martedì 23 maggio 2017

39 anni di 194 di May C.

Accadde in Italia 39 anni fa: il 22 Maggio 1978 viene approvata la Legge 194 che regolamenta l’interruzione volontaria di gravidanza a 90 giorni dal concepimento.

Una legge che nasce dal sangue delle 20.000 donne morte ogni anno a seguito di aborti clandestini e del milione che vi sopravviveva, da decenni di lotte politiche femministe per il diritto di decidere sul proprio corpo.

La 194 abroga le precedenti norme del fascista codice Rocco, che puniva l’aborto con pene da uno a cinque anni di reclusione per reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe”, si propone di salvaguardare ‘il valore sociale della maternità’ e disciplinare la pratica dell’aborto, riconosciuto come diritto.

Le contestazioni e l’ostruzionismo del mondo cattolico e conservatore caratterizzano da subito l’applicazione della legge, ponendo una serie di ostacoli alle donne che vogliano avvalersi del nuovo diritto: da veri e propri interrogatori volti ad indagare le ragioni dell’aborto, all’estensione del diritto all’obiezione di coscienza, dal rifiuto della leva obbligatoria al personale medico e paramedico. Pressioni che non diminuiscono ma anzi culminano, tre anni dopo, nel referendum abrogativo del maggio 1981 proposto dal Movimento per la vita, che gli elettori rifiutano con uno schiacciante 68%.

Nel 2017, mentre il numero di aborti in Italia è quasi dimezzato è allarmante il numero di aborti clandestini, circa 20.000 casi annui, 70% dei quali riguarda cittadine italiane e resta altissimo il numero di obiettori fra il personale medico e paramedico, quasi un 70% che va dai dirigenti sanitari ai farmacisti.

Come leggiamo nel report del tavolo salute di Non Una Di Meno: “L’obiezione di coscienza alla IVG si pone come mezzo per sabotare la certezza della realizzazione del diritto della donna a interrompere la propria gravidanza, e dunque come ostacolo al diritto di autodeterminazione delle donne”.
Sono passati quasi quarant’anni e il diritto all’aborto resta tutt’altro che riconosciuto e garantito, e il rispetto della legge 194 non è che il punto di partenza per renderlo effettivo.
http://www.dinamopress.it/news/39-anni-di-194


lunedì 22 maggio 2017

Perché le città sono strutturalmente sessiste Ankita Rao

Anche se non ci facciamo caso, quasi tutte le città sono progettate per gli uomini e il loro lavoro, ma è tempo che le cose cambino.
Ho vissuto in diverse città nel mondo nel corso della mia vita adulta, e non riuscivo a capire esattamente perché mi sentissi più sicura in posti come Mumbai e New York rispetto a Delhi e DC.
In parte la cosa appare nelle statistiche — a Delhi i casi di violenza contro le donne sarebbero più numerosi che a Mumbai, e a DC il crimine è più violento che a New York. In parte, è anche esperienza personale — a DC sono stata seguita per strade silenziose, e un tizio mi si è parato davanti in pieno giorno con i genitali in mostra. A Delhi, una sera ero indecisa se chiamare un Uber o no, e il giorno dopo una donna ha accusato il suo autista di stupro.
Provavo un disagio palpabile nel muovermi per queste metropoli e nel cercare di capire quale fosse il mio posto nelle loro infrastrutture. Da allora ho imparato che il mio istinto trovava origine in una lunga storia di pianificazioni urbane, e nel modo in cui la maggior parte delle città non hanno mai tenuto conto delle donne nella loro progettazione.

"'Il posto di una donna è dentro casa' è uno dei princìpi più importanti del design architettonico e della pianificazione urbana negli Stati Uniti da un secolo a questa parte," scriveva Dolore Hayden, una storica della pianificazione urbana, nel saggio del 1980 What Would a Non-Sexist City Be Like?

