mercoledì 27 novembre 2019

I risultati choc del report Istat sui ruoli di genere

Secondo un italiano su quattro, sono le donne a provocare le violenze sessuali, con il loro modo di vestire. E il 6,2% ritiene che quelle più 'serie' non vengano stuprate.
     Il cammino verso l’eliminazione degli abusi sulle donne sarà ancora piuttosto lungo e accidentato, stando alle informazioni raccolte dall’Istat e diffuse in occasione della Giornata mondiale contro la violenza di genere. Secondo questa indagine pubblicata il 25 novembre 2019, infatti, il 39,3% della popolazione ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole, mentre il 23,9% degli italiani pensa che le donne possano provocare una violenza sessuale con il loro modo di vestire. Non solo: il 15,1% crede che chi subisce uno stupro quando è ubriaca o sotto l'effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Pensieri e percentuali choc, soprattutto se consideriamo che del campione degli intervistati non facevano parte solo uomini, ma anche donne.

COLPEVOLIZZARE LA VITTIMA
Dunque, per una buona fetta di italiani (e italiane) sarebbero proprio errati comportamenti della donna e delle ragazze a ‘istigare’ l’uomo alla violenza sessuale. Onestamente, quella evidenziata dal report dell'Istat sui ruoli di genere è una forma di colpevolizzazione della vittima che alle soglie del 2020 ci pare assurda, ingiustificabile e insopportabile. Il brutto, è che non finisce con quanto sopra evidenziato: per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); mentre per il 7,2% di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì. Il 6,2% ritiene che le donne serie non siano violentate e quasi il 2% ritiene che non si possa parlare di violenza quando un uomo obbliga la propria compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

GLI SCHIAFFI? SONO NORMALI
Per quanto riguarda maltrattamenti e forme di controllo, il 7,4% degli intervistati crede che sia accettabile che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro uomo, mentre il 6,2% pensa che in una coppia possa ogni tanto scappare un ceffone. Per il 17,7% del campione è invece accettabile che un uomo controlli abitualmente il cellulare e/o l'attività sui social network della propria compagna.

ALLA BASE DELLA VIOLENZA
Alla domanda sul perché alcuni uomini sono violenti con le proprie compagne, il 77,7% degli intervistati ha risposto «perché le donne sono considerate oggetti di proprietà»: nello specifico, l’84,9% donne e il 70,4% degli uomini), mentre tre italiani su quattro danno la colpa (in ugual misura) a sostanze stupefacenti/alcol e bisogno di sentirsi superiori. In tanti hanno citato poi la difficoltà nel gestire la rabbia (70% uomini e 62% donne), mentre due intervistati su tre tirano in causa violenze sperimentate in famiglia durante l'infanzia e il fatto di non sopportare l’emancipazione femminile. Il 33,8%, poi, associa la violenza di genere alla religione.

RESISTONO I VECCHI STEREOTIPI
L’indagine ha evidenziato anche differenze regionali: Sardegna (15,2%) e Valle d'Aosta (17,4%) presentano i livelli più bassi di tolleranza verso la violenza, mentre in Abruzzo (38,1%) e Campania (35%) sono stati registrati quelli più alti. In Italia, spiega il rapporto, i vecchi stereotipi di genere sono duri a morire: il 32% degli intervistati pensa che «per l'uomo, più che per la donna, sia molto importante avere successo nel lavoro», il 31,5% che gli uomini siano «meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche» e il 27,9% che tocchi ancora all’uomo provvedere alle necessità economiche della famiglia. Questi stereotipi, spiega il rapporto, sono più diffusi al Sud che al Nord.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2019/11/25/istat-report-ruoli-genere/29408/?fbclid=IwAR0cBV8lh2ULEDtNYP7wVHbQJ89qLQSmlSmdmkjLIqZ2Ou6sXH793Ywzeps

lunedì 25 novembre 2019

UOMINI CHE HANNO UCCISO LE DONNE NEL 2019 Elenco e dati redatti da InQuantoDonna

1. Paolo Casolari, 80 anni, muratore in pensione, marito
2. Sergio Cini, 85 anni, pensionato, marito
3. Vincenzo Caradonna, 47 anni, disoccupato, convivente
4.Ezzedine Arjoun, 35 anni, disoccupato, ex marito
5. Andrea Landolfi Cudia, 30 anni, pugile, fidanzato, padre
6. Khalil Laamane, 49 anni, operaio, ex marito, padre
7. Casimiro De Lelli, 90 anni, postino in pensione, marito, padre
8. Gianfranco Duini, 43 anni, marito
9. Salvatore Tamburrino, 41 anni, marito, padre
10. Cristian Ioppolo, 26 anni, fidanzato
11. Vincenzo Lo Presto, 41, marito, padre
12. Carlo Piero Artusi, 48 anni, convivente
13. Ettore Sini, 49 anni, agente di polizia penitenziaria, ex marito, padre
14. Filippo Marraro, 51 anni, imprenditore, ex marito, padre
15. Leopoldo Scalici, 41 anni, disoccupato, cliente
16. Benito Lai, 87 anni, pensionato, marito, padre
17. Giancarlo Bedocchi, 84 anni, pensionato, marito, padre
18. Alberto Porazzo, 89 anni, pensionato, marito
19. Giovanni De Cicco, 40 anni, marito, in attesa
20. Naili Moncef, 54 anni, cuoco, marito, padre
21. Renato Berta, 85 anni, impiegato comunale in pensione, marito
22. Simone Cosentino, 42 anni, poliziotto, marito, padre
23. Luca Adamo, 55 anni, appuntato scelto della guardia di finanza,  marito, padre
24. Stefan Iulian Catoi, 27 anni, pretendente respinto
25. Antonio Brigida, 69 anni, autotrasportatore, marito
26. Abdelkrim Foukhai, 41 anni, disoccupato, marito, padre
27. Felice Romeo, 84 anni, marito, padre
28. Enrico Lanati, 47 anni, imprenditore, amante, padre
29. Luigi Segnini, 38 anni, autotrasportatore, ex convivente
30. Fabio Trabacchin, 35 anni, autotrasportatore, marito, padre
31. Domenico Raco, 39 anni, pretendente respinto
32. Marco Ricci, 41 anni, ex marito, padre
33. Domenico Gentile, 76 anni, avvocato in pensione, marito, padre
34. Francesco D’Angelo, 37 anni, fidanzato
35. Domenico Massari, 54 anni, ex marito
36. Vasco Bimbatti, 93 anni, marito, padre
37. Domenico Leonelli, 88 anni, marito, padre
38. Franco Valgimigli, 87 anni, marito, padre
39. Hicham Boukssid, 34 anni, pretendente respinto
40. Andrei Cegolea, 47 anni, operaio, marito, padre
41. Roberto Del Gaudio, 65 anni, marito
42. Saverio Cervellati, 52 anni, imprenditore, convivente, padre
43. Massimo Sebastiani, 48 anni, operaio, pretendente respinto
44. Aurelio Galluccio, 65 anni, marito
45. Attilio Di Rocco, 65 anni, pensionato, marito
46. M’hamed Chamek, 42 anni, ex
47. Marco Manfrini, 50 anni, marito
48. Carmelo Fiore, 46 anni, operaio, fidanzato, padre
49. Antonio Gozzini, 79 anni, insegnante in pensione, marito
50. Maurizio Quattrocchi, 47 anni, muratore, marito, padre
51. Cristian Daravoinea, 36 anni, autotrasportatore, marito, padre
52. Ciro Curcelli, 53 anni, assistente capo polizia penitenziaria, marito, padre
53. Roberto Lo Coco, 28 anni, disoccupato, marito, padre
54. Cristoforo Aghilar, 36 anni, ex genero
55. Carlo Carletti, 66 anni, pensionato, marito, padre
56. Domenico Horvat, 30 anni, disoccupato, marito
57. Antonino Borgia, 51 anni, impiegato, amante, padre

– sono 11 gli uomini con più di 80 anni che hanno ucciso le mogli con cui hanno condiviso una vita; 3 hanno meno di 30 anni

– il più anziano ha 93 anni; il più giovane 26

-36 sono mariti o conviventi; 4 sono fidanzati; 9 sono ex; 2 sono amanti; 4 sono pretendenti; 1 cliente

– 29 di loro sono padri; due di loro uccidono le figlie; 2 di loro commettono il delitto alla presenza dei figli; 2 di loro chiamano i figli dicendo di aver ucciso la loro madre; 2 uccidono le compagne incinte

– 15 di loro avevano precedenti

– 11 si suicidano
http://www.inquantodonna.it/femminicidi/uomini-che-hanno-ucciso-le-donne-nel-2019/?fbclid=IwAR0BPtRa3uUiAlYqSBfZdIMJfiRtwTOkJ9ZKTsdJRTWrD5Ieublrs-YUVlU

venerdì 22 novembre 2019

Emergenza femminicidio in Italia di: CRISTINA PEROZZI

In Italia è fra le più gravi, ancorché sottovalutate, emergenze sociali. Se è vero che il numero delle condanne è lievemente aumentato,  la violenza sulle donne è un fenomeno sempre più preoccupante e diffuso. Ed il numero dei femminicidi nel corrente anno 2019 torna a salire.

