mercoledì 30 gennaio 2019

30 gennaio 1945, le donne italiane conquistano il diritto di voto di Silvia Morosi

Il Consiglio dei ministri deliberò la «concessione» del diritto di elettorato attivo e passivo. I partiti capeggiati da Alcide De Gasperi (Dc) e Palmiro Togliatti (Pci) si erano già detti favorevoli all’estensione del suffragio

Il voto alle donne, o suffragio femminile, è una conquista recente nella lotta alla parità dei sessi. Il 30 gennaio del 1945, quando l’Europa era ancora impegnata nel conflitto e il Nord Italia era occupato dai tedeschi, durante una riunione del Consiglio dei ministri si discusse del tema, su proposta di Palmiro Togliatti (Partito Comunista) e Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana). Certo, non tutti erano favorevoli, come membri del Partito liberale, del Partito d’Azione e del Partito Repubblicano. La questione venne trattata come qualcosa di ormai «inevitabile», visti i tempi. Il decreto fu emanato il giorno dopo, il 31 gennaio: potevano votare le donne con più di 21 anni, salvo le prostitute. L’eleggibilità delle donne — quindi non solo la possibilità di andare a votare — venne stabilita, invece, con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946.

L’influenza delle Suffragette
Il movimento che diede forza alla lotta per il voto fu quello delle Suffragette inglesi: infatti, nel 1832, in Gran Bretagna venne concesso il diritto di voto, anche se solo nelle elezioni locali: il 2 luglio 1928 il suffragio fu esteso a tutte le donne inglesi. A fare da apripista fu la Nuova Zelanda nel 1893, il primo Paese ad ottenere il suffragio universale.

Ma quando andarono davvero alle urne le italiane?
Le prime elezioni politiche in Italia si tennero nel giugno del 1946, quando la popolazione fu chiamata a votare a favore del referendum istituzionale monarchia-repubblica (era il 2 giugno). Ma — in realtà — già qualche mese prima, alcune donne andarono alle urne per le amministrative comunali. In quell’occasione furono elette le prime due donne sindaco della storia: Ada Natali (a Massa Fermana) e Ninetta Bartoli (a Borutta).

Il parere del Vaticano e il «dovere» di votare
Anche il Vaticano si dimostrò favorevole. Il 21 ottobre 1945 papa Pio XII disse: «Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione».
https://www.corriere.it/cronache/18_gennaio_30/30-gennaio-1945-donne-italiane-conquistano-diritto-voto-0927b888-05a9-11e8-b2bd-b642cbae90d8.shtml?fbclid=IwAR000i5ffD55WvF4r5v57iFzhSzYViHFhyT4PjHqr1sAilZp-ie6zxkQJ1s

lunedì 28 gennaio 2019

Rifugiati, il dramma è delle donne: “O paghi con i soldi, o devi pagare con il corpo”di Mirko Bellis

Rapporto ONU: le donne sole o con figli piccoli subiscono ogni tipo di violenza durante il loro viaggio. Samar, rifugiata siriana: “Tutti i profughi sanno che ci sono due modi di pagare i trafficanti: con i soldi o con il proprio corpo”.
Esiste un dramma ancora poco conosciuto nella già difficile condizione dei richiedenti asilo che giungono in Europa. Tra i disperati che fuggono dai loro Paesi, le donne che viaggiano da sole o con figli piccoli, le ragazze adolescenti e le donne in gravidanza sono i soggetti più esposti a violenze di ogni tipo. E’ quanto emerge da un recente rapporto dell’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati (UNHCR) realizzato assieme al Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) e la Women’s refugee Commission (WRC), una ONG impegnata nella difesa dei diritti delle profughe.
Nonostante l’inverno, gli sbarchi non sono diminuiti e solo nei primi mesi del 2016 sono già oltre 140mila i nuovi arrivi. In gennaio, più della metà dei profughi approdati in Grecia erano donne con figli piccoli e minori non accompagnati.
La maggior parte di loro, dopo aver attraversato lo stretto lembo di mare che separa la Turchia dalla Grecia, intraprende un difficile viaggio con mezzi di fortuna verso i Paesi del Nord Europa, attraverso quella che si conosce come la “rotta balcanica”.
E’ un percorso pericoloso, dove sempre più spesso i profughi subiscono furti, estorsioni ed aggressioni.
Lo studio – realizzato dalle Nazioni Unite a novembre dell’anno scorso in Grecia e nei Paesi dell’ex Jugoslavia –  ha messo in luce come le rifugiate durante il loro viaggio subiscano ogni tipo di violenze.

E’ il caso di Fatima, ritrovata in stato di shock nel porto di un’isola greca. Trasportata in ospedale, Fatima ha rivelato che suo marito aveva affidato lei e la giovane figlia ad un trafficante per condurle in Europa. Durante il tragitto, però, l’uomo le ha rubato tutto il denaro, i documenti e persino il cellulare abbandonandole alla loro sorte.

La storia di Oumo, una giovane donna africana, è ancora più terrificante. Decisa a raggiungere la Germania, nel corso del suo viaggio, Oumo è stata costretta a prostituirsi per riuscire ad ottenere un passaporto falso e un passaggio su una barca. La donna, che ora soffre un grave stress postraumatico, ha confidato al personale ONU: “Sono stata costretta. Non avevo altra scelta”.

Ravi, un uomo scappato da un Paese dell’Asia meridionale, si era stabilito assieme alla famiglia in Siria quando la guerra li ha costretti a fuggire di nuovo. Sul loro cammino sono stati sequestrati da alcuni uomini armati che hanno abusato della moglie e poi li hanno derubati di tutti i loro averi. Adesso la famiglia si trova in un centro profughi in Serbia.  Senza più niente, la loro speranza di arrivare in Germania appare disperata.

Non sono solo i trafficanti ad abusare della difficile condizione delle rifugiate. Quelle che sono riuscite a raggiungere la Germania hanno raccontato di essere state picchiate dopo aver rifiutato le proposte sessuali delle guardie di confine ungheresi oppure di essere state costrette a travestirsi da uomo per evitare di essere violentate. Altre, infine, sono state spinte dal marito a prostituirsi per pagare il resto del viaggio.

Non esistono delle statiche certe sul numero di donne che hanno subito questo genere di violenze. Susanne Höhne, psicoterapeuta tedesca che gestisce a Berlino un centro specializzato nel trattamento di migranti traumatizzate, afferma che quasi tutte le 44 donne in cura hanno subito violenza sessuale. Le cause per cui questo fenomeno è ancora poco noto – rileva il rapporto dell’ONU –  sono da ricercare nella difficoltà per le vittime degli abusi a raccontare la propria esperienza. A meno che non siano costrette a recarsi in un ospedale, queste donne preferiscono continuare il loro viaggio e non denunciano le aggressioni subite.
Secondo l'Agenzia dell’Onu per i rifugiati, a rendere le donne particolarmente vulnerabili alle violenze e alle aggressioni concorrono diversi fattori come la promiscuità nella quale sono costrette a viaggiare e la permanenza in centri di asilo sempre più sovraffollati. E’ il caso che si è venuto a creare a Idomeni (valico di confine tra la Grecia e la Macedonia) dove 15mila persone sono bloccate da giorni dopo che le autorità di quattro paesi balcanici hanno deciso di reintrodurre il regime delle quote di ingresso. I responsabili di frontiera macedoni inoltre stanno impedendo l’entrata ai profughi afgani, una discriminazione che viola il diritto internazionale ed espone i richiedenti asilo di questa nazionalità ad un rischio maggiore di cadere nelle mani di criminali senza scrupolo pur di raggiungere la loro destinazione.
Marcy Hersh e Katha­rina Obser, due delle autrici della relazione, hanno affermato: “Vi è un urgente bisogno di aumentare le capacità del personale e la qualità dei servizi lungo tutto il percorso dei profughi al fine di garantire che le donne, le ragazze e gli altri gruppi vulnerabili siano protetti dal momento del loro arrivo”. Nei centri visitati dalla missione Onu raramente le docce e le latrine sono separate per genere. Le richiedenti asilo intervistate hanno raccontato di arrivare al punto di non mangiare e bere pur di evitare di usare i bagni. Nel campo profughi allestito a Dobova, una città slovena al confine con la Croazia, il personale ONU ha rilevato che la mancanza di intimità per le donne è totale. In questo tipo di ambiente – denuncia il rapporto – gli abusi e le aggressioni sessuali sono frequenti.
L’altro aspetto evidenziato è stata l’impreparazione dei governi della “rotta balcanica” e degli stessi operatori umanitari a fronteggiare ed evitare questo tipo di soprusi. Le donne rifugiate appena giunte in Europa si trovano di fronte gli agenti di polizia responsabili del controllo delle frontiere con poca o nessuna esperienza nella gestione di questo tipo di problematiche. A causa della mancata denuncia da parte delle vittime, inoltre, i governi tendono a sottostimare il fenomeno.
Nel 2015 più di 1 milione di persone è arrivato in Europa in fuga dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq e dai paesi dell’Africa sub-sahariana. Nonostante le violenze sessuali siano una caratteristica comune in tutte le crisi umanitarie e le migrazioni di rifugiati, i governi europei – conclude la relazione ONU – non stanno mettendo in atto misure adeguate per prevenire questi crimini contro le donne.
continua su: https://www.fanpage.it/nessuna-sicurezza-per-le-rifugiate-storie-di-violenze-e-abusi-sulla-rotta-balcanica/

https://www.fanpage.it/nessuna-sicurezza-per-le-rifugiate-storie-di-violenze-e-abusi-sulla-rotta-balcanica/

domenica 27 gennaio 2019

La Shoah delle donne, incubo senza fine

Un bordello ad Auschwitz per i prigionieri più produttivi, con tanto di turni, tariffe e orari di ingresso. Quella che al primo impatto suona come un’idea assurda rappresenta una triste realtà: nel campo di concentramento simbolo dell’orrore nazista le SS crearono una casa chiusa destinata a particolari categorie di internati.

