sabato 31 gennaio 2015

Una Presidente della Repubblica…se non ora quando? Quirinale-elezioni di Laura Onofri

Iniziano le grandi manovre per l’elezione del Presidente della Repubblica, ed ancora una volta ci si chiede: a quando una Presidente? Non sarebbe il momento giusto?
Una donna capo dello Stato in questo momento non sarebbe utile per dare un forte afflato a un Paese che deve rinascere e che lo deve fare con uno sguardo rivolto a tutta la società civile?
Certo le condizioni ci sono: si pensi solo che per la prima volta nella storia della Repubblica le votazioni per l’elezione del Capo dello Stato saranno dirette da donne.
Per una serie di coincidenze il 29 gennaio, quando si riunirà il Parlamento in seduta comune, a dirigere le operazioni di voto di deputati, senatori e dei 58 rappresentanti delle Regioni, ci saranno la Presidente supplente del Senato Valeria Fedeli,(poichè il Presidente Pietro Grasso, nel periodo vacante, sostituisce il Presidente della Repubblica) e la Presidente della Camera Laura Boldrini.
Per una bella congiunzione astrale, ma forse non solo per quella, saranno coadiuvate da altre due donne, Elisabetta Serafin e Lucia Pagano, da poco nominate segretarie generali rispettivamente del Senato e della Camera.
Sino ad oggi nessuna donna aveva ricoperto la carica di segretario generale nè alla Camera nè al Senato e questa concomitanza forse, non è solo frutto del caso, ma di quanta strada è stata fatta nell’ambito delle pari opportunità nell’accesso a ruoli apicali in tanti settori, compreso quello della pubblica amministrazione.
Sembrerebbe quindi che i tempi siano maturi per l’elezione di una donna alla più alta carica dello Stato, ma purtroppo temo che anche questa volta resteremo deluse e che prevarranno le resistenze che la politica ancora oppone alla piena democrazia paritaria e ad una normale alternanza di uomini e donne ai vertici delle istituzioni.
In Italia non mancano donne autorevoli, di spessore e di grande competenza.
Il nostro Paese deve dimostrare il reale cambiamento: la democrazia paritaria è la leva per cambiare la politica e i modelli sono importanti per affermare che i luoghi istituzionali non sono appannaggio solo maschile.
Una donna Presidente della Repubblica avrebbe un valore eccezionale, specialmente ora, e rompere questo tabù farebbe da traino a tanti altri settori della società aiutando sicuramente il nostro Paese a riemergere: il fallimento della politica indica il fallimento di una classe dirigente formata da uomini.
È arrivato il nostro momento, è arrivato il momento di una Presidente!

Se non ora quando?

venerdì 30 gennaio 2015

A COLLOQUIO CON ERNA SOLBERG «Qui la politica non ha genere» di Eliana Di Caro

Il primo ministro norvegese racconta come le donne siano coinvolte a tutti i livelli della cosa pubblica e per i cittadini non faccia differenza votare per candidati dei due sessi, una conquista che risale al 1981 con la prima premier
La Norvegia è un Paese per donne, si sa. Ma che addirittura, sul fronte della rappresentanza nella politica, non si ponga oggi «il terna uomo/donna perché qui la cosa non fa differenza, la gente è abituata», beh, alle nostre latitudini colpisce sempre: anche perché lo dice la voce autorevole del primo ministro Erna Solberg, 53 anni, madre di due figli e una vita dedicata al Partito conservatore. «Sono il secondo premier donna, dopo il primo ne11981 (Gro Harlem Brundtland, ndr).
Sin da allora si è agito e sono state poste le basi per creare lo spazio per altre colleghe. Ne abbiamo molte coinvolte a livello locale e regionale. Nel Consiglio dei ministri il 50% dei componenti è donna», racconta a Troms0, nel Nord del Paese, a margine di «Arctic Frontiers», un convegno con i maggiori attori economici, politici e ambientali che ruotano attorno all'area cruciale dell'Artico.
«C'è ancora disuguaglianza prosegue negli affari: sono poche le donne leader, quelle che creano la loro impresa, ma se si guarda al settore pubblico, alla vita sociale, alle politiche del mercato del lavoro e alle negoziazioni sindacali che lo regolano, sono gestiti dalle donne. Ci sono molte donne in gioco, oggi in Norvegia». Probabilmente c'è un valore aggiunto dato dal gender nell'esercizio della politica, che negli anni ha portato i suoi frutti. «Abbiamo delle priorità diverse dagli uomini, viviamo la maternità, ci occupiamo della crescita dei figli. Certamente è cambiata l'agenda politica rispetto a 20, 25 anni fa. Gli asili sono diventati importanti nei programmi di tutti i partiti da quando sono arrivate le donne al potere, meno lo è la maternità. Il desiderio di libertà delle donne, oggi, è più forte, con un effetto dirompente sulla famiglia; c'è un nuovo dibattito. Ma ovviamente, il fatto che io sia madre ha un'influenza su come interpreto il mio ruolo».
In Norvegia il 40% delle donne preferisce lavorare part time, «e questo ha una ricaduta sulla carriera, oltre che sulla remunerazione. A volte lo decidono volontariamente, altre volte no, perché entrano in settori dove è difficile ottenere un contratto a tempo pieno. Va anche detto che nel privato, ad esempio, un ingegnere uomo riesce a negoziare uno stipendio più alto. Ciononostante, secondo le statistiche internazionali siamo una delle società più eque, ci superano soltanto l'Islanda e la Svezia».
Anche da un punto di vista sociale, Solberg descrive un Paese in cui «le politiche di integrazione sono efficaci», benché proprio lei sia stata minacciata di morte nel 2010 dal mullah Krekar, un curdo iracheno arrivato a Oslo nel '91 come rifugiato, rivelatosi poi un estremista e inserito nella lista dei terroristi dalle Nazioni Unite (Solberg ne aveva chiesto, da ministro dell'Immigrazione, l'espulsione). Il primo ministro racconta di «molte ragazze con un background di minoranza etnica che frequentano l'università, più delle stesse norvegesi. Grazie al nostro basso livello di disoccupazione e alla nostra politica per la casa non ci sono ghetti, un problema per altri Paesi. Gli immigrati hanno un alloggio in affitto, intanto risparmiano per comprarsi una casa. Certo, c'è chi è andato in Siria e in Iraq a combattere per l'Isis. Rimane il fatto che il più grosso attacco terroristico non è arrivato da chi appartiene a una minoranza ma da un giovane norvegese dell'estrema destra che nel 2011 ha ucciso 77 persone (il doppio attentato di Anders Breivik a Oslo e all'isola di Utoya, ndr). Dobbiamo parlare dei nostri valori e fare in modo che la gente si renda conto che è importante lottare per la loro difesa». Difficile dire se e quanto c'entri la crisi economica con questi episodi, anche perché, tiene a sottolineare il premier, la Norvegia «è stato il Paese meno colpito dalla tempesta finanziaria del 2008 2010, per via del petrolio. Ora che l'attività petrolifera è ridotta e il prezzo del greggio sta scendendo un bel po', dobbiamo correre ai ripari. Non c'è un effetto diretto sul budget perché abbiamo un grosso surplus grazie al nostro fondo sovrano, un cuscino anti crisi. Così abbiamo le risorse per mettere in atto i cambiamenti necessari, abbiamo meno problemi degli altri Paesi, ma dobbiamo pensare a un nuovo corso, nuovi lavori e innovazione. Se si guarda al quadro della Norvegia, il livello di disoccupazione è del 3,4%, ma è l'ora di un aggiustamento».
Siamo nel cuore dell'Artico, proprio nei giorni in cui si confrontano esponenti delle principali majore c'è chi, come Nina Jensen, leader del wwf, spinge per un contenimento delle operazioni petrolifere, giudicate «costose, rischiose e neanche del tutto vantaggiose». «C'è stato un alto livello di investimenti nel gas e nel petrolio negli anni scorsi ricorda Solberg e questo significa che andremo avanti per i prossimi 20, 30 anni, apriremo nuove aree a Nord, ma l'impatto non sarà forte come in passato. Abbiamo bisogno di investire per continuare a crescere, abbiamo la possibilità di farlo in modo più lento rispetto agli altri Stati europei che sono colpiti dalla crisi e hanno una forte disoccupazione. Penso al potenziamento della pesca, di settori come alluminio e acciaio, dei componenti delle auto, alla green econorny».