I dati del Rapporto Eures 2019 su “Femminicidio e violenza di genere”, pubblicato ieri sono allarmanti.
Nel 2018 sono state 142 le donne uccise in Italia, +0,7% rispetto all’anno precedente, il valore più alto mai censito in Italia, attestandosi sul 40,3% e 119 ammazzate in famiglia, con un incremento del 6,3% in un anno.
Nei primi dieci mesi del 2019 la situazione non cambia, anzi,  le vittime femminili di omicidi sono state già 94, di cui 80 all’interno di un ambito relazionale/familiare.
Il quadro nazionale quindi sta peggiorando.
In aumento  gli uxoricidi.
Anche nel 2018 la percentuale più alta dei femminicidi familiari è commessa all’interno della coppia, con 78 vittime pari al 65,6% del totale: nel 75,6% per mano del marito o del convivente, nel 24,4% uccise dall’ex partner. Nel 2019 il trend si conferma.
Le figlie uccise sono aumentate da 12 a 13.
Continua ad aumentare anche il numero delle donne anziane vittime di femminicidio: 48 le over 64, pari al 33,8% delle vittime totali, di cui 41 in ambito familiare.
Con il passare del tempo la donna anziana vede paradossalmente acuire la propria vulnerabilità, invece che aumentare il livello di protezione e tutela come dovrebbe essere in una società civile.
La più alta incidenza di donne uccise si conferma al Nord, con il 45% del totale; il 35.2% al Sud e il 18.3% al Centro. E la Lombardia è la regione col maggior numero in termini assoluti, 20, seguita dalla Campania, 19, dal Piemonte, 13, e dal Lazio, 12.
Quasi tutti gli assassini dichiarano di aver ucciso per “gelosia”, ed il movente, che spesso viene dai media impropriamente definito “passionale”,  si rinviene nel 33% dei femminicidi. Nel 2018 le armi da fuoco rappresentano il principale mezzo con cui gli aggressori cagionano la morte delle proprie compagne, con un aumento di tale uso anche in ambito familiare pari al 116%.
In definitiva, dal 2000 ad oggi le donne uccise in Italia sono 3.230, di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio coniuge/partner o ex partner : una mattanza.
Le donne vengono uccise nell’ambito familiare.
I dati Istat che abbiamo appena letto sono relativi a tutti gli omicidi che hanno come vittime le donne, ma quando si parla di “femminicidio”  si fa riferimento ad un omicidio che avviene nell’ambito familiare e affettivo della donna.
Il Ministero dell’Interno fornisce dati aggregati nel suo “Dossier Viminale”, con un criterio che analizza ogni anno l’arco temporale compreso tra il 1° agosto e il 31 luglio, e scorrendo l’ultima edizione che del periodo 2018/2019,  si legge che  in ambito familiare si sono registrate 92 vittime, ossia il 63,4 per cento dei 145 omicidi in ambito familiare totali. Ma per gli anni precedenti il Viminale non ha ancora raccolto tutti i dati, e non è dunque possibile ricostruire l’andamento nel tempo.
Un confronto internazionale.
Per operare un confronto internazionale si utilizzano i dati raccolti dal UNDOC, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine.
In questo report, i numeri relativi agli omicidi che in Italia vedono vittime le donne arrivano solo fino al 2016 e sono diversi da quelli Istat, a causa del diverso metodo di analisi utilizzato.
Ne consegue che per una comparazione precisa che non venga viziata dalla maggiore o minore popolosità dello Stato preso in considerazione, si valuta il tasso di omicidi rapportato alla popolazione e non il numero di omicidi in valore assoluto.
Nel  2016 dunque, l’Italia ha registrato un tasso di omicidi con vittime pari a 0,5 ogni 100 mila persone e tra i grandi Paesi europei è fra i contesti migliori, insieme alla Spagna. Nello stesso anno nel Regno Unito il tasso è stato pari a 0,9/100 mila, in Francia a 1/100 mila e in Germania a 1,1/100 mila.

Ma quali riflessioni inducono i dati sopra riprodotti?
La caratteristica principale dei femminicidi è la maturazione in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali, che pone in evidenza la posizione o il ruolo dell’autore: marito, compagno, ex o familiare.  Un primo commento pertanto va fatto sul contesto ambientale del femminicidio, sintomatico di una grave crisi, anche internazionale a quanto ci dicono le ricerche, dell’istituzione “famiglia”.
Nel documento vengono rilevati anche i dati relativi alle armi utilizzate: nella maggior parte dei casi si rispecchia la natura cd. “primitiva” del gesto. Una percentuale sintomatica è riservata alle armi da taglio, comunemente presenti nell’ambito domestico, mentre a seguire ci sono lo strangolamento e l’uso di oggetti contundenti, dimostrando come le aggressioni e le colluttazioni rappresentano la modalità più utilizzata per ostentare la forza fisica dell’uomo nei confronti della donna.
Anche a questi dati fenomenologici si ricollega la figura alquanto compromessa del pater familias, che non si sente più dotato di una propria auctoritas intrinseca e perde il controllo logico della situazione, ricorrendo alla forza fisica per prevaricare la compagna ed ottenere ad ogni costo le proprie ragioni.
Va poi rilevato che il femminicidio è un fenomeno trasversale dal punto di vista sociale: non esiste un modello familiare dove è più prevedibile o ricorre maggiormente, perché sono colpiti tutti i ceti ed i livelli culturali.
Solo un dato emerge come ricorrente: l’isolamento della vittima iniziato molto prima dell’evento finale, a riprova che la conseguenza letale è connessa ad una condizione di solitudine istituzionale che da tempo chi opera nel settore lamenta.
La maggior parte dei femminicidi si radica in zone di provincia o nei paesi, inducendo a riflettere sulle condizioni di abbandono sociale che spesso le donne subiscono in contesti ambientali più concentrati sul proprio habitat domestico, in apparenza più tranquillo, ma evidentemente meno solidale e più indifferente alle vulnerabilità altrui.
Ed in molti femminicidi le donne avevano già denunciato e spesso più di una volta.
Dunque le vittime vengono lasciate da sole ad affrontare un problema che evidentemente non riescono a risolvere, e nonostante chiedano aiuto, lo Stato dà prova quotidiana di non approntare i mezzi e mettere in atto le giuste misure per arginare questa emergenza.
Gli strumenti  normativi non sono efficaci  e si rivelano insufficienti, perché lasciano troppa discrezionalità, non garantiscono adeguata formazione agli operatori e non assicurano i necessari strumenti per soccorrere in tempo chi denuncia una situazione di violenza.
Basti guardare alla giurisprudenza disomogenea ed alle prassi operative imprecise dei singoli tribunali, spesso non regolate da appositi protocolli, che si rivelano tutte diverse nei contenuti dei provvedimenti giudiziari e nelle modalità di approccio e gestione del fenomeno.
E ancora: la poca efficienza dei centri antiviolenza, che spesso sono costretti a chiudere o sopravvivono privi di fondi e grazie all’esclusivo contributo di personale volontario.
Esiste un sistema centralizzato cd. SDI che raccoglie informazioni  sulle denunce dei cittadini agli uffici competenti (Commissariati di Polizia, Stazioni dei Carabinieri ecc.) e sui reati che le Forze di Polizia accertano autonomamente. I dati riguardano anche le segnalazioni di persone denunciate e/o arrestate che le Forze di Polizia trasmettono all’Autorità giudiziaria .
Ma il dato allarmante proviene dalla lettura delle denunce: una vittima italiana su tre dichiara che il personale sanitario a cui si è rivolta ha fatto finta di niente di fronte alla violenza subita. Indigna soprattutto che solo in un caso su 3 alle italiane è stato consigliato di sporgere denuncia, cosa che invece è stata consigliata solo al 63% delle straniere.
E se oggi il femminicidio rappresenta una costante della società contemporanea, il focus sulla situazione italiana rivela che attraverso i numeri è possibile solo effettuare formalistici confronti temporali. Si rischia così di cadere in un approccio emotivo, mentre una conoscenza approfondita sarebbe determinante per poter analizzare fattivamente il femminicidio.
Dal punto di vista legislativo, seguendo le direttive della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979), il Consiglio d’Europa ha intrapreso una serie di iniziative per promuovere la protezione delle donne vittime di violenza: l’apice, a livello legislativo, è arrivato nel 2011 con l’approvazione della Convenzione di Istanbul.
Questo atto rappresenta lo strumento internazionale, giuridicamente vincolante per gli stati, in cui per la prima volta si riconosce la violenza sulle donne come una forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione, includendo una serie di definizioni e obblighi che hanno tuttavia condotto all’adozione, in ogni paese europeo, a differenti disposizioni e norme.
In Italia, l’applicazione delle direttive dell’Unione europea si è materializzata con il decreto legge 93 del 2013, convertito poi nella legge 119/2013, in cui si prendono in considerazione maltrattamenti, violenze sessuali, atti persecutori, modifiche al codice penale, misure di prevenzione relative alla violenza domestica e azioni a favore dei centri antiviolenza e delle case rifugio. Tra questi si inserisce anche il protocollo EVA, Esame Violenze Agite, della Polizia di Stato: è una modalità operativa per il primo intervento in cui, attraverso una banca dati sempre aggiornata, si cerca di anticipare e limitare le esplosioni di violenza.
Nonostante i citati interventi legislativi, il fenomeno dei femminicidi rappresenta, come visto dalle statistiche sopra riportate, una tendenza che non accenna a diminuire, a differenza degli omicidi volontari in cui le vittime sono uomini.

Cosa manca allora?
Qualche giorno fa sulle pagine del Corriere della Sera è stata pubblicata la prima intervista della neoministra dell’interno  Luciana Lamorgese, che ha parlato della crisi siriana e dei migranti in aumento in concomitanza ai conflitti, ha menzionato la bozza di Malta sulla gestione europea dei flussi migratori e ha toccato temi connessi.
Quando la giornalista Fiorenza Sarzaninii le ha chiesto: “Al di là dell’immigrazione, quali problemi mette in cima alla lista delle priorità?”.
La Ministra ha elencato il terrorismo, la criminalità organizzata e quella comune, ma nulla ha detto sul contrasto ai femminicidi e sulla lotta alle violenze sulle donne.
In specie, nulla sulla disponibilità di fondi per arginare un’emergenza a quanto pare oltremodo sottovalutata, a tal punto che  il Presidente degli Avvocati Matrimonialisti, Gian Ettore Gassani, ha dichiarato in una sua nota che «Oggi la famiglia e la coppia, nella loro veste patologica, uccidono più della mafia. Da avvocato che ha visto tante tragedie, dico che questa è un’emergenza nazionale, trasversale da nord a sud».
È  proprio una vera e propria emergenza che richiede di essere proclamata e inserita tra le priorità politiche.
Una mattanza nei numeri e una tragedia sociale anche per i risvolti psicologici ed umani: si pensi a tutti i minori orfani di madre che restano soli, con un padre assassino in carcere. Un’emergenza che pretende attenzione ed educazione: a partire dallo sdoganamento della violenza nel linguaggio e dei rapporti con le donne.
Esige una formazione continua di medici, di forze di polizia, di organi giudiziari e forensi, ma anche la diffusione di una cultura civile diversa, non aggressiva e più solidale, a partire dalle scuole, per arrivare ai datori di lavoro, alle associazioni  ed alla cittadinanza intera.
Un’emergenza che necessita di azioni di contrasto, risposte concrete a partire da una comunicazione basta sul rispetto del genere fino all’adozione di efficaci misure di protezione e di assistenza,  allo stanziamento di fondi agli sportelli per le donne e alle comunità protette, alla previsione di luoghi appositi negli uffici pubblici dove si accolgono le vittime, con personale adeguato e con efficaci strumenti di intervento.
Solo impegnandosi in questo cambiamento sociale si potrà sperare di porre fine a questa strage annunciata.
https://www.articolo21.org/2019/11/emergenza-femminicidio-in-italia/?fbclid=IwAR1X2U5A1syGkXDSWRCe3axQybevJcXTeUXWR2CD_RMMM19IFjbfF_zm8FU&cn-reloaded=1

mercoledì 20 novembre 2019

PER IMPEDIRE LA VIOLENZA SULLE DONNE DOBBIAMO INTERVENIRE SUGLI UOMINI DI ILARIA DE BONIS

In Amore mio aiutami, commedia “romantica” del ’69 diretta da Alberto Sordi, Raffaella, interpretata da Monica Vitti, viene presa ripetutamente a schiaffi dal marito geloso sulle dune di Sabaudia. “Dillo ancora che lo ami!”, “Sì che lo amo” e giù botte sonore. E sangue.