E non solo ad Auschwitz: simili baracche, ribattezzate Sonderbauten («edifici speciali»), erano attive anche in altri Lager. Atti sessuali forzati a pochi metri da montagne di cadaveri ammonticchiati l’uno sull’altro: un capitolo poco noto nella storia del nazismo riportato ora alla luce da Robert Sommer in Das KZ-Bordell («Il bordello nel campo di concentramento»), un libro presentato al parlamento della città-Stato di Berlino.

A partorire l’idea fu, nel 1942, il capo delle SS Heinrich Himmler, che puntava in tal modo ad aumentare la produttività degli internati, tutto con la fredda regolamentazione tedesca, a cominciare dalla scelta delle donne: si trattava soprattutto di giovani sotto i 25 anni, provenienti da Germania, Polonia o Ucraina («non c’erano italiane») e reclutate per lo più tra quelle internate come «asociali». Rigorosamente escluse per principio, invece, le ragazze ebree.

Ma chi frequentava simili bordelli? Non si trattava né di ebrei, né di prigionieri di guerra sovietici, cui l’ingresso era vietato, né tanto meno di internati «semplici», bensì di cosiddetti Funktionshäftlinge («detenuti-funzionari»), internati che svolgevano compiti di sorveglianza all’interno del Lager, come ad esempio decani o kapò. Gli unici a poter pagare i due Reichsmark richiesti dalle SS.

La visita era disciplinata in modo meticoloso: i prigionieri dovevano presentare domanda, farsi inserire in un’apposita lista, sottoporsi a una visita medica e infine attendere di essere convocati a un appello. Lo stesso rapporto - sorvegliato da alcune SS attraverso degli spioncini - era rigidamente organizzato: 15 minuti per internato.

I casi di gravidanze furono pochi (e accompagnati sempre dall’aborto), dato che le ragazze venivano sterilizzate prima del loro arrivo nel campo di concentramento, oppure le condizioni estreme della loro prigionia le rendeva incapaci di avere figli.

Quando erano malate o sfinite dalla frequenza delle prestazioni richieste venivano rispedite ai lager di origine per diventare cavie degli esperimenti medici o inviate direttamente a Auschwitz per essere uccise con il gas e eliminate nei forni crematori. Alla fine del 1945 molte donne che riuscirono a sopravvivere allo sterminio nazista e tornarono nelle loro case non ebbero il coraggio di raccontare le atrocità subite.
https://www.ilmemoriale.it/storia/2017/09/23/la-shoa-delle-donne-incubo-senza-fine.html?fbclid=IwAR0xVJqPArJCRNVg8okF69rU6XlWVdcGUMn8RbN5mc67CaUyqrEr53ytGX8

martedì 29 ore 20.30 per non dimenticare


venerdì 25 gennaio 2019

Castelnuovo, perché il gesto di Rossella Muroni può cambiare la politica italiana scritto da Riccarda Zezza il 25 Gennaio 2019

Cara Rossella, confesso: non ti ho votata alle ultime elezioni. Nonostante ti conosca e conoscessi il bene delle tue intenzioni, LEU non mi aveva convinta. Da ieri però, avrai il mio voto sempre e ovunque tu andrai. Perché hai fatto “quel che avrei voluto fare io”. Ma che io, invece, non ho fatto. In moltissimi, credo, avremmo voluto fare quello che hai fatto tu. Ma non lo abbiamo fatto.

E nel vederti lì, in piedi da sola davanti a quell’enorme pullman, piccola e determinata, mi sono domandata: dove sono tutti gli altri?

Perché non sono tutti lì: i parlamentari che abbiamo votato, che non sono la maggioranza, ma nemmeno pochi. Dove sono?

Dove si sono chiusi a parlare, parlare, parlare, mentre fuori il mondo succede – come se fosse inevitabile? Bisogna guardarlo e ascoltarlo, il video di te ieri mattina. Perché può sembrare facile, mettersi davanti a un pullman. Ma hanno cercato di tirarti via e tu, con la calma della ragione e del diritto, a quel signore hai detto: “Non mi può spostare”.

“Lei sa quante persone ci sono qui dentro?”, hai chiesto poi al signore che continuava a cercare di mandarti via, seppur un po’ intimorito dal benedetto tesserino di parlamentare – che almeno a questo ancora serve. “Voglio sapere se qualcuno sa a che strutture sono destinate, se si conoscono le loro storie. Sono persone: non numeri, non animali”.

E intanto con la mano toccavi il pullman, che indietreggiava come se lo stessi spingendo.

Lo hai fermato, lo hai fatto tornare indietro. E, facendolo, ci hai fermati tutti.

Ci hai tolti dalla strada dell’impossibilità, ci hai aperto gli occhi davanti a quel che i nostri rappresentanti non stanno facendo. Quello a cui io ho dato il voto: lì con te non c’era. Tutti quelli che non erano lì con te: non stanno facendo il loro lavoro di politici. Loro sono peggio di chi sta prendendo le decisioni sbagliate: perché loro non le stanno contrastando.
I gesti cambiano la storia. Io che ti conosco, so che il gesto ieri non lo hai fatto per calcolo politico. Lo hai fatto perché sentivi di doverlo fare: perché l’alternativa per te, semplicemente, non c’era. Benedette le telecamere, benedetti i social, benedetto anche chi ha cercato di fermarti: adesso questa storia è una storia diversa, una storia nuova.

Il pullman è ripartito, purtroppo, ma la narrazione è cambiata. Non più solo sconfitta e rassegnazione: ma lo spazio, seppur minimo, per i diritti umani che la politica dovrebbe tutelare. Adesso che sei stata in piedi anche per noi, forse diventerai un simbolo: il simbolo benedetto di una politica che può ancora voler dire qualcosa, può ancora servirci.

Vi invito: guardate il video di Rossella Muroni che difende i diritti umani di tutti noi. E’ bella politica, e non se ne vedeva da troppo tempo.

https://alleyoop.ilsole24ore.com/2019/01/25/rossella-muroni/?uuid=106_2hkcOjYL&fbclid=IwAR1HdYeHdcGKzjFmmfppYptDIcP0o4jrIP-jxMb7iyCgxK-0Qi7egFNoKTU







giovedì 24 gennaio 2019

Cara Castelnuovo, parlamentare blocca un pullman con i migranti.Rossella Muroni, parlamentare di LeU, ha bloccato un pullman con migranti a bordo, davanti al Cara di Castelnuovo di porto. Pullman che è rientrato nella struttura tra gli applausi dei presenti. “Voglio sapere se sono state prese in considerazione le loro esigenze: qui ci sono bambini e vittime di tratta”

ROMA - “Voglio sapere dove vanno queste persone, chi sono, se sono state prese in considerazione le loro esigenze: qui ci sono bambini e vittime di tratta”. Con queste parole, Rossella Muroni, parlamentare di LeU ha bloccato un pullman con migranti a bordo, davanti al car di Castelnuovo di porto. Il pullman è rientrato nella struttura tra gli applausi dei presenti. Oggi è il Secondo giorno di trasferimenti dal centro, che entro la settimana dovrebbe essere svuotato. Davanti alla struttura c’è un sit-in dei lavoratori e degli abitanti di Castelnuovo di Porto.

Cittadinanzattiva: “Un capolavoro di disumanità”. Intanto Cittadinanzattiva, con una nota, afferma che “con lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto si inaugura nel peggiore dei modi il decreto ‘sicurezza e immigrazione’, convertito in legge poco più di un mese fa, colpendo un'esperienza di accoglienza che funzionava e che si chiude con l'intervento dell'esercito”.
“Oggi il nostro sostegno va al Sindaco e ai cittadini di Castelnuovo di Porto, che da ieri si sono mobilitati e resi disponibili ad ospitare alcune delle persone lasciate per strada, che sono la voce delle nostre comunità accoglienti e dimostrano come sia possibile rispondere attivando nuova solidarietà - dichiara Laura Liberto, coordinatrice nazionale di Giustizia per i diritti-Cittadinanzattiva -. Da un giorno all'altro, senza il minimo preavviso, si avvia lo sgombero di una struttura che ospita oltre 500 persone, in parte prelevate e "deportate" in altre regioni verso ignota destinazione, altri semplicemente lasciati per strada perché, pur essendo titolari di protezione, per effetto di quel decreto hanno perso il diritto all'accoglienza. In un colpo solo si separano famiglie, si interrompono i percorsi scolastici dei bambini, quelli lavorativi intrapresi dagli adulti, si demolisce il lavoro di assistenza e tutela promosso da operatori e volontari per le donne e gli uomini vittime di violenze ospitati nella struttura”.