Prima di salutarla, uno sguardo all'Italia, e una curiosità: ha mai conosciuto una collega italiana? «No, non una donna. Ho incontrato il vostro Presidente a Roma, a giugno, con il primo ministro. Ha un'ottima prospettiva dei processi economici, ha una visione storica». Tra quattro giorni comincia il percorso di voto per il nuovo inquilino del Quirinale, e l'auspicio arriva spontaneo: «Sarebbe bello vedere una donna capo dello Stato, in Italia».

giovedì 29 gennaio 2015

Contratto di servizio Rai: lettera pubblica al Ministero dello Sviluppo Economico

Al Ministero Sviluppo Economico, cortese attenzione di: Ministra Federica Guidi
e per conoscenza a:
• Sottosegretario Antonello Giacomelli
• Viceministri Carlo Calenda e Claudio De Vincenti

• Presidente del Consiglio Matteo Renzi

Riguardo al Contratto di Servizio Pubblico (e privato):

Gentile Ministra Guidi,
come associazione che lavora da anni sul tema della rappresentazione delle donne nei media, siamo consapevoli che servano regole precise per arginare il sessismo.
In particolare per quanto riguarda la televisione pubblica, sappiamo che la RAI deve firmare ogni tre anni, con il Suo Ministero, il Contratto di Servizio Pubblico. A questo proposito, ci risulta che la nuova edizione del suddetto contratto, scaduto alla fine del 2012, non sia ancora firmata nonostante abbia superato anche il vaglio della Commissione Parlamentare per l’indirizzo generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi a maggio 2014. L’argomento ci interessa particolarmente perché abbiamo contribuito alla nuova edizione del contratto, dapprima inviando all’ex Viceministro Catricalà le nostre osservazioni, che abbiamo anche discusso successivamente durante un incontro avuto il 2 settembre 2013, e poi siamo state audite dalla Commissione sopra citata l’8 gennaio 2014.
Ci riteniamo soddisfatte del risultato raggiunto e possiamo sostenere che, se già il Contratto di Servizio scaduto conteneva per la prima volta nella storia della tv pubblica alcuni emendamenti sull’immagine della donna in televisione, la nuova edizione ha fatto un progresso verso una rappresentazione delle donne meno stereotipata e più attenta alla realtà. Auspicando quindi che il nuovo contratto venga firmato quanto prima, attendiamo da Lei notizie in merito.
Riteniamo però che anche le televisioni private debbano essere considerate.
ll Suo Ministero, nell’ambito della task-force istituita presso il Dipartimento delle Pari Opportunità per la redazione del Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, è stato delegato a coordinare il Sottogruppo Comunicazione e rappresentazione dell’immagine femminile nei media ed ha elaborato sia una bozza di codice di autoregolamentazione, sia delle linee guida (art. 5 comma b, legge n° 119 del 15/10/2013), effettuando altresì pubbliche audizioni, in merito alle quali abbiamo inviato un nostro contributo.
Ci permettiamo quindi di sollecitare la ripresa dei lavori affinché siano portati a compimento nel più breve tempo possibile e restiamo a sua disposizione per eventuali chiarimenti.
In attesa di una Sua gradita risposta, porgiamo distinti saluti.

Milano, 18.01.2015, DonneinQuota


mercoledì 28 gennaio 2015

La corruzione non è femmina. Proviamo a capire perché

Le donne non sono certo più buone degli uomini, eppure tendono a essere meno inclini a compiere e giustificare comportamenti antisociali, come accettare una tangente o comprare oggetti rubati. Sarà perché sono socializzate in un certo modo, perché meno avverse al rischio o più spaventate delle conseguenze? Oppure si tratta ancora della loro esclusione dal potere? Diversi studi hanno raccolto evidenze e provato a dare risposte
Tra le 37 persone arrestate all’inizio dell’operazione contro mafia capitale, c’erano solo otto donne, molte meno della metà. Per una volta non ci lamentiamo di questa mancanza di rispetto per la parità di genere. Non ci stupiamo nemmeno: per corrompere e essere corrotti bisogna detenere un po’ di potere, come osservava la magistrata Paola di Nicola, e di potere in Italia le donne ne detengono ancora molto poco. Ma se le cose fossero diverse, se finalmente le donne avessero accesso in modo massiccio alle posizioni di responsabilità, potremmo sperare che le cose vadano meglio nel nostro povero paese? Da tempo molti pensano di sì. Nel 2001 un lavoro che ha aperto la strada a molti studi analoghi (1) ha preso in considerazione più di 100 paesi per dimostrare che quanto maggiore era la partecipazione femminile alla vita politica (misurata dalla percentuale dei seggi in parlamento detenuti da donne) tanto migliore era la posizione del paese nelle classifiche internazionali di trasparenza e buon governo, a parità di altre condizioni che si ritiene abbiano influenza sulla corruzione. La Banca mondiale nel suo rapporto del 2001 Engendering development, che ha dimostrato l’importanza dell’uguaglianza di genere per lo sviluppo, ha trasformato questa conclusione in un argomento forte a favore dell’aumento della quota di donne nei parlamenti e organi decisionali: se, per qualunque motivo, le donne sono meno sensibili alla corruzione degli uomini, bisogna favorire il loro ingresso in politica e ai ruoli apicali, non solo per una questione di giustizia ed equa rappresentanza, ma anche come soluzione al problema della corruzione che è uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo e all’efficacia dell’azione pubblica. Questo uso efficientistico del riequilibrio tra i sessi della rappresentanza politica può non piacere perché ancora una volta fa dell’uguaglianza un mezzo e non un fine. Ha infatti sollevato diverse critiche femministe, ma è indubbio che è un argomento di forte impatto.
I risultati dello studio del 2001 sono stati confermati da molte ricerche delle scienze comportamentali e da evidenza aneddotica. Le donne si dichiarano meno propense di uomini con le stesse caratteristiche (età, istruzione, stato civile etc.) a giustificare comportamenti antisociali, quali accettare una tangente o comprare oggetti rubati. È decisamente confermato (2) il legame tra maggiore partecipazione delle donne al governo e minore percezione della popolazione di vivere in un paese corrotto. Sono donne molti celebri “whistleblower”, cioè dipendenti che hanno rotto l’omertà aziendale e denunciato le pratiche scorrette alla base di famosi scandali. Risale a questa estate il caso di Carmen Segarra che ha rivelato un’eccessiva deferenza dell’organo di vigilanza bancaria della Federal Reserve di New York rispetto alla potente banca di investimento statunitense Goldman Sachs. E sono state ancora donne a rivelare le dubbie operazioni contabili della Enron o a ribellarsi alla vendita di titoli che valevano come carta straccia ai clienti di Citigroup. Tornando a casa nostra, era una donna il capo del dipartimento delle politiche sociali del Comune di Roma, Gabriella Acerbi, che la banda di Carminati voleva a tutti i costi sostituire perché non rispondeva nemmeno alle loro telefonate.
Sono state suggerite alcune spiegazioni di questa maggiore capacità di comportamenti onesti da parte delle donne, che, a differenza dei loro corrispondenti maschili, spesso agiscono lontane dai riflettori e da azioni clamorose alla Edward Snowden. Nessuno ovviamente azzarda una spiegazione biologica o sostiene che le donne siano naturalmente "più buone” degli uomini. Le sappiamo capaci di atroci efferatezze e fatte del solito legno storto dell’umanità. Ma poiché le donne sono state socializzate a prendersi cura degli altri, può darsi che siano particolarmente avverse a manovre che fanno vittime soprattutto tra i più deboli come, ad esempio, piccoli risparmiatori e ignari impiegati. Può darsi che sentano maggiormente la responsabilità della funzione pubblica a cui hanno avuto finalmente accesso e/o che questo successo le appaghi abbastanza da non aver bisogno di altre gratificazioni in termini di soldi e potere; può darsi semplicemente che siano più escluse dai giochi sporchi ancora dominati da circoli esclusivamente maschili che esitano a farle partecipi; può darsi anche che siano più avverse al rischio e più spaventate dalla possibilità di essere scoperte.
Ma la relazione tra corruzione e presenza delle donne in politica si presta anche ad un’altra lettura. Come sempre nelle scienze sociali, quando si stabilisce che due fenomeni avvengono contemporaneamente, non è mai certa la relazione di causalità, che, in questo caso, potrebbe anche essere invertita: e se fosse non che la presenza delle donne in politica respinge la corruzione ma che la corruzione respinge le donne dalla politica? Se procedure di reclutamento del personale politico poco trasparenti fossero dominate da network maschili che vogliono mantenere al loro interno il controllo della cosa pubblica in un regime di scambi e di favori illeciti? Se il segnale che i potenziali candidati percepiscono è quello che agli incarichi pubblici ci si arriva solo se si hanno soldi e potere da scambiare, cose che le donne spesso non hanno? Questa ipotesi è stata oggetto di uno studio recente (3) che ha esaminato la relazione tra partecipazione femminile ai consigli comunali e alcuni aspetti di buon governo locale in 18 paesi europei, cioè in democrazie consolidate. All’interno dello stesso paese, quindi con le stesse istituzioni, procedure elettorali, peso dei media, storia e cultura, emerge chiaramente dallo studio che le municipalità peggio governate sono anche quelle che hanno meno donne che siedono nei loro consigli, a parità di altre condizioni. Lo studio conclude che l’accesso delle donne alla vita politica è ostacolato sia direttamente da network prevalentemente maschili di politici che adottano opachi metodi di cooptazione sia indirettamente dalla percezione che la scelta dei candidati per le cariche pubbliche è discriminatoria e non equa ( e i governi corrotti sono i più iniqui e anti meritocratici di tutti).
Non ci mancavano i motivi per chiedere processi di selezione del personale politico più trasparenti e basati sulla qualità dei candidati. Ora ne abbiamo uno di più.


