venerdì 18 aprile 2014

BASTA PIANGERCI ADDOSSO di Marta Serafini


RICORDATE il POST "STORIE DI SESSISMO QUOTIDIANO"?
Ecco la risposta di un'a.d. della Silicon Valley:

Nei giorni scorsi vi abbiamo chiesto di raccontarci su Twitter con l’hashtag ‪#‎sessimoquotidiano‬ episodi di sessismo quotidiano di cui siete stati testimoni a partire dal libro della femminista inglese Laura Bates.
Ci avete spiegato quanto sia frustante sentirsi chiedere: “Scusi, lei è la segretaria? dov’è il direttore, l’ingegnere, il professore?” quando il direttore, l’ingegnere, il professore siete voi donne. E ancora ci avete scritto quanto sia fastidioso sentirsi apostrofare con frasi del tipo “Sei nervosa, avrai le tue cose”. E molte di voi ci hanno raccontato quanto il sessismo dilaghi negli uffici italiani.
E se è importante parlare di questo vissuto e non fare spallucce quando ci sentiamo insultate, altrettanto importante è cercare di cambiare le cose. Quindi ben vengano gli sfoghi ma sarebbe bello anche andare oltre e trovare una via d’uscita. A questo proposito è interessante leggere ciò che ha scritto Yunha Kim. Yuhna è la giovane a.d. di Getlocket, startup della Silicon Valley. Il suo profilo già di per sé dimostra come, seppur a fatica, le donne stiano facendo strada anche nel tech, settore che per tradizione è appannaggio maschile.
In un post dal titolo “Cosa ho imparato nel mio primo anno da Ceo, tre pro e tre contro dell’essere una donna nel mondo Tech” Yuhna ha spiegato per punti quali sono i lati negativi dell’essere una Ceo donna. Ma poi ha fatto un passo in più e ha elencato anche gli aspetti positivi partendo proprio dalle difficoltà che tutti i giorni vive facendo il suo lavoro.
In sintesi, per Yunha è brutto essere una Ceo donna perché:
1) Se sei aggressiva ti danno della stronza. Sei sei emotiva sei in piena sindrome premestruale. Se sei morbida, sei troppo femminile. Se fai carriera tutti lo motivano dicendo “per forza, è una donna” lasciando sottintendere chissà che.
2) Quando cerchi ingegneri uomini da assumere rischi di ricevere mail in cui ti chiedono se per caso oltre che offrire loro un lavoro sei single e hai voglia di uscire con loro.
Tutte cose di cui abbiamo parlato a lungo (per esempio qui e qui e che rendono la vita delle donne in ufficio veramente difficile).
Ma secondo Yuhna essere una Ceo donna è comodo perché:
1) Gli uomini sul lavoro sono più portati ad aiutare le donne perché le vedono come deboli. Mentre le donne saranno più portati a sostenerti se occupi una posizione di comando perché ti vedono come una persona che può rappresentare le loro istanze.
2) Trovare fondi per l’imprenditoria è più facile perché per le donne ci sono più agevolazioni
3) Hai la possibilità di assumere donne in gamba e di dare loro spazio creando un circolo virtuoso.
E la conclusione è: ragazze, di fronte al sessismo quotidiano smettiamo di piangerci addosso, facciamoci furbe e ribaltiamo la frittata.

