venerdì 30 novembre 2018

Pro life al consultorio, obiettori in corsia: la pazienza delle donne sta per finire di Paola Corsetti

I treni della negazione dei diritti delle donne hanno tutti i posti a sedere occupati, hanno i vagoni stracolmi di discriminazione, e la direzione di marcia la impartiscono le organizzazioni criminali antiabortiste. La Ue, dal canto suo, così apparentemente solerte nel mostrare attenzione alla salute degli europei tanto da emanare una direttiva che vieta la “pericolosissima” cottura della pizza margherita nel forno a legna, non ha mai emanato una direttiva che obblighi gli Stati membri ad assicurare la presenza di consultori, o di strutture similari, in misura sufficiente a consentire la tutela dei diritti sulla sessualità e sulla riproduzione.
Nel settembre del 2013 il Parlamento europeo bocciò la Relazione sui diritti sessuali e riproduttivi presentata dalla parlamentare portoghese Estrela, grazie anche alla astensione dei parlamentari cattolici del Pd.
La Risoluzione Estrela avrebbe consentito alle donne dell’Ue di poter contare su una tutela legislativa in tema di gravidanze indesiderate con accesso alla contraccezione e all’aborto sicuro e legale.
Due anni dopo, nel 2015, è stato presentato dall’eurodeputato belga Tarabella, il Rapporto sull’eguaglianza tra donne e uomini, che è stato approvato.
La Risoluzione Tarabella segna un passaggio importante perché ha qualificato formalmente l’aborto come un diritto, ma di fatto è stata neutralizzata dall’approvazione di un emendamento secondo il quale, in materie legate alla vita, al matrimonio e alla famiglia in generale, la competenza legislativa rimane nella autonomia degli Stati. L’interruzione di gravidanza in Italia, regolamentata dalla legge 194/78, trovava una precedente cornice attuativa nella legge 405/75 istituiva dei consultori familiari. La Legge 194/78, nel regolamentare l’interruzione di gravidanza, richiamava espressamente la legge istitutiva dei consultori, affidando a queste strutture socio-assistenziali-sanitarie il compito di dare supporto alla procreazione consapevole e alla scelta della interruzione. Attorno ai consultori, da quel momento, si è concentrata la guerra repressiva contro l’autodeterminazione femminile, consentendo alle organizzazioni antiabortiste di infiltrarsi per condizionare le scelte, negando alle donne il riconoscimento della capacità di decidere del proprio corpo. È un dato acquisito quello secondo il quale il controllo sociale si ottiene con il controllo di tutti i processi che regolano i comportamenti umani, sia individuali che collettivi, e siccome la sessualità costituisce uno degli aspetti preminenti delle società umane, il controllo della sessualità femminile ha come risultante il controllo dell’intera società.
Tutte le società umane hanno codificato la vita sessuale, e le strutture di potere sono sempre passate attraverso il controllo della sessualità, femminile in prima istanza e maschile per conseguenza. La attuale recrudescenza delle spinte repressive contro la sessualità femminile, sono in effetti la conferma che il potere, politico ed economico, evidentemente non riesce poi così bene a controllare le masse, e vuole ripristinare un presunto ordine sociale attraverso quella che ritiene sia la modalità più consolidata, ovvero la negazione dei diritti femminili. Le associazioni antiabortiste cosiddette pro-vita che si infiltrano nei consultori, sono le stesse che, per intenderci provengono da quelle formazioni politiche che hanno legiferato il finanziamento di campi di concentramento per minori in territorio straniero, e che dichiarano, peraltro, di muoversi in adesione alle aspettative delle caste sacerdotali verso le quali si mostrano prone. Ma c’è un dato che, in prospettiva di contrasto, i fondamentalisti non hanno considerato, ovvero che quando si è raggiunta la consapevolezza di un diritto, non si è disposti a cederlo e che la repressione sessuale, attuata con la chiusura dei consultori o con la limitazione di quelli funzionanti, attuata anche con la complicità di donne malate di patriarcato, potrà essere un boomerang.

L’avvocato Carla Corsetti è segretaria nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo.
La riflessione di Carla Corsetti è tratta da Left in edicola dal 23 novembre 2018
https://left.it/2018/11/24/pro-life-al-consultorio-obiettori-in-corsia-la-pazienza-delle-donne-sta-per-finire/?fbclid=IwAR39MeDHo-uNH3MVei7xvhBcgLYdHzeUNGjz66XoLfZcEvCNzK-4iirUtIQ

giovedì 29 novembre 2018

Italiani, popolo di santi, poeti e picchiatori di donne di Alessandro Zaghi

Ogni giorno in Italia 135 donne si rivolgono a un centro antiviolenza, l’80 per cento delle violenze avviene in famiglia

Sono 6 milioni e 788mila le donne che hanno subito una qualche forma di violenza nella loro vita; 4 milioni e 353mila le vittime di violenza fisica, 4 milioni e 520mila quelle di violenza sessuale. Numeri glaciali, questi diffusi dall’Istat, ancor più se confrontati con i 94 casi di femminicidio registrati dall’inizio del 2018 fino allo scorso ottobre, così come i 2977 di violenza sessuale o quelli di stalking, 8418 in soli nove mesi. Indecifrabili, invece, gli episodi si sessismo: apprezzamenti non richiesti, contatti fisici non graditi sul posto di lavoro da parte di un superiore, così come la scelta di assumere più uomini che donne o il divario salariale rispetto ai colleghi maschi.

Una lista vertiginosa di tragedie spesso sottaciute dalle stesse vittime: che sia per paura del carnefice – l’80% dei maltrattamenti avviene fra le mura domestiche, mentre sono 855 mila i casi di violenza perpetuata dal partner – o per la vergogna, talvolta paralizzante, per cui chi ha subito violenza diventa un bersaglio mediatico, una ‘macchia nera’ da rimuovere agli occhi della società, talvolta della stessa famiglia, tant’è che solo il 7% dei casi di stupro viene denunciato.

Percentuale, quest’ultima, figlia anche dell’impreparazione dell’Italia davanti a questo tema. Lo denuncia una ricerca condotta da Grevio, (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence), organismo voluto dal Consiglio europeo per verificare che in ogni Paese firmatario sia applicata la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Infatti, sarebbero oltre 5mila i posti letto mancanti per chi chiede un tetto sotto cui rifugiarsi dopo esser scappata dalla propria casa, teatro dell’abuso, mentre dei pochi fondi destinati ne sarebbero stati utilizzati appena lo 0.02%.

Secondo l’Istat, per la prima volta impegnato in un’indagine sui servizi offerti dai Centri antiviolenza, nel solo 2017 sarebbero state 49.152 le donne a essersi rivolte a una struttura specializzata, di queste 29.227 hanno avviato un percorso di uscita dalla violenza. Fra chi ha avuto il coraggio e la forza di rivolgersi a un centro, il 63,7% ha figli, minorenni nel 70% dei casi.

Un grido talvolta inascoltato, altre volte normalizzato, come sottolinea la campagna Non è normale che sia normale, lanciata dalla vicepresidente della Camera Mara Carfagna in occasione della giornata dell’Onu contro la violenza sulle donne di domenica 25 novembre. «Diamo voce a chi la voce ormai l’ha persa», ha detto Carfagna, «Serve una rivoluzione culturale, e le testimonianze per scuotere le coscienze. Per questo ho invitato qui alla Camera alcune persone che hanno subito violenze, per raccontare le loro storie ed affrontare lo strazio di questi traumi. I social devono essere usati non per molestare, o per veicolare fake news, ma per diffondere il messaggio nobile di contrasto alla violenza sulle donne».

Alessandro Borghi, Fiorello, Andrea Delogu, Bruno Barbieri, Vincenzo Salemme, Annamaria Bernardini De Pace, Paola Turci, Noemi, Claudia Gerini, Francesco Montanari, Alessandro Roia, Geppi Cucciari, Bianca Balti e tantissimi altri sono i nomi che hanno aderito alla campagna, postando sui social un video o una fotografia con l’occhio nero marchiato di rosso, simbolo della violenza, accompagnato dall’hashtag #nonènormalechesianormale.

https://www.rollingstone.it/politica/italiani-popolo-di-santi-poeti-e-picchiatori-di-donne/437157/?fbclid=IwAR2VwylgixI0zcD48NB3wqhutdLmMnmmTSMP0g3IGklXd7QngXaZuKhsf8M

martedì 27 novembre 2018

Femminicidio, perché le donne continuano a morire: “Dati falsati, si sottovaluta la violenza degli uomini” di Elisabetta Ambrosi

Stupite, critiche, indignate: le esperte di violenza sulle donne – statistiche, avvocate, sociologhe, persone che lavorano sia sul campo o che sulla violenza fanno ricerca da anni – non riescono a capacitarsi che la Polizia di Stato abbia diffuso, in vista della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, un rapporto, Questo non è amore, in cui il numero dei femminicidi relativi al 2018 risulta di sole 32 donne morte, perché la gran parte dei 94 omicidi non sono considerati tali. A contestare la cifra è, anzitutto, chi i femminicidi li conta da oltre tredici anni, cioè la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, unica banca dati italiana, visto che nel nostro Paese non esiste ancora un Osservatorio nazionale sulla violenza sulle donne. “Da oltre tredici anni noi raccogliamo i dati dei femminicidi, e lo facciamo basandoci solo sulla cronaca, il che significa che anche i nostri sono ampiamente sottostimati”, spiega Anna Pramstrahler. “Al contrario di quanto sostiene la Polizia, purtroppo, il dato è abbastanza fermo, negli ultimi anni siamo sempre su circa 120 donne uccise all’anno. Da gennaio ci risultano 82 donne uccise, 50 in più del dato del Ministero. Il fatto è che quando analizzi gli omicidi devi sapere esattamente cos’è un femminicidio. Noi utilizziamo la definizione delle Nazioni Unite”.

“Quel dato, anche rispetto alla serie storica degli anni passati, è veramente basso e dunque inverosimile”, dice a sua volta Anna Romanin, Presidente del Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia Romagna e formatrice della Casa delle Donne di Bologna. “Mi chiedo su quale base teorica abbia ragionato il Ministero”. Non è un caso infatti che il rapporto Attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia, stilato nell’ottobre 2018 dalle Associazioni di donne per il Gruppo di Esperti indipendenti (il Grevio) che monitora l’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro violenza nei confronti delle donne abbia esplicitamente sottolineato come il ministero degli Interni non utilizzi “una definizione esaustiva di femminicidio, che possa dare un contenuto sulla qualità dei dati. Anche la recente ricerca svolta dal ministero della Giustizia sulle sentenze emesse è parziale in quanto non analizza in modo approfondito le dinamiche che hanno scatenato l’uccisione”.

Il problema semmai, sostengono coloro che di violenza si occupano, è proprio il contrario: e cioè che il numero delle donne uccise non scende, nonostante le campagne di sensibilizzazione e l’attenzione dei media al tema. “Mentre gli omicidi diminuiscono, i numeri dei femminicidi e degli altri reati violenti sulle donne restano inchiodati”, spiega Linda Laura Sabbadini, statistica sociale pioniera degli studi di genere. Lo conferma anche Giorgia Serughetti, sociologa e ricercatrice, membro del progetto Edv per lo studio e il contrasto della violenza contro le donne (Università Milano Bicocca). “Il problema di fronte a cui siamo è proprio la relativa stabilità del fenomeno, in uno scenario generale in cui gli omicidi sono in calo. La violenza basata sul genere è di gran lunga la prima causa di morte violenta per le donne. Con questo fatto dobbiamo confrontarci”.

Calo dei reati o delle denunce?
Secondo la Polizia di Stato, però, a calare non sono solo i femminicidi, ma anche i cosiddetti “reati spia”, come maltrattamenti in famiglia, stalking, percosse, violenze sessuali. Nel quadriennio 2014-2017, si legge sempre in Questo non è amore, si evidenzia complessivamente “una flessione, con un sensibile aumento dell’azione di contrasto (misurata in termini di denunce e arresti)”. Calerebbero negli ultimi 8 mesi i reati di stalking (-15,5%), i maltrattamenti in famiglia (-4,47%), le violenze sessuali (-6,65%), le percosse (-11,25%). Dati che, nuovamente, vengono messi in discussione da chi si occupa di violenza di genere. “Come si fa a parlare di diminuzione dei reati se ci si basa quasi esclusivamente sulle denunce?”, interviene Raffaella Palladino, Presidente di D.i.Re, l’associazione Donne in rete contro la violenza, costituita da oltre 80 centri in Italia. “I dati della polizia segnalano una diminuzione delle denunce, non del fenomeno”, spiega Giorgia Serughetti, “ma non si può stabilire nulla a partire da questi dati”. Sempre il Grevio, infatti, mostra come sia il Ministero dell’Interno che quello di Giustizia “abbiano infatti unicamente a disposizione i dati delle denunce e che in Italia non esista un sistema di rilevazione nazionale delle donne che si rivolgono, a causa di situazioni di violenza, ai servizi sanitari (medicina di base, consultori, pronto soccorso, strutture ospedaliere, medicina specialistica, Dsm, Sert ecc.) e sociali (servizi sociali pubblici e privati)”. A livello non istituzionale, continua il Rapporto, “l’unica rilevazione sulle donne vittime di violenza accolte dai Centri antiviolenza è quella annuale condotta dall’associazione nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, relativa alle donne accolte dalle 81 associazioni aderenti alla rete”.
Diminuisce la violenza leggera, aumenta quella grave
L’unico Istituto che possiede dati di tipo epidemiologico, ovvero sulla diffusione effettiva di un fenomeno, è l’Istat, che però sul tema ha fatto due ricerche nel 2006 e nel 2014. Nell’ultima indagine, si rilevava come negli ultimi 5 anni il numero di donne che hanno subìto almeno una forma di violenza fisica o sessuale ammontasse a 2 milioni 435 mila, l’11,3% delle donne dai 16 ai 70 anni. Quelle che hanno subìto violenza fisica sarebbero 1 milione 517 mila (il 7%), le vittime della violenza sessuale sono 1 milione 369 mila (il 6,4%); le donne che hanno subìto stupri o tentati stupri sono 246mila, (1,2%). La violenza nelle relazioni di coppia, negli ultimi 5 anni (sempre in relazione al 2014, però), ha riguardato il 4,9% delle donne (1 milione 19 mila), in particolare il 3% (496 mila) delle donne attualmente con un partner e il 5% (538 mila) delle donne con un ex partner. Considerando solo le donne che hanno interrotto una relazione di coppia negli ultimi 5 anni, la violenza subìta sale al 12,5%. Rispetto all’indagine precedente, dice l’Istituto, ci sono segnali di miglioramento – diminuiscono la violenza fisica e sessuale da parte di partner attuali e da parte degli ex partner, e calano la violenza sessuale e le molestie sessuali – ma “non si intacca lo zoccolo duro della violenza nelle sue forme più gravi (stupri e tentati stupri) come pure le violenze fisiche da parte dei non partner mentre aumenta la gravità delle violenze subite”. Una dinamica che le esperte di violenza hanno ben chiara. “Quello che risulta, purtroppo”, spiega Linda Laura Sabbadini, “è una diminuzione della violenza più lieve, come quella psicologica. Ma stupri e omicidi non scendono. Paradossalmente diminuisce il complesso delle violenze e in particolare quelle lievi, ma aumenta la gravità delle altre. Molte piu donne dichiarano di aver avuto paura per la propria vita. la crescita della coscienza femminile fa sì che piu donne specie giovani interrompano l unione prima dell’ escalation alle prime avvisaglie. Ma  fa sì anche che le reazioni degli uomini alla voglia di liberarsi dalla violenza delle donne piu mature che già stanno vivendo l’escalation  da parte di uomini che vogliono dominare e possedere la loro compagna siano molto più dure. E così diminuisce la violenza nel complesso e aumenta il rischio di femminicidio. Ciò deve portare ad essere più efficaci  nelleazioni le forze dell’ordine e piu attivi nella prevenzione le politiche”. Non è un caso, infatti, come ben sottolinea la penalista Teresa Manente, avvocata specializzata nella difesa dei diritti della vittima di violenza di genere, che “nella maggior parte dei casi di femminicidio le donne o avevano già denunciato, ma il pericolo è stato sottovalutato, o non hanno denunciato per paura di ulteriori violenze, vivendo in un contesto sociale che ancora le colpevolizza e giustifica i maltrattanti”.

