era spazzatura» pensa la protagonista di sé e della sua vita, tutto è stato sporcato.  Obber riesce a tenerci col fiato sospeso, come lo è Anna Chiara, fino alla risoluzione finale, positiva, ricordandoci che non si esce mai da sole da queste situazioni. 
Un libro destinato a tutti dai 13 anni in su, sorta di manuale di sopravvivenza dalle insidie delle chat e dei social, utile anche agli adulti per comprendere e saper riconoscere gli indizi dell’abuso,


 

25 novembre 2024 Giornata internazionale per l'eliinazione della violenza contro le donne

 Mettere un panno rosso (strofinaccio, federa vecchia, pezzo di tessuto qualsiasi) non costa nulla.

È solo un segnale, un simbolo.     Mettiamolo



venerdì 15 novembre 2024

La normalità della violenza e la rivelazione di Elena di Lea Melandri

Sono uomini sempre più giovani che uccidono donne: mogli, fidanzate, amanti. Lo fanno quando una donna mostra di non essere più un corpo a disposizione e decide di prendere in mano con libertà la sua vita. Forse è venuto il momento di mettere al centro della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne non le vittime – ne abbiamo viste fin troppe e troppe le storie di maltrattamenti che abbiamo ascoltato -, ma l’aggressore.

Adesso sono gli uomini che devono interrogarsi sulla maschera di virilità che hanno ereditato, su quella pulsione di morte che esplode quando scoprono la loro dipendenza e fragilità di fronte a una relazione amorosa che finisce, su un potere maschile che si è perversamente confuso con le vicende più intime e che viene allo scoperto nel momento in cui si eclissano i corpi sociali che lo hanno finora sostenuto e legittimato.

Il patriarcato non è morto e di femminicidi purtroppo ce ne saranno ancora, ma già il fatto di nominarlo, come sta succedendo in questi giorni dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin da parte del giovane ex-fidanzato Filippo Turetta, e di riconoscerlo come la cultura che ha permesso al dominio maschile di durare così a lungo, significa che qualcosa sta cambiando nel maschilismo italico.

Non sono mancati finora uomini che hanno preso parola per dire che la violenza contro le donne «li riguarda», perché legata all’ideologia sessista che ha imposto anche al maschio un “copione” di genere.

Un potere di cui oggi si vedono emergere gli aspetti più arcaici, come potere di vita e di morte sul sesso che hanno sempre considerato a loro sottomesso per destino “naturale”. Ma chi ne ha parlato finora? Il gruppo Maschile Plurale esiste da oltre trent’anni, i suoi partecipanti hanno scritto libri, documenti, appelli, ma non li abbiamo mai visti comparire nei dibattiti televisivi. Allo stesso modo, a restare «innominabile» è il femminismo, il salto della coscienza storica che dagli anni Settanta in avanti è venuto modificando non solo il rapporto tra uomini e donne, ma l’idea stessa di politica, a partire da quelle esperienze universali dell’umano che sono state considerate «non politiche», come la sessualità, la maternità, la vita affettiva.

Eppure, se oggi i giornali riempiono le prime pagine su quello che viene ormai definito un «fenomeno strutturale» e non, come fino a poco tempo fa un caso di cronaca nera, è proprio perché, da quasi mezzo secolo, il movimento delle donne ha continuato a interrogare con le sue teorie e pratiche la violenza maschile in tutte le forme, invisibili e manifeste, a scavare, come la vecchia talpa di marxiana memoria, nelle radici della storia millenaria che ha portato al governo del mondo un sesso solo.

È il femminismo che per primo ha cercato di andare alle radici di un dominio che si colloca là dove non penseremmo di trovarlo, cioè nella “normalità”: nei rapporti di coppia, negli interni delle case, nei ruoli familiari, nell’ambiguo legame tra vita intima e violenza.