mercoledì 9 aprile 2014

Lorella Zanardo: rispetto per il 51% della popolazione, al di là dei moralismi

Dal sessimo nei media alla mancanza di educazione (anche sessuale) nelle scuole, dall'abbandono scolastico all'incultura televisiva alla violenza come colpo di coda del patriarcato: la scrittrice e regista racconta ciò che non va in Italia, soprattutto per le donne
Nel 2012 il sito di informazione americano The Daily Beast l’ha nominata tra le 150 donne più coraggiose nel mondo. E del mondo lei si sente cittadina, ma insieme “profondamente e orgogliosamente italiana”. Lorella Zanardo è autrice del documentario Il corpo delle donne, visto da oltre 5 milioni di persone sul web, e del libro Senza chiedere il permesso – Come cambiamo la tv (e l’Italia) (Feltrinelli, 2012).
Dopo aver trascorso gran parte della sua vita all’estero, tra Germania, Inghilterra e Francia, nel 2009 ha deciso di ricominciare in Italia, per “lottare su temi di cui in altri paesi è quasi banale parlare, mentre qua c’è ancora tanto da fare”: i diritti delle donne, l’educazione di ragazze e ragazzi ai media e alla cittadinanza attiva. Questa primavera per lei si è aperta una nuova avventura, come candidata al Parlamento Europeo della Lista Tsipras.
Spesso in questi anni hai richiamato l’attenzione sulla distanza tra l’Italia e altri paesi europei per quanto riguarda il sessismo nei media. L’Italia è il fanalino di coda?
Purtroppo sì. Non è che negli altri paesi non ci sia il problema della rappresentazione delle donne nei media, ma se leggiamo una ricerca come quella del Censis, Donne e media, scopriamo che da noi è molto più grave. Intanto perché in Italia riguarda sia la televisione privata sia quella pubblica, mentre all’estero è un problema limitato alle emittenti commerciali. Poi è una questione di quantità: non è che in Francia non ci sia la donna soubrette – e perché non dovrebbe esserci? – ma non a tutti gli orari e in tutti i programmi. Certe storture italiane per cui persino i numeri del Lotto devono diventare sexy fa

Ma a dire queste cose in Italia si finisce per essere tacciate di moralismo…
È abbastanza idiota il dibattito che c’è stato su questo. Non c’entra niente il moralismo: gli inglesi sono forse più moralisti? Siamo molto più moralisti noi. Ma la Bbc non manderebbe mai in onda una ragazza in ginocchio mezza nuda vicino a un uomo vestito, semplicemente per rispetto del 51% della popolazione.
E per quanto riguarda la scuola, l’altro grande tema su cui sei impegnata, come siamo messi?
La scuola italiana non ha avuto finora nulla da invidiare ad altri paesi europei. Dico finora perché da anni investiamo meno di altri paesi europei nell’educazione, e chiaramente è un grosso rischio per il futuro. In Italia poi non si fa nulla per l’educazione ai media, mentre per esempio nel resto d’Europa questa è una materia spesso obbligatoria. O almeno si formano gli insegnanti. Servirebbe moltissimo anche qui.
Nelle ultime settimane è nata una grande discussione intorno ai libretti che l’Unar voleva diffondere nelle scuole per l’educazione alle differenze. Alla fine sono stati bloccati. Qual è la tua posizione?
Chiaramente la mia posizione è che urge cultura nelle scuole. Noi – io e chi lavora con me – ci impegniamo perché nelle scuole venga fatta educazione sessuale, educazione alle relazioni, alla corporeità, all’affettività. L’unica cosa che mi viene da dire è che a volte facciamo il passo più lungo della gamba. Questo è un paese in cui i miei figli adolescenti a Milano non hanno mai fatto educazione sessuale, non hanno mai parlato a scuola neanche dell’ape e del fiore. Me l’aspettavo, questa reazione ai corsi sul gender, al libretto dell’Unar. Se non siamo neanche in grado di fare educazione sessuale, come ci si poteva aspettare che venisse accettato serenamente questo progetto così avanzato? È come voler raggiungere la Norvegia partendo da una situazione da Medioevo.
Consumi televisivi e abbandono scolastico: sono fenomeni che tu metti in relazione, in che modo?
In realtà metto insieme serie di dati che mi fanno riflettere. In Italia abbiamo una delle percentuali più alte di persone che guardano la Tv: il 98,7% della popolazione, che significa praticamente tutti. E non è vero quello che si dice per cui i ragazzi non guarderebbero più la tv: la guardano con modalità diverse, magari sul web. I contenuti televisivi hanno colonizzato completamente la rete. E quali contenuti? Abbiamo monitorato la televisione pubblica per un mese, scoprendo che Rai1 e Rai2, i canali generalisti della tv pubblica, quindi i più visti, fanno un investimento pari a zero in programmi culturali in ore diurne e serali. La scommessa sarebbe introdurre cultura in queste fasce, e così usare questo strumento anche per fare educazione.
Perché anche i dati sull’istruzione da quel che dici non sono confortanti…
Abbiamo un tasso di abbandono scolastico tra i più alti d’Europa: il 17,6% contro il 12,7% della comunità europea. E al Sud il dato sale al 25%. Questo è gravissimo. L’Ue ha posto l’obiettivo di abbassare questa percentuale al 10% entro il 2020, dunque bisognerà darsi una mossa nei prossimi anni. Quindi: abbiamo un servizio pubblico televisivo che non investe nulla in programmi educativi, e un abbandono scolastico da paese del terzo mondo. Attraverso una diversa tv si potrebbe fare molto.
Ma se l’Italia è il paese peggiore in questo panorama, non è una contraddizione impegnarsi in Europa anziché, per esempio, nella politica locale?
Molte cose in effetti possono partire dalle politiche locali. Ma una cosa bella dell’Europa è la possibilità di importare ed esportare buone prassi. Credo che mai come ora abbiamo bisogno di pensare e insegnare ai ragazzi che si può cambiare. È questa l’idea di Europa da comunicare ai giovani, non solo parlare di euro che a loro non interessa minimamente. Se l’Italia è al 71esimo posto nel Global Gender Gap, la graduatoria mondiale delle disparità di genere, sapere che paesi dell’Ue come la Finlandia o la Svezia si trovano ai primi posti è uno stimolo a darsi da fare.
Come si combatte il sessismo in tv e in pubblicità? Bisogna censurare le immagini offensive?