martedì 27 gennaio 2015

Il giorno della memoria ha memorie che ancora non 

hanno visto del tutto la luce, come la storia del lager 

di Ravensbrück, dove morirono migliaia di donne 

considerate dal nazismo "non conformi". 


"Una volta internate, le prigioniere 

erano rasate e dovevano indossare il 

Winkel, un triangolo di stoffa 


colorato che indicava il motivo della 


detenzione: 


giallo per le ebree

rosso per le deportate politiche

verde per le criminali comuni

 viola per le Testimoni di Geova

 nero per zingare e asociali, tra 

cui prostitute e lesbiche."

lunedì 26 gennaio 2015

Ravensbrück: la guerra nascosta di Hitler alle donne di Ottavia Spaggiari

La storia dimenticata del campo di concentramento femminile, progettato da Hitler con l’obiettivo specifico di eliminare le donne “non conformi”. Dal maggio del 1939 al 30 aprile del ’45, sono passate da qui 130 mila donne, provenienti da 20 nazioni diverse, 50 mila delle quali qui sono morte
Un campo di concentramento femminile. L’unico progettato da Hitler, con l’obiettivo specifico di eliminare le donne “non conformi”: prigioniere politiche, lesbiche, rom, prostitute, disabili e donne semplicemente giudicate “inutili” dal regime. La terribile vicenda di Ravensbrück, è tra quelle che ricorrono meno tra le storie dei sopravvissuti, eppure da questo campo di concentramento, 90 chilometri a nord di Berlino, dal maggio del 1939 al 30 aprile del ’45, sono passate 130 mila donne, provenienti da 20 nazioni diverse, 50 mila delle quali qui sono morte. Di queste solo il 10% era ebreo.
Una storia nascosta, a cui oggi dà forte rilievo il quotidiano britannico Independent, con una prima pagina dedicata alla memoria del terribile lager, tutto femminile, scritta da Sarah Helm, giornalista e autrice del libro, dal titolo evocativo dell’opera di Primo Levi, “Ravensbrück: If this is a woman”, “Se questa è una donna”, appunto.
“Poco dopo aver scritto il mio primo libro, nel 2005, mi venne chiesto su cosa avrei voluto lavorare, subito dopo. Pensai subito a Ravensbrück, perché era una storia di donne straordinarie, di estremo coraggio, ma anche di estrema sofferenza e brutalità e non era ancora stata raccontata, almeno non in modo che la gente ascoltasse.” E secondo Helm, le ragioni per cui Ravensbrück è rimasto ai margini della storia, sono diverse. “Il campo era relativamente piccolo, non rientrava nella narrativa dominante dell’olocausto, molti documenti poi sono stati distrutti, inotre il lager è stato per anni nascosto dietro la cortina di ferro.”
Per Sarah Helm, che nel suo libro è riuscita faticosamente a raccogliere le testimonianze di alcune sopravvissute, tra i motivi che hanno portato Ravensbrück a rimanere nascosto, vi è anche la riluttanza delle vittime a parlare. “Chi è riuscita a tornare a casa, spesso si vergognava per quello che aveva subito, come se fosse stata colpa sua. Parlando con diverse donne francesi, mi è stato detto che l’unica domanda che veniva rivolta loro, era se fossero state stuprate. Altre mi hanno raccontato che, quando si decisero a parlare nessuno credette a quelle storie orribili.” Racconta Helm, ricordando che invece, in Unione Sovietica, le sopravvissute rimasero zitte per paura. Secondo Stalin i russi dovevano combattere fino alla morte, quelli che erano stati catturati, potevano accusati di tradimento, indagati e spediti in altri campi di detenzione, questa volta in Siberia.
“Eppure nulla spiega davvero l’anonimato di questo campo.” Continua Helm. “I nazisti hanno commesso atrocità nei confronti delle donne, in molti altri posti. Più della metà degli ebrei uccisi nei campi di concentramento, erano donne. Ma come Auschwitz era la capitale dei crimini contro gli ebrei, Ravensbrück era la capitale dei crimini contro le donne.” Le violenze atroci perpetrate nel lager, infatti erano specifici, crimini di genere, tra i più comuni, sterilizzazioni, aborti forzati e stupri.
“Forse gli storici mainstream –quasi tutti uomini- semplicemente non si sono interessati nello specifico a cosa accadesse alle donne. Eppure ignorare Ravensbrück significa ignorare una fase cruciale nella storia del nazismo. I crimini commessi qui non erano solo crimini contro l’umanità, ma crimini contro le donne.”
Negli ultimi mesi della guerra, nell’autunno del 1944, dopo che Himmler aveva ordinato la sospensione delle camere a gas, Ravensbrück ricevette un ordine diverso. Qui, in una baracca vicino al forno crematorio, venne costruita una camera a gas provvisoria, utilizzando componenti provenienti anche da Auschwitz.
6 mila donne vennero uccise, asfissiate. “Fu l’ultimo sterminio di massa del regime nazista”, scrive Helm. “Eppure è stato ignorato dalla storia per un lunghissimo periodo”.

Per sapere di più su Ravensbrück:
Le donne di Ravensbrück di Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone
Il ponte dei corvi. Diario di una deportata a Ravensbruck di Maria Massariello Arata

 Ravensbrück di Germaine Tillion  

domenica 25 gennaio 2015

L'ambasciatore inglese consegna 3 onorificenze a Rossana Banti, 90 anni, eroina della II Guerra Mondiale. «E che ho fatto? Eravamo ragazzi, pensavamo fosse giusto»

