giovedì 31 marzo 2016

Dopo il caso delle minigonne vietate negli uffici di un quartiere di Amsterdam, c’è da chiedersi se in nome del rispetto di altre culture come quella islamica si possa imporre limiti a conquiste costate anni di battaglie di Michela Marzano

Pare che George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, avesse detto che gli «scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande cura e gentilezza». E che quindi, in nome della tolleranza, si sarebbe dovuta «accomodare» persino la legge. Ma fino a che punto si possono «accomodare» alcuni diritti? È giusto arretrare anche solo sulle proprie abitudini? È ammissibile, per le donne, rinunciare a quelle libertà conquistate da poco e con tanta fatica, come è accaduto recentemente ad Amsterdam dove sono stati vietati minigonne e stivali sexy negli uffici comunali per non urtare la sensibilità di una clientela multietnica? Si può, per dirla in altri termini, tollerare l’intolleranza altrui senza rischiare di cancellare la possibilità stessa della tolleranza?
La tolleranza, come ci insegnano Locke o Voltaire, non è solo quella virtù che porta a rispettare l’altro e le sue differenze. È anche e soprattutto ciò che permette di organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose diverse, spingendoci a sopportare anche ciò che si disapprova. In che senso? Nel senso che quegli «scrupoli di coscienza» di cui parlava Washington non dovrebbero impedire alle donne di vestirsi come vogliono o agli umoristi di ironizzare o far ridere su qualunque cosa. Esattamente come non dovrebbero impedire, a chi lo desidera, di augurare ad amici e a parenti «Buon Natale» o «Buona Pasqua», solo perché il Natale o la Pasqua sono festività cristiane. Ecco perché in ogni democrazia liberale e pluralista, pur non sopportando il fatto che una donna si veli, si dovrebbe essere capaci di accettarlo; esattamente come si dovrebbe accettare il fatto che alcune donne mettano la minigonna o vadano in giro con abiti sexy, anche quando la cosa infastidisce. A meno di non voler distruggere proprio la tolleranza, visto che «tolleranza» e «intolleranza» non fanno altro che elidersi reciprocamente. Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde con lo svuotare di senso il concetto stesso di tolleranza.
E' questo che vogliamo? Siamo sicuri che è il modo migliore per promuovere l’integrazione nei nostri Paesi? Non rischiamo così di aumentare la conflittualità e, nel nome della convivenza, di rinunciare a valori e ideali per i quali si sono battute generazioni intere di uomini e di donne?
L’integrazione non è mai facile. Non lo è per nessuno. Non lo è stato per gli Italiani, i Polacchi, gli Spagnoli e i Portoghesi che sono emigrati il secolo scorso. Lo è ancora meno per chi viene da una cultura o da una religione completamente diversa come l’Islam. In ogni caso, si è confrontati all’alterità. E l’alterità, per definizione, è difficilmente assimilabile. Anche perché l’altro, in quanto tale, è il contrario dell’identico, e quindi di tutto ciò che si conosce e che si è intuitivamente disposti ad accettare. Ci si può integrare, come spiega il filosofo Alasdair MacIntyre, solo a partire dalle proprie molteplici «appartenenze» (famiglia, quartiere, tradizioni, chiese…). «E la particolarità», scrive MacIntyre, «non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata rifugiandosi in un mondo di massime universali». Al tempo stesso, però, ci sono diritti, o anche solo abitudini, su cui sarebbe un grave errore arretrare vuoi per paura, vuoi per rispetto. Soprattutto quando si pensa a quei territori di libertà femminili che si sono conquistate pian piano, con sofferenze e sacrifici. Perché poi è sempre così che finisce: sono le donne — ma anche le persone omosessuali e transessuali — che rischiano di pagare sulla propria pelle il prezzo di quest’accomodarsi per paura di ferire la sensibilità altrui. Come si può anche solo pensare di vietare le minigonne o di coprire delle statue nude — come è accaduto in Italia in occasione della visita del presidente dell’Iran — solo perché il nudo potrebbe imbarazzare chi non si imbarazza affatto quando, a casa sua, si tratta di imporre i propri usi e costumi? Come si può anche solo immaginare di tollerare l’intolleranza di chi è convinto che un uomo non debba nemmeno sognarsi di stringere la mano di una donna?
Esplora il significato del termine: Oswald Spengler, ne Il Tramonto dell’Occidente, spiegava che il mondo si fa, si disfa e si rifà, indipendentemente da quello che possiamo fare o volere. Con queste parole, il filosofo tedesco anticipava profeticamente la fine della «Modernità». Al tempo stesso, però, affermava qualcosa di profondamente erroneo. Almeno per chi parte dal presupposto che, nonostante ci sia sempre qualcosa che sfugga al controllo, gli esseri umani sono comunque responsabili del proprio destino. E crede quindi che ci si debba sempre battere per salvaguardare i propri diritti ed evitare di arretrare. Tanto più che, oggi, sono numerosi coloro che vorrebbero cancellare anni di storia e di battaglie femminili.
Gli integralismi, quando si tratta delle donne, si assomigliano tutti. E con la scusa di difendere valori come la famiglia, l’onore, il pudore o la castità, vogliono di fatto tornare a quell’epoca in cui le donne, docili e silenziose per natura, dovevano accontentarsi di restare a casa, lasciando agli uomini gli oneri e gli onori della vita pubblica. Il diavolo si nasconde spesso nei dettagli: una minigonna vietata o un velo imposto, un «vergognati» o un «resta al posto tuo», un «era meglio prima» o un «questo è puro e questo è impuro». Tanti dettagli che, col tempo, rischiano però di diventare pericolosi. Soprattutto quando, nel nome della tolleranza e del rispetto, di fatto si impongono solo intolleranza e umiliazione. Ma come si può, nel nome della tolleranza, tollerare appunto l’intolleranza?
http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_31/tolleranza-non-ridurre-liberta-donne-fb276ad4-f697-11e5-b728-3bdfea23c73f.shtml


mercoledì 30 marzo 2016

"Basta con gli insulti alle donne in politica"i

La condanna dell'Intergruppo per le pari opportunità, che fa un riferimento chiaro alle offese a Meloni, Bedori, Boldrini
 Il dibattito politico, negli ultimi giorni, sta toccando nuovi e preoccupanti livelli. Le donne di tutti gli schieramenti sono tornate protagoniste. Non però per quanto fanno o per i risultati che ottengono, quanto per gli attacchi di cui sono oggetto:  le avvilenti considerazioni sulle mamme-sindache; gli insulti volgari riferiti all’aspetto fisico; le vignette sessiste della campagna referendaria che invita a “trivellare” la sorella, per finire con l’invito alla terza carica dello Stato a “farsi curare, internare, mettere su un barcone in senso contrario”.
Dietro a tutto questo c’è quasi sempre la solita, vecchia idea: quella che la politica, specie nei ruoli decisionali,  non sia per le donne.
Come deputate del comitato direttivo dell’intergruppo parlamentare per le donne, i diritti e le pari opportunità  esprimiamo la nostra preoccupazione e la nostra ferma condanna per quanto sta accadendo e per l'inaccettabile escalation di toni che il discorso pubblico sta assumendo.
Vogliamo, per questo, esprimere la nostra solidarietà alle colleghe per le parole che sono state loro rivolte e a tutte le donne che nella società e nei diversi livelli istituzionali - dai Comuni, alle Regioni, ai Parlamenti – sono state e spesso sono ancora oggetto di offese.
Chiediamo a tutte le forze politiche e ai loro leader di attuare subito una moratoria di simili insulti e di tutti i linguaggi non appropriati e a sfondo sessista.
Non è infatti solo una questione di forma. Attacchi di questo genere diventano sostanza in un Paese in cui secondo l’Istat un terzo delle donne nel corso della vita subisce violenza, verbale o fisica. Finiscono infatti, inevitabilmente, per alimentare e dare legittimazione allo svilimento e alla discriminazione delle donne nella società, nel mondo del lavoro, nelle istituzione, nella vita politica e nei media.
In questi anni si sono compiuti molti sforzi e molti altri se ne devono ancora fare affinché, anche in Italia, si possa raggiungere una parità tra donne e uomini. Una parità intesa come possibilità di incidere e cambiare la società e come possibilità di mettere il proprio talento e la propria intelligenza liberamente al servizio dello sviluppo economico, sociale e politico delle nostre città e del nostro Paese.
Chi ricopre ruoli pubblici ha il dovere di porre fine a questi comportamenti e di schierarsi apertamente contro una tale deriva.
 Le deputate del Comitato direttivo dell’Intergruppo per le donne, i diritti e le pari opportunità

Dorina Bianchi, Elena Centemero,Tiziana Ciprini, Adriana Galgano, Chiara Gribaudo,Pia Locatelli, Lorena Milanato, Margherita Miotto, Marisa Nicchi, Caterina Pes, Anna Rossomando,  Marina Sereni, Valeria Valente.
http://www.repubblica.it/politica/2016/03/18/news/_basta_con_gli_insulti_per_le_donne_in_politica_-135798110/