Censura è una parola che aborro. Non credo che ce ne sia bisogno del resto. Io miro a lavorare sull’innalzamento del livello di consapevolezza, ci vuole più tempo ma è il modo più democratico. Perché in altri paesi non sentono la necessità di mettere in televisione una valletta con il sedere per aria e un uomo che la umilia? Forse a loro non piacciono le donne? No, piacciono un sacco anche a loro. È un problema culturale. Noi siamo anche il paese in cui si leggono meno libri e quotidiani, e questo conta. Il mio modello è investire in scuola e in educazione permanente, anche per gli adulti.
Che legame c’è tra la donna-soprammobile in tv e la violenza sulle donne?
L’oggettivizzazione delle donne non è la causa unica della violenza, è una delle cause. Questo non ha nulla a che vedere con la nudità, ci sono immagini di nudo che non sono affatto de-umanizzanti, quello che oggettivizza è il punto di vista, quindi in televisione la telecamera: se questa inquadra ginecologicamente una donna, anche completamente vestita, e rimuove il volto, offre un’immagine de-umanizzante. Ed è un’immagine violenta perché porta chi guarda a vedere quel pezzo di corpo come qualcosa da possedere.
Eppure i dati dicono che, se in Italia il 27% delle donne ha subito violenza, in Danimarca addirittura il 52%, e poco meno in Finlandia e in Svezia. Come si spiega?
C’è in corso un fenomeno epocale che non riguarda solo l’Italia, quello che qualcuno definisce il “colpo di coda del patriarcato”. Ma è possibile anche un’altra spiegazione che dipende dal modo in cui viene percepita la violenza. Alcuni atti sono classificati come violenza in paesi del Nord e molto meno in Italia, per esempio la “toccatina al culo” di un uomo per strada. Mi ricordo un’amica inglese, in vacanza, che per un fianco sfiorato ha voluto andare dai carabinieri. Lì ho vissuto la differenza tra la percezione mia e sua. Quindi è necessario introdurre parametri simili per consentire una vera comparazione.
Insomma, cosa si dovrebbe fare urgentemente a livello europeo?
A me piacerebbe costituire al più presto un team di donne di tutti i paesi che si attivasse per portare avanti strumenti di educazione alla sessualità, alle relazioni, e anche ai media. Perché le immagini rimandano ai corpi. Ma siccome in Italia abbiamo il più alto tasso di analfabetismo funzionale tra gli adulti e la metà degli italiani fa fatica a comprende un articolo di quotidiano, bisogna investire urgentemente nella cultura. Altrimenti anche strumenti importanti a livello europeo qui saranno sempre rigettati: faranno la fine dell’opuscolo dell’Unar.

lunedì 7 aprile 2014

Cara Ministra Lorenzin, sono gli uomini a dover essere “educati alla maternità”