Ora ci troviamo in un momento cruciale per l'urbanistica, perché alcuni dei sistemi annosi che usiamo sono stati rovesciati dall'innovazione o dall'economia. Abbiamo Uber e altri sistemi di ride-sharing che sostituiscono i sistemi di trasporto tradizionali, ed Elon Musk sta cercando di costruire l'Hyperloop e i tunnel sotterranei. I nostri stessi stili di vita sono in mutamento: sempre più giovani convivono prima di sposarsi e vivono più a lungo con i propri genitori.
Non possiamo cancellare con il design sessismo e tizi inquietanti alla fermata del treno. Si tratta di alcuni dei problemi più antichi e insidiosi della nostra cultura, e chi si occupa di urbanistica non può risolverli da solo. Ma i pianificatori urbani stanno esplorando nuove forme di design e tecnologia che, per la prima volta, potrebbe includere l'altra metà della popolazione.
I trasporti rappresentano spesso il settore dell'urbanistica in cui il divario di genere diventa più evidente. La Banca Mondiale tiene persino una conferenza annuale per discutere dell'inclusività dei trasporti, perché può rappresentare di fatto il segno distintivo del successo economico e sociale di una città.
"Abbiamo bisogno di un sistema che connetta senza soluzione di continuità ogni cosa — che permetta alle persone di personalizzare il proprio tragitto," ha detto Susan Zielinski, ex urbanista per la città di Toronto e professoressa dell'università del Michigan.
Zielinski, che ha contribuito a progettare nuovi sistemi e protocolli per rendere più eque le infrastrutture cittadine, mi ha detto che molta della discussione riguarda l'accesso.
Ci sono diverse ragioni per cui le donne hanno accesso ai mezzi di trasporto in modo diverso rispetto agli uomini. Per esempio, le donne hanno diverse abitudini di trasporto perché molte di loro fanno avanti e indietro tra casa e lavoro, facendo quindi più viaggi brevi al giorno rispetto agli uomini. È anche più probabile per le donne fare commissioni rispetto ai mariti, e più donne lavorano come freelance degli uomini — uno stile di vita che spesso richiede spostamenti e giorni di lavoro erratici. Inoltre, fintantoché le donne saranno pagate meno degli uomini (80 centesimi contro un dollaro pieno negli Stati Uniti, in media), hanno bisogno di un sistema che sia adatto a una disponibilità economica diversa.
"In ultima istanza, i mezzi di trasporto sono il fulcro che permette alle donne di prendere parte alla forza lavoro," ha detto Sonal Shah, una pianificatrice urbana che lavora all'Institute for Transportation and Development Policy.
Il problema dell'accesso è aggravato ulteriormente da fattori di sicurezza: la maggior parte delle donne che conosco a New York si è trovata nell'orribile situazione di sedersi di un vagone del treno semi vuoto, con un tizio allupato che le guardava negli occhi mentre si toccava. E le stazioni del treno, i parcheggi e le fermate dell'autobus agli angoli bui e isolati delle strade rendono più difficile per le donne andare al lavoro prima dell'ora di punta, o restare fino a tardi per finire un progetto — cosa che alimenta il circolo vizioso delle paghe inique.
Alcune città hanno iniziato ad adeguare i propri sistemi nell'ottica di una maggiore accoglienza. In Brasile, per esempio, la città di Rio de Janeiro, ha cercato di rendere i treni più sicuri aumentando l'illuminazione in ogni carrozza. E si è unito a paesi come il Giappone e l'India nell'installare vagoni solo per donne, una soluzione provvisoria per ambienti altrimenti ostili. Anche New York sta considerando di aprire passerelle tra le carrozze della metro, cosa che permetterebbe ai passeggeri di muoversi dalle parti più isolate del treno ad altre.
In India, dove le molestie sessuali sono diventate un problema nazionale negli ultimi anni, il governo ha cercato di installare telecamere a circuito chiuso o di sorveglianza, nei treni e nelle stazioni, e sistemi di illuminazione più consistenti. Ma, come ha sottolineato Shah, questi ultimi non raggiungono ogni singolo angolo. E non sono sempre un bene per la società — posso avere un ritorno di fiamma sui quartieri più poveri e causare problemi per la salute e preoccupazioni per la privacy.
Zielenski ha detto che anche i paesi scandinavi — cosa che non sorprende, considerate le loro note politiche di uguaglianza di genere — hanno reso più semplici i propri sistemi, collegando treni, auto e biciclette in modo più accessibile e fluido.
Inoltre, la nuova generazione di pianificatori e legislatori sta seguendo questo esempio in tutto il mondo, anziché limitarsi a spingere per un numero di maggiore di auto e strade migliori. "I millenials capiscono i sistemi e la multimodalità, non sovrappongono la propria identità all'essere proprietari di una macchina," ha detto.*
Mentre il sistema dei trasporti fa qualche passo verso l'equità, restano da discutere i luoghi in cui viviamo, lavoriamo e passiamo il tempo libero. È in questi spazi che lottiamo letteralmente contro secoli di pianificazione urbana patriarcale.
Come ha scritto Dolores Hayden in What Would a Non-Sexist City Be Like?, la maggior parte delle città è stata costruita perché gli uomini potessero andare a lavorare mentre le donne restavano in casa a badare ai bambini. Tornare a casa rappresentava una tregua per gli uomini, per cui era preferibile che le abitazioni fossero del tutto separate dal luogo di lavoro, specialmente da quando molti dei lavori disponibili erano in fabbriche sporche o inquinate.
Questi piani urbani a zone singole, dove i mezzi di sussistenza sono separati dalle abitazioni, non è cambiato quando sempre più donne hanno iniziato a lavorare, o quando il lavoro si è spostato dalle fabbriche agli uffici dopo la rivoluzione industriale. Ora, la situazione pesa particolarmente sulle spalle delle donne, e non solo perché hanno ancora il 40 percento in più di responsabilità nella gestione della casa e dei figli, di media.
Hayden ha detto che uno dei modi migliori per dare sostegno alle donne, specialmente quelle che lavorano, è creare più situazioni comunitarie. Le case costruite intorno a cortili dove i genitori possono badare ai figli degli altri, o dove i vicini possono condividere le auto, per esempio, potrebbe rappresentare un vantaggio per le madri che lavorano. Al momento, possiamo fare affidamento su asili, tate, o un'organizzazione oraria spietata che non fa che togliere soldi e tempo alle donne.
A Vienna, in Austria, i pianificatori urbani hanno iniziato a ragionare attivamente sulla cosa nel 1993. In un progetto chiamato Frauen-Werk-Stadt (Donne-Lavoro-Città), hanno costruito edifici di appartamenti circondati da aree circolari di verde e cortili. I complessi includevano asili, farmacie e ambulatori medici. Ed erano connessi comodamente ai mezzi pubblici. Il progetto è ora salutato come esempio di successo dalle Nazioni Unite.
Il progetto di Vienna si è esteso anche oltre gli spazi residenziali. A Vienna, i pianificatori urbani hanno ampliato i marciapiedi, illuminato strade e vicoli, e ri-progettato i parchi pubblici.
Nonostante gli spazi pubblici come le piazze e i parchi siano storicamente pensati per unire le persone, possono anche mettere le donne in una posizione di maggiore vulnerabilità. Sono rimasta stupita quando Emily May, la direttrice di Hollaback NYC, una succursale locale dell'organizzazione anti-molestie, mi ha detto che le donne di New York segnalano il numero più alto di casi di molestie per strada in aree come Times Square e Penn Station, non negli angoli bui e vuoti della città.
"Presumiamo che le persone intorno a noi risponderanno," ha detto, ma gli astanti non sono affidabili. "Il trauma aumenta quando nessuno dice niente." May ha detto che ci sono fattori tangibili che fanno sì che le donne si sentano meno sicure in una città — una mancanza di vetrine e illuminazione, per esempio, che può essere risolta.
La sicurezza pubblica non è, ovviamente, solo un prodotto di un'urbanistica povera. In gran parte, è legata alla cultura e alle forze dell'ordine. E le donne di colore e le persone appartenenti alla comunità LGBTQ subiscono più molestie delle loro controparti bianche ed eterosessuali. Ma progettare sia gli spazi pubblici che quelli privati tenendo a mente le donne cambierebbe drasticamente il tipo di esperienze che vivono, e il modo in cui la società interagisce.
Tornando alle città in cui ho vissuto, alcune di queste informazioni mi hanno aiutato a comprendere le mie stesse esperienze. A Mumbai, per esempio, gli spazi pubblici erano ben illuminati e brulicavano di donne e uomini allo stesso modo, mentre uscire dalla metro a Delhi spesso significava ritrovarsi in angoli squallidi su grosse strade. A Washington, DC, la metro ha molte meno fermate di quella di New York, e le aree in cui vivevo erano spesso lontane dagli edifici dove lavoravo e dai parchi ben curati, il che prevedeva lunghe camminate per tornare a casa.
Zielenski spera che la tecnologia e l'innovazione cambieranno il modo in cui le donne esperiscono le città. Un sistema di illuminazione sostenibile lungo i marciapiedi, per esempio, potrebbe illuminare le vie a un costo basso per la città e determinate app potrebbero aiutare le persone a trovare percorsi sicuri per tornare a casa. E molti pianificatori urbani hanno iniziato ad adottare la filosofia del design universale, che tiene conto delle persone disabili, degli anziani e, ovviamente, delle donne.
La pianificazione urbana non cambierà completamente alcuni dei problemi più profondi dell'essere una donna che vive in città — come le molestie per strada o gli uomini eterosessuali che non collaborano abbastanza nei lavori domestici —, ma progettare una città tenendo a mente anche l'altra metà della popolazione creerà un ambiente migliore nella lenta camminata verso l'uguaglianza.
"Il confine dovrebbe cominciare a sfumare," ha detto Zielenski. "Tutto ciò che è bene per le donne, è bene per tutti."
https://motherboard.vice.com/it/article/perche-le-citta-sono-strutturalmente-sessiste

giovedì 18 maggio 2017

Interconnessioni che ci riguardano #20maggio di Simona Sforza

“A feminist is anyone who recognizes the equality and full humanity of women and men.” Gloria Steinem and Dorothy Pitman Hughes 1971