Leggi non attuate e fondi che latitano
Cosa bisognerebbe fare, allora, perché la violenza diminuisca realmente (e con essa, anche i numeri dei femminicidi)? Abbiamo bisogno di nuove misure normative? “No. Le leggi ci sono e ciò è stato evidenziato in ogni sede, dalla Corte europea di Strasburgo all’ONU. Il problema è la loro attuazione”, spiega la penalista Manente. “Il cosiddetto bollino rosso di cui parla il governo è in realtà già previsto dal codice di procedura penale, che a seguito della legge n.119/2013 prevede una corsia preferenziale di trattazione dei procedimenti per i reati di stalking, violenza sessuale, maltrattamenti. Il punto non è quindi la difficoltà di punire o l’assenza di leggi, ma è la sottovalutazione della pericolosità della violenza maschile, della gravità delle condotte e dell’entità dei danni provocati, da cui derivano sentenze che applicano pene irrisorie e riconoscono attenuanti negate dai fatti. A ciò si aggiunge che le donne hanno bisogno e chiedono protezione nell’immediatezza della querela: una risposta superficiale o addirittura assente delle autorità rinforza i maltrattanti che di conseguenza aggravano la loro condotta perché avvalorati nella loro pretesa di impunità”. E poi, ovviamente, c’è il problema dei fondi destinati ai centri antiviolenza. Un’analisi della loro ripartizione e dell’efficacia della legge 119/2013 è stata messa in rete da Action Aid. Secondo l’organizzazione, non è possibile stabilire se le risorse stanziate per il 2015-2017 “siano effettivamente rispondenti ai bisogni di prevenzione del fenomeno della violenza di genere e della protezione delle donne che la subiscono”. Molto chiaro invece è il ritardo nell’erogazione dei fondi a livello centrale e regionale, che “mette a rischio la continuità e la qualità dei servizi e dei programmi” dei centri. Centri che, come spiega l’Istat, che ieri ha diffuso alcuni dati relativi al numero di donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza nel 2017, hanno accolto ben 49.152 donne, pur soffrendo di mancanza di posti ed essendo la metà delle operatrici totalmente (e ingiustamente) volontarie. “Anche quando i soldi ci sono insomma”, spiega Raffaella Paladino, “non vengono distribuiti perché mancano i decreti attuativi – basti pensare che non è stato ancora distribuito il fondo del 2017- oppure perché i criteri di assegnazione sono scarsamente trasparenti e i soldi finiscono anche in mano a realtà che non hanno esperienza”.
L’altro fronte riguarda la prevenzione culturale e sociale. “C’è stato sicuramente uno sforzo notevole e diffuso, sia di sensibilizzazione, sia di educazione e formazione, a vari livelli”, spiega la sociologa Serughetti. “Nonostante questo però non è stato implementata nessuna azione sistematica, che vada dall’educazione della prima infanzia fino alla trasformazione di comportamenti e atteggiamenti in età adulta. Inoltre, la trasformazione profonda della mentalità comune – che considera le donne come qualcosa che l’uomo ha diritto di possedere e che quindi non accetta di vedere allontanarsi – richiede tempi lunghi e un lavoro complesso, che non avviene in pochi mesi o in pochi anni”.

Non aiuta in questo senso l’ideologia che il governo, soprattutto la Lega, sta mettendo in campo. “Se passa il ddl Pillon possiamo chiudere i centri antiviolenza e dire alle donne di smettete di denunciare”, dice Anna Romanin, mentre Serughetti conclude: “La politica dà segnali contraddittori che non aiutano a stabilizzare politiche di prevenzione e contrasto. Solo un esempio: Giulia Bongiorno, che propone misure come il “bollino rosso” per l’esame delle denunce, ma al contempo difende l’esistenza della (inesistente) sindrome di alienazione parentale, che dà la colpa alle madri se c’è rifiuto dei minori di vedere i propri padri – cosa che spesso accade perché questi padri sono, appunto, violenti”.
In una prima versione dell’articolo il rapporto sull’Attuazione della Convenzione di Istanbul era stato attribuito inizialmente al “Grevio” anziché dalle associazioni di donne che hanno elaborato il dossier proprio per il Grevio. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/11/24/femminicidio-perche-le-donne-continuano-a-morire-dati-falsati-si-sottovaluta-la-violenza-degli-uomini/4787723/?fbclid=IwAR2YQZI6qn1UbD837BzE0VHSJbFrkXEj4CmwjwRINUFJN3FX9MW4v8DiZp0

cosa si nasconde dietro il Ddl Pillon?

stasera mercoledì 5 dicembre a"La Pianta" 
via pascoli, 3 Corsico 
con Manuela Ulivi avvocata della Casa delle donne maltrattate di Milano e Alessio Miceli di Maschile plurale analizziamo una proposta di legge sull'affido in caso di separazione che ha suscitato tante prese di posizione contrarie 



lunedì 26 novembre 2018

25 novembre 2018 Perché è il 25 novembre peggiore di sempre di Cristina Obber

Celebriamo la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, senza dimenticare che l'attuale governo, quello tra le altre cose del ddl Pillon, ci sta portando indietro di 70 anni.

Forza Nuova scende in piazza a Verona contro il diritto all'aborto
Le iniziative della Giornata contro la violenza sulle donne
Le cose da sapere sull'Assemblea generale di Non una di meno
Almeno 49 mila donne hanno chiesto aiuto ai centri antiviolenza
In una settimana di manifestazioni ed eventi per celebrare il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è morto Marco, un bambino di 11 anni, soffocato dal fumo nel sonno pomeridiano perchè il padre, già denunciato per maltrattamenti, ha dato fuoco alla casa. Marco si aggiunge all’elenco delle donne e dei bambini uccisi per mano di uomini che si ostinano a esercitare potere di vita e di morte sulle loro compagne e sui loro figli. Di qualche giorno prima è invece la notizia di un padre-padrone che in provincia di Pescara teneva segregate in casa moglie e tre figlie minorenni impedendo loro di uscire e abusandone fisicamente e psicologicamente. Insomma un 50enne che richiama l’imitazione del senatore Simone Pillon firmata Maurizio Crozza che fa la stessa con le sue familiari. La realtà supera la fantasia, o meglio, fantasia e realtà si intersecano e si confondono in questo Paese confuso che alle cose non sa più dare un nome e che si ritrova il governo più maschilista dal dopoguerra.
ERA GIÀ TUTTO PREVISTO NEL CONTRATTO DI GOVERNO
Un governo che è nato con un contratto subito contestato da molte associazioni, una tra tutte la rete nazionale dei centri antiviolenza Di.Re, che in una lettera datata 20 maggio 2018 e indirizzata al presidente Sergio Mattarella esprimeva grande preoccupazione per «la complessiva violazione dei diritti umani fondamentali di donne, bambini/e e migranti, tra i quali moltissime donne con alle spalle dolorose esperienze, che il Contratto manifesta nel suo complesso». Misure che «si pongono tutte in aperto contrasto con quanto stabilito dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro il fenomeno della violenza di genere, ratificata con legge n. 77/2013 (Convenzione di Istanbul)», scriveva la presidente Lella Palladino. Nel documento siglato dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega si parla anche di alienazione genitoriale e famiglie (meglio se italiane). Dunque si era già deciso di contrastare conquiste e libertà e rimetterci al nostro posto. E qual è questo posto? La casa. Da quel contratto nasce il ddl Pillon che in caso di violenza domestica si traduce in testa bassa e rassegnazione per donne e minori, proprio come una volta. In nome di una bigenitorialità perfetta, che però riguarderebbe i padri solo dopo una eventuale separazione, tutelando maggiormente quelli che non sono stati presenti e responsabili fin dalla nascita dei figli. Tutelando addirittura gli abusanti. Non è quindi un caso che dalla manovra di bilancio 2019 sia sparito il congedo di paternità introdotto nel 2013, un primo passo verso la bigenitorialità autentica, quella che anche le donne desiderano perchè significherebbe condividere con i propri compagni lo stesso carico di impegno e responsabilità.
DAL PD A DI MAIO, PILLOLE DI IPOCRISIA
D’altronde se anche un senatore del Partito democratico (tale Mauro Laus) si permette di dire ad una collega in aula (tale Alessandra Maiorino, M5S): «Tornatene in cucina», senza che ci sia alcun provvedimento nei suoi confronti da parte dei vertici, allora perchè stupirci di ciò che arriva da parte del governo più a destra di tutti quelli di cui ho memoria da quando sono bambina? Fa sorridere la scelta di Luigi Di Maio di pronunciarsi nel merito del ddl Pillon proprio il giorno prima delle tante manifestazioni per il 10 novembre promosse in tutta Italia da Di.Re che ne hanno chiesto il ritiro immediato. Ricorda il suo tardivo intervento contro l’esclusione dei bambini dalla mensa a Lodi solo successivo all’ondata di indignazione nazionale. Sì, parliamo di una rincorsa al consenso popolare. Ma sul ddl Pillon il tentativo del ministro del Lavoro di schierarsi con «gli italiani», come gli piace ossessivamente ripetere, è stato più goffo. Perché, come dicevamo, quel disegno è nel contratto, che lo anticipa e lo giustifica. Chiedere qualche modifica, in linea con Matteo Salvini, significa mentire sapendo di mentire, cercare di non perdere voti pur mantenendo fede all’alleanza. Ma, si sa, salvare capra e cavoli non è possibile. Il disegno va ritirato, hanno risposto cittadini e associazione, anche cattoliche.
DALLA 194 ALLE MINORENNI ALLA GOGNA
Non possiamo inoltre permettere che l’integralismo del family day entri a gamba tesa nella politica di uno Stato fino a prova contraria laico. La legge 194 è sempre più in pericolo: in una petizione indirizzata alla ministra della Salute Giulia Grillo quattro ginecologhe hanno perfettamente reso l’idea di cosa deve affrontare oggi una donna per abortire. Petizione che, per altro, ha superato le 100 mila firme. Aspettiamo allora qualche dichiarazione grillina strappa consenso. Sempre il 2018 è l'anno in cui a Novara un provvedimento comunale ha vietato «abiti che offendano il comune senso del pudore». Cosa che ci fa venire in mente Hina Salem, la giovane pakistana a cui il fratello ha strappato la foto dalla tomba perchè la sorella in canottiera offendeva l’onore di una famiglia che in nome dell’onore l’ha uccisa.
Siamo uno stato laico eppure intriso di un bigottismo made in Italy
E ancora la protesta dei perizomi irlandesi. Come se non ci stuprassero tanto col burka quanto in shorts. Siamo uno stato laico eppure intriso di un bigottismo made in Italy che ad ogni notizia di violenza sessuale insinua che le donne se la vadano a cercare, soprattutto se sono belle, soprattutto se sono giovani. Questo da sempre, ma oggi c'è un ministro degli Interni che strumentalizza la violenza su Desirèe perchè gli autori hanno la pelle nera e si può gridare: «Al lupo al lupo», mentre per Violeta Senchiu che è romena ed è stata uccisa da un italiano non accorre, non rilascia dichiarazioni. Nemmeno un selfie sulla scena del crimine. Lo stesso ministro degli Interni che pubblica su Facebook la foto di tre ragazzine minorenni che lo contestano, esponendole a una gogna di commenti sessisti tra auspici di stupri e di morte. Che poi anche qui nulla di nuovo. Beppe Grillo nel 2014 pubblicava il video di un attivista 5 stelle che guidava accanto a una sagoma di Laura Boldrini, accompagnandolo alla domanda: «Cosa succederebbe se ti trovassi lei in macchina?». Da piccola facevo un giochino sulla Settimana Enigmistica; si chiamava ‘trova le differenze’.
#NONÈNORMALECHESIANORMALE
La Cina, che non brilla certo per democrazia, ha bocciato la campagna di Dolce&Gabbana per una forma di sessismo da noi quotidiana sia nelle pubblicità che nei programmi televisivi che sviliscono l’autorevolezza e l’intelligenza femminile. Ciò dimostra che anche se tutto questo in Italia è normale, non lo è in tante parti del mondo. Così come normale non è la violenza. #nonènormalechesianormale dice infatti il bellissimo hashtag dell'iniziativa lanciata dalla vicepresidente del Senato Mara Carfagna. Il 21 novembre ho partecipato a Montecitorio alla sua presentazione che ha coinvolto alcune vittime dirette e indirette della violenza: padri di donne uccise da un marito violento o da un fidanzato apparentemente per bene, una donna sfregiata con l'acido solforico dal compagno, la vittima di stalking dell'assessore alla Cultura Andrea Buscemi di Pisa, leghista e rimasto al suo posto nonostante le tante richieste di dimissioni perché il reato è andato in prescrizione. Carnefici che il disegno Pillon mira a tutelare ancora più di quanto non siano scandalosamente tutelati oggi, rendendo la vita delle donne impossibile e esponendo maggiormente i minori alla violenza e agli abusi sessuali.
IL TRIONFO DEL PADRE PADRONE
Che poi Pillon è diventato il capro espiatorio che distoglie l’attenzione dai mandanti, proprio come avviene nei sistemi mafiosi: se, come si spera, venisse ritirato ci aspetta la mossa di riserva perché quell'alleanza chiamata contratto va rispettata. Non è un caso che sia inesistente la figura di Vincenzo Spadafora alle Pari opportunità in un progetto di governo in cui della dignità delle persone importa ben poco, dei bambini importa niente. Anzi, dai bambini ci mandiamo Salvini che in televisione spiega loro cos’è il sovranismo e pare pure simpatico. E alla Commissione dell’infanzia ci mettiamo a capo proprio Pillon, che sta ai diritti dei più piccoli come un vegano alla sagra della salsiccia. Diciamolo: è un governo che punisce le donne, ci punisce quando non ci sottomettiamo, per il solo fatto di esistere. Esistiamo, teniamo la testa alta e lo sguardo diritto davanti a noi. Abbiamo desideri, personalità, pensieri. Compiamo azioni senza chiedere il permesso. Questo non va giù al patriarcato, così crudelmente deciso con i suoi alfieri a ristabilire quell’ordine a loro caro, in cui zitte e in casa a figliare e accudire «senza rompere i coglioni». Così che gli uomini possano continuare ad occuparsi di sé stessi, andare al lavoro e perchè no, andare a puttane. Magari nelle casa chiuse che il ministro degli Interni propone di riaprire lfingendo di non sapere che 'le puttane' sono in gran parte 'schiave' e che nei Paesi dove il fenomeno è legalizzato, il fallimento è sotto occhi di tutti: le 'case' sono lager da cui le ragazza non possono più di uscirne e salvarsi, sono corpi al macello, a disposizione di un padrone.
NON C'È NIENTE DA RIDERE
Tutto ci dice che siamo di fronte all'origine di un processo di retrocessione culturale che vuole riportare l’Italia indietro di 70 anni e di cui la maggior parte dei cittadini e delle cittadine sono all’oscuro perchè in televisione di questo non si parla e quando se ne parla non c'è il corretto contraddittorio. Così non c'è abbastanza indignazione. E si sorride di fronte alle dichiarazioni di Pillon che sogna il «matrimonio indissolubile» e annuncia di voler vietare l’aborto come in Argentina. Si sorride di fronte ad altri esponenti del family day che si dichiarano contrari all’uso dei preservativi. Si sorride di fronte ai fanatici che chiamano assassine le donne che abortiscono. Si sorride guardando video di 'ex-gay' che dichiarano di essere 'guariti' dall’omosessualità cercando Dio. Si sorride perchè si pensa che indietro non si possa mai tornare, che la nostra intelligenza e le nostre libertà non siano manipolabili, dimenticando che ad esempio a Kabul fino ai primi Anni '90 si poteva girare in minigonna e senza velo. Poi arrivò il fondamentalismo e sappiamo oggi come vivono le donne in Afganistan e in tutto il Medioriente. Il fondamentalismo, che sia islamico, cattolico, ortodosso, fa la stessa cosa. Spazza via diritti, oscura i mondi che inghiotte in una spirale di autoritarismo e dogmi morali.

