martedì 27 febbraio 2018

Il corpo imperfetto delle donne

Il dominio della mente delle donne si è realizzato per millenni attraverso il controllo del loro corpo: in primis con l’imbrigliamento della sessualità, ma soprattutto instillando nella psiche femminile la convinzione di possedere un “corpo imperfetto”, un corpo che deve subire modificazioni per assurgere alla perfezione che è invece propria dell’uomo, creato ad immagine di Dio. Il nostro corpo diventa femminile, bello, puro, degno, solo dopo modifiche quasi sempre dolorose, che correggono l’imperfezione congenita tipica del prodotto di “bassa gamma”, assemblato probabilmente con pezzi di scarto. La donna concepita dalla Natura come una sottomarca da hard discount.
Quando ho scelto il titolo per il libro ero in dubbio, mi piaceva molto “Il corpo imperfetto delle donne” perché il filo conduttore del racconto è proprio la costruzione culturale di una deficienza di autostima: tutte le sofferenze fisiche auto-inflitte (o subite) per incarnare una femminilità stereotipata originano dal riconoscimento di una imperfezione al naturale. La trasformazione e il dolore imposto ai nostri corpi hanno sempre trovato giustificazione estetica e/o morale nella nostra “secondarietà” rispetto all’uomo. Prendete per esempio i piedi di loto, che in Cina sono stati fino a poco tempo fa sinonimo di estrema bellezza femminile e alto lignaggio, guardate la radiografia di un piede deformato per essere “bello”, osservate le ossa e le carni appallottolate, e immaginate come sarebbe la vostra vita con estremità ridotte così: in confronto il vostro alluce valgo da tacco 12 è un piccolissimo inconveniente; prendete i busti dell’Ottocento, che furono in voga sino all’inizio del Novecento, quelli che deformavano le costole, perforavano gli organi, vitino vespacausavano disturbi digestivi, svenimenti, e il prolasso dell’utero: la donna per essere “bella” doveva avere il vitino cingibile con due mani. Inoltre si teorizzava la debolezza strutturale delle nostre spine dorsali, incapaci di reggersi senza un busto. Prendete la deformazione dei polpacci delle donne, praticata in diverse aree del pianeta, in Sud America e in Thailandia, prendete tutte le altre torture vecchie e nuove raccontate in “Alle donne piace soffrire?” e avrete un quadro mostruoso di prevaricazione di una metà dell’Umanità sull’altra. Non esistono confini di spazio e di tempo per questa deliberata oppressione del genere femminile, basata sull’assunto sostanzialmente razzista della nostra presunta inferiorità fisica e mentale: la Natura avrebbe sbagliato quasi tutto nell’assemblare i pezzi nel corpo delle donne, persino la vagina, la nostra culla cosmica, il posto magico che ha dato inizio alle nostre esistenze. Così, prendete i nostri genitali e mutilateli perché sono di troppo, sono “imperfetti”; la clitoride, un’escrescenza vergognosa di carne vogliosa e vorace, alla quale per sbaglio Dio ha appiccicato troppe connessioni neurali, rendendola impura e maledetta: l’unico organo nel corpo umano deputato esclusivamente al piacere. Capitelo, povero Dio, era esaurito dalla perfezione profusa nella creazione dell’uomo.
Tra qualche giorno, il 6 febbraio, si celebrerà la Giornata internazionale della tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili, sponsorizzata dalle Nazioni Unite, impegnate nella lotta  a questa barbara pratica di controllo del corpo e della mente delle donne: “Le mutilazioni genitali femminili sono una violazione dei diritti fondamentali delle donne e delle ragazze”, e hanno conseguenze devastanti e irreversibili per la vita delle donne mutilate; questa violenza di genere “riflette una disuguaglianza radicata tra i sessi, una forma estrema di discriminazione nei confronti delle donne e delle ragazze” (fonte ONU). Questo è il volto del Patriarcato più crudele. In confronto il Mito della Bellezza che ci opprime è acqua fresca.
Quando ho scritto il paragrafo sulle MGF (mutilazioni genitali femminili) nel mio libro ho voluto trovare il coraggio di vedere con i miei occhi la devastazione: ho compiuto una ricerca su Internet, sia in italiano sia inglese e francese, trovando immagini capaci di farti piangere. In particolare mi ha sconvolta la foto di una vulva che aveva subito una mutilazione di tipo III, era completamente appiattita: non esistevano più clitoride, piccole e grandi labbra. Era una piatta enorme cicatrice, c’era solo un piccolo foro. Erano i genitali di una bambola di plastica. Ci sono foto di bambine che urlano disperate durante la mutilazione, immobilizzate dalle donne in una pozza di sangue; batterie di ragazze sdraiate una accanto all’altra con le gambe divaricate, pronte per il taglio che mutilerà per sempre la loro vita, convinte di diventare donne perdendo la parte più femminile del loro corpo; mamme che soffrono, bloccando le braccia delle proprie figlie, perché conoscono la mutilazione sul proprio corpo, ma non le salvano: in quelle culture il Patriarcato ha decretato che le donne intere sono imperfette, sono donnacce che nessuno vuole sposare. La storia si ripete da millenni, uguale in tutto il mondo: il piacere è sconveniente per una donna, la clitoride in particolare è una parte impura, un errore della Natura. Forse perché erettile, un piccolo peccaminoso pene. Le mutilazioni genitali femminili affermano che siamo solo appendici difettose dell’uomo. Si deduce perciò che il “Dio degli uomini” concepì volontariamente la donna come una troia, lasciando all’uomo il compito di purificarne il corpo. O di approfittarne in quanto troia, riversando sulla donna tutta la colpa del peccato.
Gli strumenti
Gli strumenti utilizzati da una tagliatrice in Somaliland (fonte web The Guardian): lametta, kerosene per pulire la ferita, un uovo come colla per fermare l’emorragia,  una siringa e una sostanza per intorpidire. Una miscela di polvere che contiene zucchero e antibiotico, per fermare un sanguinamento eccessivo e combattere le infezioni. Questa tagliatrice è già piuttosto raffinata perché di solito niente sterilizzazione e niente anestesia.
Cosa sono esattamente le MGF? Questa è la classificazione secondo l’OMS (fonte Wikipedia):
Tipo I: rimozione parziale o totale della clitoride e/o del suo prepuzio. Tipo I.a: rimozione del prepuzio/cappuccio clitorideo (circoncisione). Tipo I.b: rimozione della clitoride insieme con il prepuzio (clitoridectomia).
Tipo II: rimozione parziale o totale della clitoride e delle piccole labbra, con o senza l’asportazione delle grandi labbra. Questo tipo è anche  denominato escissione. Tipo II.a: rimozione delle sole piccole labbra. Tipo II.b: rimozione parziale o totale della clitoride e delle piccole labbra. Tipo II.c: rimozione parziale o totale della clitoride, delle piccole labbra e delle grandi labbra.
Tipo III: restringimento dell’orifizio vaginale con creazione di una chiusura ottenuta tagliando e riposizionando le piccole labbra  e/o grandi labbra, con o senza l’ablazione della clitoride. In molti casi i lembi cutanei delle labbra sono cuciti insieme, questa è l’infibulazione. Tipo III.a: rimozione e apposizione delle piccole labbra con o senza escissione della clitoride. Tipo III.b: rimozione e apposizione delle grandi labbra con o senza escissione della clitoride.
Tipo IV: tutte le altre pratiche reputate dannose per i genitali femminili realizzate per scopi non terapeutici: “punture, perforazioni, incisioni, cauterizzazione, allungamento per trazione, introduzione di sostanze nocive e corrosive per causare il sanguinamento o immissione di erbe a scopo di restringimento. […] L’immissione nella vagina di sostanze nocive o corrosive, di solito, viene effettuata direttamente dalle donne sia per ragioni igieniche sia per garantire una modificazione permanente dell’organo.” (Tesi di Laurea di  Andrea Varrella, “Mutilazioni genitali femminili e diritto internazionale”). Nel mondo Occidentale oggi esiste un fenomeno piuttosto preoccupante di giovanissime adolescenti, ma anche bambine all’inizio della pubertà, che sono indotte dalla pornografia a considerare abnorme la propria vulva, e ricorrere così alla labioplastica, che rende le labbra piccole e regolari secondo un ideale estetico pedofilo, costruito dalla pornografia. Il fenomeno britannico è stato raccontato dalla BBC: giovanissime, anche meno di nove anni, decise ad ottenere dai genitori un intervento chirurgico perché angosciate dall’aspetto al naturale della propria vulva. I medici generici riferiscono un numero crescente di ragazze intenzionate ad accorciare/rimodellare le labbra vaginali ritenute “imperfette”. I chirurghi che praticano queste mutilazioni dicono di restituire alle ragazzine l’autostima, benefattori insomma. Come tutto ciò che riguarda il nostro corpo, prima distruggono la nostra autostima proponendo modelli assurdi, e poi ci vendono la soluzione che ripristina la fiducia in sé stesse. Tipico della join venture Patriarcato&Capitalismo.
Ma torniamo alle MGF di tipo I, II e III. Per raggiungere questa “perfezione”, le bambine e le ragazze si troveranno ad affrontare le atroci conseguenze della mutilazione genitale: dolore, emorragie, shock, infezioni (compreso l’HIV), minzione dolorosa, cicatrici e cheloidi; problemi mestruali, fistola ostetrica, rischi perinatali, disturbo da stress post-traumatico (PTSD), disturbi di ansia e depressione, infezioni genitali croniche, infezioni del tratto urinario, rapporti sessuali dolorosi, ridotta frequenza o assenza di orgasmo (anorgasmia), obbligo di taglio cesareo o di episiotomia, emorragia postpartum. La morte può essere la più immediata conseguenza della mutilazione, per emorragia o infezione, oppure accadere in seguito durante un parto. Questa è la “perfezione” prevista dal controllo patriarcale del corpo delle donne: “[…] si stima che nel 2013 nel mondo 130 MILIONI di bambine e donne erano state mutilate nei genitali. Nel 2050 è probabile che si aggiungano altri 63 milioni di vittime, se non si interviene a fermare il massacro.
“Succede in questi Paesi:
“Arabia Saudita, Benin, Burkina Faso, Camerun, Chad, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Eritrea, Etiopia, Gambia, Ghana, Gibuti, Giordania, Guinea, Guinea-Bissau, India, Indonesia, Iran, Iraq, Kenya, Liberia, Malesia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Oman, Pakistan, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Tanzania, Togo, Uganda (lista del Female Genital Mutilation/Cutting dell’Unicef).” (da “Alle donne piace soffrire?”) ACCADE IN TUTTO IL MONDO, la stima attuale supera già i 200MILIONI DI DONNE: le persone quando migrano si portano dietro le cattive abitudini, e i Governi Occidentali non riescono a sradicarle perciò si sono diffuse ovunque. La stima dell’OMS è di 500.000 donne mutilate residenti nell’UE, 35.000 in Italia.
Mappa della diffusione delle mutilazioni (fonte web “Excision, parlons-en!”)
Intorno alle MGF c’è una inspiegabile tolleranza, come a volere entrare in punta di piedi per non disturbare durante l’escissione, perché è la loro cultura, perché è un rito di passaggio, perché sono le donne che la impongono alle figlie. Il Patriarcato riesce sempre a trovare un’attenuante per la violenza sulle donne. Se agli uomini fosse impedito il piacere con la mutilazione del pene, in quei paesi ci avremmo già mandato i Caschi Blu. Cosa vuoi che sia? È solo la mutilazione irreversibile di 8000 fibre nervose.
“In Etiopia, dove le MGF sono praticate a circa il 74% delle donne, è uso chiamare una tagliatrice la prima notte di nozze, perché evidentemente la mutilazione impedisce anche la penetrazione. Provate a immaginare il dolore di un primo rapporto sessuale con le cicatrici appena tagliate con un coltello”. (da “Alle donne piace soffrire?”).
Le MGF sono praticate sia da musulmane sia da cristiane: non sono le specifiche religioni ad imporre le mutilazioni, ma la cultura patriarcale misogina ovviamente ha connessioni con tutti i monoteismi. Nel marzo 2017 lo sceicco Abd Al-Wahhab Al-Maligi, un religioso egiziano, è apparso sul canale televisivo Al-Seha Wal-Jamal sostenendo che la mutilazione genitale femminile è una pratica positiva e ne deriva persino un vantaggio economico sociale: la mutilazione sarebbe una pratica di medicina preventiva ed aumenterebbe persino la natalità. No comment.
Perché le donne vengono sottoposte e si sottopongono alle mutilazioni genitali?
La prima ragione è il controllo della sessualità femminile: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la mutilazione, limitando gli impulsi sessuali delle donne, garantisce che rimangano vergini sino al matrimonio. Il desiderio di compiacere l’uomo in questo, conduce talune a ripetere le cuciture diverse volte nella vita. Quello che nessuno dice mai è che «Chiunque voglia sottomettere e opprimere le donne senza necessariamente imprigionarle o rinchiuderle, ma facendo in modo che «ci pensino da sole» ad arrendersi, a perdere la gioia e l’autonomia, a non provare più piacere, a diffidare dell’amore, a considerare fragili e inaffidabili i rapporti umani, non ha che da prendere di mira la vagina» (Naomi Wolf in Vagina. Una storia culturale). Wolf spiega che «[…] generazioni di maschi nella nostra lontana storia non potevano non aver notato quello che ora sappiamo essere un legame a base biologica fra una donna sessualmente liberata e il suo elevato grado di felicità, speranza e fiducia, probabilmente non potevano non aver notato anche l’effetto di un altro legame a base biologica fra una donna traumatizzata sessualmente e la sua minore capacità di provare felicità». La connessione neurale tra vagina e cervello spiega le mutilazioni genitali: rende le donne fedeli, docili, miti e obbedienti. Questo probabilmente chiarisce anche perché quei paesi siano poveri e sottosviluppati, perché la parte femminile è socialmente dormiente, quando non annientata.
Le MGF sono un obbligo sociale. La pressione sociale è intensa, è l’arma che abbiamo sempre puntata alla tempia: per aspirare a un “buon matrimonio” bisogna uniformarsi, perciò le madri mutilano le figlie, per aumentare il loro valore di mercato. È una forma di slut-shaming. Se rimani integra, sei una troia.
Esistono anche fattori economici. Nei luoghi in cui le donne dipendono dal matrimonio e non possiedono chance di autonomia economica, diventano una giustificazione per le MGF.
Non dimentichiamo che anche in Europa e Stati Uniti in periodo vittoriano i ginecologi praticavano le MGF per “curare” malattie che non sono malattie, come l’isteria, la masturbazione, la ninfomania, la malinconia e persino il lesbismo; era un “rimedio” anche per epilessia e malattie mentali. Non smetterò mai di dirlo, il Male supremo che affligge l’Umanità è la sessuofobia esercitata allo scopo di dominare gli altri. In questo perverso meccanismo le donne sono state le più penalizzate, ma non dimentichiamo che non permettere la piena espressione della sessualità della femmina di una specie animale significa tout court non permettere neppure un’autentica  sessualità per il maschio di quella specie. Quindi sino ad ora abbiamo vissuto solo l’ombra di quello che potremmo essere, altrimenti non saremmo masse sconfinate di persone controllate da religioni e capitalismo.
In conclusione vi propongo questo meraviglioso video francese sottotitolato in inglese alla scoperta della clitoride che, giova ricordarlo ancora, è l’unico organo nel corpo umano deputato solo al piacere. Mettetevelo bene in testa: il piacere è naturale, sano, spirituale, vi rende veri, felici e liberi.
https://alledonnepiacesoffrire.wordpress.com/2018/01/21/il-corpo-imperfetto-delle-donne/