Non è sufficiente una sola giornata, ma è necessario ribadire l’importanza di una attenzione e di un impegno tutto l’anno. Sabato ci sarà la manifestazione “20 maggio senza muri” promossa dal Comune di Milano e da altri soggetti, riprendendo la marcia di Barcellona della sindaca Ada Colau.
In quella giornata manifesteranno anche le realtà che aderiscono alla rete “Nessuna persona è illegale” per portare un messaggio che integri cultura e azione pratica e quotidiana di dialogo e di accoglienza, affinché le politiche sulle migrazioni siano articolate diversamente, affinché si comprenda che l’arrivo di questi nuovi cittadini e cittadine sia una grande opportunità per il nostro Paese.
Se non abbandoniamo l’idea di un approccio incentrato esclusivamente su prassi securitarie che sono tanto in voga, avremo solo alimentato le posizioni xenofobe e di esclusione. I diritti umani non possono avere vuoti o sospensioni o eccezioni. Leggi come la Bossi-Fini, legge Minniti-Orlando o la scelta di non garantire l’appello ai richiedenti asilo non vanno nella direzione di assicurare tutele e diritti certi e uguali per tutti. Così pure i contenuti del Regolamento di Dublino per quanto riguarda le competenze in merito alla domanda di asilo (Paese di arrivo). Si separa, si creano differenti trattamenti e diversi gradi di tutela dei diritti.
Vi invito a riflettere su questa dichiarazione contenuta nell’appello  Nessuna persona è illegale:
“Non riconosciamo la distinzione tra autoctoni e immigrati, tra regolari e irregolari, tra rifugiati e migranti economici, perché i problemi degli uni e degli altri non sono diversi e contrapposti ma collegati: i temi del lavoro, del reddito, della precarietà, dell’istruzione e formazione professionale, della casa, della salute, accomunano tutte e tutti, e non ammettono che soluzioni condivise.”
Se riuscissimo ad assumere questa ottica, eviteremmo anche quella lotta per le briciole che tanto avvantaggia destre e leghe. Soprattutto eviteremo atteggiamenti ipocriti e che discriminano.
Ipocrisia che si è di recente tradotta anche nel fatto che in tanti non hanno preso posizione pubblicamente in occasioni recenti come l’operazione di polizia in Stazione Centrale o riguardo alle esternazioni di Debora Serracchiani. Debolezza, connivenza, indifferenza, muoversi solo se necessario o di qualche utilità personale, esplicitare le proprie opinioni solo se non è troppo pericoloso per il proprio percorso futuro.
Ecco da tutto questo atteggiamento prendo le distanze.
Vogliamo chiedere maggiore trasparenza e chiarezza nella gestione dei servizi di accoglienza? Isola di Capo Rizzuto non è un caso eccezionale. Purtroppo sulla pelle dei migranti si costruiscono business e si consentono infiltrazioni mafiose. Vogliamo occuparci di questo seriamente e sistematicamente? Vogliamo aprire gli occhi su cosa accade? Insabbiare per anni i dossier in attesa di qualche indagine della magistratura non è accettabile. Mi rendo conto che sono temi scomodi, ma non nascondiamoci dietro alla cruda realtà.
Perché non ci basterà prendere le distanze da un Salvini che parla di un programma di “pulizia etnica”. Non ci basterà marciare un giorno soltanto per chiedere una accoglienza che rispetti i diritti umani. Solidarietà e pari diritti. Non ci basterà trovarci attorno a un tavolo una tantum. Ciò che non avremo fatto e ciò che non avremo detto al momento opportuno segnerà la nostra attendibilità e onestà, la nostra posizione. La serietà del nostro impegno.
Militarizzare le città, affrontare le migrazioni in termini di costi, contenimento, rimpatri, questioni di decoro e ordine pubblici non ci servirà a niente. Occorre modificare l’approccio. Quella più volte messa in atto non è accoglienza e inclusione.
L’altro giorno un consigliere della Lega della mia zona raccontava delle “occupazioni” e delle “invasioni” prima di pugliesi e calabresi e oggi di egiziani e altre nazionalità. Questo dovremmo ricordarci, fino a ieri, cosa si diceva, cosa si argomentava e cosa oggi si ricorda e si ripete. Gli altri fino a ieri eravamo noi. Quindi chiediamoci il senso di azioni volte solo a creare spartiacque, muri, distinguo tra noi e gli altri.
Così come non possiamo girare la testa di fronte al fatto che sono donne e minori a pagare le conseguenze peggiori di queste migrazioni tra un muro e un recinto, tra frontiere e organizzazioni criminali, tra violenze e corpi che diventano merce. Le barriere e i ghetti servono solo ad alimentare queste pratiche, questi cicli, questi processi in cui gli esseri umani perdono diritti e diventano oggetti, da spostare, vendere. La vita deve avere sempre lo stesso valore, la sua garanzia per queste persone non può essere mutilata, interrotta.
“Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni dei 37 mila nigeriani sbarcati in Italia nel 2016 (la nazionalità più numerosa) oltre 11 mila erano donne, l’80 per cento era destinato al marciapiede e quasi tutte venivano da Benin City. La strada è sempre la stessa, Benin, Kano, Zinder, Agadez, Gatrun, Sebha, Zuara e poi il mare. C’e anche una rotta che passa dal Mali, dove le ragazze vengono private dei passaporti, stuprate e vendute.” Questo è il vero volto della prostituzione in Italia, non quello edulcorato e patinato che alcuni chiamano sex work. Questi sono gli abusi che vivono le tante donne sfruttate e costrette nel mercato della prostituzione. E dietro la minaccia di riti voodoo passano sotto il controllo delle madame. Secondo Isoke Aikpitanyi, che ha raccontato la sua esperienza nel libro Le ragazze di Benin City e dirige l’associazione delle vittime della tratta, ci sarebbero circa diecimila «madame» in Italia.
Secondo i dati Onu si tratta di un giro d’affari annuo di oltre 228 milioni di dollari. A queste donne, a volte poco più che bambine stiamo rubando tutto.
Quando parliamo di migranti non perdiamo di vista questo sguardo, che non può essere neutro, ma deve contemperare le connotazioni e le visioni di genere, quanta violenza e discriminazioni attraversano le vite delle donne migranti.
La tratta di esseri umani a fini sessuali o lavorativi è un crimine contro l’umanità.
Insomma, non facciamo le solite passerelle, ma ogni tanto impariamo a prendere posizione, sempre, senza se e senza ma. Ogni tanto cercate di capire come vivono le donne nel nostro Paese, quanti ostacoli e muri quotidiani incontrano.
Ricordiamoci che nessuna persona è illegale. Nessuna donna è illegale. Tutte le donne sono esseri umani titolari di diritti, che devono essere rispettati, tutelati, nessuna deve essere trattata come un oggetto, un corpo, una merce, un numero.
L’oppressione, lo sfruttamento, le discriminazioni razziali e sessiste, sono fenomeni strettamente interconnessi, non sono “naturali”, ma costruzioni funzionali a un sistema di controllo che permea ogni aspetto delle nostre società, istituzioni, rapporti umani e cultura. È quello che ha cercato di indagare la sociologa francese Colette Guillaumin. Qui un articolo in cui si parla di questi aspetti: “sesso e razza non sono fatti di natura, precedenti alla storia, ma categorie politiche prodotte da specifici sistemi di oppressione – il sessismo, il razzismo – differenti e interconnessi, che impregnano tutti i rapporti sociali, le categorie mentali e istituzionali in vigore.” Sono strutture funzionali a un preciso assetto sociale e di potere.