L’espressione, “grande piano nazionale di fertilità”, non è sicuramente delle più felici, e nemmeno l’idea di “educare alla maternità”. Specialmente in bocca a una donna, la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin, che come capita spesso alle ministre e alle donne politiche sembra dimenticare di esserlo anche lei. Parole, le sue, che ricordano fatalmente i tempi bui dei figli alla patria e fanno pensare alle donne come mansuete fattrici.
In un’intervista ad “Avvenire” la ministra ha infatti affermato che
“i bambini devono tornare a nascere e serve educare alla maternità. Ho in testa una nuova sfida, un grande piano nazionale di fertilità. Il crollo demografico è un crollo non solo economico, ma anche sociale. È una decadenza che va frenata con politiche di comunicazione, di educazione e di scelte sanitarie. Bisogna dire con chiarezza che avere un figlio a trentacinque anni può essere un problema, bisogna prendere decisioni per aiutare la fertilità in questo Paese e io ci sto lavorando. Sia chiaro: nessun retropensiero e nessuno schema ideologico, ma dobbiamo affrontare il tema di un Paese dove non nascono i bambini“.
La denatalità è senz’altro un problema: siamo il Paese più vecchio d’Europa, e tanti di quei pochi giovani sono costretti ad andarsene per campare. Quindi anche i loro figli non saranno “nostri”, se è possibile dirla in questo modo. Nei panni della ministra, però, le cose le avrei messe così:
è necessaria, certo, un’”educazione alla maternità”, rivolta al mondo dell’impresa che -vedi dimissioni in bianco e tutto il resto- pensa la gravidanza come un lusso o una peste, e le giovani madri come una iattura. Ma anche alla politica, che perpetua l’idea dell’alternativa secca tra lavoratrici e madri (o sei una cosa, o sei l’altra: e se sei l’altra te ne stai tranquilla a casa) ignorando il dato statistico che dimostra la correlazione positiva tra tasso di occupazione femminile e natalità.
Per rieducare la politica è necessario rompere con questo pregiudizio, radicato nel desiderio maschile, che la donna resti a casa a fare la madre, a completa disposizione. Questo è uno degli aspetti della nostra tenace questione maschile. Sono gli uomini a dover essere educati alla maternità.
Educazione alla maternità significa mettere al centro delle politiche questa coppia madre-bambino, le cui raffigurazioni abbondano nelle chiese del nostro Paese, mariano e prima ancora di Grandi Madri, ma nemico delle piccole madri e antimaterno. Significa l’adozione di misure a favore dell’occupazione femminile, sostegno alle imprese di donne, accesso agevolato al credito: più le donne lavoreranno, più bambini nasceranno. Significa offrire un reddito di esistenza e garantire la maternità universale, anche in assenza di contratti a tempo indeterminato, sempre più assenti. Significa costruire una società mummy-and-baby friendly. Significa garantire i servizi indispensabili alle famiglie e ai caregiver, donne o uomini che siano. Significa offrire possibilità abitative e accesso ai mutui per le giovani coppie.
(il governo danese, molto creativo, spinge addirittura le coppie a viaggi romantici per concepire più bambini, offrendo bonus economici a chi dimostrerà un concepimento a Parigi o a Venezia: ma non si pretende tanto).
Questo sì, sarebbe un grandissimo piano di “educazione alla maternità”. Che consentirebbe alle donne nella loro piena autodeterminazione di decidere sulla propria maternità: libere di scegliere non soltanto di poter interrompere la gravidanza in sicurezza, con la piena applicazione della 194 azzerata dall’obiezione, ma anche e soprattutto di non dover congelare la loro fecondità fino al limite estremo dell’età fertile e di non dover ricorrere alla fecondazione assistita.
Se per piano nazionale di fertilità la ministra Lorenzin intende tutto questo, be’, si tratta di un’idea grandiosa. Siamo tutte qui per darle una mano.

sabato 5 aprile 2014

Addio Anja Niedringhaus Fotografa della pace in guerra

Si può morire per carpire le immagini di un Paese come l’ Afghanistan, immerso in  quella mortale ricerca della Pace in una guerra senza fine? E’ accaduto ad  Anja Niedringhaus, che aveva un suo blog, aggiornato al 2 aprile con una foto che nella didascalia spiegava : “Ultimo giorno di iscrizione nelle liste elettorali in vista delle elezioni presidenziali in Afghanistan. © Anja Niedringhaus / AP”