Gli uomini sono i figli delle donne. Il corpo che hanno sottomesso alla loro legge, sfruttato e violato in tutti i modi è quello che li ha generati, che ha dato loro le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che conoscono nel momento delle loro maggiore inermità e dipendenza e che ritrovano nella vita amorosa adulta, quando i rapporti di potere sono ormai capovolti, senza che per questo si sia allentato il cordone ombelicale che fa di una donna e di un uomo ancora una madre e un figlio.

I femminicidi parlano della intollerabilità di un abbandono che richiama la relazione originaria con un oggetto d’amore – la persona che si occupa delle prime cure, generalmente la madre – che è anche, come nella prima infanzia, garanzia di sopravvivenza. Separandosi la donna non colpirebbe perciò solo un privilegio e un potere indiscutibile della mascolinità, ma «l’amore di sé», la fonte prima, anche nella età adulta, dell’«autoconservazione». Confinando la donna nel ruolo di madre, identificandola con la sessualità e la maternità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.

È dunque sulla famiglia che si dovrebbe portare l’attenzione, in quanto luogo che istituzionalizza l’amore nella sua forma originaria, creando vincoli di indispensabilità anche laddove non sono necessari e destinati perciò a diventare un impedimento all’autonomia del singolo. Forse non è un caso che siano state le parole «impreviste» della sorella di Giulia, Elena, a dare all’ ennesimo caso di violenza contro una giovane donna una interpretazione culturale e politica legata in modo inequivocabile alle consapevolezze portate dal pensiero femminista, tanto da impedire ancora una volta all’informazione di minimizzarne la portata.

A chi si affretta in questi casi a scrollarsi di dosso ogni responsabilità, Elena risponde: «Mostro è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi responsabilità (…) I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento, è ciò che va a ledere la figura della donna a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza (…) come il controllo, la possessività,il cattcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura.(…) Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno».

A partire da queste parole, chiunque tenti di riportare la violenza contro le donne alla patologia del singolo, alla crisi dei valori tradizionali della famiglia e dei ruoli genitoriali, o all’inasprimento delle pene, in qualsiasi modo cerchi di sottrarsi all’evidenza dell’ordine sociale, culturale e politico dentro cui cresce la violenza sessista, non sarà più credibile.

https://ilmanifesto.it/la-normalita-della-violenza-e-la-rivelazione-di-elena?fbclid=IwY2xjawGgEdxleHRuA2FlbQIxMAABHUsrJKtuD4pnJ7P3cjzBqAfff56pFKO48xStBztU6uHE6ZiInld5dx3JhQ_aem_tekduhY164iB--TsZFObpQ

lunedì 11 novembre 2024

Un anno fa ci lasciava Giulia Cecchettin

 


Un anno fa ci lasciava Giulia Cecchettin 😢♥️ Un abbraccio Giulia 🌹ovunque tu sia ♥️👠
“Esiste una parola per definire un marito che perde la moglie: vedovo, oppure un figlio che perde il padre: orfano, ma non esiste una parola per definire un genitore che perde un figlio, perché non è possibile definire quello che quel padre e quella madre vivono.
Ma c’è anche un’altra spiegazione che mi riguarda: io non smetto di essere ciò che ero per lei, io sarò sempre il #papà di Giulia.
Ho ascoltato le parole di Filippo in tribunale e non ho provato rancore. Sono riuscito a non odiare, non so come ho fatto. Sicuramente grazie alle persone che amo, che mi sono accanto. Ed è per questo che voglio continuare a raccontare la forza dei buoni sentimenti, dell’educazione all’affettività, affinché la storia di #Giulia smetta di ripetersi.”
Grazie a Gino #Cecchettin che, a “Che tempo che fa”, ci ha donato una grande lezione ❤️
Ph. Murales sito a Milano - web