Per questo sarò in marcia il 20 e sempre. Coerenza sempre.

Consigli di lettura:
http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf
https://simonasforza.wordpress.com/2015/09/01/il-traffico-di-minori-dalla-nigeria/
https://simonasforza.wordpress.com/2015/04/17/il-silenzio-non-cambia-le-cose/
http://www.naga.it/tl_files/naga/NePILL%20def.pdf

https://simonasforza.wordpress.com/2017/05/17/interconnessioni-che-ci-riguardano-20maggionon-e-sufficiente-una-sola-giornata-ma-e-necessario-ribadire-limportanza-di-una-attenzione-e-di-un-impegno-tutto-lanno-sabato-ci-sara-la-manifestazion/

domenica 14 maggio 2017

La vera (e un po' triste) storia della Festa della Mamma di Bryan Handwerk

Un secolo fa Anna Jarvis organizzò le prime celebrazioni in onore di sua madre e di tutte le mamme americane. Per poi lottare invano contro lo sfruttamento commerciale della ricorrenza

Il 14 maggio, come ogni seconda domenica del mese, si celebra in Italia e in diversi paesi del mondo la Festa della Mamma. Nata oltre un secolo fa negli Stati Uniti, la ricorrenza ha una storia bizzarra e meno "festosa" di quanto si possa pensare: in origine infatti era una giornata di lutto per le madri che avevano perso i figli in guerra. E Anna Jarvis, la donna che più di tutte aveva propugnato l'adozione della festa, combattè per tutta la vita contro la sua deriva commerciale, morendo sola e senza un soldo in un ospizio.
Tutto ha inizio in West Virginia negli anni Cinquanta dell'Ottocento: Ann Reeves Jarvis, madre di Anna, cominciò a organizzare club di donne impegnate nel miglioramento delle condizioni igieniche e nella lotta alle malattie e alla mortalità infantile. Questi gruppi, spiega la storica Katharine Antolini del West Virginia Wesleyan College, si occuparono anche dell'assistenza ai soldati feriti durante la Guerra civile americana, tra il 1861 e il 1865.
Nel dopoguerra furono organizzate "Giornate dell'amicizia tra madri" e altri simili eventi pacifisti per promuovere la riconciliazione tra gli ex nemici. Un'attivista, Julia Ward Howe, pubblicò con grande successo un "Mother's Day Proclamation" ("Proclama per il Giorno della Madre") in cui invitava le donne a impegnarsi in politica soprattutto a favore della pace. Nel suo Stato, Ann Jarvis lanciò un "Mother's Friendship Day" per i reduci degli eserciti che si erano combattuti. Ma fu soprattutto sua figlia Anna a battersi per istituire una vera e propria festa, salvo poi passare il resto della vita a osteggiarla.
Anna Jarvis non ebbe mai figli suoi; fu la morte di sua madre, nel 1905, a spingerla a organizzare il primo Mother's Day su scala nazionale. Avvenne il 10 maggio 1908: furono tenute cerimonie a Grafton, in West Virginia, luogo natale di Jarvis, in una chiesa oggi chiamata International Mother's Day Shrine ("Tempio della Festa internazionale della Mamma"); a Philadelphia, dove Jarvis viveva, e in diverse altre città americane. Negli anni seguenti l'appuntamento riscosse sempre più successo, finché, nel 1914, il presidente americano Woodrow Wilson destinò ufficialmente la seconda domenica di maggio alla celebrazione della festività.
"Per Jarvis doveva essere una giornata da passare con la propria madre per ringraziarla di tutto ciò che aveva fatto", spiega Antolini, che ha dedicato al tema la sua tesi di dottorato. "Non era la festa di tutte le mamme, era la festa della migliore mamma che ciascuno di noi avesse mai conosciuto: la propria". Ecco perché Jarvis insisteva che se ne parlasse al singolare: "Mother's Day", non "Mothers' Day" (Festa della Mamma, non "delle mamme").
Ma agli occhi di Jarvis il successo si trasformò in fallimento. Quella che doveva essere una giornata da trascorrere nell'intimità della famiglia diventò presto un'occasione d'oro per incentivare l'acquisto di fiori, dolci, biglietti d'auguri. Anna ne fu profondamente infastidita, e cominciò a dedicare tutta se stessa (e la sua non trascurabile eredità) al compito di riportare la Festa alle origini. Fondò la Mother's Day International Association per riprendere il controllo delle celebrazioni; organizzò boicottaggi, minacciò cause legali e attaccò persino la First Lady Eleanor Roosevelt e le sue iniziative di beneficenza organizzate nel giorno della festa.
"Nel 1923 Anna fece irruzione a un congresso di produttori di dolciumi che si teneva a Philadelphia", racconta Antolini. "Due anni dopo si ripeté al congresso delle American War Mothers, un'associazione che esiste tuttora, che nel giorno della Festa della Mamma vendevano garofani per raccogliere fondi. Anna fece irruzione nella sala e fu arrestata per disturbo della quiete pubblica".
Anna Jarvis continuò a combattere per la "sua" festa almeno fino ai primi anni Quaranta. Morì nel 1948, a 84 anni, in un ospizio di Philadelphia, senza un soldo e afflitta da demenza senile. "Avrebbe potuto approfittare della sua invenzione se avesse voluto", commenta Antolini, "ma invece continuò a combattere contro chiunque ne approfittasse. Per questa battaglia diede tutto ciò che aveva, sia dal punto di vista fisico che da quello economico".