Ci aspetta uno tsunami di violenza a cui non possiamo farci trovare impreparate
Tutto questo grazie al denaro. Che è potere. Con il denaro si comprano le vite delle persone, si cambiano le culture, si opprimono le donne, le persone omosessuali, le etnie indesiderate. Si monopolizza l’informazione. E questo lo vediamo in Italia, ma anche in altri Paesi d'Europa. Perché dietro le campagne integraliste contro le nostre libertà, contro diritti che ci sembrano intoccabili, ci sono forti investimenti di soldi, come denuncia anche una recentissima inchiesta de L’Espresso. Ma le poche notizie che circolano rimangono un rumore di sottofondo. Eppure anche a Kabul qualcuno avrà sorriso, minimizzato, sottovalutato. Qualcuno avrà cercato di resistere, di organizzare una resistenza, ma non sarà stato supportato e sostenuto abbastanza da una maggioranza di cittadini e cittadine che non si sentivano in pericolo. Ecco, oggi noi siamo in pericolo. Questo è un 25 novembre più oscuro, perchè oltre alla violenza strutturale della nostra cultura, ci aspetta uno tsunami di violenza a cui non possiamo farci trovare impreparate/i, e come i tre porcellini dobbiamo decidere adesso se costruirci una capanna di paglia, di legno, o fare muro.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/punti-di-vista/2018/11/25/giornata-violenza-sulle-donne-25-novembre/27177/?fbclid=IwAR1exFydkldiHSS8TtSo0zEKXPZkznRHGrHuCKTRM8hNKwiSe05GkvYxgsA

domenica 25 novembre 2018

UCCISE DUE VOLTE Mattea Guantieri

Le leggi per tutelare le donne vittime di violenza in Italia ci sono ma non vengono applicate. Secondo il rapporto ombra di Grevio (organismo indipendente del Consiglio d’Europa) mancano posti letto, politiche di prevenzione, fondi, preparazione del personale socio sanitario come delle forze dell’ordine, investimenti sulla cultura della parità di genere. Un generale vuoto di reali provvedimenti che sono ben lontani dal migliorare una situazione disastrosa: nel 2018 sono già state uccise 106 donne, una ogni 72 ore. Ma per salvarle sono stati spesi lo 0,02 % delle risorse assegnate in un’esplosione di centri non qualificati che si occupano di altro. Nelle Marche non ci sono case rifugio. Queste sono morti annunciate

Siamo abituati al paradosso, ma questa sembra essere davvero una distorsione brutale visto che si riferisce direttamente a quella violenza sulle donne di cui si parlerà tanto domani, 25 novembre, quando verranno certamente ricordati i numeri dei femminicidi nel nostro paese: già 106 nel 2018, una donna uccisa ogni 72 ore. Dal primo gennaio al 31 ottobre 2018 sono saliti al 37,6% del totale degli omicidi commessi nel nostro Paese (erano il 34,8% l’anno prima), con un 79,2% di femminicidi familiari (l’80,7% nei primi dieci mesi del 2017) e un 70,2% di femminicidi di coppia (il 65,2% nel gennaio-ottobre 2017). Colpisce il progressivo aumento dell’età media delle vittime, che raggiunge il suo valore più elevato proprio quest’anno: 52,6 anni per il totale delle donne uccise e 54 anni per le vittime di femminicidio familiare (in molti casi donne malate, uccise dal coniuge anch’esso anziano, che poi a sua volta si è tolto la vita.
La percentuale di femminicidi che hanno origine familiare è cresciuta: si è passati dal 66,3% del 2000, al 76,7% del 2016 per una media del 71,6 %. E se consideriamo le sole vittime italiane, la percentuale di omicidi nel contesto familiare e affettivo sale all’81,3%.
20mila 137 sono, invece, le donne che nel 2017 sono state accolte dai centri antiviolenza, con (spesso) altrettanti minori a carico, 668 quelli ospitati sempre nel 2017. Il 68% di queste donne è italiana e ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni. Per il 73% la violenza è psicologica, per il 62% è fisica, mentre il 30% di loro deve combattere una violenza economica quotidiana.

Ebbene, date tutte queste cifre sconcertanti, il paradosso altrettanto sconcertante è che in Italia mancano 5.451 posti letto per le donne che scappano dalla violenza, che è domestica come ci dicono tutte le statistiche. C’è un numero di case rifugio distribuito in maniera disomogenea su tutto il territorio nazionale, inadeguato per rispondere ai bisogni e alla sicurezza delle donne che subiscono violenza e in totale violazione di diverse raccomandazioni internazionali ed europee (https://www.wave-network.org/resources/research-Reports) che, per esempio, indicano come parametro numerico adeguato di alloggi sicuri in rifugi per donne specializzati, disponibili in ogni regione, un posto letto ogni 10mila abitanti.

A raccontare quanta impressionante distanza esista tra quello che il governo (non solo attuale va specificato) dichiara in tema di contrasto alla violenza sulle donne e l’effettiva applicazione delle politiche è il rapporto ombra sulla violenza in Italia per il Grevio, organismo indipendente del Consiglio d’Europa costituito da esperte ed esperti che monitorano periodicamente l’applicazione della Convenzione di Istanbul (nata nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013) sulla violenza contro le donne nei diversi paesi che l’hanno sottoscritta.

Ne parla ad Estreme Conseguenze Marcella Pirrone, avvocata, D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, che conta su 80 organizzazioni che gestiscono centri antiviolenza e case rifugio in 18 regioni. Pirrone è tra le curatrici del Rapporto 2018: “Il rapporto è critico, non c’è dubbio. Abbiamo stilato pagine e pagine per spiegare quanto non funzioni nei piani nazionali che puntualmente vengono attivati come emergenti e non strutturali, in contrasto con quanto ripetiamo da anni e in tutti i luoghi istituzionali in termini di vuoti formativi e culturali. Il dato tecnico è fondamentale, mappa la mancanza di centri specializzati che possono aiutare le donne a denunciare qualsiasi forma di violenza e, banalmente, a farle sopravvivere dando loro una nuova opportunità di vita. I centri vengono depotenziati dal punto di vista economico ma, in tutto questo, ancora più grave è la dilagante disomogeneità in termini di applicazione delle norme nel diritto e nella pratica della Convenzione. I percorsi di formazione sul fronte sanitario, sociale e giuridico sono del tutto inadeguati e superficiali rispetto ad un numero di operatori (che rimane basso) e a cui manca un approccio di genere condiviso nella lettura della violenza maschile contro le donne e nella predisposizione degli strumenti per prevenirla e contrastarla. Non si tratta di servizi gender-oriented, né women-friendly, il personale spesso non è in possesso delle informazioni basiche adeguate ad orientare la vittima di violenza presso i servizi di supporto specialistici, che sono visti spesso addirittura come troppo di parte. In particolare, l’incapacità dei servizi sociali di riconoscere e conoscere a fondo la violenza contro le donne (nel caso di coppie definita ancora troppo spesso come “conflitto”) e di rilevare la cosiddetta violenza assistita (quella che coinvolge spesso i minori), che porta a interventi non adeguati, soprattutto verso le madri maltrattate”.

Facciamo un primo esempio, relativo alla trasparenza dei finanziamenti, su cui si è espressa più volte anche la Corte dei Conti con parole molto chiare scrivendo già nel 2016 che: “Quanto al finanziamento specificamente destinato al potenziamento delle strutture destinate all’assistenza alle donne vittime di violenza e ai loro figli, deve farsi presente che del tutto insoddisfacente è risultata la gestione delle risorse assegnate (analisi per gli anni 2013-2014), le uniche ripartite nel periodo all’esame. Le comunicazioni degli enti territoriali all’autorità centrale si sono rivelate carenti e inadeguate rispetto alle finalità conoscitive circa l’effettivo impiego delle risorse e all’esigenza della valutazione dei risultati.. ad ogni centro antiviolenza sono stati assegnati in media 5.862,28 euro; ad ogni casa rifugio €6.720,18.”. Facendo due conti è emerso che, per la cosiddetta emergenza della violenza sulle donne, si è speso solo lo 0,02% a fronte di 40 milioni di euro assegnati.

Cifre che vengono definite assolutamente inadeguate a sostenere le attività dei centri e delle case rifugio che si occupano di ricostruire – lo ribadiamo – il progetto di vita di una donna maltrattata. Maltrattata spesso per anni. In molti casi si è scelto di finanziare strutture non adeguate alla protezione e all’accompagnamento per la donna sola o con figli/e, snaturando in alcuni casi l’apporto di competenza e saperi dei centri antiviolenza operanti ormai da 30 anni. “Nel nostro rapporto questo aspetto è assolutamente e volutamente chiaro: facciamo fatica ad avere un quadro preciso delle motivazioni che hanno fatto sì che questi fondi non venissero spesi a dovere e in modo insufficiente. E teniamo conto che il finanziamento massimo del Fondo Politiche Sociali risale al 2004: 1,884 miliardi di euro. Da allora gli stanziamenti sono scesi fino al minimo storico del 2012 (43,7 milioni di euro). Oggi per le Politiche Sociali c’è una cifra pari ad appena il 5% di quanto c’era a disposizione nel 2004, anno in cui il Fondo ha visto il suo massimo storico. Ma da questo Fondo gli enti locali ricavano la quasi totalità delle risorse per fare fronte alle necessità di ospitalità di donne vittime di violenza, in particolare quelle con figli/e minorenni. Questo per dire che di concreto nella volontà di contrastare la violenza contro le donne ci pare ci sia ancora molto poco”.

Qui il link https://www.linkiesta.it/it/article/2018/11/22/fondi-violenza-donne/40226/ di un articolo in cui si può comprendere a chi sono destinati i fondi di cui sopra.

Facciamo un altro esempio, sempre presente nel Rapporto ombra di GREVIO:
In Italia non esistono Centri di supporto specializzati per i casi di stupro e violenza sessuale al di fuori di quelli sviluppati in alcuni ospedali nazionali di città (p.e. Soccorso Violenza Sessuale e Domestica (SVSeD) del Policlinico di Milano, Ospedale Centro Soccorso Violenza Sessuale (SVS) S. Anna di Torino) che offrono, al di là delle tipiche e necessarie prestazioni sanitarie (con messa in sicurezza per 6 mesi di ogni materiale probatorio eventualmente utilizzabile in relativi procedimenti penali), anche consulenza psicologica e sociale e in alcuni casi anche legale.

“Va detto – chiarisce Pirrone – che in Italia tutti i Centri antiviolenza gestiti dalle ONG di donne hanno la competenza per offrire supporto specialistico per le vittime di violenza sessuale e, infatti, sostengono la vittima accompagnandola anche, se necessario, in eventuali percorsi sanitari e giudiziali”. Ma va anche detto che se incrociamo l’ultimo dato Istat sugli stupri – 11 al giorno – con il dato relativo alle denunce, scopriamo che solo il 7,4% delle violenze sessuali viene denunciato. Molte vittime hanno ancora paura, non sanno se saranno protette e se troveranno protezione per sé ed eventualmente per i propri figli in caso di violenza domestica, perché di minori presenti ce ne sono, secondo l’Istat almeno in 4 casi su 100. “C’è un vuoto che riguarda i concreti interventi di prevenzione e protezione su tutto il territorio italiano. Entro marzo prepareremo un resoconto finale da trasmettere in Consiglio d’Europa. Queste sono morti annunciate. Ci sono situazioni drammatiche in regioni come le Marche dove non ci sono case rifugio”.