martedì 29 marzo 2016

CHI ERA VIRGINIA WOOLF? di Ali Smith

Ieri era l’anniversario della morte di Virginia Woolf. Ci eravamo dimenticati di omaggiarla. La ricordiamo oggi con la prefazione di Ali Smith a Virginia Woolf. Diario di una scrittrice di Ali Smith
Chi era Virginia Woolf? Aveva qualcosa in comune col ritratto che viene fuori dal film The Hours? Era cioè una scrittrice nevrotica con il nasone e gli occhi sempre bassi, talmente timida da non riuscire a rivolgere la parola nemmeno ai domestici, e talmente malata che se rimaneva da sola per un po’ di tempo finiva per compiere gesti folli o autolesionisti? O era l’esatto opposto, come suggerisce una delle sue biografie più recenti, scritta da Hermione Lee: e cioè una donna vivace e intelligente, con un umorismo caustico e sfrenato, dalla risata squillante e sonora, che amava scorrazzare su una vecchia moto nel parco della villa dove vivevano sua sorella e i suoi amici bohémien e che una volta si mise dei baffoni finti e un turbante in testa, salì su una nave e per un’intera serata riuscì a far credere a tutte le autorità civili e militari a bordo di essere un principe abissino?
Se si confrontano diversi episodi della sua vita si scopre che Virginia Woolf aveva una personalità governata da impulsi spesso diametralmente opposti. A noi adesso sembra impossibile che negli anni Cinquanta, a meno di quindici anni dalla sua morte, sia stata praticamente cancellata dalla storia della letteratura inglese da critici del calibro di Walter Allen, che la definì con miope sessismo «una scrittrice molto limitata». E aggiungeva: «A mio avviso, la sua scrittura è viziata da una affettazione di fondo […] e i momenti di rivelazione e illuminazione in realtà sembrano illuminare ben poco se non ansiti e sospiri di estasi muliebre […] Nel futuro sarà senz’altro considerata una scrittrice minore». Se oggi è considerata non solo fra i grandi del ventesimo secolo, ma anche tra gli scrittori più innovativi e originali della letteratura in lingua inglese, è soprattutto merito della critica femminista che, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, l’ha riportata alla luce.
Ma chi era realmente Virginia Woolf e perché in lei c’erano tutti questi impulsi contrastanti? In fondo, ha senso chiedersi chi è realmente una persona? È possibile trovare in un diario una risposta a questa domanda, una risposta sincera?
Il Diario di una scrittrice è la prima versione pubblicata dei molti diari della Woolf. Dopo la morte della moglie, lo stesso Leonard curò l’edizione del volume concentrandosi soprattutto sulla figura della Woolf scrittrice. Leonard ebbe sempre un atteggiamento teneramente protettivo nei confronti di Virginia, anche dopo morta, e infatti decise di eliminare tutte le osservazioni più caustiche e ironiche. Ciononostante il libro rivela al lettore una miniera di particolari sulla Woolf, anche come persona. In realtà questo volume si potrebbe considerare uno dei primi veri studi sulla figura dell’artista impegnato, anticipando quella che alla fine del Novecento sarebbe poi diventata un’ossessione: è un’esplorazione dell’artista alle prese con la celebrità e la sua stessa personalità, una riflessione sull’incontro del mondo esterno con quello interiore e sul fatto che l’arte, cosa di cui la Woolf era profondamente convinta, implichi sempre la soppressione o l’annullamento della personalità.
Il libro copre la sua vita dai trentasei ai cinquantanove anni, cioè gli anni della fama, gli anni in cui lei e suo marito Leonard gestivano la Hogarth Press, una casa editrice di successo che pubblicò scrittori importanti quali Katherine Mansfield, T.S. Eliot e la stessa Woolf, diventando così uno dei punti cardine del modernismo. Questo libro è in pratica la trascrizione della vita stessa, in tutto il suo splendore e in tutti i suoi sentimenti a volte diametralmente opposti, racchiusi in una persona sola.
Ora la Woolf dice di essersi sporcata la bocca d’inchiostro perché stava mordicchiando distrattamente la penna e un momento dopo descrive «lo splendore di questa impresa – la vita: la capacità di morire: un’immensità mi circonda». Ora è superba, tutta esaltata e felice di essere apprezzata dagli altri, e un attimo dopo è talmente insicura di sé che visualizza il manoscritto del suo ultimo romanzo come il corpo di un gatto morto e l’unica cosa che vorrebbe fare è bruciarlo. Ora si sente troppo male e non riesce a fare nulla: «Questo è un giorno in cui non posso camminare e non devo lavorare». E un attimo dopo la vediamo che passeggia, o meglio che immagina di farlo. «Cosa non darei adesso per venire fuori dal bosco di Firle, sporca e accaldata, col naso puntato verso casa, con tutti i muscoli indolenziti e il cervello impregnato di lavanda, lucida e fresca e pronta ad affrontare il compito del giorno dopo. Niente mi sfuggirebbe – mi verrebbe subito la frase giusta, quella che calza a pennello […] Oh, meno male! Scrivendo sono riuscita a sfogare metà del mio nervosismo». Il diario è un luogo dove può imbrigliare la sua immaginazione per farla andare dove vuole.
Come scrittrice la Woolf è sempre consapevole dell’estrema duttilità di questa «vecchia confidente dal volto gentile e inespressivo». È severa con se stessa, si ricorda costantemente cos’è che vuole fare con la scrittura e tiene la sua persona, per molti versi, lontana o fuori dai suoi romanzi. «Scrivo così anche per sfuggire alla fatica di raccontare».
Nel diario ha la possibilità di inventare un’altra se stessa, e può così rivolgersi a una se stessa del futuro, al di là del momento presente, fuori dal «solito, estenuante vortice dello scrivere in lotta col tempo». Nel diario può immaginare una Virginia più vecchia e molto più saggia, che è sopravvissuta ed è riuscita a superare con estrema classe tutti gli inutili problemi che affliggono la Virginia più giovane. «Perfino la vecchia Virginia salterà a piè pari un bel po’ di tutto questo».
Ma la cosa più evidente è che lei spesso e volentieri usa il diario per portare se stessa da una posizione di positività a una di negatività e viceversa. In realtà il suo diario è una sorta di sforzo di autopersuasione durato una vita intera. Leggendolo scopriamo le paure sommerse della Woolf per le cose più disparate: dal timore di fare brutte figure alle questioni molto più serie riguardanti la sopravvivenza. Ogni volta che si trova ad affrontare una sfida, qualsiasi sia l’abisso che si trova davanti in quel momento – la malattia o una recensione negativa o problemi di scrittura – la Woolf si incoraggia da sola a cercare di fare il meglio. «E se non vivessimo audacemente, prendendo il toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi, senza dubbio; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino».
Si rimprovera da sola, esige sincerità da se stessa e usa il diario per darsi dei punti di riferimento saldi quando sta male o ha molto da fare. E quando mai non ha avuto molto da fare? Leggendo il diario ci rendiamo conto dell’intensità del suo lavoro. Nel diario si lascia andare, cosa che di solito non fa, e affronta la scrittura in modo diverso: con impeto, senza metodo, scrive le cose che le saltano in testa, così come le vengono. «Se io mi fermassi a pensarci sopra, [questo diario] non verrebbe mai scritto; e il vantaggio di questo metodo è di cogliere al volo accidentalmente materiali diversi e dispersi, che scarterei se esitassi, ma che sono i diamanti tra la spazzatura». Un’annotazione di dieci minuti può rivelare una profondità e un’acutezza sorprendenti. Prendiamo per esempio l’annotazione del 18 dicembre 1939: la Woolf butta giù qualche riga in fretta e furia prima di cena e ci fornisce una profezia di quello che si potrebbe definire l’atteggiamento del ventesimo e del ventunesimo secolo nei confronti della guerra in genere. «Oh, la Graf Spee salpa oggi da Montevideo, dritta nelle fauci della morte. E i giornalisti e i ricchi affittano aeroplani per godersi lo spettacolo. Questo mi sembra che sposti la guerra in una nuova angolazione; e anche la nostra psicologia».
La Woolf amava le proprietà «inconscie» che venivano alla luce scrivendo il diario e per lei avevano qualcosa a che fare con quella che definiva la sua filosofia dell’anonimato. Paradossalmente, il diario le permette di «esercitare l’anonimato». Paradossalmente il diario è un importantissimo mezzo espressivo che le consente di liberarsi della sua personalità. «Vorrei essere soltanto una sensibilità», dice. Ma chi può essere pura sensibilità e basta? E intanto il mondo fa il suo corso. La prima guerra mondiale finisce e la gente si ubriaca e canta per le strade. Madame Lenglen perde una partita a tennis. In Europa fa la sua comparsa il fascismo. Una delle cose più importanti custodite nel Diario di una scrittrice è una versione molto vera, molto fisica di Virginia Woolf, la persona vivente che è parte del suo tempo, che lo guarda e lo giudica. Era un tempo di cambiamenti epocali. Virginia ci descrive uno di questi cambiamenti con grande perspicacia e stupore quando visita il vecchio Thomas Hardy che con un semplice gesto della mano liquida tutte le questioni estetiche che sono alla base della scrittura della Woolf e non fa altro che parlare, come anche sua moglie e con grande disappunto di Virginia, del suo vecchio cane asmatico. «Proprio il classico vecchio vittoriano, che tutto compie con un semplice gesto della mano (mani normali, piccoline, accartocciate), che non dà grande importanza alla letteratura ma mostra un enorme interesse per gli aneddoti, i fatti; e in qualche modo si è portati a pensare che tenda a immaginare e a creare naturalmente, senza soffermarsi a pensare che sia qualcosa di difficile o di notevole».
Chi altri se non la Woolf potrebbe schivare un cliché uscito dalla sua stessa penna, «un semplice gesto della mano», passando subito a descrivere le mani di Hardy? Chi altri potrebbe sentire la presenza di E.M. Forster a un livello così acutamente fisico e politico? «Ci siamo scambiati una stretta di mano molto cordiale; eppure ho sempre l’impressione che lui si ritragga un po’ davanti a me, perché sono una donna, una donna intelligente, una donna al passo coi tempi». Anche il suo rapporto di amore e odio nei confronti di Katherine Mansfield si esprime in termini fisici: «La sua dura compostezza è in gran parte di superficie». Eliot la lascia indifferente. George Bernard Shaw è «molto cordiale. È la sua arte, questa, di dare l’impressione che gli si è simpatici».
Questa attenzione alla fisicità rende molto vive le descrizioni che la Woolf fa dei suoi colleghi scrittori, morti o viventi che siano. Si può dire che il suo rapporto con la scrittura sia principalmente fisico. Il suo spirito acuto è anch’esso una forma di vitalità e il suo intelligente senso dell’umorismo è una lama a doppio taglio. «Dov’è il mio tagliacarte? Devo tagliare lord Byron».
Riesce a tradurre la sua interessante e feroce rivalità con ­James Joyce in termini di contrasto sociale: ancora una volta punta l’attenzione su questioni di personalità, di modi di fare, e finisce per domandarsi se l’autorità dell’io sia reale o meno. Ma dal diario emerge anche uno spirito critico estremamente generoso: la Woolf all’interno dello stesso paragrafo riesce a portarsi da sola da una posizione di chiusura a una di apertura; camminando in giro per Londra, in una via del ventesimo secolo, riesce vedere la Londra di duecento anni prima, la Londra di Defoe. Esprime le sue opinioni sugli altri scrittori con un’immediatezza e una vivacità incantevoli. «Il magistrale Scott mi tiene ancora una volta per i capelli».
Chi era Virginia Woolf? Una donna molto spiritosa. Le piaceva la vita frenetica delle città. Aveva idee politiche contraddittorie. Era onesta con se stessa, spesso quasi spietata. Era profondamente insicura; la sua creatività sembra essere alimentata da un misto di sfiducia e autostima. Era spesso molto malata. E la sua malattia è parte della creatività tanto quanto il suo atteggiamento calvinista nei confronti del lavoro. Era una specie di ribelle: rifiutava l’«impostura» delle «onorificenze» accademiche: «No, grazie al cielo non ho nessun bisogno di riemergere dal mio romanzo a luglio per farmi mettere in testa un tocco di pelliccia». Sapeva di essere «poliedrica». Ma il dono maggiore di questo diario per i lettori di Virginia Woolf è quello di avere la possibilità di vedere da vicino, dettagliatamente, il processo della sua scrittura in uno stato ancora embrionale, nel momento in cui l’autrice deve sopportare la «pressione» dei libri che aspettano di essere scritti, la pressione della scrittura e poi la pressione derivante dall’attesa della risposta del pubblico per poi rompere lo stampo che ha creato per il romanzo che ha appena finito in modo da crearne uno nuovo per il seguente.
«Di quando in quando, sono ossessionata da una vita di donna quasi mistica, molto profonda, che vorrei narrare tutta in una sola occasione; e il tempo sarà del tutto cancellato; il futuro fiorirà in qualche modo dal passato. Un solo avvenimento – diciamo il cadere di un fiore – potrebbe racchiudere il tutto». Nel diario si nota continuamente la predilezione per le immagini riguardanti la natura, l’acuta consapevolezza dell’assenza di consapevolezza della natura. Ma quando in un’annotazione dell’ottobre 1940 una delle sue immagini preferite, quella della falena, si trasforma in un Messer­schmidt schiantato al suolo, anche la fede della Woolf nella sopravvivenza viene messa a dura prova.
È straordinario poter leggere cose riguardanti la seconda guerra mondiale scritte da una persona che non ha avuto modo di vederne la fine, e che proprio per questo è estremamente vulnerabile e ce la presenta come un’incognita spaventosa. «L. dice che in garage ha della benzina per suicidarsi». Leonard Woolf era ebreo e sia lui che la moglie sapevano che se i nazisti avessero invaso l’Inghilterra loro sarebbero stati arrestati, con ogni probabilità. Ogni giorno ormai pensavano che forse era il caso di «andare a letto a mezzogiorno»; le condizioni di salute di lei peggioravano, come anche i suoi impulsi suicidi. Virginia Woolf faceva fatica a continuare a credere nel potere della sopravvivenza.
Gli ultimi straordinari giorni del periodo dal 1940 al 1941, il suo ultimo anno di vita, di cui troviamo testimonianza nel Diario di una scrittrice, ci rivelano il suo spirito tormentato, disperato con un’intensità quasi insopportabile. E nonostante tutto, fino alla fine, la Woolf si occupa del rapporto tra le parole e la realtà, sempre portando avanti questo processo di autopersuasione. Chi era Virginia Woolf? Quasi paradossalmente, le ultime pagine ci rivelano un coraggio di proporzioni monumentali. Più ci avviciniamo alla fine del Diario di una scrittrice, più diventa intollerabile il pensiero che questa persona sta per morire. E ciò dimostra ancora una volta che la vita e l’arte della Woolf erano attuali all’epoca e sono attuali ancora oggi. Oltre sessant’anni dopo le ultime annotazioni, questo diario è ancora vivo e ci spinge a riflettere.
http://www.minimaetmoralia.it/wp/chi-era-virginia-woolf/

lunedì 28 marzo 2016

Auguri di "resurrezione " a tutte le sopravvissute alla violenza machista.A nome delle "cadute" invoco lotta e giustizia! Barbara Spada