lunedì 26 febbraio 2018

Perché l'età è diventata l'ossessione della nostra epoca Nell'era dell'eterna giovinezza ci lamentiamo di continuo dello scorrere del tempo. Per esorcizzare la paura di non essere più desiderati. E desiderare DI CATERINA SERRA

Perché l'età è diventata l'ossessione della nostra epoca
Sotto il ritratto c’è un cartiglio, un foglietto con su scritto Col tempo. Si trova alle Gallerie dell’Accademia a Venezia. È “La vecchia” di Giorgione, il busto di tre quarti, l’indice della mano destra puntato contro di sé, appena sopra il seno. C’è un altro dipinto di Giorgione conservato in un’altra area delle Gallerie, “La tempesta”, con un’altra donna, rappresentata più giovane, nuda, nell’atto di allattare. Un’ipotesi è che le due donne siano la stessa in età diverse della vita. Con quel modo di essere viste, prima giovani e madri, poi vecchie e quindi niente, mentre mostrano, seppure in modo diverso, un seno che non è erotico in nessuna delle due, prima è tenero, per tenere in vita, poi è avvizzito, né buono da succhiare né bello da guardare.
Si rivelano per come sono, rosea e carnosa l’una nella sua giovinezza, il colorito della pelle spento l’altra nel suo profilo di vecchia, una pelle che non è più fatta per accendere le fantasie di nessuno, un dito contro il petto che sembra ammonire chi la guarda, Visto come sono diventata, come col passare del tempo diventerai anche tu?

«Abbiamo quasi la stessa età e vivo anch’io nella quotidiana consapevolezza di invecchiare», dice Susan Sontag in una delle lettere allo scrittore Kenzaburo Oe - raccolte in “La nobile tradizione del dissenso” (Archinto ed., 2000). Parlando di età della vita trascrive per lui un passo di “Anime morte” di Gogol: Cicikov aveva dimenticato di essere ormai giunto a quel fatidico stadio della vita in cui tutto in una persona impigrisce, in cui si ha costantemente bisogno di essere risvegliati per non addormentarsi in eterno. Egli ignorava il modo in cui chi comincia a invecchiare viene inavvertitamente e quasi impercettibilmente assorbito dai volgari usi della società che alla fine lo opprimono e lo avviluppano al punto che in lui non resta più un individuo, ma soltanto un cumulo di riflessi e condizionamenti che appartengono al mondo. E quando si cerca di penetrare fino all’anima, l’anima non c’è più.

Stadi, età della vita. È facile sentire parlare di età. Ho una certa età. Alla mia età. A questa età. Non dimostra la sua età. Non ha età. Con l’età. Un’ossessione. L’età intesa come tempo lineare che porta vecchiaia, che coltiva dentro di sé il seme stesso della vecchiezza. E si comincia presto a raccontare al mondo e a se stessi di non essere più quelli lì, di quegli anni lì, quelli con quella velocità, quella freschezza, quella prontezza, quella forza, quelle possibilità, perfino quella follia. Ma perché ce l’abbiamo tanto con l’età? Perché sembra farci solo tristezza? Perché rimanda rapidamente alla fine della vita, alla morte?

Mentre siamo qui a parlare, sarà già fuggito via. Dum loquimur fugerit invida aetas, è il verso che precede il più noto e popolare Carpe diem, Cogli l’attimo - anche se Carpe è di più, è afferra, carpisci, abbranca, agguanta quell’invida aetas, quel tempo che sembra mangiarsi le ore, avidamente, come non fossimo noi a perderle, tra commerci umani e compravendita di merci, che è appunto tempo speso. La spesa del tempo, la più costosa di tutte.

L’età intesa come il tempo delle scelte, il tempo dell’essere, delle occasioni. Abbiamo bisogno di fissare il tempo con le cosiddette tappe della vita, di chiuderci dentro i confini di una definizione, col marchio dell’ormai è tardi, tutto quello che potevo fare di me non so neanche se l’ho fatto ma era comunque in quel tempo lì, prima di diventare vecchi. Perché nell’epoca dell’eterna giovinezza ci si racconta vecchi, acciaccati, stanchi, sfiniti?

Il racconto che facciamo di noi non elude mai l’età. Non facciamo altro che nominarla, come un alibi, un escamotage. Come se ci definisse una volta per tutte. Bastasse a dar conto di chi siamo. Sapendo che la narrazione di sé punta a zittire l’altro, serve a dirsi verità che non vogliamo sentirci dire da nessuno.

Sembra un bisogno di controllo, di potere su quel ristretto ordine di anni che una società paurosa e quindi rigida e regolamentata impone. All’interno di un collaudato sistema che nutre e si nutre di farmaci e creme prodigiose, chirurgia miracolosa, ginnastiche per ogni segmento di corpo, ripetuti soggiorni in luoghi di sedicente benessere che tolgono anni e pieghe anche dall’anima, elisir di lunghissima vita, congelamenti, ibernazioni, immortalità.

Una cultura dell’età che anziché sollevarci, rassicurarci, ci lusinga, ci seduce, e al tempo stesso impaurisce, rendendoci fragili al punto che ci viene forzatamente spontaneo intonare la nostra lamentazione funebre da soli, prima del tempo, mentre siamo ancora in vita. È il demone dell’invecchiamento a spaventarci, l’idea stessa di vecchiezza, col suo carico di insicurezza, precarietà, fragilità? O l’incubo di non essere più visti, amati, voluti mentre siamo ancora vivi?

Mi chiedo se ciò che ci fa nominare di continuo l’età, lamentandoci dello scorrere del tempo, non sia dunque la paura di non essere più visti come soggetti vivi, desideranti e desiderati. La tristezza che ne deriva. La tristezza del non essere più desiderati perché finché si è desiderati ci si sente potenti. Anzi no, immortali. E così, è triste e vecchia, la Vecchia, perché col tempo più che capitarle di invecchiare, non le capita più quello che l’ha tenuta in vita. Il desiderio, non solo quello di qualcun altro per lei, ma il suo verso le cose, verso qualcuno.