Rossana Banti ha 90 anni portati splendidamente e oggi lascerà la sua casa di Pitigliano per andare a Roma. Domani pomeriggio, con 70 anni di ritardo, l’ambasciatore britannico in Italia, Christopher Prentice, le appunterà tre medaglie che le erano state assegnate subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e che nessuno si era ricordato di consegnarle.
la signora Banti ci ride su, nel salotto che si affaccia sulle case medioevali di tufo di Pitigliano e sulle dolci colline della Maremma. «Mi sembra incredibile, dopo tanto tempo. Sono storie che ho quasi dimenticato, delle quali non parlo da anni, non mi aspettavo davvero una cosa del genere. Mi danno delle medaglie? E quali?».
Secondo i giornali inglesi saranno tre: la Italy Star, la Victory Medal e la War Medal 1939-1945, onorificenze assegnate a chi ha combattuto con onore contro i nazisti in Europa. «E che abbiamo fatto? Eravamo ragazzi, avevamo tutti vent’anni, pensavamo fosse la cosa giusta, l’unica che dovevamo fare. Non ha idea di quanto fossimo giovani».
Rossana aveva solo 18 anni quando alcuni amici le proposero a Roma di entrare nella Resistenza. C’era bisogno di ragazze che portassero messaggi, distribuissero volantini, tenessero i contatti con i gruppi clandestini. «Incontravo gente meravigliosa: Antonello Trombadori, Franco Rodano, Maurizio Ferrara e tanti altri che nemmeno mi presentavano, perché ero troppo giovane. Dovevo fare ”la coppietta”, andare in missione con qualcuno e fare finta di essere fidanzati per non destare sospetti. Si andava con mezzi di fortuna dai Parioli alla Nomentana e a Monte Sacro. Uno dei referenti era un macellaio, che aveva l’età di mio padre. Poi lo presero, lo portarono al forte Bravetta e lo fucilarono».
Spesso era necessario trasportare anche esplosivi. «Una volta facevo “la coppietta” con Maurizio Ferrara e avevamo un sacco di dinamite su un camion. Scherzavamo: “Attenta alle uova”, mi diceva a ogni sobbalzo, “attenta che scoppiano”». Rossana girava con un cappotto arancione di panno Casentino e presto i tedeschi si misero a cercare «la ragazza con il cappotto rosso», ormai vista in troppi luoghi e con troppi spasimanti.
Quando Roma venne finalmente liberata, insieme agli americani arrivarono anche gli inglesi. «Avevo 19 anni, cominciavo a guardarmi intorno per cercare un lavoro e per chi aveva aiutato la Resistenza era abbastanza facile trovarlo. Ma un amico che abitava nella stessa casa mi convinse che non era finita, la guerra continuava e c’era altro da fare. Era misterioso, parlava per enigmi e un giorno mi procurò un appuntamento in una villa sopra piazza Euclide. Era piena di ufficiali inglesi. Uno mi ricevette nel suo ufficio e mi disse due cose. La prima era che sarei potuta essere mandata ovunque senza sapere né dove né perché; la seconda che, poiché ero minorenne, avrei dovuto prima ottenere l’autorizzazione dei genitori».
Il padre di Rossana, l’ing. Antonio Banti, era un liberale antifascista dalla mente molto aperta e se la figlia voleva continuare la lotta contro i nazisti era libera di farlo. Come minimo, sarebbe stata un’esperienza formativa. Gli inglesi la portarono in segreto verso Sud. «Non capivo dove andavamo e solo all’arrivo intuii che doveva essere un posto tra Bari e Brindisi. C’erano baracche dovunque, una per le donne. Ero l’unica italiana tra centinaia di ragazze britanniche».
Rossana era finita tra le «FANY» della No 1 Special Force, il «First Aid Nursing Yeomanry» delle forze speciali, antenate del servizio segreto MI6. Grazie all’ottimo inglese imparato dalla bambinaia di casa Banti, Rossana era un elemento prezioso per tenere i contatti con la Resistenza italiana. Toccava a lei tradurre, trasmettere, annunciare dove sarebbero stati lanciati cibo, vestiti, munizioni, armi. «Ma la cosa più carica di emozione che feci in quella base - racconta - è stata l’assistenza ai volontari che sarebbero stati lanciati con il paracadute dietro le linee nemiche. Avevano tra i 17 e i 40 anni: andavano a fare operazioni di intelligence o a rinforzare i gruppi partigiani. Fino a poche ore prima della partenza non sapevano dove sarebbero stati portati. Era commovente, straziante: per loro ero una sorella, una madre, una fidanzata. Mi hanno trattato tutti con grande rispetto, nessuno ha mai alzato una mano. Molti piangevano, mi abbracciavano, e io controllavo l’equipaggiamento, dicevo: è tutto a posto, hai preso tutto, hai fatto la pipì? Come una mamma». Nella base, Rossana conobbe anche il suo futuro marito, Giuliano Mattioli, figlio di Raffaele, il grande economista e banchiere. Giuliano liberò Firenze e Bergamo con i partigiani. In divisa inglese era chiamato Julian Matthew.
E’ stato qualche mese fa a Palermo, a casa della figlia, che Rossana Banti ha raccontato per la prima volta nel dettaglio queste cose a una coppia di nuovi amici inglesi. Lui, un ex brigadiere generale dell’esercito, una volta tornato a Londra ha cercato nei registri militari se c’erano tracce di questa incredibile donna. E come se ce n’erano: tre medaglie ancora da consegnare, assegnate dal governo di Sua Maestà per lo straordinario comportamento di una ragazza di 19 anni, che li aveva aiutati con entusiasmo e dedizione a liberare l’Italia e l’Europa da Hitler.

 Che ne dice ora di quello per cui tanta gente ha lottato, ha rischiato la vita, è morta? Di questa Italia e di questa Europa? Era quello che s’immaginava? «Quando vedo in Europa che ci sono partiti che ancora si fregiano della svastica, che alzano il braccio nel saluto nazista, mi domando che cosa succede nelle scuole, e perché nessuno insegna più ai bambini i valori per i quali ci siamo battuti. E’ passato tanto tempo, si tende a dimenticare. Spero che questa mia storia sia utile, almeno per qualche giorno, a ricordare un poco».  

sabato 24 gennaio 2015

A processo: denunciò immagini offensive

Si apre il processo alla collega Marina Morpurgo, querelata più di un anno fa per aver denunciato su Facebook un'immagine offensiva per le donne. Riprendiamo l'articolo di Pietro Falco, pubblicato sull'Espresso:
Sulla propria bacheca di Facebook, accessibile solo agli amici, è lecito esprimere liberamente un giudizio motivato di sdegno e riprovazione nei confronti di qualcuno o qualcosa? E' una manifestazione della libertà di opinione tutelata dalla Costituzione, o si rischia di incorrere nel reato di diffamazione a mezzo stampa? E' quanto dovrà stabilire un giudice monocratico di Foggia, nel processo che vede imputata la giornalista Marina Morpurgo, per anni inviata de L'Unità e poi caporedattore del settimanale Diario.
Qualche giorno fa il pm della procura foggiana, Anna Landi, ha emesso ai suoi danni un decreto di citazione diretta a giudizio: vale a dire, un provvedimento previsto dall'ordinamento per i reati punibili con una reclusione non superiore ai quattro anni, che non necessita del vaglio di un giudice per le indagini preliminari. L'accusa è appunto quella di "diffamazione a mezzo stampa" per aver "offeso l'onore" della Scuola di Formazione Professionale Siri, "denigrandone su un social network la campagna pubblicitaria".
All'origine della vicenda, c'è un manifesto che immortala una bambina bionda, di circa 6 o 7 anni, intenta a passarsi un rossetto sulle labbra con espressione ammiccante. Sopra la foto, una dichiarazione perentoria a caratteri cubitali: "FARO' L'ESTETISTA, HO SEMPRE AVUTO LE IDEE CHIARE".
Quando se lo ritrova davanti, Morpurgo si indigna: "Trovavo quell'immagine del tutto inappropriata e addirittura inquietante, per l'utilizzo a scopi pubblicitari di una bimba ritratta in quel modo, e per la maniera in cui veniva ancora considerata la donna, a dispetto di tutte le battaglie di emancipazione degli ultimi decenni". E così decide pubblicare il manifesto sulla propria bacheca di Facebook, chiosandolo con una serie di commenti.
Le considerazioni riportate nell'atto d'accusa della procura e riferite a momenti diversi sono queste: "Anche io ho sempre avuto le idee chiare: chi concepisce un manifesto simile andrebbe impeciato ed impiumato (citazione tratta dai vecchi fumetti di Paperino, ndr)... I vostri manifesti e i vostri banner sono semplicemente raggelanti... Complimenti per la rappresentazione della donna che offrite... Negli anni Cinquanta vi hanno ibernato e poi risvegliati?".
A quel punto, passano diverse settimane prima che la titolare della scuola, Maria Laura Sica, decida di sporgere querela. E il pm Anna Landi ritiene di ravvisarvi indizi sufficienti per aprire un fascicolo ed iscrivere la giornalista nel registro degli indagati. Il resto è storia di oggi.
A nulla è valsa la memoria difensiva presentata dall'avvocato Carmela Caputo, che poneva obiezioni sia di metodo ("Con riferimento a facebook o a social network analoghi, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione non si è ancora pronunciata"), che di merito ("Le espressioni incriminate sono state riportate sulla pagina personale della Morpurgo, frequentata esclusivamente da suoi amici. Le comunicazioni lì pubblicate non sono visibili a tutti, ma solo al gruppo di amici del titolare della bacheca. Difetterebbe, quindi, il requisito strutturale richiesto dal comma 3 dell'articolo 595 del codice penale").
Ma soprattutto, ad essere interpellato era un principio fondamentale, come quello sancito dall'articolo 21 della Costituzione: la facoltà di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
"E' inaccettabile - argomenta nella nota l'avvocato Caputo - che una stimatissima professionista venga indagata non per aver detto il falso, o denigrato persone o enti, bensì semplicemente per aver espresso un'opinione che può piacere o non piacere, ma che deve comunque ritenersi più che legittima e manifestata nei limiti della legalità. E' inaccettabile che la signora Morpurgo si ritrovi nel registro degli indagati per aver esercitato il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, utilizzando l'ironia e il sarcasmo per polemizzare su un manifesto discutibile, che appare fortemente lesivo dell'infanzia".