Ci abbiamo messo tanto tempo, troppo, ad arrivare alla denuncia collettiva della violenza contro le donne, ma ci siamo finalmente arrivati. La narrazione mediatica del reato invece, è rimasta ferma. La cronaca nera che si dedica al femminicidio si concentra morbosamente sulla vittima, non entra nei dettagli delle dinamiche di coppia, e finisce per prendere in considerazione solo una metà: la donna– l’uomo no. Il racconto dominante cristallizza due ruoli: la donna abusata è la vittima, l’uomo è l’aggressore. Punto. Certo, l’uomo-lupo è un carnefice, merita pubblica condanna, ma anche di essere studiato meglio. Per curare, e prevenire.

“Io non penso affatto che l’uomo violento sia un mostro, né che sia un folle,” ci spiega Laura Storti, psicoterapeuta a capo del team “Il Cortile”, “però sono certa che il problema della violenza è il suo, non della donna. Dunque è lì che bisogna andare.” Questo centro d’ascolto per uomini maltrattanti nasce nel 2010 all’interno della Casa Internazionale delle Donne. La domanda di fondo è: la psicoanalisi è in grado di affrontare questo significativo disagio della civiltà? Sembra di sì. Il virus della violenza non è solo un disagio interpersonale, è politico, è sovranazionale, affonda le sue radici nella psiche.
"Da circa tre anni abbiamo iniziato a lavorare anche all’ottavo braccio di Rebibbia e da poco a Regina Coeli,” racconta Storti, “non facciamo rieducazione, ma ascoltiamo gli uomini violenti. Ed escono fuori le loro storie. All’inizio dicevano tutti d’essere innocenti, e ci credevano.” Il primo step per loro è realizzare che “colpire non è virile.” E non è neanche lecito. Successivamente qualcuno ha compreso talmente a fondo la sua colpa da proporre un progetto per il dopo-carcere, perché il rischio di ricascarci è enorme. La violenza di genere è una specie di buco nero, di dipendenza, di automatismo incastrato nella memoria collettiva. Uscire da questo tunnel è una sfida di civiltà per l’umanità intera.

In Italia, i centri che accolgono uomini violenti sono 44: dal “Training antiviolenza uomini” di Bolzano, al “Cerchio degli Uomini” di Brescia, al “Gruppo di ascolto maltrattanti in emersione” di Cagliari. Leggere il lungo elenco dà l’idea di quanto sia cresciuta in poco tempo la necessità di stare dalla parte del lupo. Tanto che a Bari il servizio di assistenza per uomini maltrattanti si chiama proprio così.

A fare da apripista è stato il CAM (Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti) di Firenze, nato nel 2009. Ma a livello internazionale siamo gli ultimi arrivati. I primi programmi antiviolenza oltreoceano ed europei nascono negli anni Settanta e Ottanta: è il caso di “Emerge” a Boston e di “Evolve” a Winnipeg. Però qualche progresso si vede anche da noi: gli uomini cominciano a rivolgersi ai centri sempre prima. “Soprattutto all’inizio sentiamo dire di continuo: ‘Se lei fosse stata zitta, se lei avesse obbedito, se lei non avesse detto o fatto,” spiega Storti, “però, sempre più uomini tra i 35 e i 50 anni, quando hanno reazioni eccessive, come scuotere, urlare o dare spinte alla compagna, adesso si interrogano sul perché lo fanno e vengono qui.” Sette o otto anni fa non era così. La differenza era che, solo poco tempo fa, scuotere, urlare o spintonare una donna non era considerato un comportamento deviante. Ed era giustificato dalla pretesa che la donna, in qualche modo, se lo fosse meritato – o avesse provocato.

La parola magica è “provocazione”. Secondo una ricerca Ipsos realizzata per We World Onlus nel 2017, per un italiano su sei è colpa della donna che “se la cerca”. Gli uomini si sentono provocati quando la partner inizia a dire no. Andrea Bernetti, direttore del CAM di Roma, ci dice che gli uomini, quando arrivano a picchiare, lo fanno perché si sentono minacciati nella loro stessa esistenza.

È come se percepissero un pericolo di morte. Un’aggressione fisica. Che non c’è mai stata. “Le relazioni violente nascono a monte, quando la donna viene percepita come un oggetto, e sono il frutto di un accordo o collusione implicita nella coppia,” aggiunge Bernetti, “l’uomo sentendosi inadeguato a stare al mondo, perché ha perso l’autorità e il potere, cerca una relazione che ha la funzione di compensarlo e rassicurarlo. Queste partner sono delle stampelle per uomini che non sanno camminare.” Prima che partano il pugno e lo schiaffo, i presupposti ci sono tutti: la donna viene disumanizzata, diventa un oggetto da colpire. Il parallelismo con le prove muscolari e violente a livello di Stati e di nazioni è lampante: inventare il nemico, manifestare psicosi aggressive è il germe dell’attacco bellico. Donald Trump e Matteo Salvini ne sanno qualcosa.

Quando le donne esprimono i propri desideri e bisogni, l’incantesimo si spezza. L’uomo si sente tradito, messo all’angolo, ferito a morte.

A quel punto è troppo tardi. “Inizialmente vengono da noi chiedendoci di ripristinare un ordine precedente,” spiega ancora Bernetti, “loro vorrebbero far tornare quella persona la stampella che era un tempo.” Quando realizzano che non si può, o cambiano loro o ne cercano un’altra. Ad un primo livello imparano a gestire la rabbia: quando sentono che monta si fermano e prendono tempo, la osservano. Allora per gli psicologi è fatta, gli uomini sono “agganciati”: spostando il focus dalla loro parte si inizia a scardinare una dinamica polarizzata, si avvia un processo di consapevolezza e cura che riguarda la società intera. Di più: riguarda un mondo in cui il potere è prevalentemente in mano a uomini in profonda crisi d’identità. Deboli.

La violenza in fondo cos’è? Un atteggiamento innato o un comportamento appreso? La psicanalisi ci dice che si apprende dall’infanzia. Non siamo animali che mettono in atto comportamenti istintivi, siamo essere umani che operano delle scelte. E queste scelte possono essere modificate. Ma è da bambini che conosciamo la violenza. A volte anche solo osservando.

Così, il fenomeno si riproduce. La famiglia, che dovrebbe essere il luogo della protezione e della sicurezza sociale per eccellenza, diventa la tana del lupo, dove si ripetono le dinamiche della violenza subita, osservata, riprodotta ed emulata.

Il ruolo dei bambini è importante: spesso sono loro che ci portano ad agganciare gli uomini violenti, ed è grazie a loro che i padri il più delle volte si avvicinano a un processo di cura ed entrano in un centro anti-violenza. I figli dei maltrattanti sono un’esca. Ma non sempre. I lupi violenti possono anche essere padri amorevoli. In ogni caso, purtroppo, i bambini vedono, sanno, tacciono. E apprendono. Gli psicologi parlano di violenza assistita da parte dei figli. In Italia un dossier da poco divulgato da Save the children dice che ammontano a 427mila i minori che in soli cinque anni hanno vissuto la violenza tra le mura domestiche. Che ne sarà di loro?

Questi bambini e le bambine potrebbero diventare gli uomini e le donne maltrattanti di domani. Nella loro testa si crea un equivoco mostruoso: da una parte difendono ossessivamente la mamma, ma dall’altra emuleranno i padri. “I ragazzi apprendono che la violenza è comportamento accettabile e allo stesso tempo virile,” spiega Giorgia Usai, psicologa e mediatrice familiare. Dunque è attorno a loro che ruota il processo di interruzione della catena degli abusi.

È necessario metterli al riparo, intervenire tempestivamente, proteggerli e rimuovere lo choc psichico.

Accade spesso che gli episodi di maltrattamento delle madri vengano rinnegati a voce, per poi riemergere nel tempo sotto forme diverse. È ad esempio altamente probabile che le bambine che hanno avuto un padre violento siano portate a cercare partner simili, e a subirne le azioni.

I bambini non sono né Cappuccetto rosso né Hansel e Gretel, ma dalle favole possiamo apprendere molto: sono loro che ci portano a scovare la falla, a individuare il lupo mascherato da nonna, ad attraversare boschi con le briciole di pane che fanno da sentiero. Sono le vittime, le esche e la via d’uscita.

https://thevision.com/cultura/violenza-genere/?fbclid=IwAR3Rvjh_AkPhTA5ftoHCg3krUeaVw5voEFLw6wJT4n8sBF8yTzS6zhFD3D8

giovedì 14 novembre 2019

Le ragazze di Bauhaus di Claudia Mattogno

Il 2019 ha celebrato i cento anni dalla fondazione della scuola Bauhaus. Nata e forzatamente conclusa nell’ambito politico e sociale del breve periodo della repubblica di Weimar, il suo portato ha presto travalicato i confini tedeschi e quelli europei per lasciare un’impronta rilevante negli insegnamenti progettuali di molte scuole di architettura. Ha declinato arte, design e architettura attraverso un’esperienza didattica innovativa in grado di far dialogare artigianato e industria, esperienze artistiche e produzione industriale, innovazione tecnologica e elaborazione teorica.