Quello che non cambia col tempo è quello che siamo rispetto al desiderio. Anche se non abbiamo più denti, vogliamo ancora addentare i frutti dell’ultima stagione, anzi, di ogni stagione.

Entrambe le donne di Giorgione ci guardano, la bocca della prima è piccola, chiusa, come a non saper dire, forse, o a tenere dentro, a lasciar parlare il suo corpo nudo, seduttivo e materno insieme, a sintetizzare quel che si voleva e si vuole ancora dalle donne. La bocca della seconda è semiaperta, sdentata, muta in modo diverso, la bocca di un infante, letteralmente di chi non parla, in questo caso, non parla più.

Eppure, chissà che non voglia dire qualcosa anche lei col suo corpo, vecchio, sì, ma vivo, e che non voglia dire, Guarda come sono ridotta, o Guarda come anche tu sarai, brutta, triste, vecchia, ma voglia dire invece, Vedi, sono qui, sono arrivata qui, così come ci arriverai tu, più o meno così, con la stessa voglia di aprire ancora la bocca e dire qualcosa, magari di sensato, con la voglia di essere ancora al mondo, di vedere, di toccare, di provare emozioni, di desiderare qualcosa, qualcuno.
http://espresso.repubblica.it/visioni/2017/12/05/news/perche-l-eta-e-diventata-l-ossessione-della-nostra-epoca-1.315239

domenica 25 febbraio 2018

Bistrattate e vincenti. Le atlete italiane vincono tantissimo, ma per lo Stato italiano sono tutte "dilettanti"

La denuncia dell'associazione Assist: "A PyeongChang una delegazione paralimpica di soli uomini". Josefa Idem all'Huffpost: "I loro trionfi imporranno il cambiamento"
Girl Power. Le atlete italiane vincono tantissimo. Rispetto ai colleghi maschi, le loro storie spiccano per forza e determinazione, entrando nell'immaginario collettivo del mito in maniera molto più profonda. L'oro di Sofia Goggia nella discesa libera alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang non è che l'ultimo atto di una favola Azzurra scritta in buona parte dalle donne. La tripletta d'oro al femminile ai Giochi invernali - Sofia Goggia, Arianna Fontana, Michela Moioli - dà nuovo lustro allo sport femminile italiano, ma al tempo stesso invita a riflette su un percorso troppo spesso a ostacoli, soprattutto per le donne. Perché tutte queste atlete ed ex atlete – dalla calciatrice Patrizia Panico alla stella del nuoto Federica Pellegrini, dalla schermista Elisa Di Francisca a Bebe Vio – per lo Stato italiano sono solo "dilettanti".
Un paradosso tutto italiano che racconta una delle molte facce di una discriminazione difficile da sradicare. Ne abbiamo parlato con Luisa Rizzitelli, presidente di Assist – Associazione Nazionale Atlete, che dal 2000 si occupa dei diritti delle atlete italiane. "Le donne italiane vincono tantissimo, sono una fucina di medaglie in tutte le discipline. L'aspetto clamoroso è che ancora oggi, in Italia, le donne non hanno diritto d'accesso a una legge dello Stato (la n. 91 del 1981) che regola i rapporti tra società e sportivi professionisti. Ciò significa che in Italia nessuna donna, né Sofia Goggi né Federica Pellegrini, né l'atleta più vincente che ti viene in mente, merita lo status di professionista. Per lo Stato italiano, sono tutte dilettanti".
La differenza non è solo un titolo nel biglietto da visita. "Essere dilettanti – sottolinea Rizzitelli - vuol dire essere relegate al ruolo di chi lo sport lo fa per diletto, quando invece non è così. Vuol dire non avere contratti, maternità, pensione, tfr, nessuna delle tutele basilari che dovrebbe avere chi fa dello sport il proprio lavoro".
I corpi militari colmano in parte questo vuoto assumendo molte atlete in cambio di prestigio e visibilità. "Non è un caso se una marea di medaglie, nello sport italiano, arriva da lì: quando un corpo militare ti assume, diventi un lavoratore a tempo indeterminato, hai uno stipendio, una tredicesima, la maternità, accumuli contributi. Io per esempio ho giocato a pallavolo per 15 anni e non ho potuto versare una lira di ciò che ho guadagnato", spiega la presidente di Assist.
La stessa Goggia fa parte delle Fiamme Gialle; Federica Pellegrini è ufficialmente una guardia penitenziaria; la schermista Elisa Di Francisca gareggia per la Finanza, mentre la sua ex capitana Valentina Vezzali è in polizia, così come la campionessa paralimpica Bebe Vio.
La legge 91/1981, pensata per regolare i rapporti di lavoro in ambito sportivo, lasciava alle federazioni la possibilità di scegliere se aprire le porte al professionismo in base alle direttive del Coni, ma a distanza di 37 anni quelle direttive non sono ancora arrivate, così solo quattro discipline si sono regolamentate - calcio, golf, ciclismo e basket – riservando però lo status di professionisti solo agli uomini.
Josefa Idem, campionessa mondiale e olimpica nella specialità del kayak individuale, sottolinea che questo è un problema non solo delle donne, ma anche degli uomini. "Oggi lo sport è cambiato rispetto al passato. Grazie alle sponsorizzazioni e alle scritture private, abbiamo atleti che dedicano molta parte della vita allo sport, arrivano fino a 35-40 anni senza nessuna forma di previdenza sociale. Dobbiamo riconoscere che questo in futuro ci porrà di fronte a un problema sociale". Quanto alle donne - prosegue Idem - "stanno facendo vedere che sono molto molto brave. Saranno i loro trionfi a imporre il cambiamento".
Sia Idem che Rizzitelli individuano "un grande problema di rappresentanza" per le donne italiane nello sport. "Il 90% della rappresentanza politico-sportiva è maschile", nota Idem, la cui esperienza come ministra per le Pari Opportunità, lo Sport e le Politiche Giovanili è durata solo un paio di mesi.
Più dura la presidente di Assist: "Non abbiamo mai avuto un presidente del Coni donna, e neanche una presidente di federazione (tranne una parentesi di due mesi negli sport equestri). Il numero di dirigenti donne che ricoprono ruoli apicali nel Coni e nelle federazioni è ancora bassissimo. In un'epoca in cui si parla tanto di pari opportunità e uguaglianza di genere, non abbiamo nessun dato per poter riflettere sul gender budgeting (l'analisi del budget da una prospettiva di genere, ndr), dal momento in cui i finanziamenti del Coni vengono dati alle federazioni affinché svolgano le loro attività". E tra queste attività il perseguimento della parità di genere non è certo in cima alla lista. "A novembre – denuncia Rizzitelli - si sono tenuti gli stati generali del Coni: due giorni, oltre cento interventi in cui si è parlato di tutto, tranne che di pari opportunità. Sul tema non era previsto neanche mezzo intervento".
"È un aspetto che stride in maniera scioccante con il fatto che siamo un gioiello dello sport italiano", attacca ancora Rizzitelli. Senza contare che lo sport è un'esperienza di vita che coinvolge la società civile con numeri notevolissimi: in Italia abbiamo ben 5 milioni di persone che sono tesserate con le federazioni sportive nazionali, e ogni anno in finanziaria vengono stanziati circa 400 milioni di euro per il Coni.
"Per le donne l'esclusione dal professionismo è un problema enorme che va risolto subito: qualsiasi governo esca dalle urne dovrebbe convocare al più presto possibile un tavolo istituzionale sul tema", chiede la presidente di Assist. "È ingiusto e scandaloso che le donne non possano dire 'questo è il mio lavoro' e avere le tutele che meritano. I gruppi militari colmano un vuoto, ma non è sufficiente. È il principio stesso a essere sbagliato".
Nelle ultime ore l'associazione Assist ha denunciato sui social anche un altro fatto che non rende giustizia alle sportive italiane: nella delegazione Azzurra Paralimpica per i Giochi invernali a PyeongChang ci sono 26 atleti, tutti uomini. Una immagine che ci si aspetta dall'Arabia Saudita, non da uno dei Paesi cardine dell'Unione Europea. "Tra l'altro pare che la Federazione Sport invernali Paralimpici italiana non abbia nemmeno utilizzato tutti i posti a lei concessi dalle regole dei Giochi. Perché quindi non portare nemmeno una donna?", denunciano dall'associazione. "Magari non c'erano atlete da portare, direte voi... A noi non risulta. Anzi, per la precisione ci risulta che almeno due atlete (di cui una è stata argento olimpico a Vancouver nel 2010) fossero in condizione. A questo punto viene da chiedersi: nessuno nel Comitato Paralimpico italiano si è posto il problema di cosa vuol dire non avere nemmeno una Azzurra? Nessuno capisce quanto conti non avere una delegazione di soli maschi come l'Arabia Saudita?"
"Non portare nemmeno una donna ai Giochi Olimpici invernali non solo testimonia la disparità di crescita tra atleti e atlete nella Federazione Sport Invernali Paralimpici, ma rappresenta un danno vero per ogni bambina disabile, per ogni ragazza che non avrà un modello da imitare, un sogno da seguire. Per noi non è poco, per noi è una cocente delusione. Vediamo se qualcuno può e vuole risponderci pubblicamente", incalza la presidente, che racconta di essere rimasta "stupita e rattristata" di fronte a una lista in stile Riad.
"Vorrei capire – prosegue Rizzitelli – come è possibile che una Federazione (che anche se paralimpica vive di contributi pubblici) abbia fallito nello sviluppo di un settore femminile a tal punto da non avere neanche una donna da mandare in Corea. Al momento le nostre lamentele non hanno ricevuto risposta. Purtroppo ormai il danno è fatto, spero che almeno ci possa essere una commentatrice tecnica nelle telecronache che il servizio pubblico offre degli sport paralimpici".
Per la presidente di Assist, questo episodio riflette "una grande insensibilità culturale, la stessa che ha portato il Coni a inserire nella Walk of Fame dello sport italiano, inaugurata nel maggio del 2015, solo 13 donne su 105 atleti. Siamo andate a vedere quante donne potevano entrarci, in base ai requisiti richiesti, e ne abbiamo contate almeno 70. E invece è stata fatta una scelta: non più di 13 donne".
Il presidente del Coni, Giovanni Malago (S) e Alberto Tomba, durante dell'inaugurazione della Walk of Fame dedicata ai cento grandi campioni dello sport italiano al Foro Italico, Roma, 7 maggio 2015.
Una vera proposta di riforma della legge 91 non c'è mai stata, denuncia ancora la presidente di Assist. "Il problema va discusso in modo talmente ampio che nessun disegno di legge può essere recuperato. Il prossimo governo deve capire che lo sport italiano produce il 2,8 del Pil: il movimento sportivo italiano ha bisogno di una riforma radicale sul lavoro sportivo. Non mi riferisco solo agli atleti, ma anche agli allenatori, ai dirigenti, agli istruttori... c'è tutto un mondo da regolamentare che ora è lavoro sommerso, senza una dignità giuridica. È necessario che chi va al governo se ne occupi davvero".
Una piccola toppa al problema è stata messa dal ministro Luca Lotti. Tra poco verranno emanati i decreti attuativi di un provvedimento approvato in finanziaria che prevede un assegno di maternità per le atlete madri. "Un piccolo rimedio attorno a una situazione vergognosa, perché attualmente le atlete che rimangono incinte se ne vanno a casa. Sono persone che fanno un lavoro impegnativo, usurante – perché fare l'atleta, ve lo assicuro, lo è – che quando aspettano un bambino non hanno diritto a nulla", spiega Rizzitelli.
Il #MeToo, lo scandalo mondiale delle molestie sessuali, non è riuscito a rompere il muro di gomma dello sport italiano. "C'è un gravissimo ritardo nell'avere il coraggio di parlare di questi temi anche all'interno delle società e del mondo sportivo. Come Assist stiamo preparando progetti per informare e insegnare cosa vogliono dire le parole stereotipi, abusi, molestie... Abbiamo dalla nostra parte molte campionesse. Ma c'è bisogno di molto più coraggio e voci più forti per cambiare davvero la cultura".
http://www.huffingtonpost.it/2018/02/21/bistrattate-e-vincenti-le-atlete-italiane-vincono-tantissimo-ma-per-lo-stato-italiano-sono-tutte-dilettanti_a_23367498/




sabato 24 febbraio 2018

Jessica Faoro, al funerale la bara trasportata da 4 donne per dire no alla violenza