La palla ora passa al giudice monocratico. La prima udienza è fissata per il prossimo 15 maggio.

venerdì 23 gennaio 2015

Ci voleva Janet Yellen perché l'economia mondiale si ponesse finalmente il problema della giustizia sociale

Si, ci voleva lei: una donna a capo della Federal Reserve. Ecco, questo è il dashboard di quella che da esattamente 1 anno è presidente della potentissima Banca Centrale degli Stati Uniti, e come tale la voce economica più potente del mondo.
Janet Yellen è la prima presidente donna nella storia della Federal Reserve.
Una donna che, ricordiamo, era in lizza per quella posizione con Larry Summers.
Si, quello che ebbe a dichiarare che le donne, a causa della loro conformazione del cervello, non sono in grado di dominare le materie scientifiche (e dunque l’economia).
Che smacco, povero Summers! Proprio lui, scalzato dalla prima donna al mondo in grado di spezzare uno fra i più duri soffitti di cristallo al mondo..
E - possiamo dirlo - con risultati a dir poco interessanti, a un solo anno di distanza.
Una donna, ricordiamo, che fu anche fortemente osteggiata nella sua candidatura: tanto che gruppi conservatori arrivarono perfino a promuovere una petizione per metterla fuori gioco.
Tentativi prontamente bilanciati da molte contro-petizioni, fra cui una lettera in suo favore scritta per iniziativa dell'Iwpr (Institute for Women's Policy Research), e firmata da ben 400 economisti. E così, alla faccia di conservatori e maschilisti, la Yellen è lì.
E da quando sta su quella poltrona spinge i mercati finanziari a rivedere tutti gli assunti che, dominando il pensiero economico negli ultimi 40 anni, ci hanno portato dove siamo ora: e cioè non proprio a vette luminose. E tra i cambiamenti più notevoli c'è lo smettere di temere, anzi addirittura accogliere positivamente, l'ipotesi di una vera crescita dei salari reali (cioè la loro crescita al di sopra e al di là del tasso di inflazione).
Sembrerebbe logico che sia così! ma in effetti è proprio il contrario, perché la crescita dei salari reali è stata per decenni uno spauracchio, qualcosa visto solo come un grosso problema: come segnale di allarme di inflazione e motivo per alzare i tassi). Per approfondire quanto sopra, rimandiamo a questa chiara spiegazione.
A dire il vero, il linguaggio economico non è mai molto chiaro. Anche se proprio l'economia dovrebbe misurare le condizioni di vita delle persone, i trader statunitensi e gli economisti di Wall Street (quelli che pendono da dati quali tassi di crescita del PIL, aggiornamenti sugli ordini di beni strumentali, prestiti commerciali e industriali, tassi di utilizzo della capacità produttiva ecc) non dicono mai nulla di concreto su come se la stiano passando le famiglie (in questo caso americane). Anche dal rapporto mensile sui posti di lavoro non si trae una visione chiara: infatti un tasso di disoccupazione in calo può significare più assunzioni (bene) o più persone buttate fuori dal mercato del lavoro (male); ma, se peggiorano le condizioni di lavoro e di salario, la crescita di assunzioni non sempre significa che le persone stiano meglio.
Nell'ultimo anno, però, qualcosa è cambiato riguardo agli indicatori tenuti d’occhio a Wall Street: prende piede un nuovo indice, semplice e chiaro, sulla salute delle famiglie americane: quello del salario.
Citando da Quartz:
La nostra attenzione va su altri indicatori principali della crescita dei salari (analisti economici Morgan Stanley, 8 agosto);
il fattore chiave da mettere a fuoco è il salario... (analisti azionari Credit Suisse, 13 agosto 2014);
il salario reale medio del lavoratore dipendente non sta andando da nessuna parte (analisti dei titoli a reddito fisso, Credit Suisse, 14 agosto);
Gli attori del mercato stanno esaminando una serie di indicatori salariali per valutare le prospettive di crescita dei salari... (Analisti economici RBS, 15 agosto).
Non se ne parla ancora abbastanza, e comunque questa nuova attenzione di Wall Street per il destino finanziario dei lavoratori si deve a lei, la Yellen. Sempre Quarz, nel pezzo già citato, scriveva che la FED di Janet Yellen è più rivoluzionaria di quanto sia mai stata quella di Ben Bernanke: spiegando come la nuova presidente abbia non solo focalizzato la propria attenzione sull'occupazione, ma anche riportato nel dibattito economico concetti che erano stati azzerati, come appunto l’aumento dei salari e la curva di Phillips. Del resto Janet Yellen punta il dito (finalmente e come altri non hanno mai fatto) sul legame tra politica monetaria e disuguaglianza:
E, dichiarando tutta la sua preoccupazione per l’aumento delle diseguaglianze economiche, smonta l’idea che la politica monetaria possa essere neutra, sostenendo anzi che essa ha sempre effetti distributivi: ha dunque azione diretta sull’aumentare o ridurre le disuguaglianze.
E, come osserva eunews, è un segnale importante, e storico, che la Federal Reserve si ponga il problema di come intervenire in prima persona per mitigare l’ingiustizia sociale. Qualcosa che dovrebbe ispirarci a fare pressioni anche sulle banche europee.

Dopo un solo anno di mandato, il lavoro della Yellen vede risultati positivi sia dal punto di vista del Pil sia da quello dell'occupazione, visto che il numero dei senza lavoro è sceso ai minimi storici; e anche il dollaro si è rafforzato. Ora secondo alcuni lei sarebbe pronta ad alzare i tassi, pensando di rinvigorire l'economia americana sul medio periodo (trascurando momentaneamente le ripercussioni negative che il provvedimento avrà sul mercato). Lei ha sempre detto chiaro di non apprezzare la grande volatilità delle Borse che veniva originata proprio dai provvedimenti Fed: la sua attenzione si sposta dunque a far si che l'economia riprenda a camminare con le proprie gambe.