La Festa del Consumo

Oggi naturalmente la vocazione commerciale della Festa della Mamma è più viva che mai. Secondo la National Retail Federation - l'associazione dei rivenditori al dettaglio - le famiglie americane spendono in media più di 160 dollari per celebrarla. Per la National Restaurant Association la Festa della Mamma è il giorno dell'anno preferito dagli americani per andare a mangiare fuori. È la terza occasione per lo scambio di biglietti e cartoline d'auguri, dopo Natale e San Valentino: Hallmark, il noto produttore, ne vende ogni anno 133 milioni. Dopo Natale, è il giorno dell'anno in cui gli americani si fanno più regali.
Dagli Stati Uniti la ricorrenza si è diffusa in tutto il mondo, anche se con sfumature di significato e di entusiasmo diverse. Molti paesi festeggiano la seconda domenica di maggio, tra cui l'Italia, dove la ricorrenza fu "importata" a partire dagli anni Cinquanta. Le cronache raccontano che una delle prime celebrazioni si tenne a Bordighera, zona non a caso famosa per la coltivazione di fiori freschi.
In gran parte del mondo arabo la Festa della Mamma si celebra il 21 marzo, in coincidenza con l'inizio della primavera. A Panama è l'8 dicembre, quando la Chiesa festeggia l'Immacolata Concezione di Maria, la mamma per eccellenza; in Thailandia il 12 agosto, compleanno della regina Sirikit, sul trono dal 1956 e considerata la mamma di tutti i thailandesi.
Una parziale eccezione è la Gran Bretagna, dove la tradizione della cosiddetta Mothering Sunday risale a diversi secoli fa. Fissata per la quarta domenica di Quaresima, la ricorrenza in origine era dedicata non alle mamme ma alle "chiese madri": era infatti una giornata di primavera in cui i fedeli andavano a visitare la loro cattedrale. Solo con il tempo la tradizione ha finito per sovrapporsi con la Festa della Mamma così come si festeggia nel resto del mondo.
http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2014/05/10/news/festa_della_mamma_la_vera_storia-2135893/

sabato 13 maggio 2017

La sentenza della Cassazione sull'assegno di mantenimento post divorzio? Opinioni a confronto: vista da lei (Riccarda Zezza) e vista da lui (Federico Vercellino). E' un atto di civiltà o rischia di rendere elitaria la libertà di decidere di separarsi? Indovinate chi pensa cosa?

Mai più mantenute: per le donne italiane è ora di diventare indipendenti  scritto da Riccarda Zezza
Il divorzio non sancisce solo la fine del rapporto personale, ma anche di quello patrimoniale tra gli ex coniugi. E’ quanto consegue dalla sentenza 11504, depositata ieri dalla Cassazione. Il parametro del mantenimento del “tenore di vita matrimoniale” lascia il posto a un “parametro di spettanza” basato sulla valutazione dell’indipendenza o dell’autosufficienza economica dell’ex coniuge che lo richiede. Sposarsi, scrive la Corte, è un «atto di libertà e autoresponsabilità». Benvenuti e benvenute nel terzo millennio.
In pratica, il coniuge economicamente più debole – di solito la donna – non potrà più aspettarsi di essere mantenuto per tutta la vita dal coniuge economicamente più forte – di solito l’uomo. Non potrà aspettarselo dopo la separazione, ma forse comincerà a farci i conti da prima. Conseguenze e precauzioni:
money1) sposarsi non è più “sistemarsi”. Sparisce il principe azzurro, le donne si preoccuperanno di essere economicamente indipendenti sin da subito, anche se si sposano: questa secondo me è un’ottima notizia. Scegliersi, sposarsi, fare una famiglia sono atti di libertà e tali devono restare: e la libertà è sempre impossibile se una delle due parti dipende dall’altra.
2) Le donne dovranno imparare a negoziare. Le donne che non lavorano, o quelle che lavorano ma fanno meno carriera o sono pagate meno a causa di disparità di trattamento o del fatto che si occupano anche della famiglia, al momento del divorzio non potranno contare su alcuna integrazione del proprio reddito da parte dell’ex coniuge, non ne avranno diritto. Soluzione (in attesa che l’Italia avanzi nella sua capacità di impedire le disuguaglianze di genere): le donne devono imparare a negoziare col proprio coniuge – ovviamente molto prima di decidere di separarsi, anzi proprio quando si decide di sposarsi: è quello il momento giusto per pianificare al meglio l’eventuale fine – un corrispettivo economico se sono loro a sacrificare parte del proprio reddito per dedicarsi alla famiglia. Se è lei a dedicare più tempo a casa e famiglia e per questo a guadagnare meno, parte dello stipendio di lui deve finire sul conto di lei, e non sul conto di lui usato “per lei”.
Ne consegue anche che le donne dovranno sapere molto di più a proposito del reddito familiare. Dovranno dare un valore al proprio lavoro familiare, dovranno saper negoziare. Tutte doti che si riveleranno utili sia nel rapporto di coppia che nel mondo del lavoro. Basta pranzi gratis, è questa la notizia. Ma attenzione perché, se le donne sapranno interpretare bene la fine di questa era, i primi pranzi gratis a finire saranno proprio quelli degli uomini che guadagnano di più perché trascurano completamente le attività familiari… e sono ancora convinti che il reddito che ne deriva spetti tutto a loro di diritto.
http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2017/05/11/mai-piu-mantenute-per-le-donne-italiane-e-ora-di-diventare-indipendenti/?uuid=106_FzNThGgB