“Questo perché la violenza – spiega sempre Pirrone – di fatto è ancora in gran parte sommersa e anche quando si arriva alle aule giudiziarie ci si scontra con pregiudizi e mancanze gravi nei confronti della vittima”. Su questo punto torna utile il rapporto per capire dove siamo o meglio, dove ci siamo fermati e dove rischiamo di fermarci, se per esempio passasse il DDL Pillon che secondo Pirrone è “rancoroso nei confronti della donna, e porta avanti un’ideologia giocando sulla vita delle donne e dei minori. Dopo aver messo in pratica il cosiddetto piano di sicurezza per togliersi da una situazione pericolosa per sé e per i figli la donna si troverebbe a dover andare da un mediatore, per mesi verrebbe sospesa una decisione che le permetterebbe di allontanarsi, con i figli, dal suo maltrattatore che, secondo la legge, sarebbe considerato uguale a tutti gli altri padri. Senza dimenticare tutte quelle situazioni terribili in cui i figli vengono utilizzati per perpetrare ulteriori abusi, stalking, in cui si usa violenza stessa sul figlio o c’è violenza assistita”.

Nel rapporto leggiamo “Ancora oggi da parte dei servizi sociali o dei tribunali l’obiettivo principale è salvaguardare e conservare il rapporto con la prole, ovvero il legame genitore-figlio/a, sulla base del presupposto che conservare un legame affettivo con un genitore biologico sia di per sé produttivo di effetti benefici, e che agire con violenza nei confronti del proprio partner all’interno di una relazione sentimentale non sia un comportamento indicativo di scarse competenze genitoriali. La convinzione radicata è che un uomo maltrattante possa essere (e nella maggior parte dei casi, sia) un buon genitore.

Un esempio emblematico è il caso di Federico Barakat, ucciso dal padre durante un incontro protetto all’interno della ASL di San Donato Milanese nonostante le ripetute denunce di maltrattamento e stalking presentate dalla madre, accusata peraltro di ostacolare i rapporti tra il padre e il figlio. Oggi il caso è all’esame della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo”.

“Perché un padre è sempre un padre – commenta Pirrone – anche quando è violento. Soprattutto in un contesto culturale ancora così discriminatorio per le donne, dove l’idea che continua a passare è che comunque un certo tipo di atteggiamenti, anche violenti, siano un ingrediente scontato dei rapporti intimi: una convinzione che nei tribunali, nelle caserme e in alcune perizie psicologiche (CTU), espone la donna a grave rischio, in quanto la violenza psicologica nei rapporti d’intimità non è una semplice conflittualità della relazione ma violenza vera e propria, come indica la stessa Convenzione di Istanbul”.

Un altro dato colpisce: quasi nella metà dei casi (nel 44,6%) la vittima aveva denunciato l’autore delle violenze, senza ottenere però una protezione idonea a salvarle la vita. Il sistema SDI (Sistema di indagine del Ministero dell’Interno) raccoglie informazioni sia sui delitti denunciati dai cittadini presso gli uffici competenti (Commissariati di Polizia, Stazioni dei Carabinieri ecc.), sia sui delitti che le Forze di Polizia accertano autonomamente. Le informazioni riguardano, inoltre, anche le segnalazioni di persone denunciate e/o arrestate che le Forze di Polizia trasmettono all’Autorità giudiziaria. Una vittima italiana su tre ha dichiarato che il personale sanitario a cui si è rivolta ha fatto finta di niente di fronte alla violenza subita. Fa inoltre pensare il fatto che in un caso su 3 alle italiane è stato consigliato di sporgere denuncia, cosa che invece è stata sconsigliata al 63% delle straniere. Forse – si chiede Istat – perché si ritiene che le straniere abbiano una rete sociale meno solida alle spalle. Intendendo dunque la denuncia come un’alternativa al supporto della famiglia.

Di mancanza di una specializzazione effettiva in seno al giudice civile significative sono le parole di Fabio Roia, attuale presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano che scrive “la caratteristica dell’organo giudicante è che è un giudice civile, spesso non specializzato, legato per formazione al principio del contradditorio e dotato di poco coraggio nell’emanare un provvedimento che ha tutti gli effetti di una misura cautelare”.  (Crimini contro le donne politiche, leggi, buone pratiche” Franco Angeli)

Che la discriminazione in base al sesso, in Italia, sia ancora altissima su molti fronti è un fatto sotto gli occhi di tutti –  l’Italia in Europa si piazza al quinto posto per divario del 2,7% del rischio di indigenza a sfavore del sesso femminile –  ma come evidenzia il Rapporto le urgenze sono anche sul fronte culturale, il corpo delle donne è lo strumento attraverso il quale passa una discriminazione che parte da lontano e che viaggia su piani diversi e che si intrecciano sempre a svantaggio della donna.

Esempi? Leggiamo il Rapporto:
Nel settembre 2016, l’Assessore alle Culture e alle Identità, Cristina Cappellini, della Lega presso la Regione Lombardia stanzia trenta mila euro per attivare il servizio “sportello Famiglia”, un numero telefonico rivolto a genitori per “denunciare la diffusione della cosiddetta teoria “gender” nelle scuole della regione e per difendere la famiglia tradizionale. A gestire il servizio è l’Age, Associazione italiana genitori cristiani che organizza anche il Family Day. A Bologna nel settembre 2017 il comitato provinciale bolognese “Difendiamo i nostri figli – Family Day” e Forza Italia ha compiuto una schedatura delle scuole in cui vengono affrontate le teorie del gender, attribuendo uno stigma rosso se la scuola fa attività «filo-gender», giallo se ci sono solo «tracce gender» e verde se non si riscontra nulla. A Trieste nel marzo del 2015 viene bloccato il kit didattico e il relativo progetto educativo intitolato Il gioco del rispetto, nato per le scuole per sensibilizzare bambini e bambine sulla violenza di genere e la promozione delle pari opportunità tra uomini e donne. La cancellazione di Il gioco del rispetto da parte dell’Amministrazione Comunale è concomitante ad una vera a varie campagne diffamatorie.  A Venezia nel giugno del 2015 l’Amministrazione Comunale mette al bando 1.098 volumi presenti nelle biblioteche pubbliche rivolti a bambini e bambine, 36 titoli per la scuola dell’infanzia e 10 per i nidi, che riguardano le tematiche degli stereotipi di genere e la sensibilizzazione sui temi della violenza. Si tratta di libri di favole illustrate per bambini incentrate sul tema del rispetto.

Nel 2015 a Pescara è stato sospeso il percorso “Ricomincio da te” rivolto scuola dell’infanzia e primaria (sostenuto dall’Assessorato alla Cultura e alla Pubblica Istruzione del Comune di Pescara) dopo un’interrogazione comunale di una esponente di Forza Italia con l’accusa che le lettrici andavano in classe a proporre libri che avevano l’effetto di “confondere i bambini, farli spogliare e masturbare, cercare di farli diventare omosessuali.”

Un clima di caccia alle streghe, quindi, di paura e intimidazione che certo non aiuta né a fermare la violenza come si dichiara di voler fare né a far riflettere da dove essa possa nascere e nutrirsi giorno dopo giorno e che si è diffuso nel corso degli anni con progetti bloccati, altre volte stati supportati, ma con la richiesta esplicita di operare una auto-censura, ovvero di non usare il termine “genere” per non incorrere nella gogna mediatica. O peggio nell’opposizione di forze politiche.

C’è poi un’altra tendenza: la classificazione dello stupro: esistono ormai stupratori di serie A, stranieri rifugiati e clandestini, e stupratori di serie B, indigeni. Stupratori efferati, i primi, come a Rimini, e stupratori “trascinati”, come a Firenze. Popoli stupratori, che fanno la regola, e mele marce, che fanno l’eccezione. Stupri da raccontare nei più squallidi dettagli, tipo come funziona la sabbia nella “doppia penetrazione” sul caso Rimini, e stupri su cui stendere la copertina pietosa del decoro dell’Arma e dello stato, come nel caso di Firenze. Vittime da trattare con qualche riguardo, se bianche, occidentali, perbene, e vittime da violentare una seconda volta, sui giornali, sfregiandone la privacy, se polacche o di chissà dove, precarie, o magari prostitute non per scelta ma per forza. Su questo vale la pena rileggersi un articolo di Ida Dominijanni,  in cui si parla di razzializzazione della violenza sessuale, e così facendo di delinea uno scenario triste ma molto adatto ai talk: narrare il femminicidio senza insegnare che la violenza inizia da un parola e che uno stupro è stupro e non va classificato in base al colore della pelle. Lo abbiamo visto in questi giorni. Le foto che girano sul web delle studentesse contro Salvini e i commenti sessisti che le accompagnano parlano da sole. E scandalizzarsi, anche questo è ormai noto, neppure serve.

Qui il rapporto di GREVIO
Da sapere
L’Italia ha sottoscritto una serie di trattati internazionali (tra cui la CEDAW  (convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne). La Special Rapporteur sulla violenza contro le donne per l’ONU e la Chair Rapporteur del “Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sul tema della discriminazione contro le donne nel diritto e nella pratica” hanno in data 22 ottobre 2018 chiesto al Governo di riferire entro 60 giorni sul famoso DDL Pillon oltre che sulla minaccia di chiudere centri e spazi di donne per il supporto delle sopravvissute alla violenza di genere.

LA VIOLENZA ASSISTITA
Non esistono stime ufficiali relative agli orfani a seguito di femicidio.
Nell’unione europea il valore medio europeo del tFr (total Fertility rate- tasso totale di fertilità), è di 1,6 figli (World Facts Book, cia, 2014); la popolazione complessiva dell’unione europea è di 511.434.812 abitanti, 168.426.423 dei quali sono donne di età compresa fra i 15 e i 64 anni; la stima del numero delle donne uccise è di 840 all’anno. Questo significa che ci sono potenzialmente 1.344 nuovi casi di orfani da femicidio all’anno. Continuando a fare qualche calcolo, ciò implica che fra tutta la popolazione in Europa fra i 0 e i 60 anni ci sono 79.000 persone orfane di madre per mano del padre. Un numero incredibile, considerando non solo i costi umani, ma anche economici che questo comporta.

L’Eures dal 2000 al 2016 ne calcola 658, di cui 379 minorenni al momento del delitto (il 57,6%). Per l’Istat sono molti di più: circa 1600. Per tutelarli lo scorso dicembre è stata approvata una legge che prevede, tra le varie cose, la protezione legale gratuita, il sequestro conservativo dei beni dell’omicida e la sua esclusione dall’eredità del coniuge ucciso (“indegnità a succedere”). Quasi la metà delle vittime di femminicidio aveva denunciato prima. In un quarto dei femminicidi di coppia censiti dal rapporto Eures la vittima aveva già subito violenze dal suo carnefice: è accaduto in media nel 24,2% dei casi tra il 2000 e il 2016, e la percentuale sale al 37,1% nel solo 2016. Le violenze nel 69% dei casi erano note a figure esterne alla coppia. In circa la metà dei casi (il 48,8%) i maltrattamenti avevano un carattere ricorrente, mentre per il 20,7% c’è stata un’escalation delle violenze agite.

LA PAROLA FEMMINCIDIO

La parola femminicidio ha origini molto recenti: solo nel 1992 Diana Russel, con questo termine, ha definito una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna». Subito dopo è stata la messicana Marcela Lagarde a battezzare quello stesso fenomeno con la parola “femminicidio”. Secondo l’ultimo rapporto annuale delle Nazioni Unite, presentato dalla relatrice speciale Rashida Manjoo il 25 giugno 2012, “a livello mondiale, la diffusione degli omicidi basati sul genere ha assunto proporzioni allarmanti”. Tali omicidi, prosegue il rapporto, sono “culturalmente e socialmente radicati, continuano ad essere accettati, tollerati e giustificati, laddove l’impunità costituisce la norma”. Gli omicidi basati sul genere si manifestano in forme diverse ma ciò che accomuna di più tutte le donne del mondo è proprio l’uccisione a seguito di violenza pregressa subita nell’ambito di una relazione d’intimità. Queste morti “annunciate”, vengono spesso etichettate come i soliti delitti passionali, fattacci di cronaca nera, liti di famiglia. Le donne muoiono principalmente per mano dei loro mariti, ex-mariti, padri, fratelli, fidanzati o amanti, innamorati respinti. Insomma per mano di uomini che avrebbero dovuto rappresentare una sicurezza.

I numeri in Italia sono impietosi: muore di violenza maschile una donna ogni due o tre giorni. Ma questi sono appena un’approssimazione: non esiste, infatti, un monitoraggio nazionale che metta insieme i dati delle varie associazioni con gli sforzi dei volontari fai-da-te e con quelli delle istituzioni che a diverso titolo hanno a che fare con la violenza contro le donne. Quando non si conosce un fenomeno o addirittura, ci pare, lo si disconosce è impossibile affrontarlo.
https://estremeconseguenze.it/2018/11/23/stuprate-due-volte/?fbclid=IwAR1zeT8eP3tfqjVs7EXdLOUDVk_02sbQMNLsU4-SaTFR6kl2klAu82sqs8U

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sabato 24 novembre 2018

Violenza sulle donne, i dati Istat: "In 49mila si sono rivolte a Centri"

Accuse dall'Europa: l'Italia fa troppo poco per evitare i femminicidi: scarsa preparazione, interventi a macchia di leopardo. Domani a Roma manifestazione nazionale Non una di meno "contro la violenza di genere, il decreto Pillon e chi vuol cambiare la legge sull'aborto":
L'Italia fa troppo poco per combattere i femminicidi e la violenza sulle donne. Lo hanno detto gli esperti di Grovio (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence) ad EstremeConseguenze.it.
Grovio, l' Organismo del Consiglio d'Europa che monitora in ogni paese l'applicazione della Convenzione di Istanbul, sta preparando un rapporto sul nostro paese su questi temi.

Mancano più di 5mila posti letto per chi fugge dalle mura domestiche, teatro dell'80% dei maltrattamenti; i fondi pubblici sono scarsi e utilizzati male. Di quelli disponibili ne sono stati spesi solo lo 0.02%. Scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza di forze dell'ordine e personale socio-sanitario, interventi di prevenzione e protezione sui territori a macchia di leopardo, così solo il 7% degli stupri viene denunciato.

Una situazione impietosa - spiega Marcella Pirrone, avvocato della rete dei centri antiviolenza Dire che ha contribuito alla stesura delle 60 pagine del report ombra - c'è un vuoto che riguarda azioni concrete su tutto il territorio italiano. Entro marzo prepareremo un resoconto finale da trasmettere in Consiglio d'Europa. Queste sono morti annunciate. Ci sono situazioni drammatiche in regioni come le Marche dove non ci sono case rifugio. Molte vittime hanno ancora paura di denunciare, non sanno se saranno protette e se troveranno protezione per sé ed eventualmente per i propri figli in caso di violenza domestica".