giovedì 22 gennaio 2015

2015: che cosa vogliono le donne

Di tanto si è parlato nel 2014. Dalla violenza alle libertà, dalle opportunità alle capacità (pari), dai ruoli alle leadership. Di molto si è detto. E fatto. I temi delle donne sono stati spesso confrontati e condivisi sui social. Ora abbiamo chiesto a donne, femministe e no, che cosa sperano di realizzare (o avvenga) nel 2015.
Una società a due Cristina Comencini, regista
Sarebbe giusto augurarsi per il 2015 un mondo in cui le donne possano vivere e pensare liberamente, scegliere di lavorare e fare figli, salire ai vertici della società, vivere i loro sentimenti e manifestare le loro paure. Eppure vorrei rovesciare l’augurio agli uomini e al mondo, di godere della diversità delle donne, di sentire e capire quanto la società a due, pari e diversi, sia interessante e nuova: la vera, forse unica, novità della nostra epoca.
Libere di seguire il «proprio» sogno Sara Gandolfi, giornalista La27ora
Vorrei: 1. Che le ragazze di tutte le età smettessero di seguire modelli e cominciassero a seguire il proprio sogno. La domanda non è «cosa vuole quello o quell’altro?» ma «cosa voglio io?». Questo vale per noi occidentali, e dobbiamo aiutare chi in altri parti del mondo ha meno o nessuna possibilità di scelta. 2. Che la società smettesse di chiedere alle donne, siano esse madri, mogli, amanti, figlie, colleghe, dipendenti o qualsiasi altra cosa, di dimostrare ciò che valgono e di ricominciare da capo in ogni fase della propria vita (fasi che in una donna, in media, sono molte più che in un uomo).
Mettiamocela tutta Elisa Finocchiaro, responsabile per Italia Change.org
Auguro alle donne di trovare il coraggio e la forza di mettercela tutta per realizzare quel che davvero desiderano nel profondo, nella consapevolezza che dalla realizzazione di ciò dipende lo star bene di tutti. Auguro anche di riuscire a svolgere la propria occupazione – qualsiasi essa sia, qualunque sia la maniera in cui si impiega il tempo – con amore e passione.
Attenzione e cura, qualità non solo nostre  Maria Grazia Calandrone, poetessa, drammaturga, 
Per l’anno che si è appena aperto vorrei ci destinassimo l’un l’altro due intenzioni come due comandamenti laici: «attenzione» e «cura». Qualità, queste, retoricamente intese come femminili, che sono invece nel corredo genetico di entrambi i generi.
Vorrei che praticassimo la rivoluzione della gentilezza.
Non parlo – assolutamente, affatto, per niente e proprio mai – della gentilezza formale, ma della gentilezza che inevitabilmente nasce dalla identificazione con l’altro, dal riconoscimento dell’altro come un altro sé.
Accorgersi dell’esistenza degli altri è un compito arduo, agitati come siamo dal terrore di perdere l’accessorio biografico che chiamiamo “io”. Ecco, impariamo a perderci. È il solo modo per trovarci. Io ho fiducia.
Merito e senso critico  Alessia Rastelli, giornalista La27ora
Nel 2015 vorrei che fossero incoraggiati il merito e il senso critico. Più borse di studio che garantiscano il diritto alla formazione e all’emancipazione, indipendentemente da estrazione sociale, razza, sesso, provenienza geografica e qualunque altro tipo di discriminazione. Più trasparenza, poi, nei processi di ingresso nel lavoro. Oltre al merito, nutriremmo un pensiero più forte e libero, che potrebbe contagiare (positivamente) gli altri ambiti della vita privata e pubblica
Una sessualità più libera Slavina Perez, pornoattivista
Per il 2015 mi auguro che le donne siano un po’ piú libere dall’ossessione dell’amore romantico – quello melodrammatico, esclusivo e fondato sulla privatizzazione dei sentimenti – e riescano a vivere con maggiore pienezza (e impegno e soddisfazione) tutte le forme di relazione che costituiscono il tessuto vivo della nostra società. L’amore inteso come ricerca ossessiva di un compagno o una compagna«per la vita» tende infatti a depotenziare e banalizzare tutti i rapporti e i vincoli sessoaffettivi che pure costituiscono la nostra realtà di tutti i giorni, che ora più che mai ha bisogno di reti di supporto (anche economiche, visto che viviamo in tempo di crisi). Rispetto al femminismo spero che torni ad essere non solo una medaglietta da appuntarsi sul petto ma uno strumento vivo di analisi e crescita collettiva, anche perché in questo mondo malato la sorellanza è uno dei valori da riscoprire. E, last but not least, a tutti e tutte auguro che non ci manchi mai un orgasmo nel momento del bisogno (anche se diffondere informazioni e stimoli per una sessualità più libera e consapevole per quanto mi riguarda è – più che un augurio – una battaglia quotidiana allegra e instancabile)
No stereotipi Marta Serafini, giornalista La27ora
Stop al sessismo e agli stereotipi di genere usati come categoria per giudicare le scelte delle donne
Una presidente al Quirinale Giovanna Pezzuoli, giornalista La27ora
Nel 2015 vorrei che si trovassero obiettivi comuni – per esempio una candidatura femminile al Quirinale – per esprimere un movimento più visibile e compatto, superando le divisioni giovani/vecchie, emancipazioniste/queer/teoriche della differenza. E vorrei che si facessero tanti film come Viviane e Due giorni, una notte che mettono in luce il desiderio di libertà e la forza delle donne nonostante tutto.
Femminista anche quando scomodo Violetta Bellocchio, scrittrice
Donna! Il tuo futuro è bellissimo? Spero di sì. Quindi per il 2015 ti auguro due cose piccole, fattibili, alla portata di chiunque: uno, smetti di definirti «femminista» solo quando il femminismo torna comodo a te, alla tua visione del mondo e alle persone che ti stanno simpatiche; due, eliminare la transfobia in un anno è impossibile, ma informarti sulla realtà e sui diritti delle persone transgender è un primo passo necessario.
Mai più: «troia» Assunta Sarlo, fondatrice del movimento Usciamo dal silenzio
Cose piccole ( per quelle grandi non troppa fiducia) : che i ragazzi ( e gli uomini e le donne) non dicessero più troia per significare stronza per esempio. Meno sessismo ( nel linguaggio e nei comportamenti ) più gioia nello scoperta reciproca. E un po’ più di eguaglianza nelle opportunità.
Mettiamo in luce le «scandalose» verità Giorgia Serughetti, ricercatrice in studi di genere
Il 2014 è stato definito un anno grandioso per il femminismo. Uno “spartiacque”, l’ha chiamato Rebecca Solnit sul Guardian, perché ha visto ovunque insorgere le donne contro la violenza pandemica che le colpisce, e levarsi voci da ogni angolo del pianeta «con una potenza senza precedenti». Ora si apre, come in ogni ciclo, il rischio di backlash antifemministi. Nel 2015,l’anno di Pechino +20, tutte le donne del mondo dovranno sapere farvi fronte e, per dirla con Simone de Beauvoir, «comunicare, parlare, mettere in piena luce le scandalose verità che metà dell’umanità si sforza di dissimulare».
Incentivi fiscali Laura Donnini, amministratrice delegata Rcs-Libri
La mia speranza per il 2015 è che venga creato un ingente numero di posti di lavoro per le donne, supportato da meccanismi di incentivazione fiscale per le aziende che assumono e per coloro che vogliono realizzare la propria idea imprenditoriale.
Vorrei anche che venissero liberate Vanessa e Greta e assieme a loro tutte le donne che sono state ridotte in schiavitú nei Paesi guidate da estremisti islamici.
Vorrei che venissero accolti in modo civile i profughi che scappano dalle zone di guerra, garantendo i diritti civili e dignitá attraverso un’azione politica da parte dell’Europa che sia degna di questo nome. Vorrei potermi non vergognare di un Paese che si volta dall’altra parte.
Né vittime né carneficiAnna Paola Concia, attivista per i diritti LGBT
Dal 2015 vorrei queste tre cose, praticamente una rivoluzione che farebbe bene a tutti:
1) Che le donne si rappresentassero e fossero rappresentate come sono, né vittime né carnefici, persone complesse, meravigliose e capaci anche di cose orribili.
2) Sempre più donne politiche libere e autorevoli, capaci di guidare con saggezza, audacia e compassione i nostri paesi.
3) Mi sono trasferita in Germania e abito a Francoforte con mia moglie Ricarda. Vorrei che tutte le lesbiche del mondo vivessero come viviamo qui, con normalità, fra gli altri, dimenticandoci di essere una minoranza perché non ci sono discriminazioni a ricordarcelo continuamente.
Tutele anche per chi lavora nell’arte  Antonella Lattanzi, scrittrice
Per il 2015, ma in genere per la mia vita, vorrei poter fare con serenità il lavoro che mi piace, e per cui mi impegno da sempre con passione. Vorrei poter vivere senza pensare costantemente in scala ridotta a causa di ciò che la crisi ci toglie. Vorrei che essere lavoratori dell’arte e della cultura potesse sposarsi con parole come tutela, previdenza, continuità. Vorrei che a tutti, chiunque siano e qualunque lavoro svolgano, venisse richiesto l’impegno, la devozione, la cura, per se stesso e gli altri, sotto ogni aspetto.
Coraggio e autopromozione Elisabetta Gualmini,docente, presidente dell’Istituto Cattaneo e autrice de Le mamme ce la fanno (Mondadori)