Saranno Jessica, Chiara, Evelyn e Daniela a portare sulle spalle la bara di Jessica Faoro, la diciannovenne uccisa lo scorso 7 febbraio nell’appartamento di via Brioschi a Milano dal tranviere Alessandro Garlaschi. Quattro portantine donne, in un mestiere da sempre appannaggio del genere maschile, per dire no alla violenza sulle donne.

I funerali si terranno sabato 24 febbraio, nella chiesa di San Protaso, in piazzale Brescia, scelta dalla famiglia. In quella parrocchia, hanno spiegato, Jessica era solita ritrovarsi con le sue amiche. A celebrare messa ci sarà Don Paolo Zago. E tutte le donazioni giunte in memoria della povera Jessica saranno spese solo in parte per la tumulazione. Il resto sarà devoluto ad associazioni che si occupano di lotta al femminicidio.

Il delitto di Jessica Faoro ha scosso molto le coscienze, anche dei titolari dell’impresa di pompe funebri La Madonnina, cui è stato affidato il funerale. Per questo hanno contattato le quattro necrofore, che si sono offerte di prestare servizio gratuitamente. Per loro solo un rimborso per le spese di viaggio, poiché vengono da Torino. Tre di loro hanno la stessa età di Jessica o poco più. Le chiamano “Angeli” e si sono praticamente inventate un mestiere e sono l’unico gruppo in Italia formato da sole donne operanti in questo settore. Questa volta hanno voluto rendere il loro omaggio alla giovane Jessica, vittima di una tragedia tanto assurda.

Non sarà il Comune a coprire le spese, così come inizialmente annunciato, né don Gino Rigoldi l’officiante, che aveva conosciuto la 19enne e il suo fidanzato in uno dei suoi passaggi in comunità. I genitori di Jessica si sono fatti avanti, precisando che l’organizzazione di un funerale era già in corso, in altra data e parrocchia e che il contributo di Palazzo Marino non era necessario.

giovedì 22 febbraio 2018

CHI PROTEGGE LE “NOSTRE” DONNE DAL MASCHILISMO ITALICO? di VALENTINA SAINI

Sei donne uccise in meno di venti giorni. Da Pamela Mastropietro, ritrovata il 31 gennaio a Macerata, fino a Federica Ventura, accoltellata dal marito venerdì in provincia di Foggia. Quanto a numero di femminicidi, il 2018 non promette niente di buono.

In Italia viene uccisa una donna ogni due giorni. Ma a riguardo gran parte della politica rimane silente. Eccetto quando i colpevoli (o presunti tali) sono stranieri. Allora una fetta significativa della destra insorge, tuonando contro la presunta emergenza immigrazione. Se però i colpevoli (o presunti tali) sono italiani, l’atteggiamento di quella stessa parte politica cambia; niente discorsi tonitruanti né in Parlamento né ai talk-show o sui social media; non ci si preoccupa di difendere quelle che chiamano “le nostre donne”. (Nostre?)

In Italia, e non solo adesso in campagna elettorale, si parla molto di immigrazione. Ne parlano i politici, definendola spesso una vera e propria emergenza nazionale che causa pericolo e insicurezza. Ne parlano i media, non sempre in modo equilibrato. Il risultato è che l’immigrazione non è solo uno degli argomenti più caldi di questa campagna elettorale. È anche la seconda maggiore preoccupazione tra gli italiani dopo la disoccupazione. Secondo uno studio della Commissione Europea, nel nostro continente sono pochi i paesi più preoccupati di noi: lo scorso settembre il 46% degli italiani segnalava una percezione di insicurezza legata al fenomeno migratorio.

Il tema dell’immigrazione da troppo tempo viene presentato in maniera semplicistica e talvolta persino distorta. Si parla di emergenza, a causa dell’insicurezza che esso genererebbe. Sia chiaro: il desiderio di sentirsi al sicuro è più che normale, e del tutto comprensibile; del resto è proprio quel desiderio che spinge migliaia di persone a rischiare la vita per emigrare.

Ma allora perché non definire un’emergenza anche la mentalità maschilista che in Italia uccide una donna ogni due giorni?

Il maschilismo sta alla base tanto dei femminicidi, delle violenze sessuali e di quelle domestiche (sia fisiche sia psicologiche), che della discriminazione di genere nel suo complesso. Le vittime che miete sono tantissime. Più di quelle che pensiamo, dato che molte donne che subiscono violenze non denunciano i loro aguzzini. E del resto, bisogna dirlo, non è che lo Stato si dimostri sempre particolarmente efficiente o decisivo nell’aiutarle, e ne abbiamo avuto due tragici esempi proprio con questi ultimi femminicidi: due degli assassini erano già stati denunciati per stalking (a quando i benedetti braccialetti anti-stalking?).

L’Istat ha appena diramato dei nuovi dati sulle molestie sessuali, subite da almeno 9 milioni di donne. In Italia si registrano 11 stupri al giorno, per mano di uomini italiani nel 61% dei casi (dati dei primi sette mesi dell’anno scorso). Un quarto degli omicidi è classificato come femminicidio, e mentre il numero complessivo degli omicidi è calato del 39% dal 2011 al 2016, quello dei femminicidi è sceso solo del 14%.

E sia chiaro, quando una donna viene ammazzata in Italia di solito il femminicida non è affatto straniero. Nel 74,5% dei casi, il colpevole è di nazionalità italiana. I casi degli ultimi giorni poi, non fanno che confermare una tendenza che purtroppo i dati mostrano già da tempo: circa il 75% delle donne viene uccisa nell’ambito familiare. Ossia, teoricamente, il contesto in cui ci si dovrebbe sentire più sicuri. Lo stesso vale anche per gli stupri.

Il maschilismo non si limita a discriminare, il maschilismo uccide. Non è un’esagerazione, ma una certezza più che appurata ormai. Chiamatelo machismo, maschilismo, patriarcato, la sostanza è sempre la stessa. È la cultura che predica e promuove la superiorità del maschio, il suo diritto a possedere tutto ciò che vuole, incluse le donne. Che ripristina, in chiave moderna, un mostruoso ius vitae necisque. Una cultura malata, che miete vittime anche fra gli stessi uomini.

Ed è una questione che dovrebbe essere trattata con la serietà e la rilevanza che merita. Perché in modo più o meno accentuato, con conseguenze più o meno gravi (di certo letali una volta ogni due giorni), i suoi effetti colpiscono la metà della popolazione italiana. È un problema che deve essere affrontato da tutta la società in modo compatto: istituzioni, media, scuola, uomini e donne.

Ovviamente le donne sono uccise, picchiate e stuprate anche da uomini stranieri: il maschilismo è un fenomeno universale. E una parte delle persone che si stabilisce in Italia conserva una cultura maschilista e patriarcale, figlia anche di secoli di colonialismo e neocolonialismo. Ma il problema è europeo, e riguarda tanto gli italiani che i francesi, i polacchi, gli svedesi, gli immigrati, dall’Africa o dal Medio Oriente: nel nostro continente infatti lo stupro e le aggressioni sessuali sono reati molto più frequenti degli omicidi volontari. E ovviamente questi crimini vanno puniti con tutta la severità prevista dal codice penale, a prescindere dall’etnia, l’età, il credo o l’origine di chi li commette.

Ma per la violenza sulle donne in Italia, purtroppo, il problema sono prima di tutto gli uomini italiani. Che si fa, dunque? Che ha intenzione di fare la destra tanto preoccupata (ossessionata?) dell’emergenza immigrazione? Cosa vuole fare la sinistra, che ama ergersi a baluardo delle donne? E il centro, che vede nella famiglia il pilastro della società italiana? Se c’è un’emergenza che merita di entrare nel discorso pubblico, durante ma anche dopo questa campagna elettorale, è proprio quella delle vittime del maschilismo. La violenza maschilista infuria, e nessuno ne parla.
http://www.glistatigenerali.com/criminalita_questioni-di-genere/emergenza-maschilismo/

mercoledì 21 febbraio 2018

Il cannibalismo mediatico sui corpi delle donne

Oggi è stato arrestato Franco Vignati, ex consigliere comunale e assessore di Chignolo Po, accusato dell’omicidio di Kruja Ladvije, badante albanese 40enne e madre di due figli, scomparsa a San Colombano al Lambro il 30 maggio 2016 e ritrovata cadavere l’8 giugno nel Po a Monticelli d’Ongina (Piacenza). Un femminicidio causato, scrivono i giornali, dal fatto che l’uomo “Non si rassegnava alla fine della relazione, che durava da un anno e mezzo, e dal fatto di non avere più una casa (Vignati si stava separando dalla moglie e viveva in casa di Dea)”, un movente che, raccontano i colleghi giornalisti, avrebbe portato Vignati a chiedere un appuntamento all’ex amante portando con sé una pistola calibro 7,62 per uccidere a sangue freddo con un colpo alla nuca Kruja Ladvije mentre era di spalle. Ieri a Foggia un uomo ha ucciso la moglie a coltellate in casa con i figli che per la paura sono scappati dai vicini che hanno chiamato i carabinieri: Federica Ventura, 40 anni, è stata colpita da dieci coltellate da Ferdinando Carella, 47 anni, che ha usato la stessa arma per tentare di uccidersi senza riuscirci. Due giorni prima un’altra donna era stata uccisa dall’ex marito a Livorno con un fendente alla gola: Francesca Citi, 45 anni, madre di due bambini, che aveva però denunciato l’ex marito per minacce e stalking, tanto che Massimiliano Bagnoli, dopo l’allontanamento dalla casa, era stato stato condannato a un anno e quattro mesi di reclusione che si era fatto ai domiciliari. E anche se a marzo era previsto un nuovo processo a suo carico, nei mesi in cui Bagnoli era tornato in libertà – che rappresenta il momento più pericoloso per la donna che ha denunciato l’offender – nessuno ha pensato di proteggere Francesca, perché nessuno aveva saputo valutare il rischio di vita che la donna correva, come tante altre volte.