Il divorzio? Diventa una questione da ricchi  scritto da Federico Vercellino
Da ieri per la Cassazione, in caso di divorzio, il criterio per la titolarità di un assegno di mantenimento è l’autosufficienza e non il tenore di vita. Pare che sia una sentenza femminista, pare che sia una rivoluzione, se ne discute molto e se ne scrive altrettanto, ma quelle che mi paiono prevalere sono due posizioni che si possono sintetizzare in “meno mantenute, più astrofisiche” e in “finalmente liberi da queste sanguisughe”.
Invece brutta sentenza, secondo me, perché parte dalla presunzione – smentita da fatti e numeri – che esista una parità retributiva e occupazionale fra donne e uomini, perché non riconosce il tempo di cura – spesso distribuito in maniera disomogenea fra i coniugi – e perché rende ancora più fragile e ricattabile il soggetto più debole in un matrimonio o in un’unione. Il soggetto più debole è quello che non lavora per dare cura, o che lavora meno per dare cura e permettere all’altro carriera, o quello che lavora ma guadagna meno o è comunque più debole economicamente. Proprio chi si prende cura della famiglia, a scapito della carriera e dello stipendio, sarà meno indipendente o pagherà molto più cara la sua indipendenza. “Donne svegliatevi”! Sì, certo ma le tutele sono importanti per chi arranca, non per chi ce la fa.
divorzio5A dirla tutta, la sentenza di Cassazione interessa ben poco: riguarda un caso specifico ormai piuttosto noto; recepisce un indirizzo maggioritario che viene utilizzato dai tribunali per calcolare l’assegno divorzil; e poi il nostro ordinamento non è un common law. Vale molto di più il clamore che suscita. Il racconto che se ne fa è quello di una conquista civile. Eppure non esistono libertà civili agibili senza libertà economiche e se in Italia ci sono circa 800mila padri separati che vivono sotto la soglia di povertà non è colpa delle pretese delle mogli. Le cause probabilmente vanno cercate nell’alto numero di famiglie monoreddito perché uno dei due non ha altra scelta che di restare a casa con i figli; oppure perché i salari sono bassi, il potere d’acquisto diminuito, l’occupazione scarsa.
Le separazioni e i divorzi hanno sempre un impatto economico negativo, talvolta gravissimo o devastante e forse sono roba da ricchi.
http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2017/05/11/il-divorzio-diventa-una-questione-da-ricchi/?uuid=106_M0f89aLN





mercoledì 10 maggio 2017

Domenica 28 maggio alle ore 9,30 torna la MagnaLonga SUDOMI, la gita in bicicletta attraverso il Parco Agricolo Sud

Buongiorno a tutte e tutti gli appassionati delle due ruote, che quest’anno festeggiano i 200 anni!
Torna la MagnaLonga SUDOMI, la gita in bicicletta attraverso il Parco Agricolo Sud all'insegna del buon cibo locale, della conoscenza del territorio e del divertimento! Iscrizioni entro il 22 maggio 
                                  Domenica 28 maggio alle ore 9,30
Per questa terza edizione, proponiamo un nuovo percorso e un nuovo tema che caratterizzerà le tappe della gita: quello del riscatto dalle mafie con un viaggio tra i beni confiscati del Sud Ovest



domenica 7 maggio 2017

Grazie Riccarda Zezza: una serata ricca di spunti di riflessione e di scoperte arricchenti


Grazie anche a tutte le amiche e gli amici che hanno partecipato alla serata con attenzione e hanno arricchito la discussione con i loro interventi




mercoledì 3 maggio 2017

Le piccole eroine “ribelli” della letteratura per l’infanzia di Roberta Marasco

"Storie della buonanotte per bambine ribelli" è il libro più venduto (e più discusso) del momento. Come racconta su ilLibraio.it la scrittrice Roberta Marasco, nella storia della letteratura per l'infanzia non mancano le piccole eroine "ribelli": da Pippi Calzelunghe alle "Piccole donne" raccontate da Astrid Lindgren, passando per Matilde, senza dimenticare libri come "Stargirl" di Jerry Spinelli, "Tornatràs" di Bianca Pitzorno, "L’evoluzione di Calpurnia" di Jacqueline Kelly e...
Quante bambine ribelli hanno popolato le pagine della letteratura per l’infanzia? Quante e quanti di noi hanno trovato nelle loro storie il coraggio di scrivere la propria, anche uscendo dai margini, se necessario? Io personalmente sarò sempre grata a Louisa May Alcott per aver fatto sposare Jo di Piccole donne (fosse pure con il noioso e pacato professor Bhaer), convincendomi che le donne testarde e con un caratteraccio non sono destinate a restare zitelle. Del resto, fin da quando Cappuccetto Rosso sceglie la strada sbagliata e rende la visita alla nonna molto più movimentata, il dubbio si instilla nella mente di ogni bambino: “E se prendessi la direzione proibita, invece?” L’avventura è lì, a un passo da noi, in agguato dietro ogni disobbedienza.
Le bambine ribelli delle storie con cui siamo cresciute e con cui crescono i bambini di oggi, però, non sono solo disobbedienti. Spesso sono semplicemente diverse. Seguono le proprie passioni e inclinazioni sfidando i sopraccigli alzati e i sorrisetti di chi le circonda. Continuano a essere se stesse, nonostante tutto.C’è un’altra lezione racchiusa in queste e in molte altre storie: la solitudine. Non è uno stigma, soprattutto quella femminile, come ci hanno abituate a pensare. Non è necessariamente sbagliata. È una tappa, una scelta, perfino uno strumento, a volte. Quasi sempre è il prezzo da pagare quando si decide di fare di testa propria. Di tutti i consigli che vorrei dare a mia figlia, forse questo è il più difficile e il più necessario. Non farti spaventare dalla solitudine, non sempre è il segno che sei sulla strada sbagliata, anzi. E non dura in eterno. A volte è l’unico modo per trovare i compagni di strada giusti, a cominciare da se stesse.
Fra le tante, tantissime storie di bambine ribelli, coraggiose, anticonformiste, eccone alcune, in rappresentanza di tutte le altre. Tutte, in modi diversi, cercano di affermarsi per quello che sono e di restare fedeli a se stesse, a dispetto del mondo che le circonda.

Piccole donne di Louisa May Alcott
La prima non può che essere lei, Jo March. 
Jo che si taglia i capelli per pagare il viaggio alla madre, insegnandoci così fra le righe che la via più retta è quella che ci porta verso noi stesse; 
Jo che scrive e legge nella sua soffitta, perché le passioni delle donne vanno tenute nascoste, ma prima o poi, a crederci davvero, trovano il modo per uscire nel mondo. 
Jo che non si lascia imbrigliare da nessuno, che trova il modo di conciliare lo spendersi per gli altri con le proprie aspirazioni, sia pure sotto lo sguardo arcigno e severo della zia. 
Jo ha insegnato a eserciti di ragazzine che la libertà va conquistata, che non te la regala nessuno, che spesso te la tolgono da sotto il naso quando credevi di essertela guadagnata e che ci sarà sempre qualcuno che cerca di domarti, anche quando sei convinta di fare la cosa giusta. Ma che non esiste sogno troppo audace per poter essere vissuto.