Insomma, per la coordinatrice di Cittadinanzattiva, “con l'obiettivo di chiudere il centro entro fine mese, si smantellano processi e progetti di integrazione prodotti negli anni sul territorio, con la partecipazione della comunità locale, si apre una crisi occupazionale che riguarderà 120 lavoratori impegnati nel centro e le loro famiglie, si disperde un patrimonio di competenze maturate nel tempo sul terreno dell'accoglienza. A chi giova tutto ciò? Non certo ai migranti che da un giorno all'altro si vedono sradicati da quel contesto e deportati altrove, non ai titolari di protezione umanitaria che vengono messi in strada, non agli operatori che perdono il lavoro  e alle loro famiglie, né ai cittadini di Castelnuovo nel cui territorio si interrompono i processi di inclusione e si riversano per strada persone rimaste prive di alloggio. Un capolavoro insensato di disumanità – conclude - che non è utile a nessuno, tranne a chi sta speculando sulla pelle delle persone per fini politici”.
http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/616593/Cara-Castelnuovo-parlamentare-blocca-un-pullman-con-i-migranti?fbclid=IwAR3dNhp7X7CRc9VhwIOnsJyX9hZU1AqTsInOBkihciTNDxoib05-wuRWZWk

mercoledì 23 gennaio 2019

Nel mondo di Paperoni sempre più ricchi, le donne arrancano Oxfam,+900mld dlr per nababbi,difficile accesso poveri a servizi

In Italia il 20% più ricco dei nostri connazionali possedeva, a meta' 2018, circa il 72% dell’intera ricchezza nazionale © Ansa

Paperoni sempre più ricchi, povertà estrema che si riduce in modo più lento, donne ben più svantaggiate rispetto agli uomini sul fronte del patrimonio e aggravate da un lavoro di cura familiare gratuito che ne blocca lo sviluppo nel mondo del lavoro. E' una fotografia drammatica quella scattata dall'Oxfam nel rapporto 'Bene pubblico o ricchezza privata' che, come ogni anno, l'organizzazione no profit diffonde alla vigilia del meeting di Davos, dove si riuniscono anche tanti di questi nababbi.
    I numeri sulla distribuzione della ricchezza nel mondo offrono, come ogni anno, un panorama desolante: i 1.900 miliardari che se la godono di più tra marzo 2017 e marzo 2018 hanno messo in cascina la bellezza di altri 900 miliardi di dollari, vale a dire 2,5 miliardi di dollari in più al giorno.
    Al contrario, la ricchezza netta della metà più povera del globo, pari a 3,8 miliardi di persone, è diminuita dell'11%. Per rendere ancor meglio l'idea dell'incolmabile divario, l'Oxfam riferisce che 26 ultramiliardari (contro i 43 del 2017) possiedono oggi la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale. Una situazione, questa, a cui si è arrivati anche con il calo della pressione fiscale sui super-ricchi, la cui entità ha dell'incredibile: nei Paesi più sviluppati, infatti, l'aliquota massima dell'imposta sui redditi è passata dal 62% del 1970 al 38% del 2013. Insomma, solo 4 centesimi per ogni dollaro raccolto dal fisco proviene dalle imposte patrimoniali.
    Parallelamente a questa incontrollata crescita dell'opulenza riservata a pochi (in cui l'Italia non 'sfigura', con il 5% più ricco che è titolare da solo della stessa quota di ricchezza posseduta dal 90% più povero), emerge un forte rallentamento della riduzione della povertà: secondo la Banca mondiale tra il 2013 e il 2015 il tasso annuale di riduzione si è contratto del 40% rispetto alla media annua 1990-2015 e 3,4 miliardi di persone vivono ancora con meno di 5,50 dollari al giorno. E così circa 10mila persone al giorno muoiono per mancanza di accesso ai servizi sanitari e 262 milioni di bambini non possono andare a scuola.
    Un'ulteriore diseguaglianza è poi quella di genere. A livello globale, infatti, le donne guadagnano il 23% in meno rispetto agli uomini, i quali possiedono il 50% in più della ricchezza e controllano oltre l'86% delle aziende. Ma le donne non sono solo svantaggiate sul piano della consistenza patrimoniale: a questo si aggiunge infatti il grande handicap del lavoro di cura familiare non retribuito che è svolto in modo assolutamente preponderante dal genere femminile. Secondo i calcoli dell'Oxfam, se a livello globale venisse appaltato a una singola azienda, il fatturato annuo sarebbe di 10mila miliardi di dollari, vale a dire 43 volte quello di un gigante come la Apple. Con la conseguenza che le donne, in particolare quelle delle fasce più povere della popolazione, hanno minor tempo a disposizione per guadagnarsi da vivere e accumulare ricchezza nel corso del tempo
http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2019/01/20/-nel-mondo-paperoni-sempre-piu-ricchi-donne-arrancano_8e1ba899-febd-4c70-b2c2-deda98ad4f36.html?fbclid=IwAR3Qkd6wwzQ9mQdVcWE5MFWN0wGdUfoGmQFE7ILJcoVBmJ5sCbAQxD

lunedì 21 gennaio 2019

Abbiamo bisogno di voi.

Avete già aderito alla campagna per il Nobel per la Pace alla Comunità di Riace. Ora vi chiediamo di fare un ulteriore sforzo e darci una mano a raccogliere quante più adesioni possibile.

Coinvolgete chi secondo voi condivide i vostri valori, chiedendo di aderire alla campagna. Potete farlo inoltrando questa mail, oppure inviando un vostro messaggio coi link di seguito specificati.

Per le adesioni personali, si deve compilare il modulo raggiungibile al seguente indirizzo:
https://drive.google.com/open?id=1mBGI0d5DsfOgMG3g2FR_sfAha1At1G68maqySAWsXW0

Per le adesioni di associazioni, gruppi, comitati, movimenti, sezioni di partito, ecc., si deve compilare il modulo raggiungibile al seguente indirizzo:
https://drive.google.com/open?id=1XAMQJQAbP0mEgkqvBmIbXQWqfcAQClwSsXMNGuyfP-0

Potreste anche organizzare un evento qualsiasi (una riunione, una pizza, un concerto, ...) durante il quale raccogliere le adesioni. In questo caso vi chiederemmo di inviare una breve descrizione dell'evento al seguente indirizzo di posta:
adesioni.assoc.nobelariace@gmail.com
Pubblicheremo l'evento sulla pagina FB del Comitato Promotore, che potete raggiungere al seguente link:
https://www.facebook.com/riacepremionobelperlapace/?epa=SEARCH_BOX

Vi inoltriamo anche l'appello per l'adesione, scaricabile al seguente link:
In italiano:
https://drive.google.com/open?id=1o3DNaae0zBA7grT2mDSPEq9ZPSFDMKTv
in inglese:
https://drive.google.com/open?id=1H6ICO3vCUxP1TTJhvLxwMfWh-iBYueXB

Abbiamo tempo solo fino a giovedì 24 gennaio. Contiamo su di voi. 
Grazie per il vostro supporto, cordiali saluti.

Massimo Radice a nome del Comitato Promotore della Campagna

venerdì 18 gennaio 2019

La Cassazione precisa: bigenitorialità non significa dividere il figlio a metà di Alessandro Simeone

La Repubblica.it       16 gennaio 2019 
La Corte di Cassazione ha ribadito che quando i genitori si lasciano il figlio ha il diritto di godere dell’apporto di entrambi ma non con l’imposizione rigida del “metà tempo a testa”, come invece prevederebbe il Ddl Pillon.

Con una recente decisione, la Corte di Cassazione, ribadendo numerose sue precedenti pronunzie, ha specificato che quando i genitori si lasciano il figlio ha il diritto di godere dell’apporto di entrambi (il c.d. diritto alla bigenitorialità).
La Cassazione, che, è bene ricordarlo, sono i giudici più importanti e “alti in grado” in Italia, ha anche precisato che il diritto del minore alla bigenitorialità non è il diritto dei genitori a spartirselo a metà secondo i propri capricci o logiche, tipiche di molte coppie “scoppiate”, di vendetta trasversale.
Questo non vuole dire che sia vietato prevedere che, in caso di rottura della coppia genitoriale, il figlio possa passare metà tempo con un genitore e metà con l’altro. Sarebbe però sbagliato, secondo questa e altre, numerosissime, decisioni, fissare come regola generale quella del metà tempo: ogni famiglia e ogni bambino costituiscono un mondo a parte, con singolarità, storie, abitudini e specificità che devono essere rispettate anche, e soprattutto, se i genitori si lasciano.
In alcuni casi la parità temporale è la soluzione ideale – pensiamo a due genitori che abitano vicini che hanno orari di lavoro simili o complementari – in altri no. Si tratta di un’interpretazione della norma in linea con quello che succede nella maggior parte dei paesi occidentali e che rispetta i diritti dei figli come stabiliti in tantissime Convenzioni internazionali che anche l’Italia ha firmato.
D’altra parte, anche se qualcuno fatica a capirlo, i bambini non sono proprietà dei genitori che se li possono dividere a fette come le torte: il tempo di Salomone è finito da un pezzo.