Anja Niedringhaus io non la conoscevo affatto e le sue foto intense toccanti e vere- tanto da averci rimesso la vita- le ho scoperte oggi per la prima volta.
Dal suo blog apprendo che gli scatti provenivano da Afghanistan Pakistan Libia Iraq Bosnia Israele. Anja, insieme alla collega Katthy Gannon, entrambe giornaliste dell’agenzia americana Associated Press, sono state raggiunte da colpi d’arma da fuoco a Khost, nella parte orientale dell’Afghanistan, al confine con il Pakistan. Anja Niedronghouse è morta sul colpo,e aveva 48 anni, mentre la reporter canadese Katthy Gannon,60enne, è rimasta ferita gravemente da due proiettili, ed è stata trasportata in un ospedale nelle vicinanza dell’incidente.”Un freelance di AP, testimone dell’attacco, ha raccontato che le due colleghe, per seguire le elezioni, stavano viaggiando dal centro di Khost alla periferia, per consegnare alcune schede nel distretto di Tani. Anja Niedronghous e Katthy Gannon, a bordo di un auto con autista e guida, erano su un convoglio che trasportava operatori delle elezioni presidenziali di domani. A protezione dei mezzi c’erano agenti dell’esercito e della polizia nazionali. Nell’attesa che il convoglio partisse, scortato da agenti dell’esercito e della polizia, un comandante chiamato Naqibullah si è avvicinato all’auto delle giornaliste urlando “Allah akbar” e ha aperto il fuoco con un Ak-47. E’ stato subito circondato dalle altre guardie e arrestato.”

Katthy Gannon  su twitter
Traduco come posso la sua vita, con le parole e i fatti che lei stessa aveva scelto: “ha iniziato la sua carriera come fotografa freelance per un giornale locale nella sua città natale di Hoexter,in Germania, all’età di 16 anni. Dopo aver terminato il liceo , andò a studiare letteratura tedesca , filosofia e giornalismo a Goettingen, in Germania .Durante l’ università, continuatocome fotografa freelance, a collaborare per diversi giornali e riviste. Tra gli eventi, seguì la caduta del muro di Berlino,nello staff cdella Press Photo Agenzia europea a Francoforte , nel 1990. Ha lavorato presso l’EPA come capo fotografo fino al 2001 concentrando molto del suo tempo nel brutale conflitto nella ex Jugoslavia. Ha vissuto per questoper molti anni tra Sarajevo e Mosca .Nel 2002 entra a far parte della Associated Press, , come fotografo personale con sede a Ginevra, in Svizzera , che rimane la sua base. Negli anni successivi ha coperto la maggior parte delle regioni di conflitto del mondo. Oltre a fotografare i conflitti e le crisi politiche in tutto il mondo, ha seguito anche gli eventi sportivi internazionali, tra cui nove Giochi Olimpici. Nel 2005 Anja Niedringhaus e il team di fotografi AP, ha vinto il Premio Pulitzer nella categoria “breaking news” per la copertura della guerra in Iraq. Lo stesso anno ha ricevuto il Niedringhaus Courage in Journalism Award dalla Fondazione internazionale delle Donne nei Media.Dal 2006 al 2007,si è aggiudicata una Nieman Fellowship in giornalismo presso la Harvard University.Negli ultimi 20 anni di lavoro, ha raccolto numerosi premi, come il Pictures of the Year International BOP Best of Photojournalism , Clarion Awards , The Atlanta fotogiornalismo Seminario, il Premio di Amburgo e l’Abisag Tuellmann, per la fotografia di reportage nel 2011 il Goldene Feder.Le sue fotografie sono state esposte in una serie di case d’arte prestigiose e musei, tra cui il Museo d’Arte Moderna di Francoforte , la Galleria C/O di Berlino, la Collezione d’Arte della borsa tedesca di Francoforte, il Museo di Fine Arts di Houston,nonché in musei e gallerie negli Stati Uniti,Londra,Austria e Canada.Anja Niedringhaus ha pubblicato due libri: nel 2001″Fotografien”( Museum of Modern Art , Francoforte) e nel 2011″At War“( Hatje Cantz , Ostfildern )”.

Che sia maledetta la guerra, chi la pratica e la usa in nome di una pace che  trovano solo le persone che amano la vita e le creature che la difendono in nome della Terra.Spero che sia tornata a vedere il sorriso dei bambini che ha fermato in un’ altra Primavera.
Doriana Goracci