Tre femminicidi che in pochi giorni sono stati rappresentati sui giornali ancora una volta come eventi inaspettati, omicidi a sé stante, raptus momentanei malgrado tutti questi uomini avessero con sé armi pronte a essere usate contro donne che conoscevano bene e che quindi hanno accettato di vedere i loro assassini, e tutti eseguiti, secondo il racconto della stampa, con un movente chiaro: la gelosia, la folle e cieca gelosia per amori mancati, relazioni naufragate, sogni troncati, come se fosse una reazione normale uccidere da parte di chi è stato lasciato.

Giornali e informazione che in questa settimana si sono superati narrando in una specie di grande pulp la macellazione del corpo di Pamela Mastropietro, la giovane romana di 18 anni uccisa e smembrata a Macerata per cui sono indagati 4 nigeriani per omicidio probabilmente a sfondo sessuale, a cui si aggiungono le 40 coltellate inferte sul corpo di Jessica Valentina Faoro, la ragazza di vent’anni uccisa da Alessandro Garlaschi che la ospitava a casa sua a Milano e che probabilmente lui perseguitava con richieste sessuali. Immaginari raccontati come una favoletta sanguinolenta, una sorta di La bella e la bestia versione splatter con corpi di donne strumentalizzati e martoriati al di là della notizia e solo per il gusto di rimescolare nel torbido in un gigantesco pentolone: come Pamela che è stata martirizzata dalle penne di giornalisti che pur non aggiungendo nulla all’informazione hanno creduto bene di mettere in piazza le sue ossa con descrizioni minuziose e senza pudore, una mattanza mediatica su un corpo di una ragazza che non può fare nulla per difendersi.

Stesso destino per la giovane Jessica descritta come una poveraccia nella disperata ricerca di una casa e capitata quasi per caso nella tana del mostro, come se fosse una sfortuna che a noi non potrebbe mai succedere in un racconto a metà strada tra cappuccetto rosso e lilly il vagabondo, e tutto questo grazie a una cultura che ritiene in fondo normale che una ragazza carina possa rischiare sempre, in ogni momento della sua vita, di essere stuprata o addirittura uccisa per motivi sessuali, a meno che non stia attenta a dove va, cosa fa, e come si veste (perché alla fine la responsabilità è sempre sua). Ragazze morte offerte al pubblico con immagini di tutti i tipi, in tutte le posizioni: innocenti, ammiccanti, semivestite, accattivanti, a dimostrare che in fondo ragazze così una cosa del genere se la devono anche aspettare, soprattutto se “una si droga” e l’altra è “una vagabonda”. Articoli che sono arrivati al top dello schifo quando hanno empatizzato con chi ha approfittato della situazione precaria di Pamela usando il suo corpo dietro pagamento: come l’uomo di 50 anni che senza preoccuparsi di cosa faceva quella ragazza romana di 18 anni da sola a Macerata, l’ha caricata in macchina e se l’è portata a casa, descritto come un pover’uomo alla ricerca di un’ora d’amore.

Racconti scorretti, scoop a chi conta meglio le ossa, veri e propri snuff dati in pasto a un pubblico goloso di B movie, più che notizie sui giornali con analisi dei fatti, del fenomeno e del contesto in cui queste morti son avvenute. Un mercato della carne umana che nel caso di Pamela ha mosso la politica razzista e xenofoba con lo stupro della sua memoria da parte di chi, come Salvini e la sua Lega, ha strumentalizzato quel corpo ucciso per portare l’odio in strada nel gesto omicida di Luca Traini. E questo sempre e ancora una volta sotto i nostri nasi, che continuiamo a scandalizzarci per le donne uccise, per le atrocità che gli uomini commettono, per la violenza con cui i rapporti di forza tra sessi si consumano nei rapporti intimi e intanto permettiamo di essere nutriti da un immaginario cannibale nell’ipocrita speranza che un giorno tutto possa cambiare. Ma cosa può cambiare in una sistema che fa di tutto questo il suo più prelibato pasto? Una succulenta mistura di morbosità fatta di sesso, ragazze carine, uomini violenti e squartatori? Una cultura che ancora adesso racconta di melodrammi fatti di gelosia e sangue, di raptus improvvisi e rende le donne responsabili della violenza che subiscono a causa della loro bellezza, o della pressione che fanno su poveri mariti che “non accettano la separazione”? Quella stessa cultura che ha prodotto le domande fatte dagli avvocati dei due carabinieri accusati di stupro da due studentesse americane a Firenze, pubblicate su Corriere della sera giorni fa: “portava biancheria intima quella sera? è fidanzata? è attratta dalle divise?”

Ma cosa te ne frega se porto le mutande, se sono carina o quante ossa sono entrate nella valigia? Quello che ti deve interessare è che sono stata stuprata, uccisa, picchiata, anche a causa della mentalità con cui mi descrivi, una cultura che rende tutto ciò normale e impunibile, e che nel mondo ha prodotto 1 miliardo di donne che sono nella mia stessa situazione a dimostrazione che quello che mi è successo non riguarda solo me, e non è imputabile al mio comportamento o al mio abbigliamento o alle mie abitudini, questo devi raccontare al mondo per rendere giustizia alla verità, nient’altro.
https://donnexdiritti.com/2018/02/17/il-cannibalismo-mediatico-sui-corpi-delle-donne/

lunedì 19 febbraio 2018

Stop violenza sulle donne, in 150 in piazza a Corsico.

Stop violenza sulle donne, in 150 in piazza a Corsico (VIDEO)
Tante le associazioni presenti, al fianco di Ventunesimo Donna che anche quest’anno, dopo il grande successo dell’anno scorso, ha riproposto l’esibizione.

CORSICO – Basta scuse. Basta abusi. Basta paura. A urlarlo c’erano 150 persone, alla Fontana dell’Incontro che ieri sera si è dipinta di rosso, il colore simbolo della lotta alla violenza contro donne e bambine. Palloncini a forma di cuore, perché era San Valentino, ma l’amore di ieri era tutto nel senso di una battaglia che oggi più che mai ha bisogno di soldati per essere combattuta. Perché quello che rende davvero liberi è difendere il diritto del rispetto.

Molte associazioni con Ventunesimo Donna
Tante le associazioni presenti, al fianco di Ventunesimo Donna che anche quest’anno, dopo il grande successo dell’anno scorso, ha riproposto l’esibizione. Davanti, tre ballerine hanno guidato con la coreografia i passi del gruppo. Tutti a ballare Break the chain, rompi la catena, dopo aver letto poesie, racconti e il testo della canzone ormai simbolo di una rivoluzione. Il segnale più forte lo hanno dato i tanti uomini presenti, al fianco di mogli, fidanzate, sorelle, madri e figlie, per schierarsi dalla parte giusta. Dalla parte giusta anche tanti cittadini e le associazioni del territorio: Sibilla Aleramo di Cesano Boscone, Banca del Tempo di Buccinasco, Retake Buccinasco, Demetra Trezzano, Ilaria Alpi di Assago, Buon Mercato, Galassia, Itaca e Legambiente.

Non solo falshmob
Non solo danza e parole forti, che colpiscono dritte al cuore, testimonianze di chi ha patito il dolore peggiore e ricordi di chi non ce l’ha fatta a scappare dal massacro dentro casa. Il flashmob è stata anche un’occasione per distribuire un pezzo di carta importante. Da attaccare nelle scuole, nelle sale d’attesa dei medici, nelle bacheche dei condomini. Da attaccare ovunque, perché ovunque si sappia che le donne non sono sole.

La Rosa dei Venti
La Rosa dei Venti è la Rete di orientamento, sostegno e aiuto. E in queste tre parole sta tutto il significato della fondamentale attività che portano avanti. Anonimato, riservatezza e gratuità, sono altri concetti base della Rete che racchiude i distretti di Rozzano, Corsico e Pieve Emanuele. Il centro di Corsico è la Stanza dello Scirocco: il numero verde è 800049722, l’email info.corsico@cadmi.org. Orari: lunedì 13-17; martedì e giovedì 9.30-11; mercoledì e venerdì 9.30-13.30. Sempre attivo il numero verde antiviolenza 1522. La rete Rosa dei Venti risponde allo 02.8226238/351. Il centro di Pieve Emanuele allo 02.90422123, quello di Noviglio allo 02.9055319. Quello di Milano allo 02.55015519.

Abbiamo usato tante righe per dare numeri e informazioni, è vero. Ma se queste righe possono aiutare anche solo una donna a uscire dal pozzo, a “spezzare la catena”, sarà stato utile scriverle. Perché nessuna donna deve vivere nella paura. E perché l’arma di difesa migliore per una donna è il coraggio.
http://giornaledeinavigli.it/attualita/stop-violenza-sulle-donne-150-piazza-corsico-video/

La vicenda di Jessica porti a migliorare la rete di sostegno per le donne in difficoltà di Maddalena Robustelli