domenica 10 novembre 2024

Editoriale. Leggere Lolita a Teheran

 Carissime lettrici e carissimi lettori,

alcune donne sono destinate a cambiare il mondo. Una ragazzina, poco più che ventenne
 si aggira in biancheria intima per i vialetti dell’università, sfidando anche il freddo. È filmata da qualche finestra che affaccia sulla piazzetta sottostante. Cammina raccolta, timida, ma con passo spedito. È elegante nonostante la sua inaspettata nudità, quasi integrale.
È sabato 2 novembre. Lei, che poi sapremo chiamarsi Ahoo Daryaei, è una delle ragazze iscritte all’università di Azad a Teheran e la sua nudità ci appare, come giustamente è stata definita, “un gesto eretico” che reca disturbo e offesa all’integralismo della polizia “morale” dello Stato teocratico. Non indossa il velo, i lunghi capelli scuri le sfiorano i fianchi, è scalza ed è in slip e reggiseno. In un primo momento è seduta su un muretto. Le camminano intorno ragazzi e donne, altre ragazze universitarie, tutte vestite di nero, con il capo coperto dall’hijab, obbligatorio in Iran. La ragazza all’improvviso si alza, cammina su un viale finché arriva un’auto con alcuni uomini che la caricano a forza e la portano via. Attorno a lei nessuno interviene, tra sguardi e risatine.
Di Ahoo Daryaei non si sa più nulla. L’agenzia Iran International riferisce che, secondo una newsletter di studenti su Telegram, la ragazza è stata trasferita in un ospedale psichiatrico su ordine dell’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione. Dall’università confermano che la studentessa soffre di un grave disagio psichiatrico. «Eccola lì, la comoda diagnosi, la pazzia — scrive Mariangela Mianiti su Il Manifesto —. Per secoli, anche in occidente e fino a non molti decenni fa, quando una donna non era domabile, quando il suo agire era scomodo, quando si ribellava ai dogmi di una società soffocante, per liquidarla e smorzare qualunque tentativo di emulazione la si dichiarava pazza e veniva internata in manicomio, che allora era la tomba dei vivi… Per arrivare a spogliarsi in pubblico, oggi, in Iran bisogna avere dentro una forza di ribellione infinita, un coraggio senza limiti e anche una disperazione che non vede altri sbocchi. Bisogna essere consapevoli che potrai finire malissimo, che rischi la vita e che sei disposta anche a morire per affermare il tuo punto di vista, il tuo dissenso. Colpisce, poi, l’apparente indifferenza degli altri studenti che passano davanti a lei facendo finta di non vederla. Vuol dire che per ora la repressione e la paura hanno vinto? O quel gesto è così estremo che è difficile condividerlo? Durante le rivolte del 2022 — continua l’articolista — scoprire o tagliarsi i capelli era un gesto rivoluzionario che è costato caro, a volte la vita, a molte. Togliersi gli abiti in pubblico va ancora più in là in un contesto come quello dell’Iran. È come il rifiuto di abiurare ai tempi dell’Inquisizione, come il darsi fuoco di Jan Palach contro l’invasione sovietica che soffocò la primavera di Praga, è come dire che la vita a certe condizioni è così inaccettabile che non vale più la pena viverla. Infelici sono i popoli che hanno paura del corpo delle donne. Ma ancora più infelici sono le donne che lì sono costrette a vivere. Se Ahoo Daryaei è pazza, siamo tutte pazze». Tristissima conclusione. Un azzardo iniziato molto probabilmente per un hijab male indossato, come ai tempi dell’uccisione di Mahsa Amini, in quel “lontano” settembre di due anni fa.
Leggere Lolita a Teheran. Sembra che con la giovane e coraggiosa Ahoo entriamo nel libro della scrittrice iraniana Azar Nafisi, definito da Piero Citati «pieno di dolore e di nostalgia». La studentessa “eretica” e ribelle ci rimanda alle sette ragazze invitate dalla professoressa a lezione di letteratura “proibita” nella sua casa di Teheran. Anche loro sono affamate di cultura che il regime mette all’indice, anche loro sentono con la docente il peso delle restrizioni.