UNA VOCE FUORI DAL CORO (La mia Pasqua)
A fronte dei milioni di persone nel mondo che in questi giorni commemorano il calvario,la morte e la resurrezione di Cristo..più o meno sentitamente...più o meno per mera tradizione...più o meno religiosamente o consumisticamente...io voglio commemorare il Calvario misconosciuto di milioni di donne ammazzate nel mondo...la loro silenziosa"Passione"...la loro crocifissione senza gloria e senza storia...la loro morte "comune"....non salvifica,non santifica...non misterica.Voglio commuovermi per le torture che loro hanno subito,per le ferite inferte al loro costato,per le spine intorno al loro capo,per le ingiurie subite dai loro carnefici;voglio rendere onore al loro martirio,alla faticosa salita sul loro Golgota,alla croce che hanno trascinato lungo il corso della loro vita..quella croce a cui sono state inchiodate dalla Storia e da Dio,dagli uomini e dai governi,dalla cultura e dalle tradizioni,dalle leggi e dalla società.Voglio ricordare le morti che non contano nulla,quelle che cadono nel silenzio e nell'indifferrenza,nell'accettazione o nella mera condanna verbale...quelle per cui nessuno si commuove o piange,quelle che non cambiano la Storia,quelle che non annunciano il Regno dei cieli,quelle che non hanno giorni di commemorazione e della memoria.Voglio onorare la purezza e l'innocenza di milioni di agnelli"non di Dio"scannati nel mondo nei secoli dei secoli ,di volta in volta e di luogo in luogo,in nome di qualunque cosa o di qualsiasi pretesto possa consentire l'uccisione di una donna...leggi morali ,politiche ,religiose ,ideologiche ,familiari,patriarcali,sessuali...leggi maschili...leggi che condannano ogni giorno,che crocifiggono ogni giorno,che uccidono ogni giorno.Diversamente dall'Uomo-Dio a cui è consentito risorgere ed assurgere alla Gloria dei Cieli...le anonime ed umane crocifisse non potranno risorgere...non c'è Pasqua per loro...non ci sono cattedrali,nè monumenti,nè commemorazione,nè onori.Solo la Donna,in quanto soggetto storico e politico che racchiude in sè tutte le donne,può lottare per ottenere la resurrezione...per darsi e dare giustizia a tutte...per abbandonare il sentiero del Golgota e rifiutarsi di essere sacrificata...per inchiodare sulla croce delle responsabilità la società e la cultura androcentrica e patriarcale.Solo la Donna può e deve, ai piedi di quella croce su cui milioni di donne vengono torturate e uccise,raccogliere quel sangue e farne frecce,asce e stendardi per capire,per lottare..per rinascere...Questo è il nostro Graal...questo sangue è la nostra eredità...è l'urlo che proviene dagli abissi del dolore....dalle gole di quelle che hanno taciuto...dagli occhi di quelle che hanno chiesto pietà...dal ventre di quelle che sono state fatte a pezzi .... è l'urlo della rabbia e della vita..che grida giustizia...che chiede memoria....ed invoca riscatto.(B.SPADA)
https://www.facebook.com/barbara.spada.96/posts/1024044144308755


venerdì 25 marzo 2016

INSEGNIAMO ALLE RAGAZZE AD ESSERE CORAGGIOSE, NON PERFETTE DI SUSANNA MARSIGLIA

Qualche anno fa feci qualcosa di davvero coraggioso, o come direbbero alcuni, davvero stupido. Mi candidai al Congresso degli Stati Uniti.
Per anni ero rimasta al sicuro dietro le quinte dello scenario politico in qualità di organizzatrice di raccolte fondi, ma nel mio cuore avevo sempre desiderato candidarmi. La congressista in carica occupava quel posto dal 1992. Non aveva mai perso un’elezione e nessuno si era mai realmente candidato contro di lei in una primaria democratica. Ma questo, nella mia testa, era il mio modo per fare la differenza, per sovvertire uno status quo. I sondaggi però raccontavano una storia del tutto diversa. I sondaggisti con cui parlai mi dissero che era una pazzia candidarmi, che non avevo alcuna possibilità di vincere.
Reshma SaujaniMa mi candidai lo stesso, e nel 2012 divenni una parvenu delle elezioni newyorkesi. Ero davvero convinta di vincere. Avevo l’approvazione del New York Daily News, il Wall Street Journal mi fece un servizio fotografico il giorno delle elezioni, e la CNBC definì quelle elezioni tra le più combattute della storia. Raccolsi fondi da chiunque conoscevo, incluse le zie indiane che erano così felici che ci fosse una ragazza indiana candidata per quel posto. Ma il giorno delle elezioni i sondaggi si rivelarono nel giusto e ottenni solo il 19% dei voti. Gli stessi media che mi avevano definita una stella nascente della politica ora mi rimproveravano il fatto di aver gettato al vento 1.3 milioni di dollari per 6.321 voti. Non fate i calcoli. Fu umiliante.
Ora, prima che vi facciate un’idea sbagliata, sappiate che questo non è un discorso sull’importanza del fallimento. E nemmeno sul buttarsi a capofitto. Vi sto raccontando la storia della mia candidatura perché avevo 33 anni ed era la prima volta in tutta la mia vita in cui facevo qualcosa di veramente coraggioso, in cui non mi preoccupavo di essere perfetta.
E non sono sola: così tante donne con cui parlo mi confessano di gravitare attorno a carriere e professioni in cui sanno che sarebbero perfette, e non c’è da stupirsi. Alla maggior parte delle ragazze viene insegnato a evitare i rischi e i fallimenti. Ci insegnano a sorridere, essere cordiali, stare al sicuro, prendere bei voti. I ragazzi, d’altra parte, vengono educati a giocare, sporcarsi, rotolarsi e buttarsi a terra. E quando diventano adulti, sia che stiano negoziando un aumento di stipendio sia che stiano invitando qualcuno a uscire con loro, sono abituati ad affrontare i rischi uno dopo l’altro. Vengono premiati per questo. Alla Silicon Valley si dice spesso che nessuno ti prende sul serio se non hai almeno due startup fallite alle spalle. In altre parole, stiamo crescendo le nostre ragazze insegnandogli ad essere perfette e i nostri ragazzi ad essere coraggiosi.
Alcune persone si preoccupano del nostro deficit federale, ma io mi preoccupo del deficit di coraggio. La nostra economia, la nostra società, tutto sta andando a rotoli perché non insegniamo alle ragazze il coraggio. Il deficit di coraggio è la ragione per cui le donne sono poco rappresentate nei consigli di amministrazione, in politica, nelle forze dell’ordine, e più o meno ovunque guardiate.
Negli anni 80, la psicologa Carol Dweck studiò il comportamento dei bambini di 10 anni quando veniva assegnato loro un compito troppo difficile. Notò che le ragazze si arrendevano molto in fretta. Più era alto il loro QI, più era probabile che si arrendessero. I bambini, d’altro canto, trovavano le difficoltà stimolanti. Erano più propensi a raddoppiare i loro sforzi per arrivare alla soluzione.
Cosa sta succedendo? Beh, a quell’età le bambine surclassano i maschi praticamente in ogni materia, incluse matematica e scienze, quindi non è una questione di abilità. La differenza sta nell’approccio. E purtroppo questo tipo di atteggiamento non finisce alle scuole elementari.
Una ricerca svolta da HP ha evidenziato il fatto che gli uomini solitamente si candidano per una posizione lavorativa quando hanno il 60% dei requisiti richiesti, mentre le donne lo fanno solo se sono certe di averne il 100%. Cento per cento.
Questa ricerca è spesso portata ad esempio di quanto le donne abbiano bisogno di più confidenza. Ma penso che sia ovvio, a questo punto, che le donne sono state cresciute per aspirare alla perfezione e che questo le rende terribilmente prudenti.
E anche quando siamo ambiziose, persino quando abbiamo ruoli di leadership, questo schema sociale che ci impone la perfezione ci porta ad affrontare meno rischi nella nostra carriera. Per questo le 600.000 posizioni aperte nel settore informatico non attirano candidate donne, e ciò significa che le stiamo lasciando indietro. L’intera industria è un passo indietro se non può beneficiare delle idee, del problem solving e delle abilità femminili che potremmo portare alle aziende se solo fossimo abbastanza coraggiose.
Nel 2012 ho fondato una società per insegnare alle ragazze a programmare, e ho scoperto che al contempo stavo insegnando loro ad essere coraggiose. Programmare è un continuo processo fatto di prove ed errori, di tentativi di inserire la giusta linea di codice al giusto posto, dove spesso una parentesi in più o in meno segna la differenza tra successo e fallimento. Il codice si rompe e si sgretola, e spesso servono molti, moltissimi tentativi prima che arrivi il momento magico in cui ciò che stavi cercando di fare prende vita. Programmare richiede perseveranza. Richiede imperfezione.
Ci accorgiamo immediatamente che le ragazze nel nostro programma hanno paura di sbagliare qualcosa, di non essere perfette. Ogni insegnante di Girls Who Code mi racconta la stessa storia. Nella prima settimana, quando le alunne si stanno approcciando al codice, c’è sempre una studentessa che la chiama da parte per dirle “non so che codice scrivere”. L’insegnante guarda il suo monitor e vede l’editor di testo totalmente bianco. Se non conoscesse a fondo la storia, potrebbe pensare che la studentessa ha passato gli ultimi 20 minuti a fissare lo schermo. Ma se preme il pulsante per annullare le modifiche un paio di volte si accorge che la ragazza ha scritto del codice per poi cancellarlo. Ci ha provato, ci è andata vicina, ma non ha azzeccato totalmente. Anziché mostrare all’insegnante i progressi fatti, preferisce non mostrare nulla. Perfezione o fallimento.
Le ragazze sono molto brave a programmare, ma insegnare loro a farlo non è abbastanza.
Il mio amico Lev Brie, un professore all’università della Columbia che insegna Java, mi racconta della sua routine lavorativa con gli studenti di informatica. Quando i ragazzi hanno difficoltà su un compito, vanno da lui e dicono “prof, c’è qualcosa che non va nel mio codice”. Le ragazze dicono “prof, c’è qualcosa che non va in me”.
Abbiamo bisogno di cessare questa cultura della perfezione, e cercare di combinarla con la costruzione di una sorellanza che permetta alle ragazze di sapere di non essere sole. Perché provarci più duramente non riparerà un sistema che non funziona. Non potete immaginare quante donne mi dicono “Ho paura ad alzare la mano, ho paura a fare domande, perché non voglio essere l’unica che non capisce e che si sta sforzando”. Quando insegniamo alle ragazze ad essere coraggiose e le circondiamo di altre ragazze che le supportano, riescono a costruire cose incredibili, e lo noto ogni giorno.
Prendete, per esempio, due studentesse delle superiori che hanno creato un gioco intitolato “Tampon Run” (la corsa degli assorbenti) contro il tabù delle mestruazioni e il sessismo nel mondo del gaming. O la rifugiata siriana che ha voluto dimostrare il suo amore per il suo nuovo Paese creando un’app per aiutare gli americani a votare. O la ragazza di 16 anni che ha costruito un algoritmo per aiutare a distinguere un cancro maligno da uno benigno con l’intenzione di salvare suo padre che ne è affetto. Questi sono solo pochi esempi su migliaia, migliaia di ragazze a cui è stato insegnato a essere imperfette, a continuare a provare, ad essere perseveranti. E sia che diventino programmatrici, oppure le prossime Hillary Clinton o Beyoncé, non rinvieranno i loro sogni.
E questi sogni non sono mai stati così importanti per il nostro Paese. Per la crescita dell’economia americana, per quella di qualsiasi economia, per innovare sul serio, non possiamo lasciare indietro metà della popolazione. Abbiamo bisogno di educare le nostre ragazze ad essere a loro agio con l’imperfezione, e dobbiamo farlo ora. Non possiamo aspettare che imparino ad essere coraggiose come ho fatto io a 33 anni. Dobbiamo insegnarlo loro a scuola e all’inizio delle loro carriere, quando hanno il potenziale per stravolgere le loro vite e quelle altrui, e dobbiamo mostrare loro che saranno amate ed accettate non per essere perfette ma per essere coraggiose. Per questo ho bisogno che ognuno di voi dica ad ogni giovane donna che conosce – sorella, nipote, impiegata, collega – di essere a suo agio con le sue imperfezioni, perché quando insegniamo loro ad essere imperfette e ad accettarlo, diamo vita a un movimento di giovani donne che costruiranno un mondo migliore per loro stesse e per ognuno di noi.
http://www.forelsket.it/ragazze-coraggiose-non-perfette/

giovedì 24 marzo 2016

Un francobollo per Tina Anselmi, la donna che è stata prima in tutto

Un francobollo per Tina Anselmi, la donna che è stata prima in tuttoDal francobollo Tina Anselmi sorride. Le è toccato uno strano destino "alla Tina", come la chiamano familiarmente a Castelfranco Veneto, il paese dove è nata 89 anni fa, il 25 marzo per l'esattezza.