La vicenda di Jessica porti a migliorare la rete di sostegno per le donne in difficoltà
Non potremo riportare in vita Jessica Faoro, ma dalla sua storia possono originarsi riflessioni su come possa essere migliorata la qualità dei servizi d'assistenza a chi sia priva dei mezzi fondamentali per vivere dignitosamente.
 Riavvolgiamo il nastro. Non potremo riportare in vita Jessica Faoro, ma qualcosa possiamo fare, per non lasciare che la sua storia venga facilmente rimossa, manipolata, deformata e dimenticata. Perché dall'esperienza di Jessica possano migliorare i sostegni alle donne, tutte. Sembra che qualcosa non abbia funzionato, visto che qualcuno ha pensato che tutto sommato se la sarebbe dovuta, potuta cavare da sola. Da sola con il suo bagaglio di difficoltà, senza sostegni capaci di aiutarla a dare il giusto valore alla propria esistenza. E dire che anche questa è violenza.
Jessica, come chissà quante altre giovani ragazze, in una città come Milano che a quanto pare rivela alcune criticità nei confronti di persone, dai percorsi complicati o dalle fasi di vita delicate, prive degli strumenti idonei a superarne le avversità. Jessica, sin da piccola allontanata dai genitori e poi succube della prassi consuetudinaria di affidi, case famiglia o comunità familiari, fino alla casa dell'associazione Fraternità, in via Rutilia 28 a Milano, come ricorda un suo ex compagno di scuola in una dichiarazione riportata in un articolo di Milano Today del 7 febbraio 2018. Questa comunità, tuttora parte della rete cittadina e regionale delle comunità familiari, sembrerebbe abbia ospitato Jessica minorenne durante la sua gravidanza.
Poniamoci per un attimo qualche semplice domanda. Come vi è arrivata e cosa è successo lì? Quanto ha inciso questo ulteriore elemento, la decisione di portare avanti la gravidanza e di dare in adozione la figlia? Quanto una vicenda del genere ha minato un equilibrio di vita già complesso? Questa giovane donna avrebbe dovuto essere seguita attentamente e costantemente sia per darle un sostegno materiale, ma soprattutto psicologico, per offrirle una e più opportunità di riscatto, per raggiungere un’autonomia e serenità di vita. Una gravidanza non è mai una fase semplice, anche in condizioni ideali e con un contesto sereno, immaginiamoci se ci si ritrova ad affrontarla da adolescenti (sembra che la bambina oggi abbia 3 anni), quando si è una giovane donna che spera di costruirsi un'esistenza diversa rispetto a quella che aveva conosciuto sino ad allora.
Cosa ha reso impossibile a Jessica la realizzazione dei suoi sogni? Cosa è successo dentro e dopo l'uscita dalla comunità, particolare più volte citato dai media? Cosa provava? Chi la seguiva, oltre agli adempimenti burocratici e di routine, si è attivato per non lasciarla sola ad affrontare questa difficile fase, l'ennesima? E seppure dal punto di vista “formale” sembrerebbe che non ci sia state inadempienze da parte dei servizi sociali, occorre sondare ciò che non ha funzionato. Tale genere di constatazione se lo pone anche don Gino Rigoldi, che pure ha ospitato per un determinato periodo Jessica in una sua comunità e successivamente le aveva trovato alloggio presso la casa di una signora (intervista Corriere della Sera del 15 febbraio 2018), perché qualcosa è sicuramente andato storto visto che è stata costretta ad accettare l'offerta di ospitalità dell'uomo che poi la ha uccisa. Don Rigoldi afferma in una intervista su Panorama del 14 febbraio 2018: “ce la potevano fare. Perché quando gli adolescenti sono seguiti, anche i più difficili si possono salvare.” Questa ragazza già da anni era costretta a barcamenarsi tra varie forme di alloggio precario, tra cui anche il centro di emergenza sociale di via Lombroso dove era stata nel 2016, come riporta un articolo su Il Giorno del 10 febbraio 2018.
La giustizia penale farà il suo corso, comminando la giusta pena all'uomo che l'ha barbaramente uccisa con 40 coltellate. Dovrà pagare per questo orrore, per la violenza terribile con cui ha strappato la vita a una giovane donna. Ma a Jessica e a tutte le ragazze come lei dobbiamo anche altre risposte. Dobbiamo effettuare una puntuale ricostruzione dei fatti, dei passaggi di vita, della sua esperienza in comunità, del suo percorso alla ricerca di punti di riferimento, affinché altre donne non restino sole e alla mercé del caso. Non possiamo sperare che le cose si aggiustino, è necessario capire che dopo tutta la vita passata in balia dei servizi sociali e di situazioni temporanee, precarie e anaffettive, non è semplice affidarsi, trovare da sole la strada giusta, ristabilire un equilibrio, fare le scelte adeguate, accogliere le proposte di sostegno sperando che funzionino.
Proviamo ad immaginare un’adolescente in balia di sé stessa, sola, sfiduciata, impaurita di fronte alle difficoltà della vita, eppure desiderosa di viverla. Forse è giunto il momento di chiederci cosa accade a tante bambine che diventano donne in questo tipo di contesti, per tentare di cogliere empaticamente i loro bisogni ed in tal modo creare le condizioni di un rapporto di fiducia piena in chi è istituzionalmente deputato a supportarle. Pensiamo che Jessica abbia lanciato vari segnali di richiesta di aiuto, aveva anche, per esempio, segnalato ai Carabinieri i comportamenti molesti dell'uomo che l'ha poi uccisa, cosa è mancato perchè si intervenisse adeguatamente per tempo? Indagare sul “prima” potrebbe essere di aiuto a tante donne e bambine in difficoltà che rischiano di trovarsi catapultate in un futuro ancora più disgraziato.
Crediamo che dobbiamo farlo per onorare la voglia di vivere che aveva Jessica. Le cose si possono cambiare. Questo è un appello alle istituzioni, alle associazioni e a quanti sono preposti al sostegno di chi sia priva dei mezzi fondamentali per vivere dignitosamente. Riusciamo a mettere al centro la vita delle donne, tempestivamente, prima che sia troppo tardi, dando loro il giusto ascolto e supporto? Riusciamo a cambiare le prassi per dare una vita migliore alle donne in difficoltà che non devono essere lasciate sole in nessun caso? Costruiamo una rete di sostegno concreto, correggiamo ciò che non funziona bene, tuteliamo i loro diritti, accompagniamole verso percorsi di autonomia e di vita dignitosa.
L’assessore Majorino ha comunicato in un suo post su Facebook del 15 febbraio 2018 che il Comune di Milano si fa carico dei costi del funerale e conferma la volontà di costituzione di parte civile. Aggiunge altresì: “Sapendo che la storia di Jessica non ci parla solo di un terrificante carnefice e di una giovane vita spezzata ma di tanti tentativi fatti per aiutarla che sono andati a vuoto. Tentativi su cui dobbiamo interrogarci, inevitabilmente, anche noi.”
Non fermiamoci, è necessario non solo interrogarci ma invertire la rotta concretamente, per tutte le Jessica che possiamo ancora sostenere e accompagnare per mano verso un domani diverso e migliore.

Simona Sforza
Maddalena Robustelli
http://www.noidonne.org/articoli/la-vicenda-di-jessica-porti-a-migliorare-la-rete-di-sostegno-per-le-donne-in-difficolt-14615.php

sabato 10 febbraio 2018

LETTERA APERTA AL CORRIERE DELLA SERA: È COSÌ CHE SI RISPETTANO LE VITTIME? Di Francesca Druetti

Caro Corriere della Sera,
scriviamo dopo aver letto l’articolo sull’edizione di oggi dedicato all’uomo di 45 anni che ha incontrato Pamela Mastropietro lungo la provinciale che la portava lontano dalla comunità di recupero da cui si era appena allontanata.
Un uomo che ha incontrato una ragazza per strada, l’ha caricata in macchina e l’ha portata nel garage della sorella per fare sesso con lei in cambio di denaro. E che subito dopo l’ha lasciata nella stazione più vicina, con cinquanta euro che le serviranno per andare a cercare della droga.
È un tassello nella storia terribile degli ultimi giorni di Pamela, un tassello che avete scelto di raccontare dal punto di vista di colui che di Pamela si è approfittato, trovandola per strada in un momento di difficoltà e di bisogno. Che avete scelto di raccontare dal suo punto di vista e con parole che non possono essere lette senza provare disagio e rabbia. Sì, anche rabbia, perché il modo in cui vengono raccontate le violenze sulle donne da parte dei giornali è parte del problema. Ogni volta che una donna viene uccisa e i giornali raccontano “che è stata uccisa per troppo amore”, ogni volta che un omicidio è definito “dramma della gelosia”, ogni volta che sono i carnefici a stare al centro del racconto dei fatti di sangue, e vengono dipinti in una luce romantica o in modo da suscitare pietà (non quella umana che può anche spettare ai colpevoli, ma quella che va a discapito delle vittime, sminuendo e giustificando la violenza che hanno subito) si aggiunge violenza a quella già inflitta.
Nell’articolo si legge, tra le altre cose: “E adesso chissà che peso grande ha sul cuore, questo 45enne con la tuta rossa da meccanico e i sandali da francescano”. Indipendentemente dal colore dei suoi abiti, è così che vogliamo parlare di un uomo che ha fatto sesso con una ragazza in cambio dei cinquanta euro che le servivano per comprarsi una dose di eroina, forse quella mortale? Per poi lasciarla senza cellulare, documenti, senza altro denaro, senza avvertire nessuno, alla prima stazione? Davvero pensiamo che la frase “Ora non resta che il dolore e nessun piacere”, riferita a quest’uomo e al suo supposto rimorso – per averla usata? per averla incontrata? per l’inconveniente che poi lei sia andata incontro al suo destino ancora più tragico, altrimenti sarebbe stato tutto a posto con la sua coscienza? – sia rispettosa della tragedia di Pamela? Che sia questo il modo giusto di raccontare questa storia? Questa parte della storia, soprattutto paragonandola al modo in cui viene raccontato il resto di questo dramma, in cui la vittima è sempre Pamela, ma i carnefici sono altri, meno “francescani”, che non rispondono alla descrizione di quest’uomo “magro, alto, affilato, la barba hipster, la pelle bianca”.
È una storia squallida, che ci parla di disperazione e di chi se ne approfitta. Che ci parla, questa davvero, di sicurezza delle strade, lungo le quali le donne, le ragazze, non possono camminare senza essere preda di qualcuno – soprattutto se sono vulnerabili, per qualsiasi motivo. Se sono in difficoltà, se sono ricattabili, se sono disperate, se sono isolate. Ma non solo, ovviamente. È solo, se possibile, ancora più odioso quando questo accade a una persona in difficoltà, a una persona che dovrebbe toccare le corde dell’umanità di tutti. E che invece, come nel caso di Pamela, è davvero una vittima solo quando serve a uno scopo. Quando c’è chi ha interesse a usare la violenza fatta alle vittime per la propria propaganda oscena e altrettanto violenta. E quando non serve, delle vittime si interessano in pochi, quelli “ossessionati dal femminicidio”, quelli che a ogni donna molestata, stuprata, picchiata, uccisa, umiliata, denunciano, sentendosi spesso e volentieri rispondere che “quella se l’è cercata”, “era ubriaca”, “era tossicodipendente”, “era una che ci stava”, “poteva dire di no, poteva andarsene”.
Si può stare con Pamela, e con le vittime dell’attentato nazifascista di Macerata.
Si può stare con Pamela, e con tutte le altre vittime della violenza di genere. Anzi, il miglior modo di stare con Pamela è quello di interessarsi e mobilitarsi e pretendere sicurezza per tutte le vittime di violenza. Indipendentemente da chi siano le vittime (donne, soprattutto, ma non solo, e in qualunque modo fossero vestite o in qualunque modo conducessero la propria vita, e qualunque mestiere facciano, attrici, studentesse, casalinghe, impiegate, operaie, sex workers) e indipendentemente da chi siano i carnefici.
Che cosa c’è di più irrispettoso e reiteratamente violento che fare una gerarchia delle vittime? Che cosa c’è di più ipocrita e pericoloso che non tuonare di “difesa delle nostre donne”, salvo poi sventolare bambole gonfiabili su un palco, o aizzare la rete che auspica lo stupro e la violenza, fino a che quella violenza non irrompe nelle strade?
https://www.possibile.com/lettera-aperta-al-corriere-della-sera-cosi-si-rispettano-le-vittime/

venerdì 9 febbraio 2018

115mila neomamme hanno lasciato il lavoro perché nessuna legge le aiuta Giuliano Balestreri