L’autore è Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre
http://www.senonoraquando-torino.it/2019/01/17/la-cassazione-precisa-bigenitorialita-non-significa-dividere-il-figlio-a-meta/?fbclid=IwAR2W5JhJRxlDiagT7svwXhqCFHTCGbB3ArgE5L7Hr2oZo52WYJW2AeLEGjA

mercoledì 16 gennaio 2019

Il femminismo fa bene anche agli uomini di Monica Lanfranco

Ci sono giorni nei quali è difficile non scoraggiarsi per come vanno le cose in Italia, soprattutto riguardo al livello di superficialità e sottovalutazione del sessismo e della banalizzazione della violenza maschile sulle donne, nelle parole così come nei fatti, dallo sport al mondo della comunicazione alla politica, senza risparmiare nessun ambito, sinistra compresa.

Eppure, poco distante da qui, nella mediterranea e ‘caliente’ penisola iberica, (non quindi in Canada o in Uruguay) c’è un leader politico che non teme di nominare la parola che tanto astio e livore scatena nei social nostrani appena emerge: femminismo. Veramente?

Questo matto si chiama Pablo Iglesias, ha quarant’anni (come età in mezzo tra Di Maio e Salvini), è deputato al parlamento spagnolo per Podemos, partito che ha fondato nel 2014 e del quale è segretario.

Anzi, lo era fino a qualche giorno fa. Perché da fine dicembre, terminato il periodo di allattamento, Irene Montero, sua compagna e mamma di due gemelle nate nel luglio scorso, ha preso il suo posto alla guida di Podemos, mentre lui ha iniziato a usufruire del 50% di congedo parentale previsto dalla legge, e tornerà al lavoro solo a fine marzo. In una recente intervista rilasciata su youtube che ha superato le 50 mila visualizzazioni, realizzata in un contesto molto informale come nel suo stile, il politico risponde alle domande dello psicoanalista Jorge Aleman nel programma Punto de emancipation e senza esitare dice di essere femminista e di credere che esista una mascolinità femminista, perché il femminismo è una proposta politica universale, quindi rivolta anche agli uomini.

“Il movimento delle donne non si riduce solo alla rivendicazione dell'eguaglianza -spiega il leader di Podemos - è molto di più. È l'antidoto più forte contro i movimenti reazionari. Le donne sono il carburante che alimenta un nuovo movimento repubblicano in Spagna, che sarà femminista o non sarà. Il femminismo è l’avanguardia delle conquiste sociali a livello mondiale”.

In Spagna le settimane di congedo parentale per i padri sono 4, pagate al 100% e prese dal 75% dei padri. E in Italia? Quattro giorni in tutto, più uno facoltativo da ‘detrarre’ da quello materno: a tanto ammonta il congedo di paternità retribuito per i padri italiani (fino all'anno scorso erano appena di due giorni). Nonostante l'esiguità del periodo concesso per stare vicino alla neomamma e ai bambini o bambine solo il 30% dei lavoratori dipendenti ne usufruisce. La media europea dei giorni di congedo riservati ai padri (nella forma di congedi di paternità o congedo parentale a loro uso esclusivo e retribuito) è di ben otto settimane.

Uno dei problemi, dal mio punto di vista, rispetto alla paternità per gli uomini giovani è anche la scarsità di modelli ai quali fare riferimento. In Svezia il fotografo Johan Bavman ha lanciato il progetto fotografico Swedish Dads, nel quale ha raccolto immagini di uomini comuni alle prese con la quotidianità di cura dei figli e delle figlie: perché c’è bisogno di immagini maschili diverse da quelle, spesso imbarazzanti, che ancora ammorbano l’immaginario legato alla incompatibilità degli uomini con lo spazio della cura. Vi eravate persa, per esempio, la pubblicità del noto snack?

Attenzione a pensare che questo irritante e offensivo ritratto maschile sia un retaggio del passato: lo scorso anno, in una scuola superiore nel nord, oltre la metà dei ragazzi di una quarta classe ha asserito con convinzione che le ragazze sono per natura portate verso la maternità, mentre loro non saprebbero che sentimenti provare verso un bambino o una bambina. Perché l’uomo è per natura portato verso altre cose: il lavoro, fare i soldi, le attività muscolari, le moto.

Le riflessioni di Iglesias sembrano arrivare da un altro pianeta: “Sarei arrogante se dicessi che ho risolto i miei problemi con il patriarcato. Ogni uomo ha dentro di sé un machista, e non possiamo cavarcela dicendo che siamo il prodotto di una storia culturale della quale non siamo responsabili. Dobbiamo assumerci, ognuno di noi, la nostra responsabilità per decostruire questa situazione e vivere questo cambiamento nella pratica”. Già: forse, in Spagna però.

http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=26514

martedì 15 gennaio 2019

Quante torte in faccia alle donne che lavorano... Ma una via di fuga c’è di Daniela Poggio

Ho letto la lettera affidata al Corriere della Sera La 27Ora da Anna, la mamma che giustamente rivendica il suo diritto a “non fare le torte” in seguito alla poco felice risposta della maestra “Ognuno ha le sue priorità”, e mi ha colpito il modo in cui questa storia ha incrociato il mio passato e il mio presente. Oggi il Corriere pubblica un ampio pezzo sul tema con interventi importanti sia sul caring familiare e l’esigenza di rendere i figli indipendenti, sia sul difficile - anzi impossibile - equilibrio per una donna tra cura della famiglia e lavoro. Ho deciso di condividere alcune riflessioni perché gli ultimi anni della mia vita sono stati davvero un vero “de profundis”.

Da manager che siede in comitati esecutivi da quando ha 34 anni so bene cosa voglia dire delegare o abdicare ad alcuni aspetti della cura familiare. Ho avuto la mia prima figlia a 33 anni e insieme il mio primo incarico come direttore comunicazione di una multinazionale. A 36 anni, insieme al secondo figlio, è arrivato un nuovo incarico, più importante. Mi sentivo (e sono) una donna fortunata. Grazie a genitori giovani e disponibili, una famiglia stabile e il fatto di potermi permettere una tata, ho potuto tenere insieme tutti i pezzi di me, le mie identità: madre, manager, figlia, moglie. Le ho citate nell’ordine in cui le ho vissute e per il quale ad un certo punto ho pagato un prezzo molto alto. Anche con una malattia. Girata la boa dei 40 anni mi sono separata, uno scenario che mai avrei pensato avrebbe caratterizzato la mia vita, e ho dovuto fare i conti con un senso di colpa di gran lunga più profondo di quello di non aver fatto una torta, o di aver saltato una riunione a scuola, o il saggio finale di judo di mio figlio (tutte cose che mi sono capitate!).

Con due bimbi di 5 e 8 anni ho dovuto ridisegnare me stessa, sapendo che questo avrebbe avuto un impatto anche sulla loro vita. E naturalmente sul loro papà. Ne avevo il diritto?

Il mio matrimonio è stato celebrato da Don Gino Rigoldi, che durante la predica parlò anche della importanza per un coppia di restare tale. Disse esplicitamente che una coppia non deve mai smettere di fare l’amore. Un prete parlava esplicitamente di sesso! L’ultima volta che l’ho incontrato, con gli occhi un po’ bassi, gli ho detto che anche se allora mi sembrava di aver capito, in realtà forse non avevo capito proprio bene.

L’equilibrio non è più un atto eroico o di presunzione, ma una esigenza della mia nuova famiglia
Sull’altare del lavoro e del caring familiare, e del “posso farcela a fare tutto”, ho fallito come custode e guardiana della famiglia, ma soprattutto come custode della coppia. Oggi so che non dobbiamo sottovalutare la nostra tenuta emotiva e psicologica, soprattutto quando esposte a pressioni importanti. Negli ultimi due anni della mia vita non ho modificato le mie priorità, ma ho modificato profondamente me stessa.

L’equilibrio non è più un atto eroico o di presunzione, ma una esigenza della mia nuova famiglia, che richiede più amore di prima. Resto un’appassionata manager, ho allargato lo spettro delle mie iniziative, scrivo finalmente, insegno ai giovani all’Università. E mi sono progressivamente riappropriata di alcuni aspetti della mia femminilità che consideravo perduti. Ad esempio, nella casa a Parigi dove vivo con il mio nuovo compagno quando il tempo ce lo concede, ho riscoperto il piacere di fare le famose torte. Ho scoperto che sono brava, molto brava a cucinare il risotto, i gnocchi e le lasagne. Amo svegliarmi e occuparmi della pulizia e dei piccoli lavori domestici, continuo a non stirare bene ma lo faccio con allegria. Detesto lavare i piatti e amo detestarlo. Ho scoperto l’amore per gli animali e ho due gatti. E da quest’anno sono rappresentate di classe nella scuola di mia figlia. E... vi assicuro che anche le maestre hanno le loro priorità! E guai a toccarle! Gestire i genitori è la cosa più complicata del mondo ma mi ha reso felice, soprattutto coinvolgere famiglie che erano più lontane anche a cause delle barriere culturali. Sono quelle che mi hanno dato la più grande soddisfazione. Tutto questo sta facendo bene a me. Questo equilibrio nel mio femminile sta curando le mie ferite, e mi sta aiutando a sentirmi più completa.

Penso che non dobbiamo creare eroi o eroine né in senso né nell’altro. Ma dobbiamo lavorare a una società che consenta a ogni donna di riconciliare il caring familiare con la necessità di lavorare (il 33% della donne lascia il lavoro dopo il primo figlio) o con il legittimo desiderio di emancipazione e realizzazione professionale (in Italia l’occupazione femminile è intorno al 48%). Insomma una donna deve poter decidere se vuole fare le torte o no. Per se stessa, non per gli altri.