Il libro oggi è diventato un film, con lo stesso titolo, girato in Italia, per la regia di Eran Riklis. Il film, non ancora nelle sale cinematografiche (arriverà dal 21 novembre) è stato premiato alla diciannovesima Festa del Cinema di Roma, appena terminata. «Azar Nafisi ci ha donato un’impresa tra le più ardue: nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze, Nafisi ha dovuto spiegare la letteratura dell’Occidente a ragazzi e ragazze esposti in maniera sempre crescente all’indottrinamento islamico. Quando le condizioni politiche e sociali non glielo consentono più, la professoressa lascia l’insegnamento all’Università di Teheran e riunisce segretamente a casa sua sette delle sue studentesse più impegnate per leggere dei classici occidentali. Mentre i fondamentalisti prendono il controllo, queste giovani donne tolgono il velo, parlano delle loro speranze più intime, dei loro amori e delle loro delusioni, della loro femminilità e della loro ricerca di un posto in una società sempre più oppressiva. Leggendo Lolita a Teheran, celebrano il potere liberatorio della letteratura nell’Iran rivoluzionario e formano il loro futuro».
Le donne non piacciono al popolo degli Stati Uniti d’America? Forse. Sono due volte che si propongono come inquiline della Casa Bianca e sonoramente hanno perso. Hanno perso nei voti dati dagli elettori e dalle elettrici. Ma hanno perso anche contro il maschilismo più becero arrivato loro addosso, direi furiosamente, da chi per i prossimi quattro anni sarà il Presidente degli U.S.A. Donald Trump è stato anche applaudito da tanti e tante americane (ahinoi anche dalle donne) che hanno esultato (!) quando nel comizio di chiusura della campagna elettorale, già stracolmo di diverse uscite razziste e allusioni violente, il futuro Presidente Trump ha parlato anche dell’ex speaker della Camera Nancy Pelosi pronunciando prima le sillabe iniziale poi la parola intera. Trump ha detto di Pelosi: «È una persona cattiva. È una cattiva, malata, pazza…». Poi dopo una pausa ha pronunciato le prime due sillabe della parola Bitch, un sessismo e una volgarità inaudita.
«Questo è il Presidente che gli elettori americani hanno deciso che li governerà per i prossimi quattro anni — dice un commento su Fanpage —: una persona che non solo rivolge insulti sessisti alle sue avversarie politiche, ma aizza le folle a fare altrettanto, e osserva compiaciuto la loro reazione. Molti commentatori hanno fatto notare come Trump si sia lasciato andare negli ultimi giorni di campagna elettorale, dicendo cose sempre più estremiste e sconclusionate. Ma il sessismo nei confronti di Kamala Harris e di altre avversarie si era manifestato sin dall’inizio, anche da parte dei suoi collaboratori. Il futuro vicepresidente J.D. Vance aveva definito la candidata democratica «una gattara senza figli». Il super PAC di Elon Musk, l’organizzazione da lui fondata per finanziare le elezioni, ha diffuso un messaggio pubblicitario con la scritta «Kamala è una parola con la C». Nel gergo comune la “parola con la C” è cunt, puttana. Solo alla fine del video si rivelava che la parola con la C cui si faceva riferimento era comunista… È impossibile pensare che un politico — continua l’articolo — che si abbassa a usare questi mezzi così meschini abbia un qualche interesse nei confronti del genere femminile… Trump ha sempre avuto un basso sostegno fra le donne e la sua campagna elettorale del 2016 contro Hillary Clinton era stata caratterizzata da un sessismo forse ancora più sboccato di quella attuale: in un’occasione Trump disse che se non era capace di soddisfare il marito (alludendo allo scandalo di Monica Lewinsky), non avrebbe soddisfatto l’America come presidente. Nel 2020 Joe Biden gli fornì meno occasioni di palesare la sua misoginia, ma ormai il comportamento di Trump nei confronti delle donne era venuto a galla, come uomo — accusato più volte di violenze sessuali, alcune delle quali dimostrate in tribunale — e come presidente». Non c’è proprio altro da aggiungere!