venerdì 4 aprile 2014

Smontare gli stereotipi Federica Tourn



Uno spettro si aggira per il nostro sventurato paese. Non è il comunismo e nemmeno la crisi o la disoccupazione ma la genderizzazione: terribile congiura "lgbt" per distruggere la solidità della famiglia naturale, cioè quella rettamente composta da papà (uomo) mamma (donna) e figli (a seconda).
Sembra uno scherzo di cattivo gusto ma è molto peggio: è la disarmante crociata (di cui parliamo anche noi a p. 10) portata avanti dalla Cei in risposta ad alcuni opuscoli informativi sull’omofobia destinati alle scuole superiori, che non ha mancato di influenzare l’atteggiamento di Comuni e Regioni e ha convinto il ministero all’Istruzione a rinviare a data da destinarsi i corsi anti-omofobia per insegnanti.
Una pesante ingerenza clericale nella scuola pubblica, che dovrebbe essere laica e pluralista, un’intromissione che non è certo nuova e che si è sempre fatta sentire in occasione dei singoli tentativi di fornire qualche elemento di educazione sessuale, tutti bollati come sovversivi, pericolosi e destabilizzanti: non è forse la famiglia l’unica responsabile dell’educazione – e in particolare di «quella» parte dell’educazione, così intima e personale? Per lo stesso motivo sabato scorso a Torino le «Sentinelle in piedi», movimento nato a imitazione dei Veilleurs Debout francesi, hanno manifestato contro il disegno di legge sull’omofobia, colpevole, secondo loro, di minare la famiglia tradizionale.
Il cardinal Bagnasco, nel riprendere per l’ennesima volta le fila di questa battaglia per la purezza dei costumi, ha dimenticato però che i bambini e le bambine sono già sottoposti a dei modelli e pensare che vivano in un mondo asettico dove amorevoli genitori forniscono loro gli unici riferimenti è perlomeno ingenuo.
Anche nella migliore delle ipotesi sono comunque assillati da pubblicità in cui il corpo della donna è usato per vendere, dalla televisione assorbono senza schermi una rappresentazione dei ruoli che svilisce le donne relegandole al ruolo di semplice ornamento – meglio se poco vestito – accanto a uomini che gestiscono la situazione. E non è tutto: se accedono a Internet troveranno loro coetanee di otto, dieci anni che insegnano come farsi un make up tutorial, mentre su altri canali i maschi possono abbeverarsi a ideologie machiste e guerrafondaie.
Non è una rappresentazione semplicistica, è l’inizio di un tunnel: avete provato a entrare in un negozio di giocattoli? Ci sono le corsie per maschi e per femmine, già divisi nei desideri (indotti dal mercato) sin dalla primissima infanzia – e in quelle destinate alle bambine ci sono sempre di più soltanto trucchi, strass, gioiellini, il kit completo per la perfetta (e passiva) principessa. Avete aperto i libri della scuola primaria? I padri sono rappresentati ancora come negli anni ‘50, seduti sul divano a fumare la pipa mentre la mamma prepara la cena; e la piccola di casa aiuta mentre il fratello si sfrena in giochi creativi e divertenti.
Tutto questo non è innocente e non è nemmeno evidente. Non lo è agli occhi dei piccoli, che prendono quello che gli viene offerto, ma non lo è nemmeno per gli adulti: lo dimostra, fra l’altro, l’importante corso per genitori e insegnanti proposto dall’associazione ZeroViolenzaDonne e finanziato con l’Otto per mille della chiesa valdese, «Gli adulti imparano, gli adulti insegnano la relazione fra uomini e donne», cinque incontri in quattro istituti comprensivi di altrettante periferie romane, in cui educatori e psicanalisti cercano di aiutare genitori e insegnanti a rispondere alle domande dei bambini sull’identità sessuale.
Fra le formatrici c’è anche Loredana Lipperini, scrittrice attenta alle dinamiche della comunicazione e autrice tra gli altri di Ancora dalla parte delle bambine, seguito del noto saggio di Elena Gianini Belotti uscito nel ‘73. «Il primo obiettivo – dice – è smontare gli stereotipi, perché alle bambine vengono offerti soltanto due modelli, la casalinga perfetta e la donna poco seria».
E ai maschi non va meglio, costretti a stare nei limitanti confini della virilità intesa come forza e repressione delle emozioni. Di fronte alle immagini di bambine che ancheggiano e guardano seduttive in camera o a cartoni animati come le Winxs, in cui le protagoniste spingono a «valorizzare la bellezza», considerato l’unico talento spendibile per una ragazza, molte insegnanti hanno reagito con stupore, ammettendo di non essersi mai accorte di offrire modelli di mascolinità o femminilità preconfezionati.
Come reagire? Contestualizzando quello che i ragazzini vedono e moltiplicando i modelli di riferimento a loro disposizione. E informandoli perché, anche se sembra un paradosso, in una società ipersessualizzata come la nostra i ragazzi non sanno niente di educazione sessuale e sono gettati in un mondo che li vuole precocemente attivi senza altro bagaglio che l’incertezza, il desiderio di sperimentare e la possibilità di farlo sapere a tutti in tempo reale grazie ai social network.
La famiglia – dicono gli insegnanti – ha delegato completamente alla scuola (che ne dice, cardinal Bagnasco?), che però non è attrezzata a dare delle risposte. L’Italia è infatti l’unico paese in Europa a non avere una legge sull’educazione sessuale e anche gli sporadici tentativi fatti in questi anni hanno sempre incontrato, come abbiamo visto, una pronta stroncatura da parte cattolica.
Ora giace in Parlamento, in seguito alla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne, una proposta di legge sull’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, voluta da Celeste Costantino (Sel), che promuove percorsi di formazione per riflettere sull’emotività e gli stereotipi di genere, con l’obiettivo di costruire una nuova idea di cittadinanza e rivoluzionare il concetto di convivenza fra le persone.
Questione tutt’altro che formale perché è proprio da relazioni malate che si generano violenza omofoba e femminicidi, non di rado proprio all’interno delle «famiglie tradizionali». Allora forse è necessario ribadire che non abbiamo bisogno di provvedimenti repressivi o contenitivi ma di leggi e strumenti educativi che non strumentalizzino l’infanzia e permettano a tutti di crescere senza paure e cliché, per poi essere liberi, una volta adulti, di fare scelte consapevoli e rispettose degli altri.