In un Paese moderno questo significa lavorare a politiche che riducano il pay gap, che supportino le donne nel loro ruolo di care giver sia verso i figli sia, quando viene il momento, verso i genitori anziani, attraverso una radicale revisione del sistema di agevolazioni fiscali. Dobbiamo lavorare con le scuola alla differenza di genere, alla educazione degli insegnamenti, alla bi-genitorialità, intesa come reciproco riconoscimento di doveri, e non di diritti come in Italia si vorrebbe far passare in uno dei peggiori disegni di legge degli ultimi decenni in discussione in questi mesi. Dobbiamo stringerci intorno alle giovani donne. Passare loro il testimone delle nostre conquiste ma anche dei nostri fallimenti. Dobbiamo far vivere la sorellanza. Anche per questo e con questo in mente oggi sono con altre donne fantastiche alla Camera dei Deputati per parlare di cosa concretamente possiamo fare per arrivare ad una prima parità di genere, dove ogni genere porti le sue specificità e i suoi tratti distintivi.
https://27esimaora.corriere.it/19_gennaio_14/quante-torte-faccia-donne-che-lavorano-ma-via-fuga-c-e-c19c6a88-1806-11e9-bb76-cdaf0ebcabd2.shtml?fbclid=IwAR37jITLawd1oKFyHtJEyOGX9L_tDTsKVLrL8HmHVG3rs1LCU3jhclrcpPU

lunedì 14 gennaio 2019

Non sono una mamma che fa torte ma la scuola non mi condanni Anna S.

Quest’anno il Natale mi ha portato una fetta di stress del tutto inaspettata. A due settimane dalla tradizionale festa natalizia con recita della scuola materna del mio bambino, l’orario viene anticipato di circa due ore, alle 14. Faccio presente che mi sarà impossibile partecipare a causa dei miei impegni professionali (come me, del resto, non pochi altri genitori) ed un’insegnante mi risponde che «ognuno ha le sue priorità».
Ho dovuto lottare giorni per metabolizzare quella piccola frase infelice (che al singolo ho già perdonato, ben sapendo che gli incidenti di percorso capitano a tutti), ma non è stato facile, ingigantita com’era dalla frustrazione di sapere quale delusione avrebbe provato mio figlio per l’assenza della mamma. Di più: per me è stata come un ferro caldo posato su una ferita aperta; un dolore acuito dalla consapevolezza della sua ingiustizia e dall’amarezza per la sua provenienza: la scuola pubblica, in cui tanto ho creduto e voglio continuare a credere.

Così ho deciso di scriverne e, facendolo, ho detto ad alta voce una cosa che non avevo mai osato dire neanche a me stessa. Nel mio faticoso percorso di conciliazione fra un lavoro molto impegnativo e la condizione di madre di due bambini piccoli, mi sono finora sentita molto più ostacolata ed appesantita, che non aiutata, dalle istituzioni educative pubbliche a cui (peraltro al primo fine di venirne appunto coadiuvata, non trattandosi ancora di scuola dell’obbligo) ho affidato i miei figli. Sia ben chiaro: al netto, anche qui, delle qualità dei singoli, anche meravigliose.

Dunque, negli ultimi anni - e da un certo punto al raddoppio, avendo due figli ravvicinati - ho fronteggiato: iniziative varie disseminate in tutto l’anno (feste, laboratori, merende) aperte ai genitori (anche con coinvolgimenti particolarmente pressanti, dall’esibizione canora previe prove alle corse nei sacchi alla richiesta di torte fatte in casa), fortunatamente spesso in orari che mi consentivano anche di non fare partecipare i miei piccoli, facendoli prelevare dalle tate, affinché non restassero delusi dalla mia assenza; ma anche altre (magari proprio quelle cruciali, come appunto il Natale) organizzate in orari proibitivi di piena frequenza, talora persino la mattina; costanti “compiti a casa” (non ovviamente ai bimbi di età prescolare, ma) ai genitori, dai costumi fai-da-te alle raccolte di foto alla costruzione di oggetti eccetera. Il tutto, naturalmente, affiancato alle irrinunciabili attività istituzionali, quali inserimenti, colloqui con gli educatori e riunioni di classe.

Speravo di tirare un po’ il fiato con l’acquisizione di una prima autonomia corporea e sociale dei miei figli, ma mi sbagliavo. La fatica dell’accudimento che prima era solo fisica ha lasciato il posto ad una fatica sempre più mentale quando, con la frequenza di nidi e materne, ho preso atto di essere una mamma diversa e meno presente nella vita dei miei bambini rispetto alla maggioranza delle altre mamme, che vanno a prendere i bambini all’uscita, che si conoscono fra loro e conoscono tutti i compagni dei figli, che preparano le torte per le merende, che organizzano lodevolissime iniziative benefiche e non mancano mai a nessuna festicciola dell’asilo. Sono persino arrivata a vacillare in alcune delle mie convinzioni più profonde, ad esempio quella che per essere una brava madre non è necessario saper fare una torta.

Confesso che in qualche momento, particolarmente stanca e demoralizzata, mi sono chiesta quanto ancora fossi in grado di reggere e, soprattutto, quanto ancora dovessero pagare i miei figli per il mio lavoro; e da qualche parte della mente è baluginata, anche se per un impercettibile istante, la tentazione di smettere di lavorare. Quindi so bene, ora, quante volte e con quanta insistenza in più questi pensieri debbano affacciarsi alla mente di donne che fanno lavori meno belli del mio, oltre che magari poco pagati. E capisco bene, ora, quelle che alla fine cedono, in tutto o in parte (mettendosi cioè, potendo, a lavorare meno); per poi subito, magari, buttarsi a capofitto nel ruolo di supermamme, cucinando torte per la scuola e finendo così per alimentare il circolo vizioso del senso di inadeguatezza delle altre. (Beh, ovviamente, ci sono anche le supermamme e superlavoratrici insieme che hanno la mia sconfinata ammirazione; ma vi prego, per la mia autostima, fatemi continuare a credere che siano una minoranza).

E la scuola? Non mi sono ancora affacciata a quella dell’obbligo, il mio primogenito la inizierà a settembre. Forse troverò un mondo completamente diverso da quello che ora sto pungolando. Ma non nascondo di essere preoccupata, specie vedendo che mio figlio sembra ormai dare per scontato che i compiti scolastici si facciano con un “grande” (preferibilmente, è ovvio, la mamma). Ecco, se la scuola di oggi è quella di cui si dà un assaggio negli asili, io faccio fatica a riconoscermici.
Sarò rigida e certamente di parte (o forse anche svogliata, se mi si vuole accusare), ma l’infinita gratitudine per la scuola pubblica, che mi ha portata ad essere e a fare ciò che sono e ciò che faccio ora, in totale autonomia e senza aiuti familiari di alcun tipo, ha basi solide e ricordi che contrastano con il modello “partecipato” che con disagio sto vivendo. Al di là, è ovvio, dei singoli casi umani, l’unico vero supporto che veniva richiesto alle famiglie dall’istituzione scolastica erano la fiducia piena ed il profondo rispetto per i suoi rappresentanti. Altro che genitori che danno del tu agli insegnanti, sminuendone così, anche agli occhi dei figli, autorità e autorevolezza; che fanno i mattacchioni alle feste ma sono pronti ad aggredire la maestra se ha sgridato il bambino.

Certamente il nuovo corso deve avere dei meravigliosi vantaggi educativi. Io però so altrettanto per certo che questa rafforzata richiesta di partecipazione familiare (oltretutto male amalgamata alla rigidità organizzativa degli orari) fa paradossalmente a pugni con la mutata composizione delle famiglie, sembrando adattarsi a un’epoca di mamme tutte casalinghe o, almeno, fortemente coadiuvate da nonni ancora in forze o altri familiari in grado di accudire i più piccoli: non si accorge tra l’altro la scuola che, soprattutto in certe realtà urbano-italiche (ben altra è l’età media delle primipare in paesi più avanzati sulla parità di genere..), le mamme sono sempre meno giovani, e quindi anche sempre più sole nell’accudimento dei figli? E pensa onestamente la scuola che un impegno di partecipazione così grande venga ripartito equamente fra i due genitori? Non pensa che ad impegnarsi di più sarà inesorabilmente chi dei due ha il lavoro meno remunerativo? O semplicemente chi dei due, per convenzione sociale, verrà guardato meno storto al lavoro se si assenta spesso per le attività scolastiche dei figli? O semplicemente chi sa, fisiologicamente, di rivestire il più importante ruolo parentale nei primi anni di vita del figlio, e si sente quindi più in dovere di esserci?