Questa settimana passata è di nuovo arrivata alle cronache la violenza compiuta da giovanissimi e giovanissime. Aveva appena dodici anni la ragazzina che ha ferito un suo coetaneo “reo” di aver detto all’insegnante che la sua compagna aveva copiato il compito con l’aiuto del cellulare. La vendetta è arrivata repentina: la mattina di fronte alla scuola la compagna di classe lo ferisce con un coltello portato da casa e il ragazzino finisce in ospedale, per fortuna non in modo grave. L’episodio triste e violento apre ad altri problemi purtroppo centrali nella Scuola. Primi fra tutti il bullismo e il conseguente isolamento di qualche adolescente, spesso già carico/a di problemi che lo/a espongono a comportamenti scorretti da parte di altri coetanei. Così è accaduto alla dodicenne di Santa Maria delle Mole, a pochi chilometri da Roma.
Giovane, appena 21 anni, era anche il ragazzo, di origine egiziana, che ha accoltellato il capotreno “colpevole” di aver chiesto il biglietto a lui e alla sua ragazza, lei addirittura sedicenne. Viaggiavano tra Brignole e Busalla (nel genovese) nei pressi della stazione di Rivarolo, quartiere di periferia. I due ragazzi rispondono malamente al capotreno e dicono che non vogliono pagare né il biglietto né tantomeno la multa. Il treno viene fermato e i due ragazzi urlano contro il capotreno e la sua collega. Partono insulti e sputi, poi anche calci e schiaffi. Inizialmente la più agitata è la ragazzina ma, una volta scesi sul binario, il 21enne estrae dalla tasca un coltello e colpisce il capotreno. Viene ferito a una spalla e per pochi centimetri non vengono raggiunti organi vitali. Il lavoratore è in un bagno di sangue, a terra, sul binario, sotto gli occhi dei passeggeri e della collega, mentre i due giovani fuggono.
Poi ci sono le malattie mentali, psichiatriche. Appena a questa estate risale l’aggressione di Moussa che ha ucciso per strada una sconosciuta. Le cronache ci hanno parlato di un altro ragazzo, Riccardo, che ha sterminato la sua famiglia. Di nuovo però il punto comune: la giovane o giovanissima età. «Si potrà scendere nel dettaglio, studiare in modo approfondito i due casi — osserva lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Del Missier, presidente della Cooperativa Sociale di Psicoterapia Medica di Roma — ed evidenziare anche le differenze tra loro, che non sono di poco conto. È chiaro comunque che si tratta di due rotture psicotiche insorte in due personalità diverse e con storie diverse alle spalle in cui la violenza materiale rende palese e concreta una precedente, più o meno silenziosa, gravissima perdita, sia cognitiva che affettiva, del rapporto interumano (generalizzato a tutti per il trentenne Moussa, specifica nei confronti della famiglia per il diciasettenne Riccardo). È la perdita della naturale, originaria sensibilità umana che ci guida nel rapporto con gli altri e con se stessi e che ci dà il senso dei rapporti interumani. Essa viene sostituita dall’irruzione di un altro senso del tutto errato, alieno, disumano, ovvero, in tal caso accade che il senso della propria realizzazione starebbe nella eliminazione di altri esseri umani. Un “essere per la morte” psicologicamente molto “nazista”, come dire “io sarò se un altro morirà…. La prevenzione, qui il discorso rischia di farsi aspro e polemico perché l’obiettivo della prevenzione rivolta ovviamente ai giovani si allaccia necessariamente in tal caso al tema della formazione degli insegnanti ovvero il tema è come si diventa adulti e questo vale per gli uni come per gli altri. Allora azzardiamo un paragone tra le malattie del corpo e quelle della psiche e rileviamo che mentre in medicina siamo arrivati al concetto di immunizzazione ovvero alla possibilità di potenziare le difese naturali verso gli agenti patogeni mettendo artificialmente in contatto il fattore nocivo con il sistema immunitario del soggetto affinché esso prima conosca l’agente aggressiva e lo riconosca poi per potersene difendere, questo non è ancora accaduto in psicologia».