La sua risonanza fu immediata. Gli obiettivi della grande apertura furono coinvolgenti e il tipo di formazione del tutto innovativo. Lo slogan “apprendere facendo” ne rappresenta bene la specificità: unire attività pratiche, artistiche e teoriche, con una visione ampia, integrata e interdisciplinare. La formazione prevedeva l’affiancamento di un artista e di un maestro artigiano e si articolava con un insegnamento di base propedeutico della durata di un semestre e quindi l’indirizzo verso laboratori quali la ceramica, l’arredamento, l’uso del metallo, la decorazione murale, la scultura, la grafica, la tessitura, l’architettura.

Si diventava così dapprima apprendisti di primo livello, dopo tre anni apprendista di secondo livello e dopo sei anni si diventaClaudia Mattognova giovane maestro.

In quattordici anni la scuola Bauhaus è costretta a spostarsi in tre sedi, Weimar, Dessau e Berlino, conosce tre diversi direttori, Walter Gropius, Hannes Mayer e Ludwig Mies van der Rohe, accoglie più di mille studenti. Tra questi 462 sono donne: una presenza dirompente in anni in cui l’accesso delle donne all’istruzione superiore era ancora limitato, se non addirittura negato in più di un paese europeo.

Tutti hanno ben impresso i nomi di grandi maestri come Gropius o Mies van der Rohe o apprezzano l’operato di artisti quali Albers, Kandisky o Klee. Qualcuno comincia a ricordare anche il nome di alcune insegnanti: Marianne Brandt nel laboratorio di metallurgia, Lilly Reich in quello di architettura e arredo, Anni Albers e Gunta Stölzl in quello di tessitura. Altre sono meno conosciute pur avendo ricoperto ruoli importanti: Gertrude Grunow nell’insegnamento della musica, Karla Grosch in quello della ginnastica e della coreografa, Otti Berger assistente al laboratorio di tessitura. Ben pochi conoscono però nomi quali Lotte Beese, forse la prima ad iscriversi nel 1927 al laboratorio di architettura appena aperto, la maggior parte pensa a Lucia Moholy solo come moglie di Laslo e non come fotografa.

Come mai questo cono d’ombra su una presenza che, invece, è stata molto rilevante?

All’apertura del Bauhaus, che per statuto ammetteva studenti di entrambi i sessi, le iscritte sono ben 84 mentre la presenza maschile raggiunge solo i 79 iscritti. Possiamo immaginare la sorpresa del corpo docente e le difficoltà nel superare i pregiudizi che ancora permeavano gran parte della società, anche quella che si voleva culturalmente più aperta, al punto che lo stesso direttore, davanti a questa massiccia affluenza femminile, si prodiga per attuare forme di selezione molto rigide.

Le studentesse erano numerose. Anche se la loro presenza negli anni è andata diminuendo, sia per i criteri di severa selezione, sia per quella sorta di “confinamento” attuata nei loro confronti, quando sono state progressivamente indirizzate verso ambiti ritenuti più consoni alle innate capacità domestiche femminili. Il laboratorio di tessitura era considerato una forma di artigianato artistico, relegata alle posizioni più basse nella gerarchia dell’arte e del design. Pur rappresentando una forma di confinamento, per molte divenne comunque uno spazio di autonomia che lasciava libertà di campo e di azione e che, per ironia della sorte, si rivelò anche in grado di realizzare rilevanti profitti, andando quindi a co-finanziare le digressioni artistiche delle sezioni di dominio maschile.

La storiografia femminista, la maggiore attenzione della storia agli aspetti del quotidiano assieme alla più recente tendenza ad analizzare anche le figure sullo sfondo e non solo i cosiddetti 'maestri', hanno portato sempre più studiose, e anche qualche studioso, a indagare su quelle cosiddette 'figure minori' che sono rimaste troppo a lungo nell’ombra di un marito o di un collega più famoso, o la cui opera è andata dimenticata nel tempo.

Chi sono dunque queste donne che hanno animato le aule della scuola? Non le conosciamo ancora tutte, ma il sito 100 Years of Bauhaus ha cominciato a ricostruirne i percorsi, favorendo così l'emersione dal passato, di figure, storie di vita e famiglie di appartenenza. L’elenco è ancora incompleto e sono evidenti le difficoltà nel condurre la ricerca, a cominciare da un aspetto quasi banale ma irto di difficoltà come quello di rintracciare i cognomi da nubili.

I volti e le biografie di queste donne che popolano le stanze del Bauhaus mostrano che sono giovani. Molte si iscrivono intorno ai 18-20 anni e sono già colte. Hanno tutte ricevuto un’educazione in una scuola, spesso pubblica, e molte di loro dispongono di una formazione artistica: l’americana Irene Bayer aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Berlino e frequentato l’Ecole des Beaux Arts a Parigi, Florence Henri aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Berlino e frequentato l’Accademia Moderna di Parigi, dove insegnavano Fernand Leger e Amedeo Ozenfant.

Sono donne creative e hanno voglia di mettere in atto nuovi stili di vita e di apprendimento. Molte di loro si dedicheranno alla fotografia: una disciplina nuova che è meno “incrostata” di retaggi culturali preconfezionati e che schiude ampie possibilità di sperimentazione. Nuovi linguaggi e nuovi materiali vengono sondati anche da chi viene “indirizzata” verso la tessitura, come ha fatto ad esempio Anni Albers che lavorava con materiali innovativi, tra cui i tessuti fono-assorbenti, utilizzando materiali industriali a fini artistici, e mettendo insieme il filato tradizionale della lana con il nuovo cellophane.
Claudia MattognoClaudia MattognoClaudia Mattogno
Sono donne che adottano stili di vita anticonvenzionali. Le foto che le ritraggono sono spesso opera di Lucia Moholy e ci mostrano ragazze sorridenti, che guardano dritto nell’obiettivo, che vestono abiti di grande modernità e hanno i capelli corti.

Molte rimangono nubili per dedicarsi completamente alla produzione artistica; altre sposano compagni di Bauhaus ma spesso ne rimangono all’ombra. Qualcuna di esse avrà un matrimonio duraturo, molte divorzieranno presto.

Sono viaggiatrici e si muovono agevolmente all’interno di quello che era stato il perimetro dell’impero prussiano, spesso superano questi confini e visitano Parigi, importante centro di produzione artistica e culturale. L’artista Ida Kerkovius attraverserà l’Europa settentrionale, l’architetta Lotte Beese lavorerà in Siberia con Max Stam, che in seguito sposerà ad Amsterdam. Alcune di esse compiranno viaggi di studio in Italia: Florence Henri frequenta l’ambiente futurista italiano mentre studia al conservatorio, la scultrice e scenografa teatrale Ilse Fehling riceve nel 1932 il Prix de Rome con una consistente borsa di studio.

Sono donne con vite complesse e non di rado tragiche. La chiusura del Bauhaus da parte dei nazisti nel 1933 fu seguita da anni caotici e anche drammatici per molte di loro. Numerose moriranno nei campi di concentramento, spesso rifiutando un visto di espatrio per restare accanto alle loro famiglie, come fece Otti Berger. Alma Siedhoff-Buscher muore nel bombardamento di Francoforte, altre perdono la loro produzione artistica nei bombardamenti di Berlino. Alcune fuggono in esilio ed emigrano negli Stati Uniti con i mariti come Grit Kallin Fischer, grande talento della fotografia, o come Anni Albers, che insegnerà presso Black Mountain College nel North Carolina a partire dal 1933. Altre ancora partiranno per il Sud America, qualcuna a Tel Aviv, qualcun’altra in Sud Africa come la fotografa e grafica Etel Fodor-Mittag.

Sono donne che lavorano. Aprono studi professionali autonomi e fondano aziende di tessitura a mano, come farà Gunta Stolzl nel 1931 a Zurigo. Lavorano in grandi imprese legate alla produzione tessile, come Otti Berger o alla carta da parati come Maria Rach. Fondano atelier di produzione, come Friedl Dicker, che disegna e produce giocattoli, gioielli, tessuti e scenografie, grafica.

In molte si trasferiranno a Berlino, la capitale culturale, città aperta e cosmopolita, effervescente, ma che sarà anche la loro rovina perché qui perderClaudia Mattognoanno le loro opere durante i bombardamenti. Altre si trasferiranno all’estero. Lucia Moholy, dopo aver divorziato dal marito nel 1929, dapprima si sposta a Parigi e poi raggiunge Londra, da dove collaborerà attivamente a creare il patrimonio di documentazione dell’Unesco, mentre Lotte Stam-Beese si stabilirà in Olanda dove realizzerà interventi di scala urbanistica.

Sono in gran parte donne attive socialmente e politicamente. E spesso manifesteranno il loro impegno attraverso la fotografia sociale di denuncia: Irena Blühova fu anche un’attiva antifascista durante la Seconda Guerra Mondiale, Judith Karasz fu espulsa per questo dalla scuola nel marzo 1932.

Sono donne a lungo rimaste nell’ombra. Per alcune di esse le uniche citazioni sono state quelle di “moglie di…”, Ise Gropius veniva chiamata MClaudia Mattognors. Bauhaus, ma è stata fotografa, autrice di testi, redattrice, organizzatrice di eventi, segretaria della scuola. Altre, come Lilly Reich, a lungo collaboratrice di Mies van der Rohe e già con una relativa notorietà prima di arrivare al Bauhaus, sono state oggetto solo di recente di un’attenzione specifica che ne ha ricostruito con pienezza il ruolo. Ne costituisce un esempio la figura di Judith Karasz rimasta a lungo sconosciuta pur lavorando dal 1949 al 1968 come responsabile degli archivi presso il Museo di Arti Decorative di Budapest per il quale ha fotografato centinaia di opere.

Sono donne che hanno contribuito a sedimentare memoria. Hanno svolto un prezioso lavoro di documentazione, hanno scattato ritratti, hanno ripreso momenti di vita all’interno della scuola. Lo testimoniano le numerose foto di Lucia Moholy e i premi di Margarete Reichardt nel 1937 a Parigi, nel 1939 alla Triennale di Milano, nel 1951Claudia Mattogno il diploma d’Oro e a cui nel 1970 fu affidato l’incarico di curare l’eredità Bauhaus. Un’eredità che finalmente sembra ritrovare le sue filiazioni femminili.
http://www.ingenere.it/articoli/le-ragazze-di-bauhaus?fbclid=IwAR3NlCvUKaYoOLt8og8bCMf3xPugdZgfujuelwIT-f9D_p2JTGLhP0x6qWM

martedì 12 novembre 2019

Pillon sale in cattedra per un seminario sull'affido condiviso a Parma

Il coordinamento dei centri antiviolenza dell'Emilia-Romagna insorge e chiede di sospendere l'evento: «Ricordiamo che il suo ddl prevede l'obbligatorietà della mediazione familiare, applicabile anche ai casi di violenza».
 