I minori che assistono alle violenze sono presenti secondo l'Istat in 4 casi su 100. Come i nipotini di Renato, il nonno che ,l'altro giorno è andato alla Camera a parlare durante il convegno organizzato dalla vice presidente Carfagna in vista della giornata mondiale contro i femminicidi. giorno in cui è stata lanciata la campagna: "nonènormalechesianormale".
La figlia di Renato è stata uccisa, sgozzata dal marito sotto gli occhi dei bambini che ora hanno bisogno di continuo supporto psicologico, aspettano il buio con timore, perche al tramonto è stata uccisa la loro mamma, temono che il padre esca dal carcere e gli uccida anche se i nonni che se ne occupano hanno cambiato città in attesa ancora dell'aiuto previsto dallo stato per aiutare le vittime del femminicidio e gli orfani di padri violenti.

Le donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza nel 2017 sono 49.152, di queste 29.227 hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza.  Il 26,9% delle donne che si rivolgono ai centri sono straniere e il 63,7% ha figli, minorenni in più del 70% dei casi. Sono i dati raccolti dall'Istat che per la prima volta ha svolto l'indagine sui servizi offerti dai Centri antiviolenza, in collaborazione con il Dipartimento per le Pari opportunità le regioni e il Consiglio nazionale della ricerca.

L'Osservatorio Pari Opportunità e Politiche di Genere dell'Auser aderisce alla manifestazione di domani indetta dal movimento Non Una Di Meno. "E' molto difficile misurare la violenza, perché quella contro le donne (e contro le donne anziane, sottostimata e sottovalutata) è ancora una violenza sommersa e taciuta".

Da gennaio a ottobre sono state oltre 70 le donne uccise per mano di chi diceva di 'amarle'. Da gennaio a fine luglio sono state 1.646 le italiane e 595 le straniere che hanno presentato denuncia per stupro. L'Istat stima che siano 1 milione 404mila le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di un collega o del datore di lavoro. Incalcolabili gli episodi di sessismo, che permeano la vita delle donne: obbligare una donna a cambiare strada perché davanti a quel bar le dicono battute oscene, subire apprezzamenti non graditi sul proprio corpo o su come è vestita, la scelta delle aziende di assumere più uomini che donne, il divario salariale tra uomo e donna, l'incessante prova delle donne per dimostrare la propria competenza e professionalità, il carico del lavoro di cura che pesa quasi totalmente sulle donne, le immagini pubblicitarie che schiacciano le donne in ruoli stereotipati, spesso umilianti".

Domani, dalle 14, a Roma, partenza da piazza della Repubblica, per "Non Una di Meno" che torna in piazza con una manifestazione nazionale a Roma "contro la violenza di genere e le politiche patriarcali e razziste del governo". Non una di Meno denuncia "la strumentalizzazione di stupri e femminicidi, ricordano ancora una volta che la violenza contro le donne non ha colore: è sempre violenza maschile. Quest'ultima comincia nel privato delle case ma pervade ogni ambito della società e diventa sempre più strumento politico di dominio, producendo solitudine, disuguaglianze e sfruttamento. Patriarcato e razzismo sono due facce della stessa medaglia: rifiutiamo la paura, l'odio e la violenza del decreto Salvini, costruendo mobilitazione e solidarietà diffusa, in primo luogo con le migranti esposte a violenze reiterate e sulla cui pelle si gioca in modo ancora più tragico la partita della destra al governo". Inoltre, Non Una Di Meno ribadisce che "la libertà di abortire non si tocca e che il Ddl Pillon non si riforma, si blocca! Il 24 novembre a Roma sarà nuovamente marea femminista senza bandiere e simboli identitari e di partito
https://www.repubblica.it/cronaca/2018/11/23/news/accuse_dall_europa_l_italia_fa_troppo_poco_per_evitare_i_femminicidi-212392247/?fbclid=IwAR2JkgFkcc0aPwdkx9N65xZ8uSnYMOucNHzVkvJjuLIGR4RmkFK5uYzw7l4

venerdì 23 novembre 2018

9 DONNE ITALIANE SU 10 SONO UCCISE DA ITALIANI. E A NESSUNO IMPORTA. DI JENNIFER GUERRA

 Sabato 3 novembre è stata una giornata intensa per Matteo Salvini. Prima, una bella foto con la madonna di Medjugorje, poi vari tweet indignati, un rapido riferimento ai disastri del Veneto, con tanto di selfie al chiaro di luna perché “Venezia è sempre Venezia”, anche quando a qualche chilometro di distanza sembra essere arrivato l’apocalisse, e poi l’aggiornamento quotidiano sul violentatore del giorno, ovviamente straniero. “La pacchia è finita,” dice, “per i vermi come lui”. Sempre quel sabato, una donna di origine rumena, Violeta Senchiu, veniva ricoperta con tre taniche di benzina e arsa viva dal compagno italiano. “Sì, un italiano, di quelli che vengono prima,” ha scritto su Facebook Valeria Collevecchio. Chissà se la pacchia sarà finita anche per chi Violeta l’ha uccisa, Gimino Chirichella, un 48enne di Sala Consilina, in provincia di Salerno.
È stato solo grazie al post di Collevecchio, che ha ricevuto molte condivisioni, che la notizia è riuscita ad arrivare alle testate nazionali, dopo che per diversi giorni era rimasta relegata a episodio di cronaca locale, al pari di un furto in un supermercato o di un arresto per spaccio. Niente tweet di Salvini, niente cortei di Forza Nuova, niente assedio di telecamere fuori dall’abitazione o interviste ai vicini che dicono che l’assassino salutava sempre. Nessuno ha posato fiori davanti al luogo dell’uccisione, nessuno ha condiviso su Facebook la foto di Violeta. Qualcuno ricorda il nome e il volto di Magdalena Monika Jozwiak? O quello di Ines Sandra Augusta Sanchez Tapperi? La prima, una donna di origine polacca, sarebbe stata gettata dal quinto piano di un albergo dal compagno Marco Messina, ora indagato. La seconda, una venezuelana, è stata uccisa dal marito, Marco Del Vincio, che poi si è suicidato. Entrambe le notizie si trovano solo su siti di news locali, perché a quanto pare una donna straniera uccisa da un italiano genera troppo poco traffico web. E insieme a Violeta, Madgalena e Ines ci sono tantissime altre donne, citate solo per nazionalità. Una marocchina uccisa, una rumena strangolata. Secondo gli ultimi dati disponibili, oltre un quarto delle donne uccise nel 2016 è di nazionalità non italiana e nel 41,1% dei casi l’autore risulta italiano.
In quanto donna è un gruppo di attiviste che si impegna a fare quello che i media non fanno. Nel loro sito raccolgono i volti e i nomi di donne vittime e uomini carnefici, insieme al modo assurdo in cui vengono raccontate le loro storie. I raptus, la gelosia, una coppia come tante, l’amore criminale, lui l’insospettabile, di lei – a meno che non sia una giovane e bella ragazza, a quel punto angelicata – a volte non si riporta nemmeno il nome. Oppure, se l’omicida è straniero, si arriva all’estremo opposto, alla galleria degli orrori, con le macabre e dettagliate descrizioni di come si uccide una donna e la si fa a pezzi. Due su tutti gli omicidi in cui i media hanno dato il meglio di loro nelle ricostruzioni spesso fantasiose delle dinamiche del delitto: quello di Pamela Mastropietro e quello di Desirée Mariottini, per entrambi i quali al momento risultano indagati diversi extracomunitari. Siamo stati bombardati dalle immagini delle due vittime, riproposte in modo quasi ossessivo da politici di ogni partito.
In questo modo si creano due narrazioni completamente diverse per raccontare esattamente la stessa cosa: un uomo che esercita il suo preteso diritto di proprietà sulla donna.
La prima, la più diffusa, è quella dello straniero violento, che è senza ombra di dubbio un mostro, anche se nel caso di vittime italiane solo l’8% degli assassini è di nazionalità non italiana. Questa è la narrazione che abbracciano le destre per portare avanti non una campagna seria contro la violenza sulle donne, ma contro l’immigrazione. Per Salvini i violenti dalla pelle scura sono vermi e parassiti, gli italiani semplicemente non pervenuti. Lo stesso linguaggio è adottato anche da Giorgia Meloni, che anche se sembra farlo solo nei casi in cui a commetterla è uno straniero, dice di impegnarsi “Contro ogni forma violenza e sfruttamento, come l’utero in affitto”. Perché si sa, quella è la vera violenza, mica il marito che ti dà fuoco sul divano.
La seconda narrazione è quella delle dimenticate. Loredana Lo Piano, Alexandra Riffeser, Maria Zarba, Vasilica Nicoleta Neata, Maria Tanina Momilia, Licia Gioia: sono solo alcune delle donne morte negli ultimi due mesi per mano di italiani per cui nessuno ha fatto tweet commemorativi o hashtag che invochino #TolleranzaZero. Donne come Violeta Senchiu, di cui presto ci scorderemo, perché i loro volti e nomi non sono inseriti nell’agenda dei social media manager di Salvini e Meloni. Nella loro storia c’è spazio solo per il melodramma, per il racconto edulcorato di una tragedia che può essere solo annunciata o inspiegabile, senza vie di mezzo. Magari fra un paio d’anni diventeranno le protagoniste di una puntata di Amore Criminale, che non a caso racconta il femminicidio come se fosse una fiction Rai. Quello che è taciuto è che ogni violenza di genere non nasce per caso, non è follia, né raptus, è un processo lungo e complesso, che poco ha a che fare con l’amore o la gelosia e molto più spesso con le denunce non ascoltate.
Tutto ciò mentre, nel novembre 2017, il Consiglio dei ministri ha approvato il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne” che si articola in tre punti: prevenire, proteggere e perseguire. La struttura del documento si basa sulle linee guida della Convenzione di Istanbul, firmata in Turchia nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013. Per quanto riguarda la fase di protezione e sostegno, il Piano ha permesso l’attivazione della linea telefonica gratuita 1522 e di altri strumenti per favorire l’uscita dalla violenza. I punti relativi al perseguire e punire coinvolgono il miglioramento dei procedimenti giudiziari a tutela delle vittime di abusi, ma l’asse più importante, e forse più ignorato, è quello della prevenzione. Nel documento si legge che le priorità riguardano l’aumento di “consapevolezza nella pubblica opinione su le radici strutturali, cause e conseguenze della violenza maschile sulle donne” e la sensibilizzazione “del settore privato e dei mass media sul ruolo di stereotipi e sessismo nella violenza maschile contro le donne”.
Se lo Stato, ratificando la Convenzione di Istanbul, ha adottato la definizione di femminicidio come violenza “Fondata sulla disparità di potere tra uomini e donne […], un fenomeno sociale strutturale che ha radici culturali profonde, riconducibili a una organizzazione patriarcale della società”, non può sottrarsi al dovere di sensibilizzare i cittadini sulla base di queste premesse. È ovvio che la prevenzione non si fa facendo propaganda, dividendo gli assassini in mostri dalla pelle nera e amanti gelosi dalla pelle bianca. Anzi, portando avanti questo tipo di narrazione non si fa altro che rimarcare quell’organizzazione patriarcale della società che si dovrebbe combattere, appellandosi all’imperialismo insito in questa struttura.
Gli italiani che colpiscono una donna possono essere soltanto presi da scatti di rabbia o di follia, gli stranieri sono semplicemente “fatti così”, entrambi, per natura. In realtà, tutti gli uomini, a prescindere dal colore della pelle, quando commettono una violenza o un omicidio su una donna all’interno di una relazione affettiva o familiare, stanno esercitando il loro diritto di proprietà su di lei, abusando del potere di cui si sentono legittimati per il loro genere dalla società.
È curioso notare che il Senato, quando ratificò la Convenzione di Istanbul nel 2014, non accolse gli articoli 29 e 30 che riguardano il diritto della vittima a ottenere un risarcimento dallo Stato quando l’autorità non abbia adottato le misure di prevenzione o di protezione necessarie. Sono tantissimi i casi in cui lo Stato è venuto meno in tal senso. Come nella vicenda di Flora Agazzi, ferita lo scorso ottobre con una pistola dall’ex marito Salvatore D’Apolito, già denunciato un anno prima per maltrattamenti; oppure nell’omicidio di Immacolata Villani, uccisa davanti alla scuola della figlia dal marito, Pasquale Vitiello, denunciato appena qualche giorno prima. Ma lo Stato viene meno alla prevenzione anche quando adotta la doppia retorica del femminicidio, tacendo le vere cause della violenza di genere e limitandosi a dare la colpa a una sola categoria di persone. D’altronde si sa, trovare un capro espiatorio è più comodo. E soprattutto utile.
Di come Salvini viva in una perenne campagna elettorale ce ne siamo accorti tutti. Le donne sono totalmente assenti, se non in qualità di ex fidanzate che lo lasciano su Instagram, di incarnazioni del male come Laura Boldrini, o di vittime di violenza, se e solo se perpetrata dagli stranieri. Tutte le altre sono invisibili, perché non sono necessarie. Invisibili come Violeta Senchiu.
https://thevision.com/attualita/donne-uccise/

giovedì 22 novembre 2018

Le bambine sono più a rischio di abusi dei bambini

Secondo un report sulla violenza sui minori realizzato per il Parlamento europeo anche su questo fronte la questione di genere è cruciale: le femmine sarebbero dalle due alle tre volte più in pericolo.
  Essere una bambina, anche in Europa, significa avere due o tre volte più probabilità di essere vittima di abusi domestici rispetto a un maschio.
I dati sulla violenza sui minori sono difficili da confrontare perché nei diversi Paesi dell'Unione europea le indagini sono condotte in maniera autonoma, eppure questa è una costante che emerge dalla maggioranza delle ricerche condotte nell'Unione e a livello globale.
A questa conclusione è arrivato il rapporto sugli abusi domestici sull'infanzia pubblicato il 19 novembre dal Parlamento europeo, giusto alla vigilia della Giornata mondiale dei diritti dei bambini. Lo studio, richiesto dalla Commissione per i diritti della donna e l'uguaglianza di genere del Parlamento di Strasburgo, ha analizzato le principali indagini europee sull'argomento realizzate a partire dagli anni 2000 e pubblicate in lingua inglese con l'obiettivo di mettere qualche punto fermo utile a lottare contro la violenza sessuale sui minori. E le conclusioni a cui è giunto suggeriscono che la prospettiva di genere sia importante anche nell'affrontare il tema spinoso degli abusi sui minori. «Le vittime di sesso femminile», si legge infatti nel report, «hanno maggiori probabilità delle vittime maschili di essere costrette a compiere atti sessuali usando la forza fisica, e questo è il più delle volte praticato da perpetratori di sesso maschile».
Inoltre «alcuni dati suggeriscono che le forme più severe (comprese quelle penetranti) di abusi sessuali hanno più probabilità di essere vissute da giovani vittime di sesso femminile».
Dopo aver ricordato come l'indagine più estesa riassuma che le ragazze sono «due o tre volte più a rischio di abusi sessuali durante l'infanzia», gli autori ricordano che questa constatazione «è riportata in modo abbastanza coerente tra gli studi».
Per di più le bambine sono anche le più a rischio di subire violenza dai famigliari, per loro infatti «una percentuale più alta di perpetratori è costituita da membri della famiglia maschi, inclusi i padri».
https://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2018/11/20/abusi-bambini/27141/?fbclid=IwAR1xu0hlF7AQyQ68g-A9FP79q-PHHMa4KmvZCrB1_o2yv2j8wlLFJ4nxtBE

mercoledì 21 novembre 2018

La violenza sulle donne: problema culturale

 In Italia si registra un femminicidio ogni tre giorni. La prevenzione, fin dalla più tenera età, è imprescindibile e passa attraverso una corretta formazione. Changes ne ha parlato con Monica D’Ascenzo.