Non ritiene, la scuola, che suonino come un po’ beffardi tutti quegli inviti politicamente corretti ai “genitori”, senza distinzione di genere, quando poi (sparo numeri secondo la mia limitata esperienza) sono donne l’85% dei presenti alle riunioni dei genitori ed il 99% dei rappresentanti e degli altrimenti più impegnati nelle varie attività “di raccordo scuola-famiglia”? (Invece negli occasionali momenti ludici – e non è un caso, vero mamme? – i papà possono anche arrivare ad essere un buon 40% del totale). E, se si considera che anche quasi tutti gli insegnanti, quantomeno dei più piccoli, sono di genere femminile, non ritiene la scuola che si stia continuando a perpetrare nelle menti dei nostri bambini l’accostamento infanzia – doveri femminili? E cosa pensa la scuola – per tornare alla mia storia inziale – delle mamme che hanno assunto impegni magari importanti nei confronti di altri, sapendo di dovervi talora sacrificare pezzetti di felicità personale e dei loro cari? Cosa pensa, anzi, la scuola dell’etica del lavoro (di tutti i lavori, anche dei più umili)? Quale messaggio al riguardo è giusto trasmettere ai piccoli abitanti di una Repubblica “fondata sul lavoro”? E non è forse ingiusto, sia per i piccoli che per le loro mamme “impegnate”, che la scuola contribuisca a disseminare il germe inestirpabile (anche quando, qualche anno dopo, il piccolo capirà che la mamma non esiste solo per lui) del rancore profondo da (presunto) deficitario accudimento nella prima infanzia? Non vede la scuola pubblica che quelle mamme “impegnate” ed esaurite si stanno rivolgendo sempre più spesso a strutture private, dove una delle priorità è il supporto alla famiglia, più che non lo sforzo della famiglia? Non sarebbe bello che la scuola pubblica italiana restasse la scuola di tutti, garanzia di qualità e di moralità (anche pubblica), fucina di pari opportunità sin dai modelli che propone?

Cari insegnanti e dirigenti scolastici, dateci una mano. Buon 2019.
https://27esimaora.corriere.it/19_gennaio_12/non-sono-mamma-che-fa-torte-ma-scuola-non-mi-condanni-153ca538-163e-11e9-9ac5-fed6cf5dadce.shtml?fbclid=IwAR0ADGYajZ8mF31zX59E4gBlxIyDbJQYtZWznZpqCOtxHqffK0bBJDpRf9o

venerdì 11 gennaio 2019

Sei mesi di governo gialloverde: poche (e controverse) le misure per le donne scritto da Manuela Perrone

Il “codice rosso” per chi subisce violenza e due novità sui congedi parentali: la possibilità, per le future madri, di lavorare fino al nono mese di gravidanza e l’aumento da quattro a cinque giorni del congedo obbligatorio per i neopapà. Insieme all’aumento a 1.500 euro l’anno del bonus “asilo nido” per le famiglie nel corso degli anni 2019-2021, che poi dovrebbe ritornare a mille euro dal 2022, e alla proroga di “opzione donna”, il sistema che permette alle lavoratrici di ottenere la pensione di anzianità con requisiti anagrafici più favorevoli rispetto a quelli in vigore, ma al prezzo di decurtazioni anche molto pesanti. È magrissimo e controverso il bottino per le donne a sei mesi dall’insediamento del Governo gialloverde. E ancora incombono provvedimenti giudicati lesivi per le madri, come la proposta di riforma dell’affido condiviso targata Pillon e le altre simili. D’altronde, il contratto di governo non brilla certo per l’attenzione alla parità di genere.
Finora, l’unico provvedimento esplicitamente dedicato alle donne è il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 28 novembre, ribattezzato “codice rosso” dai ministri proponenti: il Guardasigilli Alfonso Bonafede e la ministra della Pa Giulia Bongiorno. Cinque articoli che modificano il Codice di procedura penale per accelerare i tempi della giustizia sia nell’acquisizione e nell’iscrizione delle notizie di reato sia nello svolgimento delle indagini preliminari. Obiettivo: evitare che ritardi della macchina giudiziaria «possano pregiudicare la tempestività di interventi, cautelari o di prevenzione, a tutela della vittima di reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e di lesioni aggravate in quanto commesse in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza».
Se pure è certamente utile scongiurare stasi fatali, molte associazioni impegnate da tempo sul fronte della violenza contro le donne hanno accolto con freddezza le nuove norme, che comunque dovranno passare al vaglio delle commissioni parlamentari competenti. In molti e in molte sono convinti che davanti ai «numeri da brividi» (parole del vicepremier Luigi Di Maio) che la cronaca ci consegna – un femminicidio ogni tre giorni, e in un caso su due da parte di un uomo già denunciato – non sono sufficienti misure di tipo securitario. «Non si fa propaganda sulla pelle delle donne – ha detto al Sole 24 Ore l’avvocata Maria Luisa Manente, responsabile dell’ufficio legale della Ong Differenza Donna. «Le leggi ci sono, il problema è la loro attuazione e un contesto sociale che ancora penalizza le donne che si ribellano al volere maschile, giustifica i maltrattanti, limita la libertà. In questa direzione va anche il Ddl Pillon».
Il piano nazionale antiviolenza, istituito dal Governo Renzi nel 2015, dovrebbe poter contare nel 2019 su 33 milioni di euro, il 2,7% in meno rispetto al 2018. A coordinarlo è il sottosegretario alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora, che ad Alley Oop ha spiegato come si stia lavorando su tre fronti: prevedere un fondo ad hoc per le donne vittime di violenza, che garantisca loro un effettivo ed equo sostegno economico; incentivare la creazione di strutture di accoglienza per il pronto intervento, con un primo supporto legale, in tutte le Regioni; mappare (se ne stanno occupando il Dipartimento Pari opportunità, d’intesa con Istat e Cnr) tutti i centri antiviolenza presenti in Italia. Anche per capire se abrogare la norma della legge 119/2013 sul femminicidio che riserva il 33% dei fondi all’istituzione di nuove strutture. Norma invisa a tanti centri già attivi, che lamentano la scarsità di risorse per poter continuare a lavorare.
Ha fatto molto discutere la bocciatura in commissione Bilancio alla Camera dell’emendamento alla manovra che proponeva l’istituzione di un fondo da 10 milioni di euro per gli orfani dei femminicidi. «Una bastardata», aveva protestato l’azzurra Mara Carfagna, ex ministra alle Pari opportunità. La maggioranza ha promesso di trovare una soluzione condivisa in Senato: nel maxiemendamento del Governo presentato in extremis il 21 dicembre è comparso, ma vale un terzo: 3 milioni. Niente da fare, invece, per la proposta di Iva agevolata (al 5% anziché al 22%) per pannolini e assorbenti avanzata dal M5S: la misura non è passata. Eppure avrebbe aiutato non poco le donne e il loro portafoglio, per cui questi beni sono di prima necessità.
Alla manovra è affidato anche il destino della norma sui congedi per i padri (strappare un giorno in più è sempre una buona notizia, nonostante resti la distanza siderale con i sistemi dei Paesi del Nord Europa) e di quella sulla maternità, molto contestata. È un emendamento leghista alla legge di bilancio, approvato in commissione alla Camera, a dare alle donne la facoltà di restare a lavorare fino a pochi giorni prima del parto, naturalmente con il via libera del medico, per usufruire dopo la nascita dei cinque mesi di astensione obbligatoria. La Cgil è insorta, sostenendo che la norma non tutela la salute e la libertà delle donne e avvertendo del pericolo che a rimetterci siano soprattutto le lavoratrici più precarie. Senza contare i dubbi di chi ritiene che i datori di lavoro possano approfittarsene condizionando la scelta delle lavoratrici.
L’aumento del bonus asili nido è ovviamente positivo, ma niente affatto risolutivo. Nel contratto di governo si parlava di “sostegno per servizi di asilo nido in forma gratuita a favore delle famiglie italiane” (l’esclusione delle famiglie straniere aveva già suscitato forti polemiche), ma evidentemente non sono state trovate risorse sufficienti. E si è ripiegato sulla politica dei bonus, tanto osteggiata dall’attuale maggioranza quando era all’opposizione. Rivisitata anche la carta famiglia per i nuclei con più di tre figli: si passa da un’età di 18 anni a 26, ma anche qui dagli sconti sono stati esclusi gli immigrati.
Che la parità non sia una priorità di questo Esecutivo, d’altronde, lo dimostrano i numeri della presenza femminile nelle stanze dei bottoni. Nonostante sia la legislatura più femminile della storia (35,7% di donne alla Camera e 34,5% al Senato), le donne sono appena 11 su 64 componenti della squadra di governo e sottogoverno: appena il 17,19%, come certifica il dossier “Trova l’intrusa” di Openpolis in collaborazione con Agi. Si tratta della percentuale più bassa dal governo Letta a oggi. Le ministre sono cinque, di cui tre senza portafoglio. I capigruppo di Lega e M5S sono uomini in entrambi i rami del Parlamento. I leader politici manco a dirlo. Unica eccezione degna di nota è Forza Italia, che non solo annovera la prima presidente del Senato nella storia della Repubblica, Elisabetta Alberti Casellati, ma ha scelto due donne come presidenti dei gruppi parlamentari: Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini.
Le nomine fin qui decise dalla maggioranza sono quasi tutte al maschile. Vale per i vertici di Rai, Ferrovie, Cassa depositi e prestiti. Così come per l’elezione dei consiglieri laici del Csm e dei Consigli di presidenza della giustizia amministrativa, tributaria e della Corte dei conti. Ventuno posti, ventuno uomini. «In barba a qualsiasi principio costituzionale», erano insorte oltre 60 costituzionaliste. Ma se la politica rimane una “questione di uomini e tra uomini” come si può pretendere che le politiche e le prassi cambino verso? Nei prossimi mesi si capirà meglio l’orientamento del Governo anche su temi più sensibili. Le dichiarazioni tranchant del ministro della Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana, contrario ad aborto e coppie gay, avevano scatenato una levata di scudi da parte dello stesso Spadafora. Che si era schierato anche per una modifica sostanziale del Ddl Pillon, per ora ancora fermo in commissione Giustizia alla Camera.
Il confronto racconta bene le due anime del governo: quella verde, percorsa da tentazioni più che conservatrici, e quella gialla, che cerca di arginarle. In mezzo ci sono le donne, che non a caso sono tornate in piazza: il 10 novembre contro il Ddl Pillon e il 24 novembre, in migliaia, contro la violenza maschile.
https://alleyoop.ilsole24ore.com/2018/12/31/governo-gialloverde/

giovedì 10 gennaio 2019

Sta zitta e vota: perchè le donne italiane continuano a perdere terreno (in silenzio) scritto da Riccarda Zezza

Ancora una volta l’Italia è al 118° posto su 149 Paesi nel mondo per partecipazione delle donne all’economia secondo il report annuale del World Economic Forum: abbondantemente ultima in Europa e tra i Paesi cosiddetti “avanzati”. Ma non è così grave. Abbiamo ancora la democrazia: possiamo migliorare. O no? Un recente articolo de la rivista Atlantic passa in rassegna le affinità tra i diversi “uomini forti” a capo di cinque Paesi nel mondo, trovandovi un evidente punto in comune: tutti stanno togliendo diritti alle donne. L’articolo si intitola infatti: “I nuovi autoritarismi hanno dichiarato guerra alle donne”.