C’è un esercito silenzioso di 115mila neomamme che tra il 2011 e il 2016 sono state costrette a uscire dal mercato del lavoro. Una su due ha meno 35 anni, ma la loro è una scelta obbligata dall’impossibilità di far conciliare la propria vita professionale con la cura di un figlio. Per la gran parte sentirsi costrette a scegliere tra l’amore di un figlio e la passione per il lavoro è un’umiliazione che rischia di sfociare in depressione. Per tutte è una necessità: la gimkana tra asili nido – quando ci sono -, poppate, babysitter e scrivania (o turno in fabbrica) è impossibile anche per la migliore delle equilibriste.
I numeri dell’Ispettorato nazionale del Lavoro mostrano una tendenza drammatica: dal 2011, le mamme che si sono dimesse sono aumentate del 55%. Nell’ultimo anno del governo Berlusconi avevano lasciato il lavoro 17.681 neomamme; nell’ultimo anno di Renzi sono state 27.443. Un trend terrificante che mette a nudo la totale inefficacia delle politiche per la famiglia adottate negli ultimi anni.
Peggio: la crisi ha fatto esplodere il precariato e il Jobs Act non è riuscito a far crescere i dipendenti a tempo indeterminato. Anche per questo molte giovani donne hanno contratti atipici o a tutele crescenti e di fatto si trovano indifese davanti al datore di lavoro. Al di là del periodo di maternità e del congedo parentale facoltativo, il legislatore non si è occupato di come accompagnare le neomamme: si è preferito lasciare spazio alla contrattazione di secondo livello. Con il risultato di lasciare tutto – o quasi – al rapporto dialettico tra la donna e il datore di lavoro. Certo, esistono casi di aziende illuminate che fanno leve su politiche famigliari attive; esistono asili aziendali e contratti flessibili; ma la verità è che a livello centrale è stato fatto poco o nulla migliorare la conciliazione vita-famiglia di una donna.
“Pur in un sistema tutelante come il nostro, l’evoluzione delle modalità di lavoro, rende sempre più complessa la gestione famigliare per una mamma” spiega Carlo Majer, managing partner insieme a Edgardo Ratti di Littler, che poi aggiunge: “Non per niente, le aziende più evolute introducono sempre più spesso, anche nell’ambito del welfare aziendale, benefit volti a facilitare la coesistenza dei ruoli di mamma e lavoratrice. Purtroppo, il numero delle aziende che investe risorse in questa direzione è ancora molto limitato e spesso appartiene alla media grande impresa che, come sappiamo, non costituisce il tessuto produttivo italiano”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Giorgia D’Errico, coordinatrice dell’Associazione Lavoro&Welfare: “Abbiamo bisogno di un sistema che accompagni le donne e anche i datori di lavoro lungo un nuovo percorso. Bisogna avere il coraggio di rimettere in discussione gli orari di lavoro. Fino ad oggi la politica si è basata su bonus, da quello per le neomamme a quello per l’asilo, ma mancano le strutture per accompagnare davvero le donne. Penso, per esempio, alle turniste che lavorano nel fine settimana”.
Senza una rete di protezione famigliare, con asili e strutture con orari da ufficio, le donne sono costrette a scegliere tra l’accudimento del figlio e l’impiego. Negli anni le politiche lavorative sono cambiate; le donne che lavorano a tempo pieno sono la regola e non più l’eccezione. Lo stesso concetto di maternità e paternità è cambiato, ma per leggi è tutto rimasto uguale. Certo, a penalizzare le donne è spesso il ruolo passivo dei padri per i quali il congedo obbligatorio è ridotti ai minimi termini (4 giorni nel 2018).
La miopia della politica crea danni enormi all’intera economia: secondo il Fondo monetario internazionale l’Italia perde il 15% del proprio Pil (240 miliardi) proprio perché non riesce a incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro attraverso norme che garantiscano l’effettiva uguaglianza tra i sessi. Uno dei punti critici analizzati dal Fmi riguarda proprio i congedi di maternità che se da un lato contribuiscono a una maggiore partecipazione femminile, dall’altro producono effetti non del tutto lineari. “Mentre politiche per le famiglie correttamente progettate possono favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro – si legge in uno studio Adapt –, lunghi periodi di congedo rischiano di ridurre competenze e guadagni”. In sostanza secondo l’associazione fondata da Marco Biagi un congedo parentale utilizzato quasi esclusivamente dalle donne rischia di essere in contrasto con il suo obiettivo primario favorendo fenomeni di discriminazione nei confronti delle donne che si occupano della famiglia.
Tradotto: servono politiche attive sul lavoro, dal part time allo smart working. “Il ruolo di madre – prosegue D’Errico – è stato messo in contrasto con quello di donna emancipata, ma si è creato un danno per tutta la società. Dal punto di vista politico è mancata un’analisi profonda della questione” e le nuove norme che di fatto permettono i demansionamenti hanno fatto il resto.
https://it.businessinsider.com/lesercito-silenzioso-delle-115mila-mamme-che-non-possono-lavorare-nellindifferenza-del-governo/

giovedì 8 febbraio 2018

Archiviata una denuncia su 4: le violenze sulle donne che restano impunite

I risultati della Commissione d’inchiesta sul femminicidio sono sconfortanti: caos nei tribunali e abusi derubricati a conflitti familiari

Le denunce delle donne non mancano ma un quarto di queste viene archiviato. Ex compagni violenti e stalker vengono spesso condannati sì ma ci sono tribunali (come quello di Caltanissetta) dove le assoluzioni sfiorano il 44% dei processi. E poi: troppe violenze di genere sono ancora classificate dalle forze dell’ordine come conflitti familiari. Per non parlare dei sistemi di rilevazioni di dati ormai obsoleti e che si contraddicono fra procure e uffici diversi.

Gli uffici giudiziari non comunicano fra loro
Come scrive La Repubblica citando i dati della “Commissione d’inchiesta sul femminicidio” che oggi verrà votata al Senato, i tribunali civili, penali e dei minori non comunicano fra di loro neanche quando trattano lo stesso caso: soltanto il 36% degli uffici giudiziari lavora in rete contro la violenza ma il resto non ha sottoscritto il protocollo e si muove per conto proprio. Così può succedere, ad esempio, che un bambino venga dato in affido congiunto anche se il padre è stato allontanato dalla famiglia per passate violenze.

La ricerca
La commissione istituita nel 2017 e presieduta dalla senatrice del Pd, Francesca Puglisi, è la prima indagine sul fenomeno da quando, nel 2013, vennero inasprite le pene per la violenza di genere. Il suo scopo è illuminare i motivi per i quali le donne continuano ad essere così spesso vittime. La ricerca si è basata anche su un questionario distribuito a tutte le procure italiane che ha rilevato dati sconfortanti: dalle sanzioni troppo blande per le molestie sessuali sul lavoro (comportamento che oggi si può cancellare con un’ammenda di 250 euro), alle nuove regole su chi viola l’ordine di allontanamento.

Dati incompleti
I dati evidenziano quindi un’aperta violazione della convenzione di Istanbul che attribuisce un’importanza fondamentale alla raccolta di dati statistici sui fenomeni che intende combattere come quello della violenza di genere.  Invece in Italia procure e tribunali usano sistemi informatici obsoleti coi quali è difficilissimo estrarre dati e incrociare le informazioni contenute. Detto questo, dei fenomeni violenza di genere e femminicidio è evidente non si possa avere una visione compiuta e un’esatta misura.

Le statistiche
Ad ogni modo dalle scarse statistiche estratte risulta che le indagini vengono in genere concluse in un anno e, nell’89% dei casi si arriva a sentenza definitiva in tre. I tempi possono però aumentare anche di parecchio se la vittima non è adeguatamente protetta. Inoltre un quarto delle denunce vengono archiviate e le assoluzioni per i violenti variano enormemente da regione a regione: dal 12% di Trento, ad esempio, al 43.8 di Caltanissetta.

Le novità
La commissione ha poi rilevato alcune falle nella normativa come il limite troppo esiguo di 6 mesi per la denuncia di una molestia. Viene poi auspicato il varo, al più presto, di due leggi ad hoc: una sul femminicidio (l’attuale legge parla di volenza di genere) e un’altra sull’omicidio di identità per le vittime di attacchi col fuoco o con l’acido che mirano a cancellare il volto e quindi l’identità di chi è colpito.
http://www.milleunadonna.it/attualita/articoli/Commissione-inchiesta-femminicidio/

martedì 6 febbraio 2018

Studentesse coprono manifesto pubblicitario sessista «Contribuisce a normalizzare la violenza sulle donne»

Hanno agito alle prime luci del mattino. Solo pochi mesi fa a innescare la stessa reazione erano stati i cartelloni di un compro oro che aveva abbinato l'immagine di un seno prosperoso allo slogan per rilanciare l'attività. La polemica si accende adesso per una donna seminuda e ammiccante che si strofina addosso un olio per motori

«È un'azione dimostrativa contro l'uso, a scopo pubblicitario, del corpo femminile. Una pratica, questa, che rappresenta in sé violenza contro le donne e che contribuisce a normalizzarla». È questo il motivo che ha spinto, questa mattina presto, alcune studentesse dell'Assemblea contro la violenza maschile sulle donne a oscurare con scritte di protesta un grande cartellone pubblicitario della Challoils. L'immagine, ritenuta sessista, mostra, allo scopo di pubblicizzare un olio per motori, una donna seminuda e con fare ammiccante intenta a strofinarsi sul corpo una bottiglietta del prodotto.

«La violenza sulle donne è il diretto prodotto di una società che per anni e ancora oggi, in nome di logiche di marketing e profitto, costruisce immaginari sessisti e schiavizzanti, che fanno del corpo delle donne mero oggetto di consumo - spiegano -. L’utilizzo di un seno o di un viso di donna per convincere l’acquirente è solo uno degli innumerevoli modi in cui il mondo del marketing abusa dell’immagine del corpo femminile per destare maggiore interesse nella propria offerta. È un fenomeno diffuso che tocca a noi in primis bloccare». Solo pochi mesi fa, c'era stato un altro episodio che aveva destato non poche polemiche, guadagnando ampio spazio nelle pagine della cronaca cittadina.