È stata prima in tutto: staffetta partigiana a 17 anni nella brigata Cesare Battisti, prima ministra donna nella storia italiana nel 1976, primo politico coraggioso a cercare di chiarire il groviglio di interessi e opacità della loggia P2. A lei è dedicato il francobollo che sarà emesso il 2 giugno giorno della festa della Repubblica. Per la prima volta le Poste scelgono una protagonista della storia pubblica mentre è in vita. Ci sono stati sì due Papi e sei presidenti della Repubblica ma ritratti in gruppo.
La Tina invece lo spazio se lo prende tutto per sé e - come sempre ha ripetuto fino alla sua ultima intervista proprio con Repubblica nel 2007, prima che la malattia la provasse - se lo prende per sé e per le donne.
"Dico alle mie nipoti, attente fate la guardia perché le conquiste non sono mai definitive". Comincia così domani sera, martedì, il documentario su Rai Storia alle 21,15 che Anna Vinci, l'autrice, ha voluto intitolare Tina Anselmi, la grazia della normalità. "La normalità - dice Vinci - significa rispetto della norma".
Perché "la Tina" nella sua lunga e travagliata vita politica ha mantenuto fermo un faro: "La democrazia ha bisogno di normalità". E ha spesso parlato della solitudine che ha accompagnato la sua battaglia contro i poteri oscuri che hanno piagato la storia d'Italia, quella P2 su cui non è stata fatta piena luce.  Dei pericoli come quei tre chili di tritolo accanto a casa, che non esplosero per un caso, e delle molte intimidazioni. Forte, ostinata e timida, alla vigilia dei suoi 89 anni Tina Anselmi viene raccontata dalla sorella Maria, da Dacia Maraini, da Enzo Giaccotto segretario politico durante l'impegno di ministro della Anselmi prima al dicastero del Lavoro poi alla Sanità, da Giovanni Di Ciommo che è stato suo collaboratore nella commissione d'inchiesta sulla P2. E poi ci sono le amiche, come Maria Luisa Gazzolo. E c'è la voce di Tina quando ricorda e svela. Parla della politica sommersa e dei fatti di sangue tra il 1976 e il 1981. Rivendica con una passione non banale il ruolo delle donne in politica: "Quando le donne si sono impegnate nelle battaglie - dice - le vittorie sono state vittorie per tutta la società. La politica che vede le donne in prima linea è politica d'inclusione, di rispetto delle diversità, di pace".
http://www.repubblica.it/politica/2016/03/21/news/un_francobollo_per_tina_anselmi_la_donna_che_e_stata_prima_in_tutto-136009308/
L'anno scorso per il compleanno Renzi le mandò un telegramma di auguri. Il ritratto solenne dell'Anselmi oggi è in quel francobollo con cui l'Italia la ringrazia

martedì 22 marzo 2016

Crisi della paternità o dell’ideale virile?Lea Melandri

E’ mia abitudine fare maggiore attenzione a ciò che rimane invariato nel tempo, piuttosto che ai cambiamenti. Perciò ho letto con piacere la lettera-editoriale di Barbara Stefanelli sul “Corriere della sera” ( 19 marzo 2016), dedicato ai “nuovi padri”, “presenti e responsabili”fin dai primi anni nella vita dei figli, ma il mio interesse è stato sviato immediatamente dall’articolo di Luigi Zoja che, sullo stesso tema, lo affiancava.
Posso essere d’accordo su alcuni aspetti della sua analisi: crescita dei divorzi, delle separazioni, nascite fuori dal matrimonio, aumento delle donne singole con figli, eclisse delle figura paterna e conseguente comparsa di forme di aggregazione maschile simili al branco primordiale.
La crisi della famiglia è vista da Zoja fondamentalmente come “assenza del padre” e ritorno al modello del “maschio competitivo”: l’orda barbarica, il bullismo.
Il padre, di cui si lamenta la mancanza, è ancora quello tradizionale, garante della crescita del bambino, sia dal punto di vista educativo che culturale., un ruolo molto lontano da quello del “mammo”, addetto solo all’ “accadimento corporale” del figlio.
Della figura femminile -la madre- non si fa parola, ma è chiaro da tutto il discorso che siamo nell’ordine della complementarietà, a cui sembra oggi fare sempre più difetto uno dei due poli dell’antica dialettica.
Neppure una parola sul paradosso della quasi esclusiva presenza di donne nella scuola, dall’asilo fino alle soglie dell’Università: madri-maestre, figure ibride, funamboliche, a cui si chiede di trasmettere un sapere creato da altri, di “disciplinare corpi”, essendo state esse stesse considerate corpo, natura, materia senza forma propria.
L’incremento del numero delle donne single non è di per sé indicativo di una messa in discussione del ruolo tradizionale di madre che potrebbe, al contrario, uscirne rafforzato, ma del rifiuto sempre più consapevole da parte femminile di assumersi la cura e il sostegno di un marito-figlio: un adulto da loro dipendente al di là del reale bisogno e a discapito della sua stessa autonomia.
Se dietro l’eclisse del padre-padrone emerge oggi l’orda selvaggia dei figli, è perché questi due volti del maschile in realtà non sono mai stati separati, costretti a convivere, come Giano Bifronte, dal confinamento della donna nel ruolo di madre, potenza dominata storicamente ma al medesimo tempo dominatrice nelle cure e negli affetti domestici.
Parlare di padri come “simbolo positivo”, che è venuto a mancare, vuol dire non tenere conto di quel salto della coscienza storica che è stato portare allo scoperto il rapporto uomo-donna, ripensare le costruzioni del maschile del femminile alla luce della divisione sessuale del lavoro, dell’identificazione della donna con la natura, della separazione tra privato e pubblico, della maternità come obbligo procreativo.
Non è la paternità che è oggi in crisi, ma l’”invenzione della virilità” per quello che ha significato nel corso dei secoli, sia come rapporto di potere, sia come perverso funesto intreccio di amore e violenza.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/crisi-della-paternita-o-dellideale-virile/

lunedì 21 marzo 2016

Ma i padri nel mondo sono ancora assenti di Luigi Zoja

Ogni evento buio ha un rovescio luminoso. L’eclissi della famiglia tradizionale è, in sostanza, scomparsa dei padri: se i padri sono assenti si diventa consapevoli della loro importanza.
Il mio libro sulla possibile fine del padre uscì nel 2000: coincise con la fine di un millennio. Il peggior posto della terra sembrava il Ruanda. Così azzardai: «Possiamo immaginare un futuro in cui il Ruanda sarà un posto decente: non uno in cui i padri torneranno al loro posto». Oggi il Ruanda gode quasi di prosperità e stabilità. I padri, invece, non sono tornati. Il loro tasso di assenza ha continuato ad aumentare. Una consolazione: forse ha raggiunto livelli tali per cui non aumenta più.
I dati degli Stati Uniti per il 2014 sono un riassunto del mondo. La quasi totalità dei bambini cresce ancora con la madre. Dispongono anche del padre l’80% degli asiatici, che scalano le vette dell’istruzione e della posizione sociale. Lo hanno il 68% dei bianchi, il 52% dei “latinos”, ma solo il 29% degli afro-americani. Essi restano i più miserevoli: non perché manchino opportunità nell’economia americana, ma perché da secoli manca la coppia dei genitori alle famiglie afro-americane. Gli schiavi non avevano personalità giuridica, quindi non potevano sposarsi: potevano fare figli, ma l’unico legame era quello con la madre. Fin da quando era uno sconosciuto, uno dei principali programmi di Obama (purtroppo poco noto in Europa), è stato promuovere fra i maschi afro-americani il piacere e la fierezza di essere padri di famiglia.
Ogni statistica mostra evidenti legami tra l’assenza di padre e l’emarginazione sociale. Non ne è l’unica causa. Il circolo vizioso di ostacoli in cui popolazioni intere restano rinchiuse è dato da pregiudizi, dal colore della pelle, dalle barriere linguistiche: ma anche dalla famiglia-tipo. Quando prevale la ragazza-madre, prevalgono povertà e analfabetismo.
I padri mancano statisticamente, perché sono aumentate sia le nascite fuori dal matrimonio sia i divorzi. Ma sono venuti a mancare anche come simbolo positivo. Hanno spesso abusato del potere nella storia; e la critica agli abusi ha raggiunto il culmine nel XX secolo. Purtroppo, il suo risultato non è stato necessariamente una società dotata di sensibilità più “femminili”, supposte più dolci. Le impronte maschili sono rimaste predominanti: ma dai modelli paterni si è spesso passati a quelli del branco e del maschio competitivo. D’altra parte, oggi constatiamo che la competitività è aumentata anche per le femmine. Il ruolo paterno è molto più legato di quello materno alla cultura e all’educazione. Quindi può variare di più, col tempo e fra i popoli: e addirittura scomparire.
Certo, i maschi continuano ad esistere. Ma a volte rinasce in loro la barbarie dell’orda: aumentano gli stupri di gruppo, in cui (a differenza dal violentatore individuale) ci si conferma e ci si incoraggia a vicenda. Dall’altro lato, proprio perché nelle scolaresche il “bullo” è spesso il modello maschile che “fa tendenza”, gli studi dell’OCSE segnalano che nei venti paesi leader del mondo la resa scolastica dei maschi continua a diminuire: ormai riesce a malapena a superare quella femminile solo in matematica. Su questa crisi di identità maschile, mondiale e senza precedenti storici, mancano studi adeguati.
Naturalmente nascono anche nuove sensibilità, che portano i “nuovi padri” ad affiancare di più le madri. Spesso, però, si limitano al cosiddetto “mammo”: a un accudimento corporeo utilissimo, ma che non riempie la mancanza di quel contenitore che si chiamava padre ed era necessario soprattutto in fasi più avanzate della crescita.
Torniamo all’America, ma Latina. Un grave fattore di ritardo rispetto a quella del Nord iniziò già dalla scoperta del continente: non vi immigravano famiglie, ma i conquistadores, maschi soli. Come ci si poteva attendere, fecero milioni di figli con le donne indie senza sposarle. Una società senza padre: diversamente da quella di oggi, fin dagli inizi. Vi prevalevano i “bastardi”, identità per secoli associata a scarsa autostima collettiva. Non stupisce, così, che in Messico “Che meraviglia!” si dica ancora “Che padre!”. È, spiegano i messicani, la cosa per secoli desiderata e non avuta.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/ma-i-padri-nel-mondosono-ancora-assenti/

domenica 20 marzo 2016

Lettera ai nuovi padri di Barbara Stefanelli

È passato quasi un secolo da quando Franz Kafka scrisse la sua Lettera al padre, nella quale elencava le qualità del «vero Kafka»: l’uomo che per lui rappresentava «la misura di tutte le cose». Forza. Salute. Appetito. Intensità vocale. Capacità oratoria. Autosufficienza. Senso di superiorità. Resistenza. Presenza di spirito. Conoscenza dell’uomo. Una certa generosità.
Era il 1919, siamo nel 2016 e il contrasto è forte con l’immagine di un altro padre che per noi rappresenta la misura di molte cose future. Quella di Mark Zuckerberg, 31 anni, che in maglietta a righe fa il bagnetto alla figlia: re Mark – programmatore, imprenditore, filantropo – si è preso due mesi di congedo alla nascita di Max e ne ha concessi quattro (retribuzione al 100 per cento) a tutti i dipendenti di Facebook nel mondo. Non importa se madri o padri, eterosessuali o gay, biologici o adottivi. Dalla figura di un antico enorme genitore che con la sola presenza fisica esprimeva dominio, schiacciava il figlio, al modello dei genitori della Silicon Valley che, avanguardia globale, testimoniano come non esista ormai benefit aziendale più potente della possibilità di tenere insieme lavoro e famiglia, tempi pubblici e privati.
Nuovi padri, che vogliono essere presenti e responsabili. Compagni di gioco e di studio, che non temono di sostituire una rigida autorità millenaria con una diffusa amicizia d’istinto. Per molti ricercatori, saggisti, psicanalisti, siamo nell’età dell’incertezza.
L’improvvisa immaturità di questi padri che hanno abbandonato il vecchio timone rende imprevedibile la navigazione di tanti nuclei familiari attraverso le cose, spesso tempestose, della vita.
Ma c’è solo questo? Solo un modello incrinato di paternità che manda all’aria gli equilibri — asimmetrici — conosciuti sinora?Uomini che davanti alla salita delle donne nella vita «fuori», fuori di casa e fuori dagli schemi, arrivano a rispondere con violenza alla temuta perdita di potere e di virilità? C’è anche questo.
Lo raccontano le storie delle persone che conosciamo, lo dimostrano le statistiche. Ma ci sono i segni di un cambiamento che può essere la più clamorosa rivoluzione del nostro passaggio storico. La condivisione delle responsabilità familiari — ricorda Linda Laura Sabbadini davanti ai dati Istat che raccontano l’Italia — si modifica lentamente. In questa fase, possiamo dire che la spinta verso nuovi ruoli arriva più dal taglio agli «impegni domestici» da parte delle donne che dall’aumento del tempo dedicato alle «responsabilità di casa» da parte degli uomini.
Siamo in questa situazione media: la donna si fa carico della famiglia e lavora quanto può; l’uomo lavora e se può aiuta in casa.
I padri italiani offrono ai figli 38 minuti al giorno (gli svedesi 64), le madri 4 ore e 45 minuti. Tuttavia, il desiderio di saltare steccati economici e pregiudizi culturali cresce tra molti giovani genitori. E per contagio anche tra quelli meno giovani. Oggi i papà che, nei sondaggi, dicono di augurarsi «più spazi con i figli» superano in percentuale le mamme. E i neopadri di alto livello d’istruzione, occupati in attività che lo permettono, hanno raggiunto una forma di parità sostanziale nel contributo alla vita familiare.
Per accelerare e allargare tutto questo, la formula di un congedo obbligatorio prolungato è sempre più sul tavolo dei governi. Una legge che ne imponga principio e pratica mette al riparo i padri dal rischio di ritrovarsi spaesati, circondati dalla diffidenza di chi — uomini o donne — resta fedele a un modello maschile che non prevede luci spente presto in ufficio.
L’idea che la cura non sia un destino femminile ma un valore assoluto è la rivoluzione possibile.
Rivoluzionario è pensare che nella cura delle persone e delle cose quotidiane si possa cercare, e trovare, un benessere che può saldare parti multiple della nostra identità, femminile e maschile. Non esiste un combattente designato, un soldato della cura, ma una coppia che condivide le preoccupazioni. Siamo molto oltre il quadro di un padre che aiuta in casa, pur generosamente. Siamo anche molto oltre il recinto della madre guardiana, che compila liste mantenendo il controllo.
Le rivoluzioni che nella storia hanno spinto, e depositato, cambiamenti positivi sono sempre il frutto di alleanze.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/lettera-ai-nuovi-padri/

venerdì 18 marzo 2016

Madri e consumi, arriva il "momketing"