Vorrei che cambiasse tutto nel 2015, perché c’è bisogno di una rottura permanente e dirompente. Su tutti i piani. Le istituzioni pubbliche devono muoversi, camminare più velocemente, restringersi nei costi e nelle dimensioni e rispondere in fretta e meglio ai cittadini. Le imprese private non devono arrendersi, ma continuare a prendersi dei rischi e a non avere paura. Le donne infine devono essere più determinate; vorrei vedere coraggio e auto-promozione da parte di donne talentuose e un po’ aggressive che finalmente occupano più posti di responsabilità.
Condivisione, pure economica Alessandra Ghimenti, videomaker, femminista e blogger
Mi piacerebbe che il 2015 fosse l’anno dell’autenticità. Della condivisione. Della curiosità. Che non si sentisse il bisogno di eroi, di crociate, di mostri, ma si ponesse più attenzione ai dettagli, alle storie, ai contesti. Che si diffondessero ulteriormente le forme economiche di condivisione, basate sulla divisione dei costi e sulla conoscenza dell’altro/a (car sharing, couch surfing, ecc). Che si sbandierassero meno iniziative per la donna e più per le donne. Che bloccassero l’aumento di tasse per le partite iva…
Non fermiamoci al «potere» Marina Cosi, vice presidente dell’associazione GiULiA (Giornaliste unite, libere, autonome)
Questo 2015 e questa Italia impoverita e irritabile alle prese con un’angosciante transizione possono essere, per noi “ragazze”, un’ottima occasione di leadership. Le persone e le capacità le abbiamo. E le occasioni pubbliche emblematiche certo le coglieremo, battendoci per conquistare snodi di potere e lanciare segnali, a partire dalla presidenza della Repubblica. Sarebbe però un’omologazione o, peggio, un boomerang se ci fermassimo lì. Dobbiamo – a cominciare dalle nostre relazioni personali e nei movimenti delle donne – testimoniare come si può (deve) essere differenti ma eguali, distinte ma insieme, forti ma generose. Profittiamo della crisi, che è anche crisi d’un modello culturale….
Lasciamoci stupire Lucia Annibali, avvocata
Auguro a chi ha sofferto a causa di una malattia, di una perdita, di un amore infelice, il coraggio di voler ricominciare, la forza di aprire di nuovo il proprio cuore per lasciarsi stupire dalle meravigliose sorprese che la vita ha in serbo per tutti coloro che continuano a credere nel bene e nell’amore, nonostante tutto.
Scienza e tecnologia anche per le ragazze Roberta Cocco, direttore Responsabilità Sociale di Microsoft Italia
Auguro a tutte le donne di vivere finalmente la propria vita senza nessuna discriminazione e nessun limite a causa dei vecchi stereotipi e di continuare a credere nella tecnologia come alleata nel percorso verso una vera parità di genere. E alle ragazze più giovani che ancora devono scegliere la loro strada suggerisco di valutare con attenzione gli studi tecnico scientifici che possono offrire grandi opportunità per il loro futuro.
«No» a chiunque voglia limitarci Luisa Pronzato, giornalista La27ora
Cominciamo da noi. Nulla cambierà sostanzialmente finché le donne non diventeranno consapevoli di se stesse, dei propri talenti e del valore delle proprie diversità. Il resto, leggi, protezioni, tutele prenderanno senso reale se smetteremo di aspettare riconoscimenti. Il vero problema delle donne sono le donne, ammettiamolo. Ecco, mi aspetto un 2015 in cui le donne dicano no: no ai fidanzati pur di fidanzarsi, no a qualsiasi richiesta di essere quello che non si vuole essere. E questo significa anche faticare un po’ per sapere cosa si vuole e cosa no.
Al centro di sogni e prospettive Claudia Molinari game designer e story telling di videogame di We are Muesli
Che questo 2015 si riveli per ciò che può essere: un nuovo Rinascimento, e che tutte possiamo sentirci “Donne Vitruviane” al centro dei nostri sogni, qualità e prospettive.
Facciamoci carico, e fatelo pure voi Daniela Dawan, avvocato penalista e scrittrice
Per il 2015 vorrei che riaffiorasse un bene prezioso, da tempo smarrito nella nostra società: il senso di responsabilità, quella cosa che costringe a pensare, che favorisce i sentimenti autentici, che obbliga ad agire e a non voltare la testa da un’altra parte di fronte alla violenza, alla sopraffazione, all’indifferenza. Le donne, storicamente, hanno sempre avuto la capacità di farsi carico di fardelli materiali e morali. Se questo «farsi carico» fosse patrimonio più diffuso, se ciascuno fosse responsabile per se e per gli altri, ecco forse guadagneremmo qualcosa.
Cambiare il linguaggio  Silvia Neonato, redattrice di Leggendaria
Mi auguro un mondo in cui una donna segretaria di un grande sindacato non ha bisogno di farsi chiamare segretario per risultare autorevole a sé e agli altri. Né una ministra desideri il rassicurante titolo di ministro per sentirsi davvero capace e rispettata. Una società in cui i maschi giovani non vivano come una temibile offesa sentirsi dire: «non fare la femminuccia» e in cui la principessa si salva dal drago combattendo fianco a fianco col principe. Cambiare linguaggio è una delle poche rivoluzioni che non costa nulla. Economicamente, si intende. Perché in realtà costa un bel conflitto tra maschi e femmine, tra chi detiene il potere e chi vorrebbe suddividerlo in parti e modi diversi. Le parole sono i sintomi dei nostri pensieri e della nostra cultura (sessista e classista e omofoba), non sono solo forme ma anche profondi contenuti. Se no infermiera e ingMarina Cosi, vice presidente dell’associazione GiULiA (Giornaliste unite, libere, autonome)egnera ci farebbero lo stesso effetto sonoro. E le offese più diffuse tra gli adolescenti europei non sarebbero tuttora puttana e finocchio.
L’indipendenza nelle nostre mani Raffaella Rumiati, scienziata
I propositi per il nuovo anno dovrebbero riguardare soprattutto il lavoro. Penso che sia fondamentale per le donne avere la possibilità di affermarsi professionalmente. Con questa indipendenza nelle proprie mani è possibile poi ottenere anche il resto. Spero che EXPO 2015 rappresenti un’occasione per molte donne che a vario titolo si occupano di temi legati al cibo e all’alimentazione.
Non essere scelte per l’obbedienza Bia Sarasini, direttrice di Letterate Magazine
Quello che desidero è che sempre più le donne pensino all’insieme dei problemi del mondo globalizzato, governato dalle feroci politiche neo-liberiste e patriarcali che portano alla dismisura della ricchezza in mano di pochi e alla sempre maggiore povertà. E le donne sono sempre le più povere. Donne autonome, libere, capaci, che si scelgono e non vengono scelte per la loro obbedienza, ai governi nel mondo per la trasformazione. La sapienza delle donne è fondamentale per la lotta per la giustizia e l’uguaglianza. La cura come lotta di liberazione dell’umano, per tutte e tutti.
Le regole per un Piano antiviolenza  Barbara Spinelli, avvocata Marina Cosi, vice presidente dell’associazione GiULiA (Giornaliste unite, libere, autonomMarina Cosi, vice presidente dell’associazione GiULiA (Giornaliste unite, libere, autonome))
Sui diritti delle donne è tempo di “cambiare verso”. Nel 2011 e nel 2012 le donne di questo Paese hanno mostrato, anche mediante il coinvolgimento delle Nazioni Unite, qual è la strada da seguire per eliminare tutti quegli ostacoli (primi tra tutti i pregiudizi di genere) che oggi nel nostro Paese impediscono alle donne che subiscono violenza di trovare protezione effettiva e alle donne in generale l’accesso ai diritti fondamentali.
Le raccomandazioni rivolte ai nostri Governi nel 2011 dal Comitato CEDAW e dalla Relatrice Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, ed anche la Convenzione di Istanbul, impongono riforme strutturali e l’adozione di politiche nazionali, efficaci e coordMarina Cosi, vice presidente dell’associazione GiULiA (Giornaliste unite, libere, autonome)inate. Quindi il primo passo per un cambiamento effettivo dovrebbe passare attraverso il divieto assoluto di accostare la parola “emergenza” alla parola “femminicidio” . Una roadmap per il 2015 e gli anni a venire orientata all’attuazione degli obblighi internazionali assunti in materia dovrebbe includere:
- la istituzione di un organismo indipendente di monitoraggio e tutela dei diritti umani, che includa una commissione incaricata del monitoraggio e tutela dei diritti delle donne,
- una revisione efficiente del “sistema pari opportunità”, che preveda la Istituzione di un Ministero per le pari opportunità, dotato di portafoglio e di organismi consultivi permanenti con i centri antiviolenza e le associazioni femminili e a tutela dei diritti umani
- la approvazione da parte del Parlamento della legge istitutiva della Commissione bicamerale sul femminicidio
- che Governo, Parlamento e società civile, in tali sedi, possano creare una roadmap efficace di adeguamento dell’ordinamento nazionale agli obblighi internazionali in materia, mediante la predisposizione di pacchetti di riforme e di un idoneo Piano Nazionale Antiviolenza, corredato da un sistema di finanziamento permanente delle azioni di lungo termine (prevenzione e protezione) e da 
meccanismi di monitoraggio dell’efficacia delle azioni intraprese.