giovedì 3 aprile 2014

»Bagnasco e non solo: l’avanzata silenziosa dei fondamentalisti cattolici in Italia Monica Lanfranco

Dunque: a febbraio, (contro l’autodeterminazione femminile), le prime veglie in molte città, nel nome della vita,‘il feto è uno di noi’, è lo slogan che va per la maggiore. Si replica un mese dopo, con la recente benedizione del cardinal Bagnasco che censura gli opuscoli per l’educazione alle differenze contro omofobia, sessismo e bullismo nelle scuole.
Dal 29 marzo, in decine di città, le ‘Sentinelle in piedi’ esprimeranno in silenzio con un libro in mano la loro contrarietà alla (presunta) avanzata di un concetto di famiglia diverso da quello propugnato dalle gerarchie ecclesiastiche e per “riaffermare il diritto sempre e comunque di essere liberi di esprimersi”.
Nella capitale, pochi giorni fa, si consuma lo scontro frontale della diocesi contro il progetto di due associazioni femministe per la formazione nelle scuole al rispetto tra i generi e il superamento della supremazia culturale della famiglia eterosessuale.
Il 12 aprile, a Milano, la prima manifestazione apertamente in stile ‘spagnolo’ contro la 194, una legge dello stato che ha messo fine alla piaga dell’aborto clandestino e alla mattanza di donne (per aborto si può morire, se non fatto nelle strutture adeguate), in stretta connessione con le frange più oltranziste del fondamentalismo cattolico italiano, (Militia Christi in prima fila) in piazza apertamente dopo qualche anno di sordina.
Cosa deve ancora succedere perché ci si preoccupi seriamente per lo stato di salute della laicità in Italia, per la tenuta dei diritti riproduttivi e sessuali, per il diritto ad una educazione civica nelle scuole pubbliche in grado di bloccare sul nascere la violenza contro le donne, (avete presente le varie campagne in stile ‘il femminicidio è un’invenzione delle femministe), il sessismo e l’omofobia?
A me sembra che la crescente presa di parola pubblica, assolutamente legittima in democrazia, delle frange più fondamentaliste del cattolicesimo nazionale, che nei primi mesi del 2014 stanno alzando i toni contro ogni discorso e pratica di apertura nella scuola e nella società di visioni inclusive e non assolutistiche della famiglia e delle relazioni umane e sessuali sia un segnale molto inquietante.
Quando una società non si accorge di ‘sentinelle’ e di ‘milizie’ che prendono terreno è ora di riconfigurare l’attenzione, e valutare bene i rischi che si possono correre a sottovalutare l’invasività del fondamentalismo nello spazio pubblico.
Qui non è in discussione la fede individuale, ma l’uso politico della religione e della fede. Occhio a lasciare che siano le minoranze aggressive oltranziste a ‘difendere’ la vita, la famiglia, la morale, la sessualità e le relazioni tra i generi. La Spagna, purtroppo, oggi ci insegna che alcuni diritti sono fragili, e mai conquistati del tutto.