In quell'occasione, a fare parlare erano stati i cartelloni di un noto negozio di compro oro che, per rilanciare la propria catena di negozi, aveva optato per lo slogan «Valutazioni importanti» in accompagnamento a una donna dal seno prosperoso. Anche in quel caso, alcune studentesse erano intervenute armate di vernice. Un'azione, la loro, che si inserisce all'interno di un percorso di lotta e di sensibilizzazione sul tema che dura da anni all'interno di scuole e università palermitane, attraverso azioni di protesta come quella di stamattina, ma anche incontri e dibattiti. Il prossimo, ad esempio, è previsto per domani alle 16:30 all'ex facoltà di Lettere e filosofia.

http://palermo.meridionews.it/articolo/62558/studentesse-coprono-manifesto-pubblicitario-sessista-contribuisce-a-normalizzare-la-violenza-sulle-donne/

lunedì 5 febbraio 2018

Molestie, lettera aperta di 100 giornaliste italiane: “E’ ora di cambiare. Noi ci siamo”

Pubblichiamo il documento di sostegno all’appello #DissensoComune
Molte giornaliste italiane delle testate televisive, web e carta stampata hanno firmato una lettera per sostenere l’appello-manifesto lanciato nei giorni scorsi con #DissensoComune dalle donne del Cinema e dello Spettacolo che, a partire dalle denunce di molestie sessuali fatte da alcune di loro, affermano la necessità di un cambiamento del sistema culturale strutturato secondo il modello maschile in ogni settore della società. «È ora di cambiare. Noi ci siamo» scrivono, chiedendo «a direttori e ai colleghi di sostenere questa battaglia di civiltà». 
Le firme continuano a essere raccolte sulla mail: giornaliste@gmail.com

Con il documento “Dissenso comune” oltre cento attrici, registe, produttrici e donne dello spettacolo italiano hanno lanciato una chiamata pubblica a tutte le donne professioniste, impiegate, studentesse. Un primo, importante passo per dire basta a un sistema culturale che discrimina, penalizza e offende le donne, un sistema in cui le molestie sessuali sono la brutale punta di un iceberg fatto di consuetudini, pratiche di comportamento che va dalle discriminazioni salariali e di carriera in tutti i settori professionali alle relazioni umane sempre condizionate da logiche di potere maschile. 
Noi giornaliste italiane vogliamo stare accanto a tutte le donne in questa battaglia. Proprio attraverso il nostro lavoro di informazione e di inchiesta noi vogliamo aprire brecce in questo sistema, indagare e portare allo scoperto i casi di soprusi e abusi sessuali, esattamente come in Usa le giornaliste e i giornalisti delle principali testate sono stati protagonisti nella battaglia contro le molestie, rendendo pubbliche e incontrovertibili le denunce fatte delle attrici. 
Perchè se è vero che il problema non è il singolo molestatore, è anche vero che rendere pubblico chi perpetua comportamenti che non rispettano la donna scoperchia le malefatte di questo sistema. 
Noi giornaliste siamo parte del cambiamento culturale che le donne italiane reclamano. Lo abbiamo avviato nei media e nelle redazioni dove siamo già in prima linea da anni. 
Il nostro lavoro, il nostro impegno per una informazione più degna del rispetto verso la donna e di denuncia contro le discriminazioni che si perpetuano nel modello sociale maschile è uno strumento essenziale per la trasformazione culturale. 
Chiediamo ai direttori dei giornali e ai colleghi giornalisti di essere con noi, di sostenere questa battaglia di civiltà. 
Noi giornaliste subiamo le stesse disparità di trattamento delle donne di altri settori professionali, incontriamo le stesse fatiche negli avanzamenti di carriera e nelle affermazioni individuali, e in più con il lavoro di comunicazione e informazione dobbiamo fare i conti con le difficoltà a testimoniare e raccontare il coraggio e il cammino delle donne in un contesto culturale univocamente impostato sul modello maschile. 
Ci battiamo da tempo con un lavoro quotidiano di informazione contro la macchina della rimozione e del silenzio per una società più equa, giusta e solidale. 
Siamo in campo. E’ ora di cambiare
seguono le firme al link 
http://www.lastampa.it/2018/02/04/societa/molestie-lettera-aperta-di-giornaliste-italiane-e-ora-di-cambiare-noi-ci-siamo-OXXlXtmHj8GCsZxxnlLIEK/pagina.html





venerdì 2 febbraio 2018

Le donne del cinema italiano contro le molestie: "Contestiamo l'intero sistema"

Oltre 120 attrici, registe, produttrici, donne che lavorano nella comunicazione dello spettacolo, hanno sottoscritto una lettera che muove dal caso Weinstein. Un testo che non vuole puntare il dito contro un singolo 'molestatore' ma l'intero sistema di potere
Si chiama Dissenso comune ed è una lettera manifesto firmata da 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo. Due mesi di incontri e confronti tra un gruppo sempre più largo di donne, per intervenire con la forza di un collettivo e non lasciare che le testimonianze dei mesi scorsi restassero solo voci isolate. Il primo passo verso una serie di iniziative per cambiare il sistema, non solo nel mondo dello spettacolo: “Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini”.

DISSENSO COMUNE
Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un  nuovo equilibrio tra donne e uomini.

Da qualche mese a questa parte, a partire dal caso Weinstein, in molti paesi le attrici, le operatrici dello spettacolo hanno preso parola e hanno iniziato a rivelare una verità così ordinaria da essere agghiacciante. Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse. Noi vi sosteniamo e sosterremo in futuro voi e quante sceglieranno di raccontare la loro esperienza. Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio. Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo regista, produttore, magistrato, medico, un singolo uomo di potere insomma. Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare. Il buon senso comune inizia a interrogarsi sul libero e sano gioco della seduzione e sui chiari meriti artistici, professionali o commerciali del molestatore che alla lunga verrà reinserito nel sistema. Così facendo questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci e farci pensare due volte prima di aprire bocca, specialmente se certe cose sono accadute in passato e quindi non valgono più.  
Insomma, che non si perda altro tempo a domandarci della veridicità delle parole delle molestate: mettiamole subito in galera, se non in galera al confino, se non al confino in convento, se non in convento almeno teniamole chiuse in casa. Questo e solo questo le farà smettere di parlare! Ma parlare è svelare come la molestia sessuale sia riprodotta da un’istituzione. Come questa diventi cultura, buonsenso, un insieme di pratiche che noi dovremmo accettare perché questo è il modo in cui le cose sono sempre state, e sempre saranno.
La scelta davanti alla quale ogni donna è posta sul luogo di lavoro è: “Abituati o esci dal sistema”.
Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralista. La molestia sessuale non ha niente a che fare con il “gioco della seduzione”. Noi conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza.
Perché il cinema? Perché le attrici? Per due ragioni. La prima è che il corpo dell’attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire. Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non.
La seconda ragione per cui questo atto di accusa parte dalle attrici è perché loro hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza. Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza.
La molestia sessuale è fenomeno trasversale. È sistema appunto.  È parte di un assetto sotto gli occhi di tutti, quello che contempla l’assoluta maggioranza maschile nei luoghi di potere, la differenza di compenso a parità di incarico, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi. La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poiché sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all’operaia, all’immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte.
Nominare la molestia sessuale come un sistema, e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura.
Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo.
Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema.
Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura.
 
1.    Alessandra Acciai
2.    Elisa Amoruso
3.    Francesca Andreoli
4.    Michela Andreozzi
5.    Ambra Angiolini
6.    Alessia Barela
7.    Chiara Barzini
8.    Valentina Bellè
9.    Sonia Bergamasco
10.    Ilaria Bernardini
11.    Giulia Bevilacqua
12.    Nicoletta Billi
13.    Laura Bispuri
14.    Barbora Bobulova
15.    Anna Bonaiuto
16.    Donatella Botti
17.    Laura Buffoni
18.    Giulia Calenda
19.    Francesca Calvelli
20.    Maria Pia Calzone
21.    Antonella Cannarozzi
22.    Cristiana Capotondi
23.    Anita Caprioli
24.    Valentina Carnelutti
25.    Sara Casani
26.    Manuela Cavallari
27.    Michela Cescon
28.    Carlotta Cerquetti
29.    Valentina Cervi
30.    Cristina Comencini
31.    Francesca Comencini
32.    Paola Cortellesi
33.    Geppi Cucciari
34.    Francesca D’Aloja
35.    Caterina D’Amico
36.    Piera De Tassis
37.    Cecilia Dazzi
38.    Matilda De angelis
39.    Orsetta De Rossi
40.    Cristina Donadio
41.    Marta Donzelli
42.    Ginevra Elkann
43.    Esther Elisha
44.    Nicoletta Ercole
45.    Tea Falco
46.    Giorgia Farina
47.    Sarah Felberbaum
48.    Isabella Ferrari
49.    Anna Ferzetti
50.    Francesca Figus
51.    Camilla Filippi
52.    Liliana Fiorelli
53.    Anna Foglietta
54.    Iaia Forte
55.    Ilaria Fraioli
56.    Elisa Fuksas
57.    Valeria Golino
58.    Lucrezia Guidone
59.    Sabrina Impacciatore
60.    Lorenza Indovina
61.    Wilma Labate
62.    Rosabell Laurenti
63.    Antonella Lattanzi
64.    Doriana Leondeff
65.    Miriam Leone
66.    Carolina Levi
67.    Francesca Lo Schiavo
68.    Valentina Lodovini
69.    Ivana Lotito
70.    Federica Lucisano
71.    Gloria Malatesta
72.    Francesca Manieri
73.    Francesca Marciano
74.    Alina Marazzi
75.    Cristiana Massaro
76.    Lucia Mascino
77.    Giovanna Mezzogiorno
78.    Paola Minaccioni
79.    Laura Muccino
80.    Laura Muscardin
81.    Olivia Musini
82.    Carlotta Natoli
83.    Anna Negri
84.    Camilla Nesbitt
85.    Susanna Nicchiarelli
86.    Laura Paolucci
87.    Valeria Parrella
88.    Camilla Paternò
89.    Valentina Pedicini
90.    Gabriella Pescucci
91.    Vanessa Picciarelli
92.    Federica Pontremoli
93.    Benedetta Porcaroli
94.    Daniela Piperno
95.    Vittoria Puccini
96.    Ondina Quadri
97.    Costanza Quatriglio
98.    Isabella Ragonese
99.    Monica Rametta
100.    Paola Randi
101.    Maddalena Ravagli
102.    Rita Rognoni
103.    Alba Rohrwacher
104.    Alice Rohrwacher
105.    Federica Rosellini
106.    Fabrizia Sacchi
107.    Maya Sansa
108.    Valia Santella
109.    Lunetta Savino
110.    Greta Scarano
111.    Daphne Scoccia
112.    Kasia Smutniak
113.    Valeria Solarino
114.    Serena Sostegni
115.    Daniela Staffa
116.    Giulia Steigerwalt
117.    Fiorenza Tessari
118.    Sole Tognazzi
119.    Chiara Tomarelli
120.    Roberta Torre
121.    Tiziana Triana
122.    Jasmine Trinca
123.    Adele Tulli
124.    Alessandra Vanzi