martedì 20 gennaio 2015

Bambine e leader Laura Cima


“Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti è stato ripreso pochi anni fa da Loredana Lipperini, ex-candidata Tsipras nel mio collegio, con il suo libro “Ancora dalla parte delle bambine”. Quasi quarant’anni di un femminismo più attento a far emergere la differenza donna/uomo, e a valorizzare quella delle donne, che a rivendicare diritti politici.
Un modo molto diretto di stare dalla parte delle bambine mettendosi in discussione come madri e tagliando la complicità con i padri e il loro potere. La più grande rivoluzione del Novecento, e senza spargimento di sangue. Un contributo del femminismo alla possibile convivenza pacifica in Europa e in Occidente, dopo l’orrore e i genocidi delle due guerre mondiali e di nazifascismo e stalinismo. Con un pensiero centrato sulle relazioni in un occidente ricco ed in espansione, liberato dai sensi di colpa del precedente colonialismo. Nel nostro paese negli anni ottanta, sotto tiro terrorista e della strategia della tensione, questo processo fu rallentato: la caduta del muro di Berlino nel 1989 aprì l’ultimo decennio del secolo alle speranze di un’Europa aperta, dove le poche donne politiche potevano finalmente misurarsi a disegnare un altro mondo possibile insieme agli uomini e in favore delle nuove generazioni che nel nuovo millennio avrebbero sperimentato pari opportunità. Quasi un decennio di fondi europei furono indirizzati a questo scopo e, nel 2007, si celebrò l’anno delle pari opportunità per tutti, coprendo l’insuccesso dell’Europa politica, uccisa sul nascere dai no referendari di Francia e Paesi bassi.
Dalla parte delle bambine per preparare loro un mondo migliore, ricordando solo saltuariamente quelle che erano le oppressioni e le violenze (dalle mutilazioni genitali, le lapidazioni, gli stupri di guerra e non, il mercato del sesso e il turismo sessuale, i matrimoni forzati delle bambine) dall’altra parte del mondo.
Intanto leader maschi in occidente ci preparavano la globalizzazione e le guerre del petrolio e, nel 2001, all’inizio del nuovo millennio Bill Laden, famiglia di miliardari amici USA, nato in Arabia Saudita, metteva a segno il più spettacolare atto terroristico alle torri gemelle e al Pentagono. L’ultimo decennio i leader ci regalarono crisi e miseria crescente, anche culturale e politica, guerre in nome della primavera araba e resuscitate guerre fredde, e in ultim, il califfato IS (che ormai possiede e vende petrolio), quello della Libia e Boko Haram. E ingiustizie sociali intollerabili, cambiamenti climatici disastrosi, inquinamento generalizzato, violenze che cancellano le più elementari norme di convivenza, barbarie e paura del futuro.
Ho voluto ricordare la storia misurata sulla mia vita, anziché addentrarmi in analisi più o meno articolate come quelle che stanno provenendo anche da settori del mondo femminista.
Perché di fronte alle bambine immolate come bombe umane, stuprate e mutilate, come di fronte ai femminicidi a cui assistono o di cui sono vittime in tutto il mondo, io sono ormai senza parole. Questo è il mondo che avanza, amiche mie, nonostante noi.
Posso solo insistere: prendiamoci più potere possibile e smettiamo di rappezzare con la nostra cura un mondo in cui gli uomini continuano a regalarci queste civiltà. Elisabetta Addis mi lascia allibita, insieme a Merkel e le due o tre donne che aprono il corteo di Parigi nel triangolo dei potenti, quando si allineano agli uomini nel rivendicare la supremazia della civiltà occidentale. Finché saremo sottomesse e violentate fin da piccole, in una qualsiasi parte di questo mondo globalizzato, di quale civiltà stiamo parlando?
Non mi stancherò mai di contrastare il potere maschile e di prefigurarne uno che ci riagganci alle società matriarcali. A Torino, con Soraya Post rifletteremo in marzo sulla rappresentanza femminista e con alcune relatrici della Secular Conference http://www.secularconference.com di Londra dell’ottobre scorso sulla laicità. Fondamentalismi, relativismo culturale, razzismi, neoliberismi sono espressione dell’incultura e del potere maschile che sta perdendo ogni aspirazione di dignità e libertà e sta precipitando nella barbarie.
Aiutare noi stesse a dirigere i processi vuol dire aiutare le nuove generazioni di donne e le bambine di tutto il mondo, in qualsiasi luogo del mondo si viva. E impedire che bambini siano costretti ad uccidere, che uomini adulti continuino a farlo con Kalashnikov o con coltelli, acidi,veleni, droni e missili. Non ci sono armi più civili di altre nè tantomeno morti che valgono di più. Gli eroi erano maschili come tutti i carnefici. Noi diciamo basta e sostituiamoci a loro. Ne va della sopravvivenza stessa del pianeta: 15 anni e poi i processi irreversibili innestati dall’homo faber nel suo percorso di conquista della natura e delle donne, faranno molti più morti dei kamikaze assassini.

lunedì 19 gennaio 2015

La mamma, Dio e la nonviolenza di Monica Lanfranco

Avevamo bisogno, dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da difendere?
No, purtroppo. Pur sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso, e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.
Usando l’ottimo stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive nonviolente e antisessiste.
Proprio lui che, pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di difendere la loro fede. Si profila dunque l’annuncio di una simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di qualcosa di più sostanzioso?
Qui e ora, in attesa di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.
I pugni non sono simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha conseguenze.
Nelle scuole in cui vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come ‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio, che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre, della mia ragazza?
Clima da rissa, da stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.
Le mani o si alzano o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita. Dietro e prima del pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella? Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine). Sono atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di aggressione. Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde. O s’insegna in famiglia, scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.
Guerra tra le persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi: dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.

I pugni, Francesco e tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.

domenica 18 gennaio 2015

Non occorre titolo (Wislawa Szymborska)

Si è arrivati a questo: siedo sotto un albero,
sulla sponda d’un fiume
in un mattino assolato.
E’ un evento futile
e non passerà alla storia.
Non si tratta di battaglie e patti
di cui si studiano le cause,
né di tirannicidi pieni di memoria.
Tuttavia siedo su questa sponda, è un fatto.
E se sono qui,
da una qualche parte devo pur essere venuta,
e in precedenza
devo essere stata in molti altri posti,
proprio come i conquistatori di terre lontane
prima di salire a bordo.
Anche l’attimo fuggente ha un ricco passato,
il suo venerdì prima di sabato,
il suo maggio prima di giugno.
Ha i suoi orizzonti non meno reali
di quelli nel cannocchiale dei capitani.
Quest’albero è un pioppo radicato da anni.
Il fiume è la Raba, che scorre non da ieri.
Il sentiero è tracciato fra i cespugli
non dall’altro ieri.
Il vento per soffiare via le nuvole
ha dovuto prima spingerle qui.
E anche se nulla di rilevante accade intorno,
non per questo il mondo è più povero di particolari,
peggio fondato meno definito
di quando lo invadevano i popoli migranti.
Il silenzio non accompagna solo i complotti,
né il corteo delle cause solo le incoronazioni.
Possono essere tondi gli anniversari delle insurrezioni,
ma anche i sassolini in parata sulla sponda.
Intricato e fitto è il ricamo delle circostanze.
Il punto della formica nell’erba.
L’erba cucita alla terra.
Il disegno dell’onda in cui s’infila un fuscello.
Si dà il caso che io sia qui e guardi.
Sopra di me una farfalla bianca sbatte nell’aria
ali che sono soltanto sue
e sulle mani mi vola un’ombra,
non un‘altra, non d’un altro, ma solo sua.
A tale vista mi abbandona sempre la certezza
che ciò che è importante
sia più importante di ciò che non lo è