Il leghista Simone Pillon sale in cattedra. Per aggiornare altri avvocati sull'affido condiviso, tema centrale del suo discusso disegno di legge archiviato (a settembre la neo ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti aveva assicurato sarebbe rimasto nel cassetto). E allora perché chiamarlo a tenere una lezione? Il coordinamento dei centri antiviolenza dell'Emilia-Romagna non ci sta, e ha espresso «sconcerto» di fronte al seminario organizzato per venerdì 15 novembre dalla Camera civile di Parma che vedrà come «relatore e professore in cattedra Simone Pillon, il senatore leghista autore dell'omonimo ddl che abbiamo definito più volte come un attacco alla libertà delle persone, ai diritti delle donne ed adultocentrico, un progetto oscurantista che, se diventasse legge, penalizzerebbe ulteriormente le donne che subiscono violenza».

Per questo i centri, oltre a sottolineare come la scelta arrivi «a ridosso della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne» si uniscono all'Unione donne italiane di Bologna «e alla richiesta di sospendere l'evento». Per il coordinamento «è motivo di indignazione che tale seminario sia inserito nel percorso formativo rivolto agli avvocati. Ricordiamo che il ddl Pillon, per citarne solo un aspetto, prevede l'obbligatorietà della mediazione familiare, applicabile anche ai casi di violenza, e che tale imposizione viola la Convenzione di Istanbul che è legge in Italia dal giugno 2013».
https://www.letteradonna.it/it/articoli/politica/2019/11/11/pillon-seminario-parma-affido-condiviso/29324/?fbclid=IwAR1Hs9tj-qypGUQVU1-j9uRqlAg7VroYMEh2JuWSYilfpdLI3xavGzP7-w4

lunedì 11 novembre 2019

Femminicidio. Donne e violenza, un'altra beffa: «Mai ripartiti i fondi del 2019» Viviana Daloiso

Parla la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio Valeria Valente: «Non basta l’inasprimento delle pene, per fermare i maltrattamenti serve un cambio di rotta culturale»
 
La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio è stata istituita per la prima volta nel 2017, con una delibera del Senato. Obiettivo: svolgere indagini sulla reale dimensione del fenomeno del femminicidio e sulla violenza di genere in Italia. La prima Commissione, presieduta da Francesca Puglisi (anche lei dem), ha svolto 37 audizioni di ministri, esperti, docenti universitari, associazioni di donne, giudici, esponenti di enti locali, associazioni di avvocati, mass media. Numerose le indagini nelle procure e nei tribunali per raccogliere dati sul fenomeno, pubblicate poi in un report finale di oltre 400 pagine (disponibile online sul sito del Senato). La seconda Commissione è stata istituita a febbraio del 2019, con Valeria Valente come presidente. Sono ripresi immediatamente i cicli di audizioni ed è cominciato anche un giro di visite istituzionali nei Centri antiviolenza: le prime tappe sono state Potenza, Trento, Palermo. Il prossimo mese sarà a Napoli.

Non basta l’umiliazione dei 12 milioni di euro stanziati ai Centri antiviolenza nel 2017 (che divisi per il numero di donne accolte e sostenute in un percorso di recupero, come ha denunciato Avvenire, fanno poco più di 70 centesimi a vittima). C’è anche la vergogna dei fondi stanziati per l’anno in corso, il 2019, «fondi per cui non è ancora nemmeno iniziato il riparto tra le Regioni» spiega Valeria Valente, senatrice del Pd e da febbraio presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Un ritardo di 10 mesi, «a cui si deve sommare quello medio di altri 8 o 9 delle Regioni per la procedura di effettiva assegnazione»

Concretamente questo cosa significa, onorevole?
Che da un anno gli stessi Centri antiviolenza – l’unico baluardo di difesa delle donne vittime di abusi e maltrattamenti nel nostro Paese – non solo non hanno fondi per procedere con le proprie attività, ma non sanno nemmeno se li riceveranno. Un’incertezza che di fatto impedisce la programmazione degli interventi e la stesura di nuovi progetti, oltre che penalizzare (quando non azzerare del tutto) quelli già in corso.

A cosa si deve questo ritardo?
Banalmente, ai tempi della burocrazia. Nonostante più volte, come Commissione, ci siamo mossi per sollecitare il governo precedente sul Piano di riparto, nulla è stato fatto. E siamo a novembre, quando negli anni precedenti – pur già con un enorme ritardo – si procedeva appena dopo l’estate.

E il nuovo governo?
Si sta muovendo. Proprio questa settimana abbiamo incontrato il premier Conte, che ci ha rassicurati sulla priorità di questo punto. E il ministro per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, che ha insediato mercoledì a Palazzo Chigi la cabina di regia interministeriale sulla violenza contro le donne, ha promesso che in tempi brevi arriveranno i 30 milioni di euro da destinare alla Regioni per finanziare i centri. Sono segnali di un impegno che ci rincuora, ma che va mantenuto.

I reati contro le donne sono gli unici che continuano a non diminuire, nonostante l’Italia negli ultimi anni si sia dotata di norme fortemente punitive nei confronti di chi li commette. Perché?
È vero, il quadro normativo italiano si è arricchito di interventi volti a un inasprimento delle pene sul fronte delle violenze di genere. Dalla legge contro lo stalking fino al recente Codice rosso, abbiamo assistito al tentativo “aggredire” il fenomeno dal punto di vista del diritto penale, coi risultati positivi di un aumento degli arresti e delle denunce. La tutela delle donne, però, non è aumentata. Troppi i casi di violenza, troppi i femminicidi a cui quotidianamente assistiamo quasi inermi. Questo ci dice che pene più aspre non bastano. Serve un cambio di passo, a cominciare da una presa di coscienza culturale di quello che sta accadendo.

Da dove si comincia?
Dalle università, tanto per fare un esempio. Chi si occupa di violenza sulle donne, nel nostro Paese, ancora non ha la formazione e la specializzazione necessarie per farlo. Penso agli avvocati, ai medici di base, agli psicologi, agli ufficiali di polizia: quando, in un percorso di studi standard, si incontrano moduli specifici pensati perché questi professionisti sappiano trattare il caso di una donna vittima di violenza? Chi si sta occupando di arricchire i percorsi curriculari in tal senso? Scopriamo, anzi, che sono sempre gli stessi Centri antiviolenza nella maggior parte dei casi a offrire questo tipo di formazione. Come Commissione d’inchiesta siamo impegnati su questo punto costantemente: proprio con gli atenei stiamo approntando piani di collaborazione e sensibilizzazione in tal senso. E poi siamo al lavoro coi tribunali.

Come?
Stiamo svolgendo una prima indagine, attraverso la distribuzione capillare di questionari, su come vengono affrontate le separazioni civili. Ci siamo resi conto, infatti, che l’area al di fuori del penale resta del tutto scoperta a livello di controlli e attenzioni, quando invece moltissime vittime di violenza continuata in famiglia, per paura di denunciare, intraprendono proprio la via della separazione civile per mettere al sicuro se stesse e i propri figli. Ecco, a quel livello le situazioni a rischio dovrebbero essere intercettate e accompagnate con molta più frequenza di quel che avviene. Sempre coi tribunali, poi, abbiamo avviato una serie di verifiche su alcuni casi di denunce archiviate, e poi sfociate in femminicidi. Serve che certi segnali vadano intercettati prima che le donne muoiano.

LA PRIMA PUNTATA Violenza sulle donne. Lo Stato e quei 76 centesimi al giorno per le vittime

IL CASO DI MILANO: ABUSI E MALTRATTAMENTI. IL CORAGGIO DELLA FIGLIA 14ENNE, CHE DENUNCIA

Il “copione” sembra sempre lo stesso: un uomo violenta la compagna e la figlia di lei ma la donna non se la sente di andare dai carabinieri a denunciarlo perché ha paura. Ma stavolta, a far arrestare il bruto raccontando tutto al giudice, è stata la ragazzina. È accaduto a Milano. Le aggressioni nei confronti della mamma andavano avanti dal 2015 e l’ultima risale a una decina di giorni fa, quando, dopo essere finita in ospedale con costole e naso rotti, si è finalmente decisa a denunciare il compagno dal quale a giugno ha avuto un bimbo.

Ma a dire ai pm quello che accadeva nella loro casa, a descrivere le scene a cui ha assistito terrorizzata più volte, è stata la figlia maggiore della donna, una 14enne, a sua volta vittima di abusi. Ora il responsabile delle violenze, 44 anni, è in carcere con l’accusa di maltrattamenti in famiglia, lesioni e atti sessuali nei confronti della minore: con precedenti per spaccio, finito a San Vittore, nel 2018 l’uomo era stato assolto dal reato di maltrattamenti e lesioni perché le accuse erano state ritenute inattendibili a causa della reticenza della sua compagna che, nonostante le botte, lo ha sempre riaccolto in casa. A squarciare il velo sulla tremenda realtà è stata la ragazzina, stanca di vivere quell’incubo: ha ricostruito con gli agenti e il pm le vessazioni in famiglia, in particolare quelle a partire dallo scorso aprile, ovvero da quando è ritornata a casa dopo un periodo trascorso dalla nonna e poi in una comunità. La giovane, che è incinta, da quanto si è appreso, dopo aver assistito all’ultima aggressione, in ottobre, era stata ospitata dalla famiglia del suo fidanzatino.
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/donne-e-violenza-unaltra-beffa-mai-ripartiti-i-fondi-del-2019?fbclid=IwAR10prUnvlVFYcRGBVVNvM5O1Ee5hhUd89iGeI60jfsVlhEMxbCOKeelIu0

domenica 10 novembre 2019

Allarghiamo la consapevolezza sulla violenza maschile contro le donne DI SIMONASFORZA

Quante volte abbiamo detto che dobbiamo moltiplicare le occasioni per conoscere più da vicino ciò che ciascuna donna sperimenta nel corso della sua vita, con una frequenza elevata e pervasiva, come le statistiche continuano a registrare. Ma noi tutte lo sappiamo come si vive in questo sistema culturale e comportamentale che da secoli ci schiaccia e cerca in tutti i modi di ricondurci al nostro posto, al nostro ruolo, a ciò che un uomo prescrive come corretto e cosa buona per una donna. Il femminismo ci ha permesso di guardare in faccia tutto ciò che da secoli ci accadeva e di analizzarlo nel profondo, fino ad arrivare alle radici di questo costrutto sociale e culturale patriarcale.