Guardando la tv o navigando in rete ci rendiamo conto che il mondo della pubblicità sta gradualmente mutando. Se, da un lato, la pubblicità che va in onda in tv resta fortemente collegata ad un modello di “one size fit for all”, in cui la donna e la madre sono caratterizzate da un'immagine molto tradizionale, e si indirizza soprattutto a un pubblico anagraficamente maturo, dall'altro la pubblicità in rete è sempre più customizzata e si rivolge prevalentemente a un pubblico giovane e attivamente connesso con le più moderne tecnologie. In questo ambito, le donne e le madri sono rappresentate in maniera più articolata rispetto al modello proposto dalla pubblicità tradizionale e vengono raggiunte attraverso i mezzi che loro stesse scelgono di utilizzare e di cui "si fidano", dai social network ai blog. Questo nuovo modello di pubblicità, in particolare quello diretto alle madri, ha anche un nome: marketing to moms.
Le aziende, in primis quelle americane, si sono infatti rese conto che per raggiungere il pubblico delle madri non è sufficiente ritrarre nei loro messaggi pubblicitari delle genitrici “formato standard”, perché nella maggior parte dei casi le madri reali non si sentono coinvolte da questo tipo di messaggi. Le aziende rischierebbero di far cadere nel vuoto rilevanti investimenti in marketing e pubblicità. Per correre al riparo da questo rischio, e dato che le madri rappresentano una grossa fetta di mercato, è nato il marketing to moms, che, attraverso divisioni di agenzie di comunicazione o mediante intere agenzie dedicate, mira a individuare i messaggi più appropriati e i canali più adatti a raggiungere tale pubblico. “Le mamme reali non puntano alla perfezione ma lottano per tenere tutto sotto controllo e mandare avanti la famiglia” confessa la fondatrice della divisione mom-focused di una grande agenzia di comunicazione americana. Di conseguenza, oltre a proporre un'immagine di madre più realistica, queste agenzie tendono a proporre alle madri prodotti in grado di semplificare la loro vita e massimizzare l'efficienza del loro tempo - come le applicazioni per la spesa a domicilio, che permettono di evitare un viaggio al supermercato. Oltre all'individuazione del target corretto e all'immagine proposta, le aziende hanno poi scoperto che il canale di comunicazione che si utilizza per raggiungere la "mamma moderna" ha un'importanza cruciale. Le mamme tendono infatti a fidarsi dei propri "pari", di soggetti a loro simili, piuttosto che dei personaggi famosi, spesso ritratti negli spot televisivi, quindi il modo migliore per raggiungerle e convincerle ad acquistare un prodotto è passare attraverso i mezzi che più spesso utilizzano, come i social e i blog, e raccogliere per loro le opinioni delle persone "vicine", di cui si fidano, come le altre madri. In sostanza, alle aziende conviene lavorare su una sorta di passaparola tra soggetti omogenei.
Fin qui, il quadro del marketing to moms non è del tutto rassicurante. Un gruppo di esperte di comunicazione italiane ha però contribuito a far evolvere quest'idea in qualcosa di completamente nuovo. Si tratta del primo esperimento a livello italiano, e probabilmente anche internazionale, di un'agenzia di comunicazione che si occupa di marketing con le mamme, quello che le sue stesse creatrici hanno definito momketing. L'agenzia, quasi totalmente composta da donne, è, infatti, impegnata nel creare forme innovative di comunicazione tra mamme e aziende. Da un lato, queste donne sono impegnate nel creare e promuovere contenuti diretti alle mamme, attraverso un network di blog momgenerated, dall'altro lavorano per mettere in contatto mamme e aziende in modo creativo e partecipativo. Le madri moderne si rispecchiano, infatti, nelle esperienze delle mamme-blogger e si fidano dei loro consigli. Invece di passare attraverso i canali istituzionali della pubblicità, che spesso sfrutta l'immagine dei volti noti, si sceglie quindi di far testare i prodotti alle madri “vere”, ed è così proprio il loro giudizio positivo a trasformarsi in una forma di pubblicità mirata ed efficace. Le madri possono in questo modo beneficiare di un giudizio imparziale, mentre le aziende possono servirsi dei feedback ricevuti per lavorare alla creazione di prodotti che rispondano sempre più alle esigenze delle madri. L'agenzia si occupa inoltre di promuovere il blogging attraverso raduni di mamme-blogger e corsi di formazione che affiancano le mamme-blogger in un vero e proprio percorso formativo-professionale.
L'altra faccia della medaglia
Se le aziende stanno focalizzando la loro attenzione sulle madri come pubblico, poiché esse rappresentano una percentuale significativa degli acquirenti, non si può però dimenticare che il settore del commercio è caratterizzato da una forte presenza femminile anche tra gli addetti alle vendite. Le donne rappresentano, infatti, circa l'80% degli occupati nel settore del commercio in Italia (secondo dati dell’Unione sindacale di base, Usb) e le condizioni lavorative che ad esse vengono offerte proprio in questo settore ignorano spesso le loro necessità di madri. Nel 2014 una donna su due (dati ISTAT) occupata nel settore del commercio degli alberghi e della ristorazione lavorava con un contratto part-time, contro una media del 33% a livello globale. Ciò significa essere sottoposte a un rapporto di lavoro molto meno negoziabile. Per esempio, per il lavoro a tempo parziale verticale -  vale a dire un'attività lavorativa a tempo pieno, ma limitata a periodi predeterminati della settimana, del mese o dell'anno -, la legge prevede che nel contratto di lavoro possano essere inserite clausole elastiche relative alla variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa. Sommando tale elemento alla liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali, il risultato è che le madri si trovano spesso a dover gestire condizioni lavorative che, di fatto, impediscono la conciliazione vita-lavoro e molto spesso costringono le lavoratrici a compiere una scelta radicale, come quella della rinuncia al posto di lavoro.
Per tutelare le madri che lavorano, l'Usb ha recentemente dato vita a un coordinamento di donne, composto da dirigenti, delegate e lavoratrici, che sta lavorando a una Carta per i diritti delle lavoratrici madri, che verrà presentata alle istituzioni competenti, per sottolineare la natura delle difficoltà evidenziate e ricercare possibili soluzioni.
http://www.ingenere.it/articoli/madri-e-consumi-arriva-il-momketing

giovedì 17 marzo 2016

Il femminismo preso in ostaggio dall’antipolitica Lea Melandri, saggista

In un articolo uscito sul quotidiano La Stampa, Francesca Sforza si pone una domanda interessante: “E se la scomposta maratona per l’emancipazione femminile – disseminata di ostacoli, ritardi, false partenze e fughe in avanti – passasse anche per il populismo?”.
Seguono esempi, europei e italiani: Marine Le Pen in Francia, Beata Szydło in Polonia, Frauke Petry in Germania, e nel nostro paese Virginia Raggi e Chiara Appendino, candidate a Roma e Torino dal Movimento 5 stelle – “tutte diverse, tutte donne, ognuna capace di usare un linguaggio che colpisce nel segno di un elettorato deluso, sfiancato, impoverito, arrabbiato”.
Il loro successo verrebbe dall’aver portato nel loro impegno politico doti femminili tradizionali: “parole concrete”, il “modo rassicurante che hanno le casalinghe quando fanno i conti delle entrate e delle uscite in una famiglia”, volti materni, “salti mortali” per tenere insieme responsabilità pubbliche e vita privata. Anche Angela Merkel, vista sotto questo profilo, appare come “la donna che i tedeschi amavano fino a che si comportava come una brava amministratrice di condominio, ma che hanno smesso di amare quando ha deciso di passare alla storia”.
La bellezza e le qualità materne prevalgono su programmi e competenze
Che l’emancipazione delle donne si portasse dietro per inerzia, radicamento secolare o mancanza di altri modelli praticabili, comportamenti e valori considerati “naturali”, non era difficile da prevedere. Eppure, anche il femminismo degli anni settanta, dopo la svolta radicale rispetto all’associazionismo femminile che l’aveva preceduto, sembra avere sottovalutato l’uso che più o meno consapevolmente ogni donna fa, per potere e rivalsa, delle potenti attrattive che le sono state riconosciute: la seduzione e la maternità.
Di che altro parlano i commentatori politici quando le candidate sono donne? Sopravvalutate o denigrate, la bellezza e le qualità materne prevalgono di gran lunga su programmi e competenze, a dimostrazione che le “funzioni essenziali” del sesso femminile restano quelle che le hanno tenute lontane dalla “cosa pubblica”, e che hanno reso faticoso o impossibile il loro accesso a una cittadinanza piena.
L’emancipazione sembra aver aperto semplicemente le porte di casa e trasferito dentro un ordine – che resta nelle sue strutture di fondo “maschile” benché coperto dalla neutralità – quel “complemento” di cui si è cominciato a sentire la mancanza.
A distanza di oltre un secolo, le parole di Paolo Mantegazza suonano quasi profetiche:
Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose.
A questo punto dovremmo chiederci come è avvenuto il “gran passo”, e perché quella che è stata una battaglia progressista, conquista di diritti, di uguaglianza, critica all’autoritarismo patriarcale, viene a collocarsi oggi su posizioni conservatrici o addirittura reazionarie. Sull’esito prevedibile di una integrazione che lasciava immodificato l’ordine esistente – a partire dalla divisione sessuale del lavoro – si erano già espresse con chiarezza le analisi dei primi gruppi femministi, alla fine degli anni sessanta. Poco dopo, il terremoto prodotto dalla società dei consumi, dalla pubblicità, dall’istruzione e dagli spostamenti di massa verso le città, avrebbe fatto saltare i confini tra privato e pubblico, costretto la politica a ripensarsi partendo dal suo atto fondativo.
Con la comparsa sulla scena pubblica di soggetti “imprevisti” – le donne, i giovani – e con il dilagare di una “dissidenza” che spingeva l’agire politico “alle radici dell’umano”, era chiaro che tutte le istituzioni su cui si erano retti fino allora i concetti di democrazia, uguaglianza, modernità, sarebbero andate incontro a un declino inarrestabile. Dietro la crisi del volto autoritario, patriarcale, del potere veniva affiorando – come scrisse lucidamente Elvio Fachinelli – il fantasma di una madre “saziante e divorante insieme”, che offre cibo in cambio di “dipendenza totale”, “perdita di sé come progetto e desiderio”.
Il ritorno del rimosso
L’antipolitica, come ritorno del rimosso secolare su cui l’uomo aveva costruito una comunità di simili, libera dai vincoli che comporta la conservazione della vita, non poteva che avere la figura, reale o immaginaria, di tutto ciò che è stato identificato con il femminile: emozioni, sentimenti, donatività, dipendenza, sogni, salvezza e dannazione, idealità e concretezza, amore e violenza. In altre parole: le viscere della storia, esperienze essenziali dell’umano costrette a rimanere dentro l’immobilità delle leggi naturali, o a comparire sotto travestimenti goffi e sotterfugi.
Lo slogan “il personale è politico”, che prefigurava un’uscita radicale da tutti i dualismi (maschile/femminile, biologia/storia, materia/spirito, individuo/società eccetera) e la ricerca di nessi, che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, è stato rapidamente soppiantato dal magma indistinto dentro il quale nuotano oggi la cultura e la politica, e da cui emergono minacciosi, come la punta di un iceberg, sessismo, razzismo, forme barbariche di violenza, tentazioni demagogiche e autoritarie.
La strada indicata dal femminismo degli anni settanta, come liberazione e ricerca di autonomia da modelli interiorizzati, è ancora lunga, e l’emancipazione delle donne così come in gran parte si presenta oggi – “emancipazione del femminile in quanto tale” – con tutti i suoi retaggi antichi, non l’ha resa sicuramente più percorribile.
http://www.internazionale.it/opinione/lea-melandri/2016/03/16/l-antipolitica-ha-preso-in-ostaggio-il-femminismo-preso-in-ostaggio-dal

mercoledì 16 marzo 2016

Meloni, Raggi, Bedori: mamma sindaca no ma precaria sì? di Manuela Campitelli

Una mamma in politica suona come un tradimento: ci si chiede come sia possibile che una donna impegnata nella crescita dei figli possa anche solo credere di candidarsi. E come sia pensabile che lo possa fare se aspetta un bimbo, se non è bella, se non è magra. Insomma, come vi è saltato in mente anche solo di provarci. A Roma e a Milano poi, neanche a pensarci. Per due città grandi, serve un sindaco grande, non una piccola mamma. E allora va bene candidarsi a rappresentante della classe dei figli, animare la chat su whatsapp dei genitori, gestire i regali di compleanno e le recite scolastiche, andare a comparare i tovaglioli, i bicchieri e la carta igienica che nelle classi manca sempre. Va bene anche fare volontariato, così ti senti realizzata e non ci scassi più con questa storia della realizzazione personale. Ma non provare a voler essere equamente retribuita per il tuo lavoro o a candidarti a sindaca. Non ti azzardare a fare politica, a meno che tu non sia stata nominata ministra per volere di un uomo. Non prendere queste iniziative da sola. Hai un figlio sulla coscienza, se non rinunci a te stessa, rinunci a lui.