Matilde di Roald Dahl
La piccola Matilde, intelligente e gentile e spietata, se necessario, come quando si tratta di riempire di colla il cappello di papà. 
Matilde, che vive in un mondo che non la merita, nata in una famiglia che non la merita e tormentata da una direttrice che non la merita, è la speranza di riscatto di chiunque sappia di essere speciale anche se nessuno sembra accorgersene. 
Matilde non vacilla mai, tiene testa a qualunque forma di autorità, procede decisa per la sua strada senza lasciarsi sfiorare dalla crudeltà altrui, sempre fedele a se stessa e alla sua idea di amore, anche a costo di rinunciare all’irrinunciabile, alla parodia di affetto che le è toccato in sorte, quello della propria famiglia.

Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren
Pippi è la fantasia personificata, la dimostrazione che tutto è possibile, con un po’ di ottimismo e con un gran sorriso stampato in faccia. 
Pippi non si adegua alla realtà, sfida ogni legge, a cominciare da quella di gravità, smentita dalle treccine orizzontali color carota. 
Pippi è leggerezza, è fiducia, è l’amica che tutti vorremmo avere o la bambina che vorremmo diventare.
Pippi è irriverente, creativa, sovversiva, con le sue scarpe troppo grandi e il letto usato al contrario. Pippi è colorata e sfacciata e inarrestabile. È l’eroina di chi vuole sentirsi libero e reinventare il mondo.

L’evoluzione di Calpurnia di Jacqueline Kelly
Unica femmina di sette figli, stritolata dal calore impietoso del Texas, la piccola naturalista in erba Calpurnia è il punto di riferimento di qualunque ragazzina che invece di scappare davanti a un lombrico si chiede se sia possibile addestrarlo. 
Anche Calpurnia si taglia i capelli, ma senza i nobili propositi di Jo. Al contrario, la sua è una disobbedienza astuta e sottile. Davanti al rifiuto della madre, deciderà di tagliarli lo stesso, ma un pollice alla volta, in modo che nessuno se ne accorga.
Calpurnia è curiosa, ironica, intelligente, imprevedibile. La sua è una ribellione fatta di piccole scoperte continue, la storia di un’emancipazione spontanea e inarrestabile, come la natura che la circonda.

Momo di Michael Ende
Momo vive fra le rovine di un anfiteatro, alla periferia di una città senza nome. Non ha una famiglia, non ha amici, non ha praticamente niente, neanche un’età, tranne il suo lungo cappotto, il nome che si è data da sola e la capacità di ascoltare. 
Momo è il nostro tempo più prezioso, è il nostro presente un attimo prima che diventi passato, è la nostra occasione di felicità, più concreta di quanto sembri e più fragile di quanto crediamo. 
Momo è il punto di vista che ci salverà, è la protagonista che tutti sentiamo il bisogno di difendere e preservare intatta dentro di noi, nascosta nelle nostre giornate e nell’adulto che siamo diventati.

Stargirl di Jerry Spinelli
Quanto è difficile essere se stessi? Tanto quanto arrivare in una scuola di provincia con un topo in tasca e la passione per l’ukulele; quanto vestirsi in modo stravagante dove tutti gli altri cercano di omologarsi, quanto piangere ai funerali degli sconosciuti o tifare per la squadra avversaria o ballare senza musica o augurare buon compleanno a chi non ti rivolge neanche la parola. Essere se stessi è tanto difficile quanto essere entusiasti e scegliere di cambiare il mondo e renderlo più felice, invece di cercarne uno che ci assomigli di più. 
Stargirl è l’eroina per chi vuole guardare la realtà con occhi nuovi, per chi cerca il coraggio di fare di testa propria, per chi ha bisogno di sentirsi a casa senza smettere di sentirsi se stesso.

Tornatràs di Bianca Pitzorno
Colomba è la piccola paladina dei deboli, dei diversi, di chi non si arrende. È l’eroina che ci salva dalla realtà, dalla brutta televisione, dagli uomini senza scrupoli, dai prepotenti e dai finali tristi. Anche lei ha una mamma che passa tutto il suo tempo davanti alla televisione (prima di finirci dentro), anche lei deve ricominciare da capo con amici nuovi e nuovi vuoti da riempire, anche lei deve difendersi da sola, oltre a fare la spesa e a preparare da mangiare. 
Colomba è una delle tante eroine senza mamma, così si torna indietro, tornatràs, appunto, verso le proprie origini, verso il passato, verso la felicità perduta e verso il proprio destino. Perché a volte per sentirsi amati bisogna tornare indietro, finché non si è tornati indietro abbastanza da poter ricominciare a guardare avanti.

Roller Girl di Victoria Jamieson
Astrid è decisa a diventare una roller, la sua passione è gareggiare sui pattini, non importa quante cadute dovrà sopportare, quante figuracce, quante umiliazioni. Non importa se la sua migliore amica invece ama la danza e finisce per piantarla in asso. Non importa perché Astrid imparerà a rialzarsi ogni volta, si tingerà i capelli di blu e scoprirà il valore della sfida, oltre a nuove amicizie. 
Anche Astrid deve disobbedire per inseguire i suoi sogni, anche Astrid prende una strada un po’ diversa dal previsto, pur di crescere e realizzare il suo desiderio. Perché quando hai scoperto che cosa vuoi fare davvero, è un attimo smettere di essere Astrid e diventare Asteroide, che attraversa lo spazio e il tempo con la sua scia di fuoco.

Coraline di Neil Gaiman
Coraline è una bambina inquieta, saggia e curiosa, che si aggira da sola, ignorata dagli adulti e dai bambini, in una nuova casa con tredici porte e una quattordicesima che dà su un muro di mattoni. Oltre quel muro c’è un’altra casa, identica alla sua, con un’altra madre, identica alla sua ma con due bottoni al posto degli occhi. 
Anche Coraline ha un nome speciale, che tutti sembrano incapaci di pronunciare senza storpiarlo, proprio come sembra impossibile afferrare i desideri senza storpiarli e scoprire che nessuno li vuole davvero. 
Coraline ci insegna, come scrive lo stesso Gaiman, “che essere coraggiosi non significava affatto non avere paura. Essere coraggiosi significava proprio avere paura, molta paura, una paura da matti, e ciò nonostante fare la cosa giusta”.




martedì 2 maggio 2017

Speranza Scappucci, "Ragazze, salite sul podio" di Paola Mentuccia

Direttrice orchestra si racconta, "Mi onora essere un modello"