Violenza maschile sulle donne, declinata in tante variabili, alcune sottili e invisibili, abilmente celate o minimizzate, anche da noi stesse donne, educate e cresciute nella medesima broda culturale, che ci fa attendere tanto troppo prima di capire cosa sta realmente accadendo e ribellarci, che ci inculca sensi di colpa e mille strategie di negazione. Sessismo, violenza sessuale, economica, stalking, pressioni dentro e fuori casa. Non siamo esagerate, non siamo paranoiche, non ingigantiamo ciò che sperimentiamo sulla nostra pelle, non siamo isteriche, non siamo misandriche, non odiamo gli uomini, non giochiamo a fare le vittime. Se troviamo un varco per riuscire finalmente a parlarne, ascoltateci, sul serio però, senza rivittimizzarci e senza minimizzare. Tutto questo, dicevamo, parte da una società, che in tutti i suoi contesti e luoghi, sia capace e intenda cambiare la sua cultura in modo radicale, a partire da come si considera una donna, iniziando a rimuovere stereotipi, pregiudizi, etichette, insomma tutta quella polvere patriarcale che si è abilmente insediata nelle nostre relazioni, nella nostra mentalità, nelle nostre aspettative. Ecco, perché credo che sia un’occasione importante quella offerta dal progetto SFERA – Sviluppo della Formazione per Reti Antiviolenza, che nasce da un accordo fra l’Università degli Studi di Milano-Bicocca (Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale) e PoliS-Lombardia, grazie ad un finanziamento della Regione Lombardia, Direzione Generale Famiglia e Pari opportunità, per la formazione di reti territoriali, volti alla prevenzione e al contrasto della violenza di genere.

Un percorso di formazione gratuita, fino a esaurimento posti, costruito per moduli, laboratori ed eventi, articolato seguendo le “4P” previste nella Convenzione di Istanbul (Prevenire la violenza; Proteggere e sostenere le vittime; Perseguire i colpevoli di violenza sessuale e domestica; Promuovere politiche integrate).

I percorsi sono rivolti agli ordini degli assistenti sociali, degli psicologi, dei giornalisti, al personale dei centri anti-violenza, al terzo settore e a chi opera nel mondo dello sport, all’associazionismo, con un interessante modulo rivolto a chi lavora nei consultori pubblici e privati, “L‘accoglienza e la presa in carico delle vittime: servizi territoriali + servizi ospedalieri”, previsto per il 19 novembre 2019, dalle 14:00 alle 18:30.

Sapere, essere consapevoli di cosa siano certi fenomeni e di quanto di frequente accadano episodi della sfera della violenza maschile contro le donne fondata sul genere e spesso occultata, come ci ha perfettamente illustrato la professoressa Patrizia Romito, ne Un silenzio assordante, è il primo passo per guardare in faccia questi atti di violenza e assolutamente non consentire più che nemmeno un singolo episodio subisca una forma di silenziamento. Parliamone, affrontiamo questo fenomeno, cogliamo ogni più piccolo segnale nei nostri ambienti quotidiani, lavorativi, relazionali, familiari. Partiamo da noi. Penso che ogni occasione, specialmente se accompagnata da professionisti e da esperti che operano quotidianamente su questi aspetti, sia utile a costruire quel terreno fertile di consapevolezza e possa costituire un importante leva per scardinare la cultura che è alla base della violenza maschile contro le donne. Una missione di cui tutti e tutte noi possiamo farcene portatrici/portatori. Qualcosa che dobbiamo raccontare (come da Il male che si deve raccontare, di Simonetta Agnello Hornby e Marina Calloni), che dobbiamo affrontare e disvelare, portarlo sempre più davanti agli occhi di chi ancora oggi nega, ridimensiona, sminuisce la sua gravità e diffusione, non ha gli strumenti per riconoscerlo sin dai suoi primi segnali. Succede, non è qualcosa lontano da noi. Prendiamo consapevolezza e allarghiamo la consapevolezza. A 360°, come una sfera.

Tutte le informazioni per le iscrizioni e le date degli incontri le potete trovare qui.
https://simonasforza.wordpress.com/2019/11/09/allarghiamo-la-consapevolezza-sulla-violenza-maschile-contro-le-donne/?fbclid=IwAR1c1G5X8BirZWb6QJ092OoJnqnZlM5EYnx16vIyOvj5XEYt-YHDngxWbtA




sabato 9 novembre 2019

Femminicidi: «Basta raffigurare donne deboli, mettete le foto degli uomini assassini» di Vanna Ugolini

Basta raffigurare i femminicidi con l'immagine di donne ferite, piegate. Addirittura con gli abiti scomposti, quasi a sottolinearne la sensualità nonostante le immagini siano collocate in un contesto di dramma e violenza.
Carla Arconte, storica umbra, non ha dubbi in proposito: se il dibattito sull'uso di un linguaggio che non giustifichi il comportamento dell'aggressore è cominciato, quello sull'uso delle immagini che vanno a raffigurare un episodio di violenza contro le donne sui mass media, deve ancora partire ed è altrettanto importante.
«Con quel tipo di immagini lo sguardo che racconta l'accaduto è quello del violentatore, non è mai quello della vittima che si difende. E' dannoso mettere quelle immagini perchè vanno a costruire o affermare degli stereotipi. Le donne deboli, le donne che subiscono. In realtà, prima di arrivare a soccombere, la donna si è difesa, ha provato a resistere, è stata forte. Ma tutto quello sparisce in una foto che, alla fine, rischia quasi di andare a giustificare il comportamento dell'aggressore».

Tenta di sgozzare la compagna, aveva già ucciso la fidanzata. Fiorella Mannoia su Twitter: «Sembra tutto inutile»

Strangolata dal marito, il messaggio di Roberto all'amico: «Giuro non ero in me»

Perchè oltre alla debolezza «le donne spesso vengono raffigurate anche con i capelli sciolti, le gambe scoperte, gli abiti succinti. Sono immagini che arrivano quasi a colpevolizzare le vittime, a relegarle nel ruolo di adescatrici». Nelle foto che accompagnano gli articoli o i servizi «meglio raffigurare gli uomini, le armi che hanno usato, a dimostrazione della ferocia e delle violenza che la donna ha subito e per questo, nonostante il fatto che la donna si sia difesa, ha dovuto cedere».
Ci sono poi altre immagini che vanno a colpevolizzare la vittima: quelle che riguardano la coppia che sorride felice. «Sono immagini che destabilizzano, che fanno pensare che lui non fosse poi così cattivo e che lei, comunque, non fosse così spaventata. Invece sappiamo bene che ogni uomo violento alterna momenti di serenità a momenti di ferocia nel rapporto con la sua vittima. Sono meccanismo psicologici ormai acclarati».
Per quanto riguarda il linguaggio «bisogna proseguire ad affermare una narrazione dalla parte della vittima, senza giustificazioni. Una donna non viene uccisa da un raptus ma dalla ferocia del suo assassino»
https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/femminicidi_violenza_donne_news_codice_rosso-4810089.html?fbclid=IwAR23pQ-P6MuulSzn9RC1yK59NDvdgkCiEBl0C3fcJOrJIeo2tgFNDMrzL-E

venerdì 8 novembre 2019

L'Unesco ai giornalisti, usate il linguaggio appropriato per raccontare le violenze sulle donne di Franca Giansoldati

Una donna su tre nel mondo è stata segnata dalla violenza fisica o sessuale nel corso della vita, praticamente «un flagello sistematico che persiste nella sua invisibilità». L'Unesco ha pubblicato un dossier per sensibilizzare i mass media ad affrontare il tema della violenza con il linguaggio giusto, in modo equilibrato ed etico. Troppo spesso le discriminazioni o la veicolazione di stereotipi nascono da una narrazione dei fatti scorretta.

Donne e digitale, il web rischia di diventare un (altro) mondo non per donne

Si tratta di una specie di manuale che inquadra la grande sfida dell'uguaglianza di genere per le nuove generazioni. I temi affrontati sono tanti e comprendono i matrimoni precoci, la violenza domestica, le mutilazioni genitali femminili, i cosiddetti crimini d’onore, la tratta delle donne, l’odio sessuale in rete e la violenza sulle donne nei conflitti. «Affrontare la violenza di genere  significa trattare un tema che riguarda l’umanità intera, significa riflettere sui pregiudizi, sugli stereotipi e contribuire a rompere il silenzio e a far uscire la questione dalla sfera privata dove la violenza sulle donne è ancora troppo spesso relegata».

Sindaco o sindaca? Magistrato o magistrata? Per l'Accademia della Crusca il linguaggio è motore del cambiamento

«I media sono le nostre finestre sul mondo» sottolinea l’Unesco, e possono avere un impatto e un ruolo importante nel raggiungimento dell’uguaglianza di genere perché hanno il potere e la capacità di ispirare un cambiamento nelle norme, negli atteggiamenti e nei comportamenti scegliendo di far sentire la propria voce.

Femminicidi: «Basta raffigurare donne deboli, mettete le foto degli uomini assassini»

Per l’Unesco, è importante che sul fenomeno si accenda la luce giusta. Per questo si è pensato a una guida pratica che comprende esempi specifici, consigli pratici, definizioni, dati e raccomandazioni sui vari tipi di violenze, ad esempio dalle spose bambine ai matrimoni forzati, dalla mutilazione genitale femminile alle molestie sessuali e online fino alla violenza sessuale sulle donne come arma di guerra.