Quello che puoi fare, però, è lavorare 10 ore al giorno sottopagata e precaria, con le dimissioni in bianco firmate nel cassetto. Quello che ti è concesso è affogare nel traffico che ti separa prima dal lavoro e poi dalla famiglia. Quello che ti è permesso è far credere al mondo che sei multitasking, naturalmente portata per fare più cose insieme. Quando invece ti adatti solo alle circostanze e ne faresti volentieri a meno. Perché tu, banale precaria o lavoratrice sottopagata, non sei merce da campagna elettorale e quindi se rinunci a tuo figlio per il lavoro, anche per 10 o più ore al giorno, il problema è solo tuo e non collettivo.

Le esternazioni degli ultimi giorni nei confronti delle candidate mamme o future tali non ci raccontano nulla di nuovo. L’Italia è un paese bagnato dagli stereotipi, che permeano la maternità, il lavoro e la partecipazione delle donne alla vita politica. Ma a dire il vero quelle accuse così medioevali sono rivolte a donne che stanno già superando gli stereotipi di genere con i fatti. La questione, dunque, non è tanto difendere la loro posizione, ma sostenere quella di tutte le altre. Il punto non è se una candidata sindaca può fare anche la mamma. Se ci sono mamme che lavorano in una miniera sarda, a rischio della stessa vita, non vedo perché non debbano esserci mamme che lavorano in politica. Almeno nel secondo caso vengono pagate.

Il punto è la non discriminazione della donna, qualunque lavoro faccia, anche dopo la maternità. E’ chiederci non solo dove stanno le mamme, ma che fine hanno fatto i padri. E’ capire che la decisione sacrosanta di rallentare dopo la nascita dei figli, spetta solo alla donna ma non può essere riconducibile a un cliché sociale.

Questo dilemma tutto italiano riscopre i limiti di una società che non è pronta a liberare i figli dalle madri e i padri dalla loro marginalità. La domanda, quindi, non è tanto se una sindaca mamma ce la farà a lavorare, la domanda è se ce la faranno tutte le altre. Perché se è vero che il mondo della politica non è pronto per le sindache mamme, è ancor più vero che quello del lavoro non lo è per le madri lavoratrici. E allora domandiamo perché ha più titoli sui giornali una donna incinta che vuole candidarsi, invece di una donna incinta che un lavoro non ce l’ha più. Domandiamoci perché la maternità è un fatto collettivo solo quando c’è di mezzo una sindaca mamma e non quando si tratta di una mamma precaria.

Rimettiamo al centro delle cose il tema della maternità precaria e non solo il tema della maternità politica. Ridiamo voce alle maternità banali, quelle dai mille lavori e dai mille euro al mese. E’ solo rincorrendo questa normalità che ci sarà spazio per tutte.

Manuela Campitelli Giornalista e ideatrice di www.genitoriprecari.it

martedì 15 marzo 2016

Letture d’archivio: affinché “suffraggetta” e “femminista” non restino stereotipi.Lea melandri

(da “Lessico politico delle donne: teorie del femminismo”, a cura e con una lettura di Manuela Fraire, Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2002)

“La critica del privato affonda le sue radici nella critica della famiglia, ma possiede una sua specificità giacché con il termine ‘privato’ il femminismo ha inteso non solo i rapporti che si svolgono tra le quattro mura, ma più in generale tutti i problemi connessi con l’essere donna in una società dominata dagli uomini. La privatizzazione coatta dei bisogni delle donne è l’elemento contro cui in primo luogo si svolge la critica femminista, ed è partendo da qui che la critica della famiglia diviene coscienza collettiva.”
(…)
“Nelle pratiche assembleari di questi primi collettivi si cominciano a formare lateralmente piccole aggregazioni di sole donne, i ‘piccoli gruppi’, di cui già il movimento femminista americano stava facendo le strutture portanti di crescita del movimento stesso. Attraverso questo rapporto le donne avvertono di uscire per la prima volt dall’isolamento accennando chiaramente ad un risveglio della coscienza e soprattutto alla scoperta di come i fatti concreti della vita quotidiana determinino i tuoi sentimenti ‘femminili’. C’è una nuova consapevolezza dell’importanza delle proprie percezioni, dato che ci sentiamo per la prima volta a contatto con noi stesse, i nostri bisogni, cosa questa che ci da un coraggio diverso di parlare, agire, lottare.
Insistendo continuamente proprio su questi elementi, la percezione e l’esperienza, sembra di assistere al formarsi di una nuova teoria politica, una sorta di ‘politica dell’esperienza’.”
(…)
“Il corpo della donna è dunque il segno tangibile di una negazione e al tempo stesso è il simbolo del possesso dell’uomo; infatti il corpo della donna parla attraverso il fare figli o attraverso la ‘prestazione’ sessuale fornita all’uomo: in tanto esiste in quanto c’è un uomo che ne stabilisce il ‘valore d’uso’. Questo stato di cose è cominciato a sembrare meno ‘naturale’ quando le stare tra sole donne ha suscitato in ognuna la memoria di un altro corpo: quello della madre. L’incontro con le donne rimette in circolazione desideri, fantasie, paure che sin da bambine sono state confinate nell’inconscio.
Come l’inconscio entra nell’oppressione femminile è la grande scoperta del femminismo dei nostri giorni e vorrei anche dire quella in qualche modo decisiva ai fini della costruzione della identità della donna. Il significato più profondo del ‘personale è politico’ lo si coglie proprio a partire da qui.”
(…)
“Attraverso l’autocoscienza le donne arrivano a definire un’area conoscitiva che supera le soglie dell’io cosciente e della parola per indagare più in fondo, dietro la coscienza e la parola, per riconoscere i ‘fantasmi’di cui si alimenta l’esistenza femminile e come questi siano i più profondi segnali dell’oppressione.”

domenica 13 marzo 2016

8 marzo | Le donne e il lavoro La spinta (e la fatica) delle over 55 Negli uffici crescono sempre di più di Rita Querzè

C’è la generazione del rimpianto. È quella delle trentenni che rinunciano ai figli perché tenere insieme tutto è troppo difficile. Nel 2015 sono nati 488 mila bambini, mai così pochi dall’Unità d’Italia. Ma c’è anche la generazione della rabbia rassegnata. Quella delle cinquanta-sessantenni. Donne che, anche volendo, non si possono dimettere da nonne. Tantomeno da figlie. E nemmeno da madri.
È questa la categoria delle invisibili. Stanche, sotto pressione. Spesso pronte alla resa. Perché da una parte il mondo del lavoro ti chiede di esserci, e con regole d’ingaggio sempre più pressanti. Dall’altra la voglia di tenere le posizioni ci sarebbe. Ma le energie mancano. La riforma Fornero ha fatto salire nell’arco di sei anni (dal 2011 al 2017) l’età della pensione di vecchiaia da 60 anni a 66 e 7 mesi. A casa però ci sono i nipoti: le famiglie stanno tagliando le spese per asilo nido, colf e babysitter e l’aiuto dei nonni (più spesso delle nonne) diventa sempre più indispensabile. Inoltre ci sono i genitori anziani. Anche loro bisognosi di cure.

Le statistiche sul lavoro lo ribadiscono di trimestre in trimestre: la classe di occupati in aumento costante è quella dei 55-64enni. È appunto l’effetto Fornero. Che pesa, però, in maniera diversa tra donne e uomini. Le over 55 al lavoro erano 522 mila nel terzo trimestre ’95 e sono diventate 1,498 milioni nel terzo trimestre dell’anno scorso. Più 287% in venti anni. Un milione in più di cinquanta-sessantenni ancora negli uffici e nelle fabbriche. Nello stesso periodo i coetanei al lavoro sono aumentati, ma di meno: più 159% (da 1,39 a 2,21 milioni). Se nel terzo trimestre ‘95 erano donne il 27,3% degli over 65 al lavoro, oggi la quota è salita al 40,4%.

In tutto questo l’Italia non è sola. Il fenomeno, seppure in un contesto molto diverso, ha preso forma anche negli Stati Uniti. Come ha rilevato nei giorni scorsi un’inchiesta del Wall Street Journal, nel 1992 le americane over 65 al lavoro erano una ogni dodici. Oggi sono diventate una su sette. Qui poi le donne restano al lavoro oltre la pensione.

Ma torniamo in Italia. In un Paese ancora lontano dal poter considerare vinta la sfida del lavoro femminile, l’aumento delle impiegate potrebbe essere considerato una buona notizia. In realtà, le nuove regole della previdenza mettono le ultracinquantenni al lavoro davanti a un doloroso dilemma. Tenere duro davanti al triplo ingaggio ufficio-nipoti-genitori anziani — in nome dello stipendio e anche di un’equità dei ruoli all’interno della famiglia. Oppure mollare. E tornare a casa. Niente busta paga (per chi se lo può permettere). Ma anche meno stress.
È così che ragionano le supporter del modello «Opzione donna». Introdotto come sperimentazione nel 2011, questo sistema ha consentito a 28 mila donne tra 2009 e 2014 di andare in pensione in anticipo (57 anni per le dipendenti e 58 per le autonome) ma con il sistema contributivo, cioè accontentandosi di una pensione più bassa del 30%. Nel 2015 la sperimentazione si è chiusa ma c’è chi la vorrebbe riaprire.
«Secondo l’Inps siamo in 36 mila interessate a questa exit strategy — racconta Maria Antonietta Ferro, tra le animatrici del gruppo Facebook che chiede la proroga di opzione donna al 2018 —. Non stiamo pretendendo nulla che non ci spetti, vogliamo solo riprenderci i soldi versati con i nostri contributi. Non un euro in più. Ma restare nella prigione del doppio o triplo ruolo sta diventando insostenibile».
«A monte di tutto resta il problema della non equa divisione dei compiti di cura — fa presente Claudio Lucifora, docente di Economia alla Cattolica di Milano —. Fino agli anni 80 e ai primi 90 si è avuta un’accelerazione nel riequilibrio dei compiti. Ora questo processo è inspiegabilmente rallentato. In economia c’è chi teorizza che sia più efficiente una forma di specializzazione che affidi alle donne i compiti di cura. Insomma, c’è tanta strada da fare. E le cinquanta-sessantenni sono sotto pressione se non altro perché in casa si trovano ancora prigioniere di vecchi modelli di divisione dei compiti».
«Non contestiamo l’idea di una età della pensione uguale per tutti — sottolinea Marisa Montegiove, a capo del gruppo donne di ManagerItalia, sindacato dei dirigenti —. Il problema è che si è arrivati a questo senza darci i servizi e i supporti necessari. E senza aver lavorato abbastanza sul tema della condivisione». Intanto il governo sta pensando a forme di flessibilità per chi vuole uscire prima dal lavoro. Avrebbe senso declinarle solo al femminile? «No — risponde la dirigente —. Il modello Opzione donna non può essere la soluzione». Certo le dirigenti hanno dal lavoro soddisfazioni superiori alla media. Molte altre donne potrebbero pensarla diversamente.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/8-marzo-le-donne-e-il-lavorola-spinta-e-la-fatica-delle-over-55negli-uffici-crescono-sempre-di-piu/

sabato 12 marzo 2016

Per un 8 marzo vero, assumiamo negli ospedali personale non obiettore

Un'assunzione straordinaria di medici, infermieri e ostetriche non obiettori per dare attuazione alla legge 194. Perché sia garantita a tutte le donne l'affermazione di un primato di scelta che a loro, soltanto a loro, spetta. Contro gli ostacoli, le complicazioni, le barriere che in questo paese impediscono la possibilità di interrompere gravidanze indesiderate. Spesso allargando l'obiezione di coscienza del singolo alla struttura stessa in cui si opera.