Tra questi Paesi – Stati Uniti, Filippine, Ungheria, Polonia – c’è anche l’Italia. Il paragrafo su di noi, che comunque per partecipazione economica delle donne stiamo molto peggio degli altri quattro – è illuminante nella sua essenzialità:

Il vice primo ministro italiano Salvini nel 2016 ha paragonato l’allora presidente della Camera a una bambola gonfiabile. Un membro del governo ha proposto di perseguire le donne che accusano i mariti di violenza domestica se questi non risultano essere colpevoli.

Quando l’articolo è uscito non si sapeva ancora che, senza dare spazio e tempo a opinioni di alcun genere, questa finanziaria all’ultimo secondo ha privato le donne del diritto di partecipare a una decisione che le riguarda direttamente: se modificare o meno il congedo di maternità. La reazione? Debole. Si difende meglio il terzo settore – e meno male per loro e per tutti noi, che il terzo settore abbia una voce e la faccia sentire! Ma le donne? Garantire almeno due settimane di congedo prima del parto è un’indicazione che riguarda la salute ed è considerato obbligatorio da parte dell’Unione Europea. Molte hanno detto: è facoltativo, se non vuoi lavorare fino all’ultimo giorno non devi farlo.

Ma ci sono almeno due casi in cui questo non basta:

1) quando il tuo datore di lavoro ti chiede di restare fino all’ultimo, dandoti l’impressione di non poter scegliere, e una legge ti avrebbe protetta;
2) quando pensi di “poterlo fare”, e in buona fede ti impegni a farlo, e scopri solo dopo, quando è tardi, che questo ti ha affaticato troppo per poi affrontare il parto e la fatica delle settimane successive.

Si tratta di due pericoli concreti, che riguardano la salute e i diritti delle donne, non per niente sono temi monitorati a livello europeo. Eppure in Italia è andata così. Senza neanche bisogno di dire perché. Il congedo di paternità abbiamo avuto il tempo di salvarlo – si fa per dire: cinque giorni! – ma il congedo di maternità ci è passato sotto il naso.

Come se non ci riguardasse. Come se non ci fossimo. E in effetti no: non ci siamo. Non abbiamo potere economico, e di conseguenza non abbiamo potere politico.

Secondo l’autore dell’articolo dell’Atlantic c’è una precisa volontà di “restaurazione” in questi cinque Paesi, i cui leader raccolgono consenso e traggono forza dalla promessa di “abbassare il livello di minaccia rappresentato dalle donne”. Perché siamo tante, quindi se alzassimo la voce si sentirebbe. Perché votiamo, anche se non sappiamo bene per chi.

Non so dire se il giornalista abbia ragione: in quel che succede in Italia sul tema delle donne vedo noncuranza, disinteresse, approssimazione e ignoranza – con qualche estremismo restauratore di stampo religioso, ma che la società sembra ancora riuscire a contrastare. Siamo (ancora) senza bavaglio. Ma allora dov’è la nostra voce?

http://alleyoop.ilsole24ore.com/2018/12/28/donne-italiane/?refresh_ce=1



martedì 8 gennaio 2019

Giulia Blasi racconta il suo 'Manuale per ragazze rivoluzionarie' di Manuela Stacca

Perché è importante parlare di patriarcato? Perché in Italia non è esploso nessun #MeToo? Di femminismo, patriarcato e diritti abbiamo parlato con l'ideatrice di #quellavoltache.
«La nostra cultura vede i diritti delle donne come gentilmente elargiti, e quindi ritirabili. Non c'è niente di consolidato in quello che abbiamo ottenuto, dobbiamo ancora lottare per tenercele le cose». Spigliata, schietta, energica, ironica ma anche incazzata. Giulia Blasi è un fiume in piena, incontenibile. Proprio come lo sono stati #quellavoltache – da lei ideato –, #MeToo e tutte le campagne antimolestie che hanno segnato una frattura. Un punto di non ritorno, nell'ottobre 2017. Ora, la giornalista e scrittrice femminista torna in libreria con Manuale per ragazze rivoluzionarie (Rizzoli). Un libro che parla dell'attuale condizione della donna, di femminismo e di come metterlo in pratica, rivolgendosi ai giovani. Perché dopo questa «grande rivolta della mia generazione», è importante che «ci sia subito una presa di coscienza, di potere e di parola da parte delle nuove generazioni che non ci stanno a farsi soffocare dal sistema e che vogliono cambiarlo».

- Come nasce il nuovo libro?
- La prima bozza del progetto risale a due anni fa, forse tre. Volevo intitolarlo «Le femmine fanno schifo» e doveva essere un saggio sull'orrore del femminile nel contemporaneo. Quando poi Rizzoli mi ha proposto di scrivere questo libro, ho fatto un adattamento minimale del progetto originario per allargarlo. Non è un libro per iniziati ma una cosa molto pratica, accessibile, soprattutto per chi si approccia la prima volta al femminismo.

- Il manuale è diviso infatti in due parti, una sorta di teoria e pratica, ricca di consigli utili...
- Sì, perché si può iniziare anche dal piccolissimo. Una delle cose più terribili, che succedono alle persone che si approcciano al femminismo, è che alla prima fase di entusiasmo subentrano la frustrazione e la stanchezza. Che è naturale, quando si tratta di cose che hanno un impatto sulla società. Piano piano, però, i cambiamenti avvengono, perciò bisogna imparare a gestire la frustrazione. Conservando la rabbia, l'energia e non dicendo «Vabbe', tanto è inutile» ma imparando che ci sono battaglie vinte e battaglie perse. E che bisogna continuare a lottare.

- Perché è importante parlare di patriarcato?
- Perché il suo più grande successo è far pensare alle persone che non esiste. Bisogna cominciare a dire «patriarcato» come si è cominciato a dire «mafia». Funziona allo stesso modo: è un sistema che vive della sua invisibilità. Nel momento in cui viene rivelato e ne vengono tracciati i confini diventa vulnerabile.

- Nel libro parli di sessismo benevolo, più pericoloso di quello ostile. Perché?
- Perché consola le donne e sembra un complimento. Se un uomo ti dice «Voi non siete capaci», tu gli dici: «Ma come ti permetti?». Ma quando ti dice: «Voi siete più portate per la cura, siete tanto migliori di noi», non ce n'è una che si giri e dica: «Ok, amico. Allora scansati». Se siamo tanto migliori, com'è che voi gestite tutto?

- Nel capitolo sul corpo femminile, racconti di aver sofferto in passato di disturbi alimentari.
- L'ho fatto perché di disturbi alimentari non se ne può parlare in astratto ma sempre solo in concreto. Si tratta di una cosa comune a moltissime donne, che spesso passa sottotraccia, e sapevo che sarei riuscita a comunicare meglio un messaggio passando attraverso il mio corpo. Credo che il personale sia profondamente politico e che mettersi in gioco, in prima persona, sia fondamentale, ma non è stato difficile parlarne. È passato molto tempo e non è la prima volta che lo racconto.

- «Il femminismo non è solo dire: brave ragazze!. È anche un bel po' di fatica, sbattimenti, andare in piazza, organizzare campagne, scrivere editoriali...».
In questa rivoluzione è importante coinvolgere le ragazze ma anche i ragazzi. Ma come si fa?
- Bisogna convincerli del fatto che a delle narrazioni tossiche delle donne ne corrispondono altrettante degli uomini: da un lato hanno molte meno pressioni di noi, ma dall'altro sono spinti a perdere il contatto con i propri sentimenti, a non manifestarli. A intrattenere con le donne rapporti superficiali, con atteggiamenti predatori. Bisogna quindi fare un passaggio: da uomini che partecipano al femminismo come alleati a uomini che ridiscutono se stessi e le loro azioni.

- Di femminismo pop ne parli in maniera abbastanza critica. Cosa non ti convince?
- Il fatto che in questo momento è basato sul concetto di autoaffermazione. È bellissimo stare sul palco con scritto dietro «Feminist», ma poi devi fare attivamente delle cose. Devi considerare gli altri e facilitare la loro liberazione. Il femminismo pop è importante però non può passare l'idea che si esaurisca in «brave ragazze!». Perché il femminismo è anche un bel po' di fatica, sbattimenti, andare in piazza, organizzare campagne, scrivere editoriali...