Migliorando la copertura mediatica sul tema, sottolinea l’Unesco, rompendo il silenzio e segnalando regolarmente i casi, i giornalisti hanno il potere di far luce sulla portata e sulle implicazioni individuali e collettive della violenza contro le ragazze e le donne e possono contribuire a porre fine a questi crimini.
https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/violenza_donne_giornalisti_linguaggio_femminicidi_sesso_mind_the_gap-4847754.html?fbclid=IwAR0lVLhVl6bnZnHSsKYOqB5Kx_MTsaAu7ymHprKQLFJQfj1lxlykRjf7N0o

giovedì 7 novembre 2019

Da oggi la senatrice a vita Liliana Segre avrà la scorta

Da oggi, giovedì 7 novembre, la senatrice a vita Liliana Segre avrà la scorta, garantita dai carabinieri del Comando provinciale di Milano. La misura è stata decisa dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal prefetto Renato Saccone.

Segre ha 89 anni ed era stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel gennaio del 2018 per «per aver illustrato la patria con altissimi meriti nel campo sociale». Da bambina fu espulsa da scuola per le leggi razziali e nel 1944 fu deportata al campo di concentramento di Auschwitz dove rimase per circa un anno prima di essere liberata. Da decenni si impegna per conservare la memoria dell’Olocausto nelle nuove generazioni e per questo si ritrova da mesi al centro di minacce sempre più numerose – ha raccontato di ricevere una media quotidiana di 200 messaggi d’odio sui social network – e martedì scorso esponenti di Forza Nuova, partito neofascista di estrema destra, avevano esposto uno striscione contro di lei a Milano, vicino al teatro di via Fezzan, in cui la senatrice stava parlando davanti a 500 studenti.

Già nel 2018 l’aumento dei commenti d’odio contro Segre aveva portato all’apertura di un’indagine della squadra antiterrorismo del magistrato Alberto Nobili, per cercare tra le altre cose di risalire agli autori anonimi degli insulti.
https://www.ilpost.it/2019/11/07/senatrice-liliana-segre-scorta/?fbclid=IwAR2G2cLSwSO5Mo2YR3L8w3oikDg5I-EdMsJyJAZIiCTLEtAdGDft9yIfVqg

mercoledì 6 novembre 2019

Alessandra Kustermann: «Gli uomini non imparano, continuano a non rispettare le donne»

Prima donna primario della Mangiagalli, fondatrice del Soccorso Violenza Sessuale e Domestica, viene riconosciuta come un'inesauribile agitatrice di coscienze. E qui racconta le sue battaglie quotidiane
«Mi sento una servitrice dello Stato. Che non è il governo, ma tutti noi che contribuiamo a creare servizi migliori per le persone». A parlare potrebbe essere una magistrata, una giudice, una poliziotta. E invece Alessandra Kustermann è una ginecologa, seppure piuttosto speciale. Freschissima di compleanno, si è regalata un weekend tra Roma e Sicilia. Nulla di romantico o festaiolo. Prima tappa, l’Istituto Superiore di Sanità per la messa a punto della formazione del personale dei Pronto Soccorso per le vittime di violenza. Seconda tappa: intervento al congresso internazionale sulla contraccezione di Taormina.

Chi la conosce si stupirebbe del contrario. Perché da quando era alta un soldo di cacio, l’unica cosa che veramente le importa è prendersi cura degli altri. La primaria del Pronto Soccorso dell’ospedale Mangiagalli di Milano (prima donna nella storia quasi secolare dell’istituto) ha una famiglia grande e affettuosa, figli e nipoti da coccolare.

Ma al centro dei suoi pensieri ci sono anche le donne, per le quali ha creato più di vent’anni fa il Soccorso Violenza Sessuale e Domestica. Fra un treno e una riunione, scorre i nuovissimi dati Istat sugli accessi ai centri anti-violenza pubblicati. Non si dà pace: «Dopo oltre vent’anni di attività, i numeri non diminuiscono, anzi. Gli uomini non imparano, continuano a non rispettare le donne».

Come se non bastasse, dopo lo stalking è apparsa sulla scena sociale una nuova modalità di violenza, catalogata sotto l’etichetta «Non ricordo». Ragazze che cominciano la serata in discoteca, nei bar, a casa di amici, e si svegliano al mattino dopo in un luogo che non conoscono, oppure per strada, con la convinzione di essere state violentate, ma senza ricordi precisi. «Rispetto ai settantatrè episodi del 2018, i casi sono in aumento e sono molto difficili da affrontare. L’uso del preservativo impedisce di trovare tracce e le droghe sintetiche scompaiono dal sangue nel giro di poche ore. Così le vittime pensano che sarà impossibile provare la violenza ed evitano di denunciare».

È un errore. Perché denunciare significa attivare le indagini. «Proprio recentemente uno stupratore è stato condannato a sei anni di carcere per la violenza usata su una ragazza conosciuta in discoteca. La denuncia ha permesso agli inquirenti di visionare le immagini delle telecamere di sorveglianza e risalire al responsabile. Senza denunce, continuano a farla franca».

La salute delle donne è un impegno a 360 gradi. Ha difeso la 194 con tutte le sue forze, facendosi carico dei vuoti lasciati dai colleghi obbiettori perché sui diritti non si discute, «Anche se temo che quando sarà scomparsa la mia generazione, per i giovani sarà molto complicato mantenerli. Non hanno lottato per averli. È come se non avessero gli anticorpi…».

Malgrado un fulgido passato da specialista di patologie fetali, il suo oggi è votato quasi per intero al sociale. «Le patologie della gravidanza hanno più facili soluzioni, la scienza è progredita, riesce a dare moltissime risposte. Nel campo sociale, invece, tutto è molto complicato. Come primaria, mi occupo tantissimo di problemi organizzativi. Me lo sono scelto in qualche modo. Sapevo perfettamente a che cosa avrei dovuto rinunciare, in primis al mondo delle gravidanze fisiologiche, con la loro bellezza, anche se la direzione del nuovo consultorio un po’ me l’ha restituita. E poi nella vita ci sono momenti in cui sei in prima linea, e altri in cui sei chiamato a fare il generale. Quel po’ di potere che ho raggiungo mi serve a incidere positivamente sulla vita di molte migliaia di donne».

Dall’Ambrogino d’Oro al premio dell’Associazione Consolati Sudamericani (per il supporto alle vittime di abusi latinoamericane), su su fino al supporto di Letizia Moratti (che da sindaca decise di devolvere parte del suo stipendio al Soccorso Violenza Sessuale), Kustermann viene riconosciuta come un’inesauribile agitatrice di coscienze.

Fuma troppo, è irrimediabilmente golosa, non sa leggere il GPS, si lascia dietro scie di oggetti e appuntamenti smarriti o dimenticati, strizza gli occhi per l’imbarazzo come una ragazzina. È stata una donna molto bella, molto desiderata. E anche se ha lasciato imbiancare i capelli e ha allungato l’orlo delle gonne, quando ride – i denti fascinosamente irregolari, la bocca ben disegnata – è ancora irresistibile. Ha un’autorevolezza naturale, un approccio a persone e problemi colto senza snobismi, empatico, pragmatico, che cerchi un ricovero per una donna picchiata o il colore delle lampade del consultorio inaugurato lo scorso dicembre. Nei locali luminosi della bella palazzina di via Pace vengono indirizzate le gravidanze non patologiche destinate alla Mangiagalli e si fanno corsi di educazione sentimentale (l’aggettivo sessuale crea ancora ansia) ormai esportati anche nelle scuole. «Ma per indurre un reale cambiamento, bisogna cominciare a insegnare la cultura della gentilezza fin dall’asilo nido. Altrimenti non ce la faremo».

Il tempo della pensione è ancora distante – quattro anni al limite massimo dei settant’anni dei primari – e comunque non prescinderà dalla scelta di una vita intera. «Certo, mi occuperò di più dei miei nipoti piccoli, che vivono a Bruxelles e che quindi vedo poco. Sicuramente continuerò a fare volontariato, il medico gratis per chi ne ha bisogno. Ognuno deve fare la sua parte».

Del resto, il concetto del buen retiro mal si attaglia alla storia di Kustermann, all’urgenza dei problemi che le sono tanto cari: «Quest’anno a Milano abbiamo contato seicento violenze domestiche e cinquecento violenze sessuali. Ma il dato peggiore riguarda il sommerso, che arriva al 90%. Su dieci donne che accedono ai nostri centri (49 nella sola Lombardia) una sola denuncia. E una su cinque non condivide la sua angoscia con nessuno. È terribile quando vengono da noi e poi scompaiono, come nel caso dell’ultima donna uccisa a Milano. Capisco la paura, la vergogna, la perdita di autostima. Ma se ci sono di mezzo i bambini, non lo accetto più».
https://www.vanityfair.it/mybusiness/donne-nel-mondo/2019/11/03/alessandra-kustermann-ginecologa-violenza-sulle-donne

lunedì 4 novembre 2019

Era preoccupata per la sua bambina, l’aveva protetta, la voleva salvare.

Filomena Bruno è stata uccisa qualche giorno fa con due coltellate in pieno petto inferte da Cristoforo Aghilar, l’ex compagno della figlia ventunenne. Filomena è morta per proteggerla, perché non ha voluto dire dove la ragazza si fosse rifugiata. Era scappata dall’uomo violento che l’aveva maltrattata. Filomena aveva incontrato l’aguzzino della figlia, latitante evaso dagli arresti domiciliari, in un bar, di Orta Nova, in provincia di Foggia. La stessa cittadina in cui Ciro Curcelli ha sparato alla moglie Teresa Santolupo e alle sue due figlie Miriana e Valentina uccidendole.

Lui aveva minacciato Filomena con una pistola, le aveva chiesto dove era la figlia, dove l’avrebbe potuta trovare. La ragazza era scappata da lui, la madre l’aveva aiutata a nascondersi, a trovare rifugio da alcuni parenti.
Filomena non aveva rivelato il luogo dove si era riparata. Non aveva ceduto. Nonostante le minacce. Aveva anche avvisato i carabinieri. Le avevano consigliato di cambiare casa, doveva avvertirli se si fosse spostata.

La violenza porta via tutto. La sicurezza, il diritto di poter stare nella propria abitazione. Spazza via oggi cosa. Lascia campo, invece, all’angoscia.
All’improvviso in fretta e furia Filomena aveva preparato le sue cose e si era trasferita a casa dell’anziana madre. Ma l’uomo non le ha dato scampo. La seguiva. Appena lei è rientrata nel suo appartamento per recuperare qualche vestito per cambiarsi, lui si è fiondato in casa. Le ha di nuovo chiesto dove fosse la figlia. Anche questa volta Filomena ha detto di no. Ferma, risoluta, coraggiosa. Doveva proteggere la figlia.