​​Un bollettino di guerra con migliaia di vittime segnate per sempre nel corpo e nell'anima.
Sono 6 milioni 788 mila, secondo gli ultimi dati disponibili forniti dall'Istat, le donne italiane di età compresa fra i 17 e 70 anni che hanno subito una qualche forma di violenza. 
Stiamo parlando di quasi una donna su tre.
Sono invece 4 milioni e 400 mila quelle che hanno ammesso di aver vissuto una relazione nella quale il filo conduttore era la prevaricazione psicologica da parte del partner.
Se si guarda poi alle statistiche relative ai "caduti", ovvero di chi ha perso la vita soltanto per il fatto di aver dato la propria fiducia e il proprio affetto alla persona sbagliata, si scopre che in Italia, secondo Eures, le donne uccise ogni anno sono in media 115, ovvero una ogni tre giorni.
Questi numeri rappresentano lo specchio di un'emergenza sociale che soltanto da qualche anno a questa parte inizia a essere presa in seria considerazione dall'opinione pubblica e soprattutto dalla politica.

Il fenomeno della violenza sulle donne non può essere trattato e analizzato esclusivamente come un semplice "reato contro la persona" visto e considerato che affonda profondamene le proprie radici in una sorta di subcultura "farcita" di pregiudizi molto diffusi e in particolare sull'errata convinzione che la donna debba sempre e comunque occupare un ruolo, nel lavoro o in famiglia, subalterno. Un retaggio tanto radicato in alcune persone che spesso è molto difficile, sia per gli uomini sia spesso per le donne, rendersi conto di stare esercitando o subendo una qualsiasi forma di violenza e di violazione di diritti che dovrebbero ormai essere considerati universali. Per questo motivo nella settimana fra il 19 e il 23 novembre 2018, in vista del 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, a tutti i dipendenti Unipol e Camst è stato distribuito il quaderno Exit-Uscite di sicurezza dalla violenza  realizzato in collaborazione con D.i.Re. Exit, corredato dalle illustrazioni di Stefania Spanò: una sorta di vademecum che raccoglie appunti e consigli utili per la prevenzione e il contrasto dei maltrattementi ai danni del genere femminile.

Il femminicidio, oltre che un'emergenza sociale, ha un costo, dal punto di vista puramente economico, elevatissimo. Ce lo ricorda la giornalista del Sole 24 Ore, Monica D'Ascenzo, ideatrice e responsabile del blog Alley Oop-L'altra metà del Sole, dedicato alla diversity.
«Ovviamente sono abituata ad affrontare questo tema nell'ambito del mio lavoro adottando il punto di vista tipico del giornalista finanziario, partendo in primo luogo dai numeri. Un approccio che ci ha consentito di realizzare per il  25 novembre dell'anno scorso l'e-book Ho detto no. Ricordo una cifra davvero impressionante: secondo l'analisi di Eige, l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, il costo annuo in Italia delle violenze sulle donne è quantificabile in 26,5 miliardi di euro, quasi quanto una finanziaria».

«L'e-book, che ha avuto il patrocinio del dipartimento per le Pari opportunità presso la presidenza del Consiglio con la prefazione dell'allora ministro Maria Elena Boschi – continua la giornalista - non contiene solo numeri ma anche alcune storie. Dall'analisi del fenomeno ormai strutturale e delle sue manifestazioni, il lavoro delle autrici passa ad esaminare le azioni necessarie da mettere in atto per sanare il problema. Una componente fondamentale nella strategia della lotta alla violenza femminile è senz'altro la formazione, perché da madre posso dire che la prevenzione inizia dalla scuola materna e passa anche attraverso una corretta stesura dei libri di testo che dovrebbero essere redatti in modo da evitare pregiudizi di genere. Nell'ambito scolastico, poi, un ruolo chiave è quello dei docenti che devono essere sensibilizzati e formati. Qualcosa si è mosso con l'introduzione dell'educazione di genere nelle scuole, ma siamo solo all'inizio di un percorso ancora lungo».

E infine come non ricordare il ruolo della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa che hanno il dovere di trattare questi argomenti usando un linguaggio adeguato.
 «Anche in questo caso – conclude D'Ascenzo – sarebbe necessario lavorare sulla formazione. Spesso si leggono espressioni come "raptus" o "omicidio passionale" riferendosi a un femminicidio maturato nell'ambito di una relazione da lungo tempo improntata sulla violenza e la prevaricazione. Esistono dei codici verbali adeguati e bisognerebbe che chi si occupa di scrivere argomenti li conoscesse e soprattutto li adoperasse con l'obiettivo di evitare in primo luogo qualsiasi allusione a una corresponsabilità della vittima».​
http://changes.unipol.it/close-to-you/Pagine/violenza-sulle-donne.aspx?fbclid=IwAR2Yf719teTk84L3TRt3NgvzQftMNEW2TAlsxvtfCkp5Oz5vgqdaZFZaEdo

martedì 20 novembre 2018

festa dell'albero 2018 perchè abbiamo aderito e parteciperemo

Su questa iniziativa c'è stato parecchio rumore, soprattutto in rete, per la presenza dei pentastellati di Corsico che partecipano alla piantumazione donando 100 alberi.
Più che dalle critiche siamo state infastidite dai toni con cui la pur legittima non condivisione è stata espressa. Comunque ognuno ed ognuna usa le modalità comunicative che ritiene più opportune.
Riteniamo necessarie, vista la situazione che si è creata, affiancare all'invito a partecipare alcune precisazioni.
Da parecchi anni partecipiamo alla “Festa dell’Albero”, condividendo gli obiettivi che  Legambiente si pone e quelli di quest'anno ci sembrano particolarmente condivisibili. La costituzione “di un Bosco Diffuso di di 3.000 alberi in Lombardia in ricordo di Lorenzo, amico e attivista di Legambiente” che all'evidente aspetto ambientale aggiunge il valore della memoria.
Rifiutare la donazione dei 100 alberi dei consiglieri pentastellati di Corsico, avrebbe significato negare alla città la costituzione di un angolo verde lungo il Naviglio.
Questa la logica che ci ha portate a dare la nostra adesione, dopo un'ampia approfondita e per alcuni versi anche sofferta discussione al nostro interno.
Nulla a che fare con “Alberi per il Futuro” apparso recentemente in rete con cui “Il Bosco di Lorenzo” proposto e gestito da Legambiente non ha alcuna relazione.
Ci piace ricordare poi che ventunesimodonna ha dalla sua parte un curriculum di attività e azioni coerenti con il suo Statuto, che parlano della sua identità che non può essere snaturata dalla partecipazione ad una iniziativa non gradita, ribadiamo legittimamente, ad alcune cittadine e cittadini e a chi ha deciso di prendere le distanze dalle nostre attività e dalla nostra associazione.
Ci dispiace sinceramente di questo allontanamento perchè pensiamo che il lavoro sulla cultura e sulle politiche di genere che portiamo avanti dovrebbe raccogliere, oltre alle critiche, il sostegno e le energie di cittadine e cittadini che credono nel rinnovamento della cultura nella nostra città futura.

Ciò chiarito Vi aspettiamo speriamo numerose e numerosi.

lunedì 19 novembre 2018

Vi aspettiamo martedì 20 e giovedì 22 con 2 film sulla violenza contro le donne

ll Comitato Soci Coop BaggioCorsicoZoia, in collaborazione  con l’associazione culturale Ventunesimodonna      in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne
organizza
                                              Martedì 20 novembre ore 21 
                                presso Spazio Teatro89 - Via Fratelli Zoia, 89,Milano
                                              la proiezione del film
                                             
                                                   “BORDERTOWN”
Regia:Gregory Nava
Cast; Jennifer Lopez, Antonio Banderas, Maya Zapata

"Bordertown" è la storia reale che viene raccontata: Ciudad Juarez, città del Messico al confine
con gli Stati Uniti, è sede prediletta per le maquiladoras, centri industriali di potenze straniere
in cui lavorano soprattutto donne messicane che nei loro paesini hanno poche speranze di vita dignitosa.
Ma molte delle operaie spariscono e vengono ritrovate tempo dopo e scoperte vittime di estreme violenze. Eva è una di loro: una sera, tornando a casa in autobus, viene aggredita e violentata dall’autista e da un altro uomo. Credendola morta, i due uomini la sotterrano viva, ma Eva si risveglierà e comincerà per lei un calvario tra i tentativi di denunciare i suoi aggressori e di superarela violenza subita per poter  tornare a vivere. La giovane donna troverà protezione nella casa di Teresa e avrà al suo fianco Lauren e Diaz, alias Antonio Banderas, che indagheranno e rischieranno la loro
stessa vita.


                                             Giovedì 22 novembre, ore 21.15
Cinema Teatro Cristallo - Via mons. Domenico Pogliani 7/A Cesano Boscone (MI)

Proiezione speciale nell'ambito delle iniziative per la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne in collaborazione con l'associazionismo del territorio:  Circolo Donne Sibilla Aleramo di Cesano Boscone, Demetra Donne di Trezzano sul Naviglio, XXI Donna di Corsico
                                         
LA BELLA E LE BESTIE
Regia: Khaled Walid Barsaoui e Kaouther Ben Hania
Cast: Mariam Al Ferjani, Ghanem Zrelli, Noomane Hamda


"La bella e le bestie" ci illustra una Tunisia contemporanea dove Internet rimane il migliore mezzo di comunicazione (e di tutela) per i giovani, dove i cellulari servono per farsi i selfie ma anche per permettere ai padri conservatori di tenere d'occhio gli spostamenti delle figlie, dove gli ospedali pubblici suggeriscono ad una ragazza vittima di violenza di assumere la "pillola del giorno dopo" per "evitare altri guai" ma si rifiutano di sottoporla ad una visita medica senza una richiesta da parte della polizia.
All'interno delle istituzioni, le figure tanto maschili quanto femminili oscillano fra l'empatia istintiva verso una ragazza in evidente difficoltà e l'obbedienza alle regole o alla mentalità retrograda dominante. E la vicenda di Miriam, pur con i dovuti distinguo, è riconoscibile anche in un Occidente che continua a biasimare le vittime e trasforma la denuncia di una violenza (o molestia) in una via crucis lungo la quale una donna si trova costretta a difendersi dalle accuse di complicità o provocazione. (dalla recensione di Paola Casella)



Vi aspettiamo!

venerdì 16 novembre 2018

Studiamo la Storia degli uomini. E dove erano le donne? Elisabetta Serafini

Una collana di libri illustrati per raddrizzare la narrazione «sbilenca», come la chiamava Virginia Woolf. Perché non è sufficiente citare solo qualche nota e illustre
La «foto di gruppo» che giunge dalla Preistoria, tra i reperti del sito di Melka Kunture, in Etiopia, ci racconta che bambini e bambine accompagnavano gli adulti nelle battute di caccia. E in generale sappiamo che nel Paleolitico erano sia femmine sia maschi a procacciare il cibo. La storia troppo spesso ci racconta di invasioni, guerre, crociate, lotte per il potere tra papi e imperatori, tra re e signori, di viaggiatori coraggiosi e grandi inventori. E le donne? E i bambini? Dov’erano? Cosa facevano? Nei libri di storia restano fantasmi.
Eppure le donne nel corso dei secoli hanno lavorato, in casa e fuori, e ricoperto importanti cariche, anche se non sempre il loro potere è stato riconosciuto. Hanno cominciato a battersi per ottenere il diritto di voto molto prima di quanto i libri di storia ci raccontano: basti pensare alla Dichiarazione scritta da Olympe de Gouges per i diritti delle donne e cittadine francesi negli anni della Rivoluzione. Sono state disposte ad emigrare per vedere riconosciuto il loro diritto all’istruzione, come le inglesi che nei primi anni del Novecento si recavano a Dublino per ottenere una laurea che veniva loro negata in patria. Di lì a poco in Italia avrebbero ottenuto l’abolizione dell’autorizzazione maritale.
«Preistoria» di Elisabetta Serafini (docente di didattica della storia) e Caterina Di Paolo (illustratrice) è il primo volume della collana «Storie nella Storia», pubblicata da settenove
La mancanza della prospettiva di genere nei programmi scolastici e nei libri di testo è questione ormai nota. A partire dalla consapevolezza di questa lacuna, la casa editrice Settenove e la Società italiana delle storiche stanno lavorando insieme ad un progetto editoriale rivolto alle giovani generazioni: libri di storia inclusivi delle differenze, che racchiudono racconti avvincenti e strumenti per chi si occupa di formazione. La questione è delicata e ampiamente dibattuta: come trasmettere il sapere sulle donne già a partire dai primi ordini di scuola? È sufficiente parlare di qualche donna illustre? La relazione educativa ha bisogno di essere rinnovata al fine di valorizzare le differenze e prevenire discriminazioni e violenze di genere, con curricoli inclusivi nei quali, inoltre, non esistano discipline più propriamente maschili o femminili. Eppure i testi usati a scuola risentono ancora di un’impostazione androcentrica, lasciando soli quei docenti che, in autonomia, tentano di riequilibrare proposte sbilanciate. Per questo è stata pensata la collana Storie nella Storia, per raddrizzare una storia sbilenca. Così Virginia Woolf ha definito la storia senza donne.
L’albo illustrato è la forma che è stata scelta per raccontare la complessità, con un intreccio tra testo e immagini non stereotipate, che diventano esse stesse racconto. Il primo albo della collana, Preistoria. Altri sguardi, nuovi racconti, percorre la storia più distante da noi e mostra come quel lontano passato sia stato popolato anche da donne, bambini e bambine e non solo da uomini cacciatori. Timoniere in questo lungo viaggio nel tempo sono storiche e archeologhe, esperte di storia delle donne che non si limitano a proporre nuovi racconti ma pongono domande e insinuano dubbi. Margaret Ehrenberg, archeologa impegnata nella divulgazione di studi sulle donne nella Preistoria, conduce lettrici e lettori nel percorso tra gli antichi reperti. Racconta la passione e le difficoltà delle studiose che l’hanno preceduta — come Mary Anning e Mary Leakey — sottolinea l’assenza delle donne nei libri di storia e invita ad osservare da vicino le fonti per scovare le tracce di intere comunità. Racconta che bambine e bambini realizzavano i giocattoli che poi avrebbero utilizzato e si sofferma sul ruolo fondamentale che le donne ebbero nel passaggio all’orticoltura e all’agricoltura.
Le vite dei bambini e delle donne, uscendo dal trafiletto in appendice, tornano così nella storia, nel contesto dei gruppi di riferimento. Dopo questa prima pubblicazione, il viaggio nel tempo continuerà fino alla contemporaneità con cinque volumi dedicati alle varie epoche e con volumi tematici. A guidare insegnanti, e chiunque voglia utilizzare gli albi in ambito formativo, saranno i contenuti on-line, pensati come approfondimenti, tracce di attività e spunti per la progettazione di esperienze didattiche, ampiamente personalizzabili. Una scelta che resta fedele all’idea di «unicità della soggettività», quella di chi ha fatto la storia, quella di chi impara e di chi insegna.
https://27esimaora.corriere.it/18_novembre_08/studiamo-storia-uomini-dove-erano-donne-e7a72e84-e1d3-11e8-9522-64e616a61d3d.shtml?fbclid=IwAR0mEibQCCFQsat5SXr32gnBdm2WmJw9CucGVZAJ_No2x0VcEe1EvnmT9BM