«Ci si limita a dare buoni consigli ovvi e inutili: siate buonirispettatevinon fatevi del male (sarà l’educazione affettiva?) penso invece che, per potenziare le nostre naturali difese verso la malattia psichica cioè quell’istintiva allerta e/o rifiuto di fronte ad una aggressione psichica da qualunque parte provenga e che ci vuole rendere sofferenti e magari anche malati, bisogna conoscere e sapere di questa violenza psichica cioè invisibile che a volte scatta in rapporti interumani difficili. Un tempo le favole ci aiutavano in questo, facevano sapere ai bambini che in verità esistono eccome! La rabbia dell’orco e l’odio della strega, ma che queste non sono onnipotenti e si possono anche battere». (Sicilia24.it).
Si chiama Mail poetry Project. È una bella, importante e, possiamo dire, necessaria iniziativa rivolta più che agli artisti e alle artiste a chi vuole contribuire, unendo arte grafica e visiva insieme a quella poetica, a fermare la violenza sulle donne. Una cartolina da spedire all’indirizzo di Avellino (Corso Vittorio Emanuele 312, 83100 Avellino) da inviare entro il 25 novembre, che è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in ricordo dell’uccisione delle sorelle Mirabal per mano del Governo dittatoriale di Trujillo (Repubblica Dominicana). La Cartolina poetica deve consistere un cartoncino 10×15, diviso a metà. Sulla sinistra si realizza la parte grafica (disegno, fumetto, collage, fotografia, acquerello, tempera…), sulla destra si scrivono dei versi, propri o di un/una poeta nota/o. Le opere verranno esposte nel corso della mostra di Mail Poetry nel prossimo mese di Gennaio.
«La poesia può essere un linguaggio della liberazione»: così definisce la sua vocazione Athena Farrokhzad. Classe 1983 di origine iraniana è emigrata con la sua famiglia in Svezia, a Stoccolma. Lei, una poeta iraniana è la nostra “consolazione” di questa settimana. Poeta, critica letteraria, traduttrice, drammaturga e insegnante di scrittura creativa. Dopo diversi anni di progetti poetici collaborativi e collaborazioni internazionali (uno tra svedesi, palestinesi e iraniani/e), nel 2013 ha pubblicato il suo primo volume di poesia, Vitsvit (White Blight). Il libro ruota attorno ai temi della rivoluzione, della guerra, della migrazione e del razzismo, e di come queste esperienze condizionino la vita dei diversi membri di una famiglia. Vitsvit è stato tradotto in diverse lingue e trasformato in un’opera teatrale. Nello stesso anno, la sua prima opera teatrale, Päron, ha debuttato all’Ung Scen /Öst. Ha tradotto in svedese scrittori come Marguerite Duras, Adrienne Rich, Monique Wittig. Nel 2015 ha pubblicato il suo secondo volume di poesie, Trado, scritto insieme alla poeta rumena Svetlana Carstean.

Ci sono persone che non hai mai conosciuto
eppure ti amano, dico a mia figlia, lei capisce:
Come papà ama la sua squadra e come io amo una sirena
Proibisco al mio amato di rispondere quando squilla il telefono
Se è morto qualcuno, non voglio saperlo
Le grida di mia zia al cielo, chi ricorderà quanto era magnifica
Tutti i pesi che si è portata addosso e tutte le catastrofi che ha affrontato
La treccia dell’infanzia in un cassetto, come un promemoria mangiato dalle tarme
Non smette mai di vestirsi di nero, il suo dolore finale non arriva mai
Siamo intrappolati in un luogo tra la terra e l’inferno, dice lei
sotto una pellicola di smog, ci battiamo la schiena a sangue con le catene
ci pugnaliamo l’un l’altro alla coscia con i forconi
Pas kei miaee, grida al telefono, tu sei la mia figlia maggiore
Verrò presto, mento, chissà
come mi stringerà il domani.

Athena Farrokhzad

(Traduzione dallo svedese all’inglese a cura di Jennifer Hayashida, pubblicata su Adi Magazine; versione italiana di Pina Piccolo).

Buona lettura a tutte e a tutti.

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