Se vogliamo dare un senso vero e pieno a questo otto marzo, mettiamo al centro libertà e autodeterminazione delle donne, alzando il diritto. Viviamo in un paese dove circa il 75% del personale ospedaliero fa ricorso all'obiezione di coscienza e dove tante, tantissime donne, spesso al Sud, sono costrette a veri e propri viaggi della speranza: fare migliaia di chilometri per poter esercitare un diritto garantito dalla legge. Un paese che per un verso non agevola le donne su questo fronte e per l'altro alza le sanzioni per chi fa ricorso all'aborto clandestino.

Ecco, se vogliamo evitare un nuovo insopportabile bagno nella retorica dell'otto marzo, pretendiamo tutte e tutti un effettivo cambiamento, che determini una libertà piena per le donne attraverso l'esercizio e l'esigibilità di un diritto garantito dalla legge.

La nostra categoria da tempo su questo fronte ha avanzato proposte: il conferimento di responsabilità dirigenziali nelle strutture ospedaliere a chi garantisce l'attuazione della legge, insieme alla presenza adeguata di personale non obiettore.

Ci sono due libertà che configgono: quella delle donne che vogliono ricorrere all'interruzione di gravidanza, quella del personale obiettore che può rifiutarsi di garantire l'esercizio di questo diritto delle donne. È un conflitto che va sanato perché, in uno stato laico come si professa essere il nostro, deve poter vincere la libertà garantita dalla legge. Una legge di libertà per tutte non può essere disapplicata dai convincimenti personali. Diamo alle donne i diritti e le libertà che gli spettano e che, fuor di retorica, si meritano.

http://www.huffingtonpost.it/rossana-dettori/per-un-8-marzo-vero-assumiamo-negli-ospedali-personale-non-obiettore_b_9399940.html

venerdì 11 marzo 2016

70 anni fa le donne votavano per la 1° volta in Italia

Buon compleanno, donne!
70 anni fa l'Italia riconobbe le sue cittadine, grazie all'impegno di tante (e poi di tanti).
Il mio augurio è che questo impegno continui su tutte le questioni aperte in questo Paese, per il raggiungimento di tutti i diritti negati, disattesi, o vanificati nei fatti.
E che sia un impegno che, oggi più che mai, rinvigorisca e ci ritrovi tutte e tutti unitamente coinvolti, proprio come allora.
http://vitadastreghe.blogspot.it/p/il-blog.html

giovedì 10 marzo 2016

Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg

L’altro giorno m’è capitato fra le mani un articolo che avevo scritto subito dopo la liberazione e ci sono rimasta un po’ male. Era piuttosto stupido: quel mio articolo parlava delle donne in genere, e diceva delle cose che si sanno, diceva che le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta, e così via. Ma era stupido perché non mi curavo di vedere come le donne erano davvero: le donne di cui parlavo allora erano donne inventate, niente affatto simili a me o alle donne che m’è successo di incontrare nella mia vita; così come ne parlavo pareva facilissimo tirarle fuori dalla schiavitù e farne degli esseri liberi. E invece avevo tralasciato di dire una cosa molto importante: che le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne.

Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante (…) M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai.

Ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto. Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle, donne che riescono a girare i paesi e donne che non ci riescono, donne che hanno mal di testa ogni tanto e donne che non hanno mai mal di testa, donne che hanno tanti bei fazzoletti e donne che non hanno mai fazzoletti o se li hanno li perdono, donne che hanno paura d’essere troppo grasse e donne che hanno paura d’essere troppo magre, donne che zappano tutto il giorno in un campo e donne che spezzano la legna sul ginocchio e accendono il fuoco e fanno la polenta e cullano il bambino e lo allattano e donne che s’annoiano a morte e frequentano corsi di storia delle religioni e donne che s’annoiano a morte e portano il cane a passeggio e donne che s’annoiano a morte e tormentano chi hanno sottomano, e donne che escono il mattino con le mani viola dal freddo e una sciarpetta intorno al collo e donne che escono al mattino muovendo il sedere e specchiandosi nelle vetrine e donne che hanno perso l’impiego e si siedono a mangiare un panino su una panchina del giardino della stazione e donne che sono state piantate da un uomo e si siedono su una panchina del giardino della stazione e s’incipriano un po’ la faccia.

Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi. Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene , o piangono perché pensano che nessuno le amerà mai o piangono perché hanno paura di essere stupide o perché hanno pochi vestiti; queste sono le ragioni che danno a loro stesse ma sono in fondo solo dei pretesti e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio.

Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo. Le donne hanno dei figli, e quando hanno il primo bambino comincia in loro una specie di tristezza che è fatta di fatica e di paura e c’è sempre anche nelle donne più sane e tranquille. E’ la paura che il bambino si ammali o è la paura di non avere denaro abbastanza per comprare tutto quello che serve al bambino, o è la paura d’avere il latte troppo grasso o d’avere il latte troppo liquido, è il senso di non poter più girare tanto i paesi se prima si faceva o è il senso di non potersi più occupare di politica o è il senso di non poter più scrivere o di non poter più dipingere come prima o di non poter più fare delle ascensioni in montagna per via del bambino, è il senso di non poter disporre della propria vita , è l’affanno di doversi difendere dalla malattia e dalla morte perché la salute e la vita della donna è necessaria al suo bambino.(…) Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitu sulle spalle e quello che dovono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perchè un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. così devo imparare a fare anch’io per la prima perchè se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finchè sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi
http://www.societadelleletterate.it/2015/02/natalia-ginzburg-2/

mercoledì 9 marzo 2016

Otto Marzo, non c’è nulla da festeggiare Nadia Carì (esperta di politiche di genere)

Genova - 8 marzo 1946 per la prima volta l’Italia, incinta della sua Costituzione, ricorda la Festa della donna. La Carta nascerà bellissima e agonizzerà tristemente 70 anni dopo.
8 Marzo: una ricorrenza dedicata alla rivendicazione dei diritti delle donne e alla riflessione su quanto ancora c’è da fare per ottenere quella parità di opportunità che ancora non c’è.
Con gli anni questa giornata ha perso il suo valore originario e si è trasformata in una festa priva di contenuto.
Non c’è niente da festeggiare in un Paese dove le donne guadagnano il 20% in meno degli uomini a parità di competenze e orario di lavoro, dove il tasso di occupazione femminile è ancora sotto il 50%, dove il primato del lavoro atipico è femminile. Perché festeggiare le donne, quando in Italia essere donna è difficilissimo? Leghiamo piuttosto la ricorrenza a qualche obiettivo vincolante per la classe politica. Vista l’indifferenza di quest’ultima per la condizione femminile, meglio sarebbe una coerente indifferenza. Fare finta di niente, in attesa che passino articoli e convegni.
L’8 marzo non c’è davvero nulla da festeggiare. Anche per chi lo commemora, istituzioni in testa. Si fanno tanti discorsi vacui e funzionali a una sola giornata, ma nulla che possa far decretare che il nostro Paese sia un paese per donne. Quelli che si indignano per le violenze e che celebrano le donne figure indispensabili per l’immagine positiva del paese, sono gli stessi che sui social le ridicolizzano postando video di donne incapaci a parcheggiare o che appena gli fai notare che in grammatica italiana, come il femminile di operaio è operaia, anche il femminile di medico deve fare medica, storcono il naso, dicendo che è brutto e suona male e ti spiegano che si nomina al maschile, ma significa anche il femminile.
E tu a fargli capire, mentre loro si sdilinquiscono di fronte a petaloso (che proprio bello non è), che maschile e femminile non sono la stessa cosa e che uno non può, e non deve, ricomprendere l’altro, anche se solo nominalmente. Che una lingua non è bella o brutta, ma definisce le cose e le cose hanno tutte un genere. E allora di fronte a un quadro in cui non esiste parità salariale, gli stereotipi di genere impazzano, il sessismo della lingua impera, conciliazione e condivisione sono termini pressochè sconosciuti, la violenza domestica non si placa, l’interruzione di gravidanza sta saldamente nelle mani dei medici obiettori di coscienza, non mi va di accodarmi alle celebrazioni.
http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2016/03/08/ASVAp8sB-festeggiare_marzo_nulla.shtml

martedì 8 marzo 2016

8 marzo. Lettera a una bambina Luciana Bertinato

Era il 1999 quando “Cassandra”, l’associazione culturale femminile di cui facevo parte, diffuse questa lettera che avevo scritto a mia nipote Francesca, allora bambina. Riprenderla in mano oggi forse potrà indurci a qualche riflessione.
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Cara bambina,
qualche giorno fa quando a bruciapelo ci hai chiesto: “Perché l’8 marzo è la festa della donna?”, ti abbiamo risposto con il linguaggio dei grandi. “Per ricordare un episodio triste accaduto a New York City, l’8 marzo 1908, a 129 operaie morte bruciate nell’incendio di una fabbrica tessile durante uno sciopero di protesta contro lo sfruttamento del lavoro femminile”.

La tua curiosità si è sciolta nel gioco lasciandoci qualche perplessità sul senso delle nostre parole. Perché, vedi, i segni della “festa” che in questi giorni leggerai intorno a te (spot pubblicitari, mimose, serate in pizzeria e altri spettacoli spesso di dubbio gusto) sono così lontani dalla memoria che gelosamente conserviamo e dal significato autentico dell’otto marzo da indurci a scriverti, forse per mettere un po’ di ordine nei pensieri o per sottolineare le ragioni stesse del nostro impegno.

Oggi tu hai straordinarie possibilità: vai a scuola, pratichi uno sport, hai il tempo per giocare con gli amici, guardare la tv, usare il computer. Puoi comunicare e spedire messaggi a coetanei che vivono dall’altra parte della Terra. Tutto ciò era impensabile nella nostra infanzia! E tuttavia non per tutte le bambine del mondo è così.

La scuola è negata al 34 per cento di loro che non sanno né leggere, né scrivere e sono costrette a lavorare o diventare madri molto presto. In molti paesi sul loro corpo vengono tuttora perpetrate terribili mutilazioni. In Sudan e Somalia le piccole continuano a morire per malattie e malnutrizione. In Afghanistan vedono gli occhi delle madri guardare il mondo attraverso il burka, il lungo abito nero che le copre dalla testa ai piedi annullandone ogni dignità. Solo ed esclusivamente perché sono donne, non possono uscire da sole, non possono studiare e lavorare. Nei villaggi dell’Algeria, nel nome della jihad (guerra santa), ne vengono uccise a centinaia. E come non ricordare gli occhi smarriti delle profughe della recente guerra in Kosovo?

Eppure… i diritti universali sono diritti delle donne e i diritti delle donne sono diritti universali. Da più parti si afferma che abbiamo conquistato la parità e pari opportunità nello studio e nel lavoro. Anche se molte sono state le conquiste importanti faticosamente ottenute, noi abbiamo il sospetto che in larga parte della nostra società occidentale non sia ancora così, la certezza che in molti paesi poveri del mondo non lo è affatto. Nonostante ciò, vogliamo guardare alla tua vita con speranza, dipingerla con caldi colori, pensarla attraverso coordinate inedite. In questi anni, cercando qualità e senso al nostro agire responsabile, abbiamo incontrato la cultura delle donne e guardato il mare da questa affascinante riva per attraversarlo insieme evitando gli scogli dell’indifferenza. Come lo è per noi, speriamo che essa diventi una delle tue ragioni del vivere e del fare con slancio e generosità. Per questo il nostro 8 marzo è dedicato a te, alla donna che sarai e che, ti auguriamo, saprà abitare il proprio corpo con gioia e dignità, tessere “i fili che danno gusto e piacere alla vita” per costruire con essi una cultura quotidiana di accoglienza e di pace. Con affetto.