giovedì 15 novembre 2018

La Camera ha approvato delle mozioni contro la violenza sulle donne

In che cosa si impegna il governo con il «sì» unanime, con l'obiettivo di raggiungere la piena applicazione della convenzione di Istanbul.
Una piaga di cui siamo costretti a parlare ogni giorno, quella della violenza sulle donne. E il 14 novembre arrivato un sì dell'Aula della Camera, grazie anche a un gioco di astensioni reciproche, alle mozioni sulle iniziative per prevenire e contrastarla. L'Assemblea ha approvato all'unanimità il dispositivo della mozione di Pd-Leu e di quella di Forza italia, e a maggioranza, con sole astensioni e nessun voto contrario, quello della mozione di maggioranza. Vediamo di cosa si tratta.

IN CHE COSA SI IMPEGNA IL GOVERNO?
In base ai testi approvati, il governo è impegnato, tra l'altro: «
- A mettere in campo tutte le iniziative necessarie a rendere efficace il complesso sistema di strumenti e di tutele citati in premessa, con l'obiettivo di raggiungere la piena applicazione della Convenzione di Istanbul;
- ad assumere iniziative per proseguire nella strada tracciata dai Governi Letta, Renzi e Gentiloni, attuando la strategia delineata dal Piano nazionale 2017-2020 e implementando e monitorando le linee guida nazionali per l'assistenza sociosanitaria alle donne che subiscono violenza e che si rivolgono ai pronto soccorso;
- ad assumere iniziative per favorire il coordinamento tra processo penale, civile e procedimenti presso i tribunali per i minorenni, al fine di garantire un'efficace protezione delle donne e dei loro figli e per evitare l'affido condiviso nei casi in cui vi sia violenza domestica».
Il governo è poi impegnato «
- a promuovere la parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere attraverso l'educazione scolastica, assumendo iniziative per destinare a tale scopo nuove risorse finanziarie;
- a promuovere strumenti e procedure di valutazione del rischio di letalità per la vittima, gravità, reiterazione e recidiva del reato, partendo dai protocolli di valutazione del rischio sviluppati nell'ambito degli studi e delle ricerche sulla violenza di genere e ai protocolli investigativi in via di diffusione presso le forze dell'ordine con specifico riferimento a questa materia (ad esempio, il protocollo Eva);
- ad assumere iniziative per investire risorse adeguate per la formazione specifica e per il necessario aggiornamento del personale chiamato ad interagire con la vittima, polizia e carabinieri, magistrati, personale della giustizia, polizia municipale e personale sanitario, anche nell'ambito di specifiche provviste finanziarie destinate alla violenza di genere». Dovranno poi essere favorite «modalità organizzative condivise, utili ad assicurare la trattazione prioritaria dei procedimenti e la protezione alla vittima anche in ambito processuale, così come indicato nelle linee guida del Consiglio superiore della magistratura»; ed «adottate politiche volte a garantire la parità di genere e ad incrementare l'occupazione femminile, elemento quest'ultimo fondamentale per la liberazione delle donne dalla violenza».
https://www.letteradonna.it/it/articoli/politica/2018/11/14/mozioni-violenza-donne-camera/27103/?fbclid=IwAR0n2-9JMD-_Nc0auFzkWgVQN5NS1g3gc1nnTO-wZogUskpjTdBSO-CCh0U

mercoledì 14 novembre 2018

L’ITALIA NON È UN PAESE PER DONNE Mattea Guantieri

Italia fanalino di coda nella contraccezione d’emergenza: c’è un nocciolo di resistenza che si aggira intorno al 46% tra i farmacisti che considerano le pillole del giorno dopo abortive e non contraccettive nonostante Oms, Aifa ed Emea abbiano chiarito da tempo che si tratta di pillole che spostano l’ovulazione. In Italia la percentuale di donne che ha dichiarato di avere utilizzato, almeno una volta nella vita, il farmaco per evitare una gravidanza indesiderata è la più bassa di altri Paesi Europei: il 20%, contro, per esempio, il 33% del Regno Unito. La mappa che la piattaforma Obiezione Respinta ha delineato in un anno di lavoro fotografa quanto sia scoraggiato nelle farmacie e nei pochi consultori presenti l’uso della contraccezione d’emergenza. Altro anello debole della catena è l’informazione sulla contraccezione, in particolare su quella d’emergenza, inesistente nelle nostre scuole, mentre in Francia le minorenni possono avere gratuitamente ogni contraccettivo dal 2013.

L’Italia non è un paese per donne. La trincea contro l’aborto non passa soltanto dal difficile accesso all’interruzione di gravidanza ma anche attraverso la negazione della cosiddetta pillola del giorno dopo, o di quella dei 5 giorni dopo (che si chiama EllaOne). Non ci sono statistiche precise su quanti siano i farmacisti obiettori in Italia. Ma la resistenza c’è e i tentativi di sottrarsi alla vendita pure. Secondo un sondaggio dell’Unione Cattolica Farmacisti Italiani, almeno il 20% dei farmacisti non venderebbe mai una pillola contraccettiva senza ricetta e il 46% è stato contrario alla scelta dell’Aifa che ne ha permesso la vendita senza prescrizione medica, spiegando come essa sia contraccettiva e non abortiva “perché agisce inibendo o spostando l’ovulazione in avanti di qualche giorno”. Che la pillola del giorno dopo sia contraccettiva e non abortiva lo dicono anche le associazioni scientifiche, ma le proteste di coloro che sacralizzano il “concepito” sono all’ordine del giorno da parte delle galassie di associazioni, forum e movimenti numerosi e agguerriti che organizzano persino momenti di preghiera “per far cessare gli aborti in tutta Italia”.

“La pillola dei 5 giorni dopo – spiega ad Estreme Conseguenze Fabio Romiti Vicepresidente per il Movimento Nazionale Liberi Farmacisti – in libera vendita solo alle maggiorenni (il farmacista è tenuto ad accertarsi della maggiore età), già approvata dall’EMEA, l’Autorità Farmacologica Europea, non è la RU-486. Il principio attivo utilizzato appartiene alla categoria degli anti-progestinici, ovvero a quelle molecole che contrastano l’effetto del progesterone, ormone fondamentale per creare le condizioni adatte alla fecondazione e all’annidamento. Se assunta entro 5 giorni dal rapporto la pillola ha la funzione di interferire con i meccanismi dell’ovulazione. E, siccome l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che la gravidanza ha inizio quando l’ovulo fecondato s’impianta nell’utero, non possiamo definirla pillola abortiva. Il discorso è leggermente differente per quanto riguarda la pillola del giorno dopo. Ha efficacia se assunta entro 72 ore dal rapporto. Da un punto di vista farmacologico è in grado di bloccare o ritardare il processo di ovulazione, ovvero il momento in cui l’ovocita viene espulso dalle ovaie per cominciare il suo viaggio attraverso le tube e raggiungere l’utero e, se fecondato, impiantarsi. Il Comitato di esperti europeo, dopo un lungo e approfondito percorso durato anni, ha stabilito che il farmaco è sicuro e affidabile e può essere tranquillamente gestito dalla professionalità del farmacista, come del resto già avviene per molti altri medicinali.

L’esperienza negli altri Paesi europei, dove la contraccezione d’emergenza è già un presidio controllato dal farmacista, dimostra che un accesso facilitato non porta ad un suo uso incontrollato. Il caso di Monfalcone, in cui una farmacista è stata assolta durante due gradi di processo per essersi rifiutata di consegnare Norlevo (con regolare ricetta) durante il servizio notturno, apre grandi interrogativi e mette a nudo l’esistenza del problema. La farmacista è stata assolta perché nel codice deontologico della professione di farmacista c’è scritto (Art. 3) che «Il farmacista deve operare in piena autonomia e coscienza professionale conformemente ai principi etici e tenendo sempre presenti i diritti del malato e il rispetto per la vita». Peccato che nello stesso articolo, al punto successivo si reciti: «nel rispetto del principio costituzionale di uguaglianza assicurare, con diligente professionalità, la presa in carico di ogni paziente, senza alcuna discriminazione, e perseguire il principio di universalità del Servizio Sanitario nella tutela della salute». Sulla supremazia di un codice deontologico e la sua interpretazione rispetto ad una legge dello Stato lasciamo ai giuristi la spiegazione, ma è chiaro che il sistema ha delle “falle” e che esse debbono essere chiuse privilegiando il diritto del soggetto più debole che a nostro avviso è sempre quello di chi ha bisogno di un farmaco. Quindi assicurando sempre, anche in presenza di obiezione di coscienza, la disponibilità del farmaco”.

La chiarezza scientifica non basta però quando a circolare sono le gigantografie di numeri fisiologici che vanno contestualizzati, proprio alla luce della scelta di Aifa: Federfarma Verona (città da dove ricordiamo è partita la crociata contro l’interruzione di gravidanza) ha diffuso pochi giorni fa un comunicato nel corso di un convegno organizzato dalle Pari Opportunità in cui si è parlato di “impennata di vendite della pillola del giorno dopo del 700% e di bombe ormonali”.  Abbiamo recuperato i dati di vendita: circa 94mila confezioni di EllaOne sono state vendute in Italia nel 2015 dopo l’abolizione dell’obbligo di ricetta medica per le maggiorenni, avvenuta per mezzo di una delibera Aifa emanata a maggio 2015. L’anno precedente, in totale, erano circa 16mila, sebbene a fronte non solo della richiesta di una ricetta medica ma anche di un test di gravidanza obbligatorio, unico in Italia in tutto il panorama Europeo. Che i dati di mercato non lascino intravedere deragliamenti della contraccezione d’emergenza, del resto lo ha precisato la stessa Federfarma (Nazionale) dicendo che “se l’analisi si allarga da un solo farmaco alla totalità del mercato della contraccezione d’emergenza – che comprende non solo EllaOne ma anche Norlevo, la cosiddetta pillola del giorno dopo – l’incremento sfiora il 24%”. E se è vero che EllaOne ha mostrato un deciso incremento nel 2016 (+60%) con 189mila pillole vendute altrettanto vero è che, invece, l’altra accusata – Norlevo – ha subito una flessione di vendita di circa la metà (-28%). Nel nostro Paese, inoltre, la percentuale di donne che hanno dichiarato di avere utilizzato il farmaco per evitare una gravidanza indesiderata almeno una volta nella vita è più bassa rispetto agli altri Paesi Europei: il 20% Italia, contro il 33% del Regno Unito.

Del resto va detto e ricordato che nel nuovo elenco dei medicinali da tenere obbligatoriamente in farmacia, varato nell’ambito della revisione della Farmacopea ufficiale, purtroppo non è inclusa una voce specifica dedicata ai farmaci per la contraccezione d’emergenza. Si prevede che il farmacista debba avere almeno uno dei farmaci della categoria contraccezione ormonale, ma dentro questa tipologia unica sono mischiate le pillole anticoncezionali ordinarie di uso quotidiano con quelle d’emergenza, con effetti e modalità di utilizzazione diversi e assolutamente non intercambiabili.

Uno spaccato di verità che riguarda quanto sia difficile e scoraggiato, anche alla luce di questa manovra, l’uso della contraccezione d’emergenza ci è fornito da Obiezione Respinta, una piattaforma autogestita ideata un anno fa da un collettivo femminista di Pisa che fornisce indicazioni pratiche sugli orari dei consultori, sulla presenza o meno di obiettori e, appunto, su farmacie in cui trovare o meno la pillola del giorno dopo. Sono circa 600 ad oggi le segnalazioni arrivate da tutta Italia attraverso i social, come via mail, la metà delle quali riguarda le farmacie dov’è difficile se non impossibile ottenere la pillola del giorno dopo o, peggio, una qualsivoglia forma di contraccettivo libere da giudizi che non ammettono repliche.

“Sul territorio pisano da dove siamo partite – racconta ad Ec Eleonora Mizzoni di Obiezione Respinta – abbiamo notato che non erano poche le farmacie che non vendevano la pillola del giorno dopo, che non avevano preservativi, per non parlare delle pressioni, i giudizi che una ragazza, una donna, subiva quando chiedeva un contraccettivo. L’obiezione di coscienza non è prevista per le farmacie, essendo la pillola del giorno dopo non un farmaco abortivo, ma fin da subito (e in circa un anno di mappatura) abbiamo notato come invece sia molto diffusa in territorio italiano. Molto spesso ci capita che alcune ragazze ci chiamino per sapere a che medico o ospedale possono rivolgersi senza il rischio che si trovino davanti un obiettore, o di subire violenza ostetrica. In questi casi o utilizziamo i dati che abbiamo con le segnalazioni, oppure ci rivolgiamo a strutture, collettivi, associazione femministe che lavorano su quel territorio e che possono, oltre a dare informazioni, anche aiutare la ragazza di persona. Sono le stesse Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e Agenzia europea del farmaco (Ema) a specificare che si tratta di contraccettivi d’emergenza e non di un metodo abortivo. Solo questo dovrebbe essere sufficiente a fugare ogni dubbio sul fatto che nessun farmacista possa in alcun modo rifiutarsi di vendere tale farmaco, altrimenti potrebbe fare lo stesso con qualsiasi altro contraccettivo. A farne le spese, i diritti, la salute e l’autodeterminazione delle donne, le quali si ritrovano a non poter gestire liberamente la propria sessualità. Non si parla nemmeno della possibilità di interrompere la gravidanza, ma dell’accesso alla contraccezione d’emergenza”.