- A chi dice invece che il femminismo ha fatto il suo tempo, cosa rispondi?
- [Ride] Risponderei con la GIF di Jennifer Lawrence che fa il pollicione, ma cercherò di essere seria. Un Paese dove è stato presentato il DDL Pillon, dove il ministro della famiglia Fontana è iscritto a un'associazione che promuove l'abrogazione della legge 194 e il carcere per le donne che abortiscono; un Paese dove «l'essenziale funzione familiare» delle donne è scritta nella Costituzione e la metà delle italiane non lavora, ecco... È un Paese dove c'è più che mai bisogno di femminismo. Continuare a dire che non serve più è solo un modo per farlo sparire.

- Nel libro scrivi: «Il patriarcato è una macchina che tende all'autoconservazione, consuma tutto e non produce niente, ma di quando in quando si inceppa». Quando è scoppiato lo scandalo Weinstein cosa si è inceppato?
- La macchina che fa passare l'idea che il silenzio sia una scelta dignitosa, di forza e di necessità. Per una volta c'è stata una sollevazione internazionale contro questo concetto. Le donne hanno detto: «No, non potete fare finta che non sia successo». Ci viene insegnato che è meglio se stiamo zitte o accettiamo la cosa, perché è sconsigliabile mostrare debolezza. Non puoi essere debole, questa società è costruita a misura di uomo. Ma gli uomini non passano la vita a difendersi.

- C'è infatti una percezione diversa della realtà tra donne e uomini...
- Lo stupro non è nel menù delle loro vite. Non hanno una mamma che gli dice «Fa' attenzione, che ci sono brutte persone là fuori», come hanno detto a tutte noi. Non gli viene detto non devi toccare le ragazze senza il loro consenso. Non devi imparare questo tipo di mascolinità tossica. Oggi i ragazzi poi hanno un grande accesso al porno e assorbono una forma di sessualità performativa, una certa fisicità: tette grandi, depilazione integrale... Tutto finalizzato al piacere maschile. Ora, non voglio demonizzare il porno, che è un'espressione come un'altra delle fantasie umane. Il problema è che manca la formazione emotiva. Non c'è un discorso di educazione sessuale di genere nelle scuole e non è possibile aspettarselo dal governo in carica che ha tutto l'interesse a mantenere le persone ignoranti e disinformate e le donne in sudditanza.

- Non a caso quando si è saputa la vicenda Argento-Bennett, quest'ultimo è stato subito deriso.
- Abbiamo avuto sempre problemi con l'accettazione del fatto che gli uomini possano subire degli abusi, soprattutto da parte delle donne. Questa cosa avviene in una minoranza risibile però quando avviene si scatena l'idea che non possano subire una molestia, perché all'uomo viene insegnato che «ogni buco è trincea». Non puoi rifiutare un rapporto che ti viene offerto, che ti vada o meno, devi essere sempre pronto. Perché «la figa è la figa», è un valore universale.

- Ora è passato un anno, dallo scandalo Weinstein. A che punto siamo in Italia?
- Intanto, ne stiamo ancora parlando. Già quattro, cinque mesi fa hanno iniziato a dire «Il #MeToo è morto!» però fanno ancora articoli di tre colonne sulla morte di questo benedetto #MeToo. Tra l'altro classificandolo come un movimento di vendetta e non di riscatto collettivo, solo perché in America ci sono persone che hanno pagato per quello che avevano fatto. Louis CK è stato allontanato da Netflix perché le voci sulla sua condotta sessuale duravano da anni, non dal giorno in cui le donne davanti alle quali si era masturbato hanno parlato. Tra l'altro, lui lo ha ammesso, nel loro ambiente lo sapevano tutti. Quindi è chiaro che quando una cosa così emerge ne paghi le conseguenze. È normale.

- «Si può essere politici senza essere partitici. Quello che manca al nostro star system è essere chiari sui grandi temi. Ad esempio, Emma Marrone non si è mai spesa per un partito, però è molto chiara nei suoi messaggi, sulla sottovalutazione delle donne nella musica».
#MeToo e #quellavoltache sono due cose diverse ma i paragoni sono quasi inevitabili. In America le star si espongono, anche politicamente, scendono in piazza, in Italia no. Perché secondo te?
- In Italia tutti sono amici di tutti. La Rai dà lavoro alla gente dello spettacolo italiano, è sempre stata lottizzata. Per cui è difficile scuotere dall'interno un sistema che ti dà da mangiare. Poi in Italia l'impegno politico viene visto con sospetto perché abbiamo un problema di mutevolezza politica: i partiti nascono, crescono e falliscono nel giro di pochissimo tempo. In America, ci sono solo due partiti rilevanti e questo rende le cose più facili. Detto questo, si può essere politici senza essere partitici. Quello che manca al nostro star system è essere chiari sui grandi temi. Ad esempio, Emma Marrone non si è mai spesa per un partito, però è molto chiara nei suoi messaggi, sulla sottovalutazione delle donne nella musica, nel dire «l'omofobia fa schifo»... Forse viene presa poco sul serio però lei parla ad una generazione e questo non va trascurato.

- Cosa ti preoccupa dell'attuale governo?
- Prima cosa, la totale incompetenza, non avere un'idea di nulla. Ci sono persone che non conoscono neanche le basi della democrazia. Poi, una visione del mondo che ha veramente troppi punti di contatto con quella fascista. Non vogliono essere chiamati fascisti però esaminiamo i fatti: uso dello straniero come spauracchio, creazione di leggi strumentali che servono a creare maggiore instabilità degli stranieri in Italia, rifiuto di votare la riforma del trattato di Dublino, disprezzo della donna esibito più volte, da Salvini e dai suoi; costante bersagliamento delle persone non eterosessuali, grande nazionalismo, tentativo di spaccare l'Europa... Diciamo che ci sono tutti i segnali.

- L'approvazione della mozione contro l'aborto a Verona ti preoccupa?
- Sì, nella misura in cui sembra una cosa innocua. «Città a favore della vita!», ma non si specifica a favore della vita di chi. Sicuramente non a favore di quella delle donne. L'aborto è un diritto fondamentale di base della salute riproduttiva delle donne ed esercitare questo diritto in sicurezza è un pilatro della nostra esistenza nella società. Il che significa lasciare le donne libere di fare la scelta migliore per sé.

-Chiudiamo con una nota leggera. Il libro è ricco di riferimenti alla cultura pop e alle serie tv, che negli ultimi anni hanno raccontato tante storie di donne, scritte anche da donne. La tua preferita?
-Difficile dire qual è stata la mia preferita, ma se devo identificarne una è Orange Is The New Black. Perché è veramente di una forza, di una potenza narrativa straordinaria.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/conversazioni/2018/10/30/giulia-blasi-libri-manuale-ragazze-rivoluzionarie/26991/

lunedì 7 gennaio 2019

ITALIA PRIMA AL MONDO PER DONNE ALL’UNIVERSITÀ MA ULTIMA PER OCCUPAZIONE FEMMINILE

Sono le più istruite ma le meno occupate: Italia ultima in Occidente per partecipazione femminile al mercato del lavoro
In Italia è donna il 60% circa dei laureati con lode (Ansa)

È una delle più grandi ingiustizie perpetrate in questo paese eppure non è all’ordine del giorno di alcuna forza politica, e sappiamo bene il perché. Secondo i dati del World Economic Forum, tratti dal suo annuale rapporto sul Global Gender Gap, l’Italia è la prima al mondo per quantità di donne che si iscrivono a percorsi di formazione terziaria, dall’università in su. Ma a fronte di questo primato, siamo 118esimi su 140 - peggiori in Europa, peggiori in Occidente - per partecipazione femminile alla vita economica del Paese. E aggiungiamoci che siamo 126esimi per parità di trattamento economico.

Disoccupazione femminile record
Siamo quindi un Paese che ignora la componente più scolarizzata. Nel dettaglio: per ogni cento maschi iscritti all’università, ci sono 136 donne. A completare il percorso di studi è il 17,4% della popolazione femminile, contro il 12,7% dei maschi. Ed è donna il 60% circa dei laureati con lode. Insomma, le donne si laureano di più e con voti migliori. E non è una novità che questo dato strida con quello relativo alla disoccupazione femminile, che è di tre punti percentuali più alta di quella maschile. E ancora: il part time, molto spesso imposto, riguarda il 40% delle lavoratrici e il 16% dei lavoratori.

Discriminazione di genere sempre viva
Come scrive Linkiesta.it, secondo i dati dell’agenzia europea Eurofound, il costo complessivo per l’Italia della sottoutilizzazione del capitale umano femminile è pari a 88 miliardi di euro, cioè al 5,7% del Pil, il 23% di tutta la ricchezza persa in Europa a causa della discriminazione di genere. Da notare che siamo anche il Paese che fa meno figli al mondo, a dimostrazione del fatto che le donne non stanno a casa per la prole.
https://www.milleunadonna.it/attualita/articoli/Italia-prima-mondo-donne-universita/?fbclid=IwAR2iNr5G5_jH8rIjsht9DFH3Qs3YYg3HATnhtJrv0ZthAR3-orKN4jMv-7I