8 marzo 1999 Le donne di “Cassandra”dahttp://comune-info.net/2016/03/otto-marzo/

lunedì 7 marzo 2016

Donne, lavoro e discriminazioni DI SIMONASFORZA



 leggi su  https://simonasforza.wordpress.com/2016/03/07/donne-lavoro-e-discriminazioni/

Durante questi anni di crisi economica ci siamo concentrati sulle ricadute occupazionali, sulla difesa dei posti di lavoro a qualunque costo. Forse questo impegno ha lasciato da parte il discorso del contrasto a fenomeni di discriminazioni nei luoghi di lavoro. La partecipazione al mercato del lavoro ci vede sempre in posizioni molto basse nelle classifiche internazionali. Ricordo che l’Italia è al 111° posto (del segmento economic participation and opportunity, siamo al 91° posto per labour force participation) su 145 paesi del Global gender gap report 2015 del WEF, con il 13% di disoccupazione femminile, 2 punti sopra quella maschile, solo il 54% delle donne contro il 74% che partecipa al mercato del lavoro (è occupata o sta cercando) e che guadagna però la metà del suo collega. Nessun paese avanzato è messo male come il nostro, ci collochiamo tra gli ultimi insieme a Cuba, Messico, Arabia Saudita, Bangladesh. Negli ultimi dieci anni abbiamo solo peggiorato.
Lo scorso 22 febbraio ho seguito il convegno organizzato dalla Consigliera di Parità della Lombardia presso l’Auditorium Testori di Milano. Questa figura, poco conosciuta e valorizzata, in qualità di pubblico ufficiale, ha l’obbligo di agire in giudizio per accertare e rimuovere gli effetti delle discriminazioni collettive e individuali (che coinvolgono uomini e donne). Inoltre, promuove concrete politiche di pari opportunità di genere, coinvolgendo tutte le figure che operano nel mercato del lavoro: dalle lavoratrici e lavoratori alle istituzioni, dalle parti sociali ai soggetti privati.
Il Fondo nazionale per le Consigliere di Parità per il triennio 2015-2017 è stato azzerato, da qui la domanda che ha aperto il convegno: ha ancora senso parlare di parità di genere nel mondo del lavoro? Il convegno è stato anche l’occasione per fare un bilancio di chiusura del mandato della consigliera di parità Carolina Pellegrini e della sua supplente Paola Mencarelli.
Qui una presentazione che riassume chi si rivolge alla Consigliera di Parità, quante segnalazioni arrivano all’ufficio regionale e cosa denunciano, i canali informativi che portano a rivolgersi all’ufficio, i settori lavorativi (spesso sono anche le P.A. a discriminare), le tipologie di approccio per risolvere i vari casi, l’esito delle denunce.
32 accessi nel 2012, diventati negli anni 70, 73, 66 nel 2015. I numeri sono importanti, ma vanno contestualizzati. Se li esaminiamo insieme al fatto che in tante aziende, in alcuni settori, la rappresentanza sindacale manca o ha poco potere, per cui spesso il dipendente discriminato si trova da solo a fronteggiare questi problemi e non sa nemmeno della possibilità di rivolgersi all’ufficio della Consigliera di Parità, capiamo quanto ogni singolo accesso è un successo, una importante possibilità di far valere i propri diritti. Cosa viene denunciato: violenze di genere 2%, vessazioni/molestie/mobbing 12%, mobilità/C.i.g. 2%, licenziamento 10%, normativa/servizi/progetti 6%, discriminazione economica 4%, demansionamento 10%, convalida dimissioni 2%, contrattazione 3%, conciliazione lavoro famiglia 32%, carriera 2%, altro 16%.
Il dato più elevato è quello che corrisponde alle questioni di conciliazione, un segnale forte di sofferenza reale. Dietro ogni numero c’è una storia, una persona. Ci siamo noi. Avevo da poco rassegnato le dimissioni dal mio lavoro quando partecipai a un incontro in cui era presente Carolina Pellegrini. Eppure tornare a sentir parlare di questi temi mi provoca una sofferenza che gli anni non hanno saputo attenuare. Ogni volta che ne scrivo provo le stesse sensazioni laceranti, quella sensazione di solitudine e sconfitta che provai al momento della convalida delle mie dimissioni. Sconfitta perché dovevo dichiarare la mia volontarietà, pur sapendo che quella era una scelta obbligata da una serie di risposte negative del mio datore di lavoro, da mesi passati a resistere e dalla mancanza di supporti che mi permettessero di conciliare vita privata e lavoro. Mi sentivo e mi sento schiacciata da una mancanza di alternative, schiacciata da un sistema che mi stava espellendo come se improvvisamente la mia maternità mi avesse trasformato in un corpo estraneo, una scoria da smaltire e da rigettare. Io non mi sono rivolta alla consigliera di parità, e se lo avessi fatto sarei finita nella schiera di coloro che dopo una prima consulenza decidono di non proseguire. Perché le pressioni sono tante e perché non sempre hai la forza di opporti, di affrontare l’ennesimo scontro, quando sai che le hai veramente provate tutte. Nella mia vita ho resistito alla precarietà, a stipendi da fame, a singhiozzo, a c.i.g., a tutto, ma non ho saputo fronteggiare e reagire di fronte alla “scelta” di dimettermi. Non è la strada giusta, la strada giusta è lottare e farsi aiutare. Per questo si dovrebbe tornare a pretendere che quel fondo per le Consigliere di Parità si torni a riempire.
Non essendoci una consigliera di parità provinciale, dopo la decadenza della Provincia, la consigliera regionale ha dovuto occuparsi anche degli atti di carattere individuale, non solo collettivo. L’approccio ha sempre privilegiato la collaborazione con altri enti, organismi e assessorati, cercando di intervenire attraverso interventi programmati. Ci sono state importanti collaborazioni, ma non è sempre stato facile.
Le risorse azzerate non facilitano certo il compito di questa importante figura. Mancano i soldi per sostenere le spese degli avvocati che devono difendere le persone in caso di causa in tribunale, quando la conciliazione e gli accordi informali tra ditta e lavoratore falliscono.
Ogni anno viene inviata una relazione al Ministero del Lavoro
Le segnalazioni arrivano dal singolo dipendente, dal suo legale o dal delegato sindacale. Gli interventi autonomi della Consigliera sono altresì possibili, se si individuano discriminazioni in seguito all’esame delle relazioni sul personale che le imprese con più di 100 dipendenti sono tenute a presentare, ma che in poche presentano. La prassi prevede l’audizione del denunciante e del datore di lavoro, che solitamente è disponibile a collaborare. Si cerca di privilegiare una conciliazione condivisa, che permetta di conservare il posto di lavoro, rimuovendo gli atti discriminatori.
Si interviene per esempio su richieste di part-time negato, di premi produttivi non erogati a donne a causa di periodi di astensione dal lavoro per maternità obbligatoria. Altri problemi si riscontrano nell’usufruire dei congedi parentali. Insomma i diritti legati alla maternità e alla paternità continuano ad essere vissuti come oneri insostenibili dai datori di lavoro, nonostante la Costituzione, il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, aggiornato, da ultimo, con le modifiche apportate dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80 e, successivamente, dalla L. 7 agosto 2015, n. 124. QUI
Si fa fatica con una legislazione disordinata, che fatica a individuare quale sia la misura utile per garantire parità di genere, con troppi gradi di giudizio e una difficoltà a intervenire in casi di discriminazioni multiple (genere, nazionalità ecc.). Questo l’intervento dell’avv. Alberto Guariso. Prendiamo in esame casi di discriminazione per genere e per età. L’anzianità di servizio va premiata, secondo il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act. Sappiamo che le donne sono coloro che più sono soggette a interruzioni e quindi risultano le più svantaggiate da un sistema che premia la permanenza e l’anzianità aziendale. Questi sistemi penalizzano le donne. Ancora troppo ambigua la norma che riguarda l’onere della prova:

Codice delle pari opportunità (Dlgs 198/2006)Art. 40.Onere della prova(legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 6)
1. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

Finché le sanzioni saranno esigue, discriminare converrà ai datori di lavoro. La paura di intaccare la libertà di contrattazione del datore di lavoro incide sul tipo di intervento e sul tipo di sanzione. Ci devono essere sanzioni diverse da quelle pecuniarie e che devono dissuadere dal compiere comportamenti discriminatori. Discriminare costa molto in termini economici, ma culturalmente non è ancora una questione percepita dai datori di lavoro.
Andrea Rapacciuolo della Direzione Interregionale del Lavoro di Milano sottolinea l’importanza di diffondere le informazioni per consentire alle persone di sapere a chi rivolgersi in caso di abuso. Ci ha parlato di un nuovo modello per la convalida delle dimissioni per genitori con figli fino ai tre anni. Hanno aumentato le domande, ci dicono che questo serve a far riflettere maggiormente il dipendente dimissionario. Non siamo noi a dover riflettere, quando arriviamo a convalidare le dimissioni ne abbiamo passate già tante, siamo stremati, siamo ormai in balia della rassegnazione, abbiamo le lacrime agli occhi, è come se stessimo firmando la nostra condanna. Le strade per noi si sono già chiuse. Se questo questionario ha solo finalità statistiche e ti trovi davanti un funzionario annoiato che non vede l’ora che tu finisca la compilazione per passare alla persona successiva, mi spiegate a che serve tutto questo? Sono solo parole al vento. Più domande? Caspiterina, ci dimettiamo perché costrette e senza alternative, voi leggete che abbiamo chiesto un part-time per problemi legati a un figlio, non ce lo hanno concesso e non intervenite, ci porgete solo un questionario più prolisso? Pensate che questa sia una prassi sufficiente per contrastare pratiche discriminatorie? Infatti, il fenomeno è in costante crescita:
10.400 dimissioni con convalida, di cui circa 7.000 in Lombardia (1.200 padri), 2.500 circa in Piemonte, 220 in Liguria, 103 in Valle d’Aosta. Da marzo 2016 è prevista la convalida telematica
Carolina Pellegrini e Paola Mencarelli e Graziella Carneri, Segretario CGIL Lombardia, ci riportano l’esperienza del corso di formazione dedicato ai delegati sindacali per consentirgli di svolgere attivamente il processo di prevenzione e individuazione precoce delle situazioni di discriminazione legate al genere. Un corso in cui si sono illustrate le leggi in materia, i diritti, gli organismi e gli strumenti di difesa.
Carneri dice che le donne devono poter lavorare, far carriera e fare figli. Ci parla di condivisione e di congedo di paternità obbligatorio, di come sono stati fatti passi in avanti, anche nella cultura aziendale. Ripeto che a mio avviso la realtà non è rosea: tante aziende sbandierano la loro responsabilità sociale, ma poi mobbizzano e discriminano silenziosamente i propri dipendenti. Quindi se il lavoratore/la lavoratrice viene lasciato/a solo/a, che probabilità ha di difendersi e di impugnare un licenziamento per giustificato motivo che in realtà copre la discriminazione? I delegati sindacali intervenuti parlano proprio di questa necessità di non lasciare i lavoratori da soli.
Si è parlato anche di sicurezza nei luoghi di lavoro, in ottica di genere: Paola Mencarelli e Nicoletta Cornaggia, Regione Lombardia, con Mariarosaria Spagnuolo, Assolombarda. Perché l’approccio del D.L. 81 su salute e sicurezza QUI è generalmente neutro, come se tutti i corpi fossero uguali e reagissero allo stesso modo agli agenti chimici, alle sostanze, come se l’usura non fosse contemplata in mansioni ripetitive, tipicamente femminili a causa della segregazione orizzontale. L’usura da lavoro è difficilmente dimostrabile, spesso gli effetti si vedono quando si è già in pensione. Si è accennato a una indagine qualitativa su alcune aziende, su focus group (non campioni rappresentativi) in tema di sicurezza, che rispecchia i risultati degli studi di settore. Nelle aziende sono sentiti i temi relativi alla conciliazione, allo stress, alla fatica. Non c’è consapevolezza della diversità dei rischi uomo-donna, dell’importanza di dispositivi di sicurezza differenziati in base al genere. Le norme sono utili più a sanzionare che a prevenire. È importante adeguare la sorveglianza sanitaria, introducendo statistiche di genere, considerando chi svolge le mansioni. Soprattutto considerando gli oneri familiari e di cura che ancora pesano sulle donne.
Infine problemi relativi alla sicurezza riguardano il nuovo disegno di legge sullo smartworking. La stessa rappresentazione del lavoro agile delle donne è ancora stereotipato, alle prese con figli e cura della casa, mentre lo smartworking al maschile è sempre iperprofessionale e business oriented.
C’è da auspicare una maturazione culturale, che faccia diventare le aziende più propense a valutare forme di flessibilità positive.
Cosa fa la Regione Lombardia? Qui qualche info sul programma per la conciliazione famiglia-lavoro.
Intanto, come emerge da questo articolo, “tra il terzo trimestre del 2014 e lo stesso trimestre del 2015 le donne inizialmente disoccupate e successivamente divenute occupate sono diminuite dello 0,9%, mentre quelle rimaste disoccupate sono diminuite del 6,1 per cento. L’inevitabile conclusione è che, in un anno, la percentuale di donne inizialmente disoccupate che hanno abbandonato il mercato del lavoro nel trimestre successivo è aumentata del 7 per cento.”
Non è una maggiore flessibilità contrattuale, con una semplificazione in uscita e incentivi all’ingresso, che può portare a un incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Si tratta di fornire strumenti, servizi e mettere a sistema pratiche di conciliazione per uomini e donne, di cambiare la cultura aziendale. L’inattività non è un destino, una scelta obbligata, lo diventa se più fattori rendono più oneroso lavorare, se gli oneri familiari e di cura non vengono condivisi e gravano in gran parte sulle donne, se i servizi di sostegno mangiano una fetta cospicua di stipendio, se la flessibilità richiesta significa lavorare senza limiti orari e regole certe, se lavorare diventa incompatibile con la vita personale.