Del resto, secondo un’indagine dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere (Onda) l’87% delle donne italiane sono consapevoli dell’esistenza della contraccezione d’emergenza, ma solo la metà sa che va assunta il prima possibile dopo il rapporto sessuale non adeguatamente protetto. Nonostante le maggiorenni possano acquistare i farmaci per la contraccezione d’emergenza senza ricetta medica, ancora 1 donna su 3 non sa che è possibile farlo in farmacia e parafarmacia, con il 9% che pensa che sia dispensata solo in ospedale, e oltre un’intervistata su 2 non è al corrente che la prescrizione medica serva solo per le minorenni.

“La contraccezione d’emergenza – sottolinea Francesca Merzagora, presidente dell’Osservatorio nazionale salute della donna – è un presidio di prevenzione validato e conosciuto, ma, alla luce dei dati, emerge come questo diritto sia fortemente messo in discussione, c’è una sorta di blackout della comunicazione sulla contraccezione d’emergenza che porta a credere erroneamente che l’azione del farmaco sia assimilabile ad un aborto. L’insufficienza dell’informazione sulla contraccezione, in particolare su quella d’emergenza, continua ad essere la maglia debole della catena e di fatto questo rappresenta un fallimento verso qualsiasi forma di prevenzione e pianificazione della salute sessuale”.

Che “laici e cattolici debbano contribuire alla riduzione della gravidanza indesiderata e dell’aborto volontario estendendo la contraccezione d’emergenza” ne parla anche Emilio Arisi, Presidente della Società Medica per la Contraccezione che ci dice “le informazioni dovrebbero entrare di diritto all’interno dei curricula formativi scolastici pur con un dettaglio di informazioni modulato in relazione con le classi di età. La pillola del giorno dopo è un farmaco sicuro, e dovrebbe essere gratuito, per tutte le donne”.  In Francia, per esempio, la contraccezione emergenza può essere distribuita nelle scuole dalle infermiere gratuitamente e in modo anonimo già dal 2002, e nelle farmacie le minorenni possono avere gratuitamente ogni contraccettivo dal 2013. Secondo Arisi una politica laica della contraccezione consentirebbe anche un risparmio economico per il servizio sanitario nazionale, su cui gravano i costi delle interruzioni volontarie di gravidanza. La SMI ha, infatti, calcolato che si recupererebbero dai 7 ai 10 milioni di euro, risorse che potrebbero essere investite in campagne informative e nella prevenzione. La Gran Bretagna ha calcolato che investendo 1 sterlina nella contraccezione circa 10 ne vengono risparmiati sull’intero sistema sanitario nazionale.

Di appropriatezza di prestazioni in una generale idea di salute riproduttiva che liberi la sessualità dalla paura, legandola invece alla consapevolezza e alla libertà di scelta (la regione Lazio ha bloccato per esempio il progetto avanzato per la sperimentazione dell’IVG farmacologica nei consultori) parla Michele Grandolfo, epidemiologo, già dirigente di ricerca dell’Istituto superiore di sanità (ISS) e per anni direttore del reparto di salute della donna e dell’età evolutiva, oggi in pensione, ma lucidissimo nelle considerazioni sui limiti che hanno sempre messo in discussione quello che lui definisce l’empowerment delle donne, puntando il dito contro interessi economici e sprechi sanitari attorno alla salute della donna.

“Nessuno parla della scelte delle donne e nessuno parla di garanzia del servizio: voglio ricordare che l’interruzione di gravidanza non è una concessione, anche se in molti la considerano tale. Si dice comunemente che il medico certifica o autorizza, ma è la donna che sceglie, il medico dovrebbe limitarsi ad attestare. Il fenomeno dell’obiezione di coscienza presenta sfaccettature che di scelta etica hanno poco a che vedere. Le donne sono soggetti forti, vanno favorite le loro competenze. Ma spesso l’obiezione è invocata per le ragioni più assurde. Non dovremmo mai dimenticare che chi svolge una funzione pubblica non può limitarsi a dire “sono obiettore” (ove sia consentito), ma deve garantire il servizio. Ha l’obbligo di prendere in carico la richiesta, e se lui non è disponibile deve trovarne un altro operatore sanitario. La situazione appare però fuori controllo. È una responsabilità politica far applicare le leggi. Quella amministrativa è invece di farlo nel modo più appropriato. Quella dirigenziale, infine, è di garantire che l’intervento avvenga nei tempi e nei modi raccomandati. Il risultato dovrebbe essere la garanzia del massimo di sicurezza e benessere – con il minimo della spesa. Finché restiamo sul piano della discussione morale non sembra esserci alcuna prospettiva di miglioramento. Potrebbe forse cambiare qualcosa se cominciassimo a ragionare sul risparmio economico?”

Grandolfo si riferisce in particolare ai consultori: “Doveva esserci un consultorio ogni 20.000 abitanti, in realtà, la legge non è mai stata attuata; i consultori sono in media uno ogni 100.000 abitanti. Non solo in questi ultimi anni si è cercato di trasformare quei pochi attivi in agenzie dei “movimenti per la vita” stravolgendone quel ruolo fondamentale di sostegno «per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti», previsto dalla legge 405/ 1975 che li ha istituiti come «servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità»; «per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile», dando «informazioni idonee a promuovere, ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso».

Organizzare in forma integrata i servizi direttamente implicati nell’applicazione della legge 194/78 richiede solo volontà politica, alla luce delle informazioni e delle risorse disponibili. I consultori familiari – dice ancora Grandolfo – sono stati tanto boicottati perché promuovono interventi per ridurre le malattie e di conseguenza la spesa sanitaria. Il problema è che i sistemi sanitari pubblici universali non sono sostenibili se non si controlla l’espansione dell’inappropriatezza. In Italia l’85% delle interruzioni volontarie di gravidanza viene praticata in anestesia generale, che secondo evidenze statistiche aumenta i rischi per la salute, mentre quella locale li riduce”.

Da anni Grandolfo pone infatti la questione di come sia applicata in modo inappropriato economicamente la 194: il problema dell’obiezione di coscienza si ridurrebbe drasticamente, per esempio, se si impiegasse l’anestesia locale – raccomandata e praticata a livello internazionale per la tutela della salute della donna – piuttosto che l’anestesia generale, che richiede più personale per esempio anestesisti, più strutture e infrastrutture, soprattutto se condivise con altre attività; se si estendesse l’offerta dell’aborto medico (farmacologico); se si estendesse, come raccomandato e praticato l’aborto medico fino alle 9 settimane gestazionali, invece dell “inconcepibile” limite fissato in Italia a 7 settimane.

“Le pratiche inappropriate non solo rappresentano sprechi di risorse, ma sono sempre associate a danno di salute. L’inappropriatezza si mangia almeno il 30% delle risorse e l’assenza della valutazione permette ruberie, corruzione e sprechi: facciamo qualche esempio. Il 70% delle IVG potrebbe avvenire in anestesia locale. Oggi è vero il contrario come ho detto sopra. L’anestesia generale richiede strutture di terzo livello, con camera operatoria e anestesista: un ricovero ospedaliero con un tale impegno strutturale costa moltissimo (a questo dobbiamo aggiungere moltissime analisi – spesso superflue – e l’impegno della camera operatoria). Per l’IVG è sufficiente una struttura ambulatoriale o un presidio ospedaliero con costi nettamente inferiori. Quanto si risparmierebbe? IVG in generale vs IVG in locale: circa 150 milioni di euro l’anno. Se fossero anche solo 100 milioni, penso io. Se poi moltiplichiamo il possibile risparmio annuale per tutti gli anni che la legge è stata in vigore forse potremmo salvare non solo l’Italia ma tutta l’Europa. Se poi pensiamo alla RU486, i costi si abbatterebbero ancora di più. Ma non è solo una questione di costi: è una questione di offrire i migliori servizi. L’approccio del Ministero della salute al problema dell’obiezione di coscienza non è mai stato realistico, perché la congruità tra risorsa disponibile e risorsa necessaria deve essere valutata a livello locale e non su una media astratta ignorando il fatto che il personale che garantisce le cure non è diffuso in modo omogeneo”.

L’inappropriatezza è stata più volte denunciata dall’Iss, fin dagli inizi degli anni ‘80. Come ci ricorda Grandolfo, menzionando il lavoro fatto da Simonetta Tosi che ha passato la sua vita lavorativa cercando di modificare questa situazione. “Tra l’altro – aggiunge Grandolfo – qualcuno mi spieghi dove sta l’etica quando le scelte sono obbligate. Chi vuole seguire un’impostazione ideologica lo faccia pure, ma quando accredito un servizio di sanità pubblica che risponde ad una ideologia ho minato i fondamenti della sanità pubblica”.

Di mine sulla sanità pubblica parla anche Elisabetta Canitano, ginecologa e Presidente di Vita di Donna da sempre in prima linea nella difesa dei diritti delle donne e sulla laicità delle cure, e che ha portato anche a teatro con Io Obietto non solo il tema dell’obiezione di coscienza (il testo si ispira alla storia tragica di Valentina Milluzzo, una giovane donna alla 19 settimana, che morì nel 2016 devastata da più di 15 ore di setticemia, nell’ospedale di Catania dopo diversi giorni di ricovero, in una sequenza di eventi in cui malasanità, omissione di soccorso, obiezione di coscienza si mescolano tra loro finchè “non si ferma il battito della vita”), ma anche quello dell’influenza della Chiesa sul sistema sanitario nazionale “che sta depauperando – come ci spiega – tutti i presidi di prossimità, come quelli di emergenza urgenza. Il servizio pubblico deve riprendersi il controllo e la capacità di finanziamento delle proprie strutture. La nostra sanità pubblica vive affamata mentre un fiume di soldi arriva direttamente alla sanità privata e convenzionata, usando la scusa del pareggio di bilancio. Faccio un esempio: in tutta Italia nei reparti dei punti nascita religiosi, e dei punti nascita a schiacciante maggioranza religiosa, si usa quella frase “non si ferma il battito della vita” per mettere a rischio le donne. Anche quando è evidente che la gravidanza è ormai irrimediabilmente compromessa, come nel caso di Valentina, con feti che secondo i protocolli internazionali, non vanno rianimati in quanto incompatibili con la sopravvivenza”.

Gli esempi che fa Elisabetta Canitano, da qualcuno definita Trotula* per le sue battaglie sull’autodeterminazione, sono in realtà moltissimi: il potere del Moige (Movimento italiano dei genitori), l’invadenza del Campus Bio-medico (Università Campus Bio-Medico di Roma è un’università privata italiana nata nel 1993 e legata all’Opus Dei), la sistematica distribuzione di primari “cattolici” in tutti gli ospedali pubblici della regione…

In un altro articolo la Canitano ha raccontato per filo e per segno come è stata lasciata morire Valentina, in nome di un mantra che “è privo di qualsiasi senso clinico” che, tutti i giorni, infligge rischi alle donne. Quelle che aspettano, come quelle che scelgono, e ne hanno diritto, di non aspettare mai.

*ginecologa dell’XI secolo, autrice di numerosi trattati di ostetricia e ginecologia, arrivati sino a noi solo perché attribuiti al marito, medico, Giovanni Plateario

DA SAPERE
Si stima che 225 milioni di donne in tutto il mondo non abbiano accesso ai moderni metodi di contraccezione di base, aspetto che comporta frequentemente gravidanze non pianificate. A causa di aborti non sicuri, ogni anno muoiono circa 47 mila donne e altri 5 milioni soffrono di invalidità temporanea o permanente. Sono alcuni dei dati che l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (UN Human Rights) ha pubblicato in occasione dell’edizione 2018 della Giornata internazionale per l’aborto sicuro (International Safe Abortion Day) che si è svolta lo scorso 28 settembre. L’Onu ha sottolineato come i dati dell’Oms hanno chiaramente dimostrato che la criminalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza non riduce il numero di donne che ricorrono all’aborto, ma ha come conseguenza il loro ricorso all’aborto clandestino e insicuro. È tra l’altro noto che i tassi di aborto più bassi si registrano nei Paesi in cui le donne possono avere accesso a informazioni e a tutti i metodi di contraccezione.
Sul fronte dei costi, va detto che quelli relativi ai contraccettivi non sono trascurabili. Per farsi un’idea, basta dare uno sguardo all’offerta sul mercato. Una spirale terapeutica o medicata (Ius), costa 250 euro e ha una durata di 5 anni, più il ticket per l’inserimento. Stessa cosa per l’inserto sottocutaneo, che in Italia dura 3 anni per 195 euro (più il costo del ticket per applicarlo). Più economica la spirale al rame (Iud), che va dai 40 ai 70 euro più il ticket e il costo della visita, per la durata di 5 anni. Altri costi, però mensili, hanno le pillole, gli anelli vaginali e i cerotti, che vanno dai 7 ai 20 euro, ma che moltiplicati per la durata di un anno, arrivano comunque tra 100 e i 200 euro. Solo per fare qualche esempio, in Belgio, Francia e Regno Unito esistono i rimborsi per diverse tipologie di contraccettivi, ci sono politiche per facilitare l’accesso alla contraccezione di giovani e donne a basso reddito, oltre a siti web sull’argomento. Requisiti assenti in Italia, che non è tra gli 11 Paesi che offre gratuitamente mezzi di contraccezione.
Uno Studio del Choiche Project su 10mila donne nell’area di Saint Louis in Usa del 2012, ha dimostrato l’efficacia del mix di informazione, counseling e gratuità. Le ragazze, molte studentesse universitarie, hanno potuto scegliere tra tutti i metodi contraccettivi senza badare al prezzo, e il 75 per cento di loro ha scelto i cosiddetti Larc (reversibili di lunga durata come le spirali e gli impianti sottocutanei).
https://estremeconseguenze.it/2018/11/09/litalia-non-e-un-paese-per-donne/?fbclid=IwAR0uODb-Yy0qkm4IgDL2mupqqewE3_emDEF84tnJQjucIXHBgiu5oWGDyZ8