Filomena Bruno è morta così. Uccisa per difendere la figlia da un uomo violento. Uccisa perché si è opposta alla violenza. Uccisa per non dover piangere poi, forse, la sua bambina.
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2473942986216085&id=1507765679500492

sabato 2 novembre 2019

Il politecnico di Zurigo nega a Mileva Maric la laurea postuma. "Ma Einstein è stato un pessimo marito di GABRIELLA GREISON"

La decisione dopo mesi di incontri: impossibile per l'Eth il riconoscimento a causa "delle regole in vigore in quegli anni". Ma il problema era proprio quello. Ecco la storia di un'ingiustizia che non siamo riusciti a riparare
Doveva essere una storia bellissima. Una storia che avremmo raccontato alle nuove generazioni, come il momento della svolta definitiva. Una storia che avrebbe portato con sé il segnale di un cambiamento, un simbolo, un lieto fine scritto apposta per rendere i sogni dei piccoli ancora più grandi. E invece, no. “Quello che è capitato a Mileva Maric è successo a tantissime donne in quegli anni, erano le regole”, dicono dal Politecnico di Zurigo. “E Albert Einstein è stato il peggior marito che una donna, perdippiù con ambizioni da scienziata, potesse avere”, aggiungono.
A questa conclusione li faccio arrivare dopo una lunghissima telefonata, che è avvenuta il giorno seguente la loro risposta per email alla mia domanda di attribuzione postuma di una laurea a Mileva Maric (domanda avvenuta quattro mesi prima). Ma faccio un passo indietro, e riepilogo tutto, per maggior chiarezza.

Primavera 2019: a Schio (in provincia di Vicenza) racconto la vita di Mileva Maric nell'aula magna di una scuola; alla fine del monologo, una ragazza di quarta liceo (Arianna) alza la mano: mi chiede pubblicamente di fare un tentativo, di portare la domanda di attribuzione di una laurea postuma a Mileva Maric al Politecnico di Zurigo, e aggiunge: “Perché non è giusto che le cose siano andate così, e comunque ora possiamo rimediare. Noi non ne possiamo più di sentire storie di donne che finiscono male”.
Io avevo detto loro che il mese successivo sarei andata a Zurigo a fare lo spettacolo, e così loro hanno pensato che sarebbe stata la giusta occasione per aprire un conto sospeso con il passato, e fare giustizia, visto che i tempi oggi sono cambiati. Avevano ragione, le richieste dei ragazzi vanno prese sempre molto seriamente. E così ho fatto.

Estate 2019: il quotidiano Tages Anzeiger viene a sapere della storia e mi fa un'intervista. Il 13 luglio 2019 l'intervista esce sul quotidiano Tages Anzeiger, a tutta pagina, in lingua tedesca, il titolo è la mia proposta di attribuzione di una laurea postuma a Mileva Maric. Il giorno stesso pubblico per il sito di Repubblica tutta la storia, e riporto per intero la risposta interlocutoria che il Politecnico di Zurigo nel frattempo mi ha dato, in cui scrivono che la mia proposta è in fase di dibattito, e presto me ne daranno un'altra definitiva.
 Questo articolo in pochissimo tempo fa letteralmente il giro di tutto il mondo, le condivisioni sono migliaia, e iniziano ad arrivare appoggi e sostegno dai media internazionali. Con la conferma che Mileva Maric rappresenta realmente, per tutti, il simbolo maximo dell'ingiustizia vissuta dalle donne del XX secolo e indietro. Alle donne di quei tempi non era permesso frequentare la maggior parte delle facoltà scientifiche, e se glielo permettevano potevano seguire le lezioni solo come uditrici, non potevano fare esami. Alcune di queste, non potevano entrare dalla porta principale, ma potevano accedere alla facoltà da quella secondaria. Le donne di quegli anni non potevano firmare articoli, solo siglarli semmai. E via così.
In particolare, per sapere chi è nel dettaglio Mileva Maric rimando ad un articolo scritto per l'allegato delle Scienze di Repubblica.
 Ma torniamo alla nostra storia, seguitemi che si fa interessante. Dopo quattro mesi dalla domanda (e due e mezzo dalla prima risposta interlocutoria), arriva la loro risposta defintiva per email (30 ottobre 2019). Una risposta molto strana, in cui sembrano quasi dirmi che vorrebbero dare la laurea a Mileva ma non possono, e così decido di chiamarli.
 La risposta che mi scrivono la riassumo qui: “Abbiamo discusso la sua proposta di conferire a Mileva Maric una laurea postuma ad honorem. Ma Mileva Maric purtroppo non ha superato l'esame al suo secondo ed ultimo tentativo, e quindi secondo le regole in vigore all'epoca, doveva lasciare la scuola. In seguito, non ha lavorato nel suo campo di studi. Crediamo che il successo intellettuale di Mileva Maric debba essere apprezzato nel contesto scientifico e sociale del suo tempo, dalla comunità scientifica e dagli storici scientifici. Noi attualmente abbiamo una sola procedura per attribuire dottorati postumi: la procedura prevede che tutta la commissione scientifica sia d'accordo, non uno escluso, che passi al vaglio di un'altra commissione giudicante esterna, e che poi la persona venga alla cerimonia annuale per ritirare il diploma: capisce quindi che non è possibile farlo”. Firmato la Rettrice del Politecnico di Zurigo, che parlava anche a nome del Presidente.

Dunque. All'Eth (Politecnico di Zurigo) nel 1896 Mileva si iscrive, perché era una delle poche facoltà che ammettevano le donne, e davano il titolo di laurea. Ma non dava il titolo di dottorato (tant'è che Einstein dopo la laurea lo ha conseguito da un'altra parte, il dottorato). Dopo il primo anno, Mileva decide di andare all'Università di Heidelberg, in Germania, dove le donne non potevano neanche iscriversi regolarmente come studenti, ma solo come uditrici, va lì perché Heidelberg rappresentava il non-plus ultra per la fisica.
Segue per un semestre i corsi, chiede di essere ammessa agli esami, come gli altri studenti, ma le dicono che Heidelberg non dà lauree alle donne, e le consigliano di ritornarsene a Zurigo.
Torna a Zurigo, riprende i corsi lasciati indietro, si mette in pari, e recupera le lezioni perse, fa gli esami, ma all'ultimo anno viene bocciata. Si iscrive lo stesso come ripetente per l'ultimo anno (con inizio 1901), perché vuole conseguire la laurea, ma rimane incinta (aprile 1901). Siccome la regola è che si possono fare solo due tentativi di esame finale, poi si diventa ex-matricolation, Mileva è costretta così a finire gli studi.
 La questione è fumosa, esattamente come in tutte le situazioni in cui una donna è incinta, figuriamoci riferita a quegli anni. La risposta via email che hanno dato loro conferma solo i fatti che ho descritto sopra. E i fatti che riportano sono il motivo per cui ho fatto la domanda di attribuzione di una laurea postuma a Mileva Maric.
 Intanto, l'università di Heidelberg pubblica sul loro sito ufficiale una bella ricostruzione della vicenda e c'è anche la carta di studi di Mileva, che conferma tutto quello che ho scritto sopra.
 Chiamo il giorno seguente la Rettrice, con lo spirito da cronista, per avere chiarezza sui punti oscuri dell'email che mi hanno mandato.
 La Rettrice in persona non risponde perché troppo impegnata, mentre parlo a lungo con il suo staff: erano tutti informati su chi fossi e sulla proposta, tant'è che dopo lunghi rimpalli sono riuscita a parlare con una delle persone del suo staff che ha partecipato alle discussioni di attribuzione della laurea postuma, e ha risposto alle mie domande.
Dicono che hanno preso seriamente in considerazione l'idea di attribuire la laurea postuma a Mileva, per questo ci hanno messo diverso tempo per riunirsi, hanno selezionato esperti di fisica e i più grandi conoscitori di Einstein, e sono arrivati alla conclusione che non essendoci articoli o paper che dimostrano che Mileva aveva i requisiti per laurearsi non possono darle la laurea postuma (e grazie! alle donne non facevano firmare articoli, a quei tempi).
E anche dopo il secondo tentativo di passare l'esame (quando era incinta, con relazione illegittima) sottolineano che poi non hanno più trovato traccia delle sue conoscenze di fisica (e certo, ha avuto una figlia da una relazione illegittima, e la figlia ha avuto nei primi mesi la tubercolosi, ed è morta neanche ad un anno di vita, poi si è spostata con Einstein, e poi ha avuto altri due figli).
Il secondo motivo è che non esiste una trafila che possa darle una laurea, "certo potremmo inventarla, ma non è usuale: le regole ora sono che dopo aver avuto il sì unanime di tutti quelli della commissione, nessuno escluso, la persona premiata deve presentarsi alla festa di fine anno e in questo caso la cosa è irrealizzabile, no?".
In conclusione mi dicono: "Proviamo sympathy (compassione) per Mileva, ma ha avuto il peggior marito che una donna possa avere. Einstein ha ostacolato il percorso di Mileva nella scienza". E hanno aggiunto a più riprese il concetto del "capitava spesso in quegli anni alle donne; quello che è successo a Mileva è successo a tante donne" (e certo! è il motivo per cui ho fatto la domanda!).
Insomma, il colpevole è Einstein, secondo loro. Secondo me, il gesto simbolico (da creare apposta per lei) avrebbe chiuso la questione, e dato speranza alle nuove generazioni, alle ragazze che oggi vorrebbero studiare fisica. La musica, il cinema, le arti ci stanno dicendo altro. Mentre la scienza europea è ancora ferma ad oltre un secolo fa. Eppure, ci voleva davvero poco.
Nel frattempo, nel Regno Unito hanno attribuito 7 lauree postume, dopo 150 anni dall'immatricolazione, alle Sette donne di Edimburgo che non hanno ottenuto una laurea ai loro tempi.

Cara Arianna, ce l'ho messa tutta. Per ora è andata così. Ma non finisce qui.
https://www.repubblica.it/scienze/2019/11/01/news/milena_maric_laurea_postuma-240029825/?fbclid=IwAR1L-P9zRaTqqKzZJizxBVNeBWp_mHf_NqPaf-IzBjChgMkF2o8BLeFDkNM