 È stata la prima donna italiana a dirigere l'Opera di Vienna. A gennaio di quest'anno è stata applaudita a Roma, con il Così Fan Tutte di Mozart di scena al Costanzi, a febbraio è stata la prima donna della storia a dirigere l'orchestra per il Ballo dell'Opera di Vienna. Senza contare i tanti altri impegni per il mondo, che fanno di lei uno dei giovani talenti più apprezzati dell'attuale panorama musicale. Prima di un incontro con la direttrice d'orchestra Speranza Scappucci, ci si aspetta di avere a che fare con una persona posata e formale, così come la si vede sul podio, nel suo smoking rigorosamente firmato Giorgio Armani. E invece no: la quarantatreenne musicista - che ha iniziato a suonare il pianoforte a cinque anni ed è entrata al Conservatorio di Santa Cecilia a dieci, per poi intraprendere la carriera di direttrice negli Stati Uniti - si presenta sorridente e radiosa, autorevole nel presentare il suo talento e la sua professione ma, al tempo stesso, umile e alla mano. Quando le si chiede di elencare gli altri primati che ha conquistato come direttrice d'orchestra, deve fare mente locale. "Essendo ancora poche le donne che dirigono, mi capita spesso di essere la prima, - spiega in un'intervista all'ANSA - per esempio, di recente sono stata nominata direttore principale all'Opera di Liegi e credo di essere la prima donna". Ma le ragazze si stanno facendo strada nelle orchestre e Speranza Scappucci non ha dubbi che la carriera nella musica non abbia più ostacoli per il genere femminile. Spera di essere, per loro, un esempio: "Le nuove generazioni, le bambine di oggi, che vedono persone come me che intraprendono questa professione, crescono con l'idea che sia un percorso che una donna può fare. Essere un modello per le ragazze mi onora molto".
    Lei comunque non ha bisogno di dimostrazioni, non è legata alle etichette né si sente in gabbia nell'abito maschile. "Non penso - confida- che dirigerò mai con il vestito, scelgo l'abito in base allo stile ma anche alla comodità: il mio è un mestiere in cui bisogna essere comodi per muoversi". "Nel momento in cui dirigi non pensi a cosa ti sei messo, - aggiunge poi sorridendo - pensi solo a fare bene il mestiere". Oggi vive tra Vienna e New York, ma non crede che in Italia non sia possibile intraprendere una carriera come la sua: "Io ho studiato in Italia e ho iniziato la mia carriera in America, dove si valorizzano molto i giovani- sottolinea- ma sono sicura che, con il talento e le giuste opportunità, avrei fatto lo stesso percorso anche qui". La sua vita, racconta, "è stata sempre accompagnata dalla musica", compresa quella rock, pop e dei cantautori italiani, da George Michael ai Duran Duran, da Lucio Dalla a Fabrizio De André e al jazz. Negli ultimi tempi, però, quando non sale sul podio cerca il silenzio: "Quando si lavora così tanto le orecchie hanno anche bisogno di riposarsi", spiega.

    Da qui a giugno, infatti, ha già l'agenda piena di appuntamenti. Un debutto francese, a Parigi, al Théâtre des Champs Elysées per un concerto di gala, poi a Basilea con l'Orchestra sinfonica di Basilea, per tornare all'Opera di Vienna a giugno e dirigere il Don Pasquale di Gaetano Donizetti.
    Sarà in Italia il 23 giugno, a dirigere l'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino nel Cortile di Palazzo Pitti a Firenze.
http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/2017/04/30/-speranza-scappucci-ragazze-salite-sul-podio_c4f1472a-4a81-4970-9658-71f276e7c131.html

lunedì 1 maggio 2017

Il primo maggio delle donne: le pioniere italiane che hanno fatto “un lavoro da uomini” di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi


Dalle prime laureate di fine Ottocento, alle protagoniste della politica. Dalle prime pilote alle astronaute, ecco 25 avanguardie a cui dobbiamo tutte qualcosa
Una donna con l’elmetto antinfortunistico in un cantiere colpisce ancora oggi, come una specie rara, eppure la lunga marcia delle donne nel mondo del lavoro è un racconto scritto soprattutto da pioniere che si sono fatte largo coraggiosamente in tanti ambiti, e parte da molto lontano. Tenacia, ostinata determinazione e una forza inesauribile a non lasciarsi sopraffare dai pregiudizi, e spesso anche dai limiti imposti dalla legge, sono gli ingredienti comuni alle storie di tante donne, che sono state capaci di conquistare il diritto a lavorare in campi tradizionalmente maschili.

Tra le prime a lottare per il proprio sogno professionale, è la piemontese Lidia Poët, che vera apripista, il 17 giugno 1881 diventa la terza laureata in Italia dopo i medici Ernestina Paper e Maria Farné Velleda, ma la prima in Giurisprudenza, con una tesi sulla condizione femminile e il diritto di voto alle donne. Non riuscirà ad esercitare la professione se non nel 1920, quando arriva nei tribunali alla rispettabile età di sessantacinque anni dopo averne trascorsi oltre quaranta di dure battaglie. Nel 1883 la Corte d’Appello di Torino respingeva così la sua richiesta di essere iscritta all’Albo degli Avvocati: «…Non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre…».

Da allora la storia delle donne in carriera è stata un crescendo di faticose conquiste, messe a segno sfidando tradizionalismi di ogni sorta e vincendo i molti pregiudizi sulla prosaica inadeguatezza del gentil sesso. Dall’aviatrice, Rosina Ferrario, che ottiene con ferma volontà il primo brevetto femminile in Italia, e ottavo nel mondo, a Grazia Deledda, che sin da giovanissima lotta contro tutti per poter studiare e realizzare il sogno di scrivere e pubblicare le sue opere fino a essere insignita del Premio Nobel nel 1926.
Una determinazione che accomuna le rare protagoniste della politica da Tina Anselmi, prima a ricoprire la carica di ministro della Repubblica, alla collega di partito Rosa Russo Iervolino prima donna d’Europa ministro dell’Interno, come anche l’alpinista Nives Meroi, insignita del titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana «per gli eccezionali traguardi raggiunti nell’alpinismo di alta quota, un’attività che era rimasta a lungo prerogativa maschile».

Senza dimenticare la sfida portata avanti dall’astronauta Samantha Cristoforetti, arrivata prima italiana tra le stelle, e quella vinta dalla giovane ingegnere nucleare Anna Bassu, che dallo scorso marzo è la prima donna a dirigere un impianto di Enel Green Power e, senza giri di parole, dichiara alla giornalista del Corriere, Elvira Serra: «Credo che gli incarichi debbano essere assegnati per le capacità e il merito, e non sono prerogative né maschili né femminili». Quasi a tendere la mano a quelle audaci antenate che con le loro scelte di vita hanno dimostrato al mondo che non ci sono lavori e occupazioni precluse alle donne.