mercoledì 28 aprile 2021

DONNE INVISIBILI NELLA VITA QUOTIDIANA

Perché la fila alla toilette delle donne è sempre maggiore rispetto a quella degli uomini? Perché in caso di neve si tende a dare la priorità alla pulizia delle strade rispetto a quella dei marciapiedi, in cui è più facile scivolare e farsi male?

Caroline Criado Perez nel libro “Invisible Women” ci fa riflettere sull’assenza della prospettiva femminile nella pianificazione urbana e nell’erogazione di servizi pubblici.

Rispetto alle toilette, notiamo che quelle femminili hanno solo le cabine mentre quelle maschili hanno anche gli orinatoi. Inoltre le donne spesso vanno alla toilette con un bambino o con un anziano e potrebbero avere l’esigenza di cambiare un assorbente. “Alla luce di tante differenze anatomiche, l’idea che un’identica metratura dei servizi igienici sia il modo corretto per affrontare la questione è un chiaro sintomo di un egualitarismo che privilegia la forma a scapito della sostanza”.

Da un’inchiesta del 2016 è emerso che le donne indiane che vanno nei campi a espletare le proprie necessità corporali hanno alte probabilità di subire violenza sessuale. Ma le autorità non fanno nulla per evitarlo.

In tutto il mondo le donne tendono a usare i mezzi pubblici e a muoversi a piedi molto più degli uomini; inoltre è più facile che debbano spingere un passeggino sul marciapiede. Ma il 73% dei finanziamenti erogati dalla Banca mondiale nel settore dei trasporti è destinato alla costruzione di strade e autostrade, perché “si continua a credere che la mobilità connessa al lavoro retribuito sia prioritaria rispetto alla mobilità di chi compie a titolo gratuito un lavoro di cura”.

Da un’indagine del 2016 è emerso che il 90% delle donne francesi ha subito molestie sessuali sui mezzi pubblici; un altro studio ha appurato che sulla metropolitana di Washington una donna rischia 3 volte più di un uomo di subire molestie. Ma le aziende di trasporti non fanno nulla per aumentare la sicurezza e la libertà di movimento delle donne.

“Se davvero vogliamo che gli spazi pubblici siano di tutti dobbiamo cominciare a tener conto dell’altra metà del mondo”, scrive Caroline Criado Perez.

A cura di Ilaria Moroni

Citazioni e dati tratti dal libro: Caroline Criado Perez, “Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano”, Einaudi, 2020

N.B. Nel 2001 un comune svedese ha deciso di pulire la neve prima dai marciapiedi e poi dalle strade ed è emerso un grande risparmio in termini sanitari perché chi va a piedi (70% donne) rischia di farsi male 3 volte più spesso degli automobilisti, scivolando sul ghiaccio. I piani neve che danno la priorità ai pedoni prevengono molti infortuni, che costano il doppio dei servizi di viabilità invernale, dove nevica spesso.

#invisibili #genderdatagap #servizipubblici #insiemeperledonne

lunedì 26 aprile 2021

ringraziamenti

 Ringraziamo le donne e gli uomini del Cinema Cristallo, nelle persone Salvatore Indino Presidente del Cinema Teatro, Fabio Bressan esperto di cinema e  Laura Rizzi responsabile della comunicazione, per la sensibilità verso i temi che riguardano il “vasto e complesso mondo delle donne” dimostrata con l'attivazione del “Cineforum Donna”, mantenuto attraverso i canali social e nonostante le difficoltà incontrate, di particolare valore in questo momento in cui la pandemia ci costringe ad avere relazioni “a distanza”,. 

Ringraziamo anche per mettere con generosità a disposizione delle associazioni  e della collettività strutture e competenze personali di cui dispongono.

Speriamo di poter al più presto ritornare a vedere i film al Cinema e ricominciare a dibattere in presenza nel rispetto delle norme anticovid.


A questo link potete vedere la presentazione e il commento di Fabio Bressan al film "Bandite"

 https://www.facebook.com/cinemateatrocristallo/

oppure

e a questo link il fim

domenica 25 aprile 2021

25 aprile, la storia dell’unica brigata composta da sole donne: “Coscienza di genere e prime lotte per parità salariale”

La più anziana aveva settant’anni e usava il nome di battaglia “Nonnina”. La più giovane ne aveva quindici ed entrambi i suoi genitori erano stati deportati. Sui monti liguri, negli anni dell’occupazione nazifascista, ha combattuto l’unica brigata partigiana composta da sole donne, anche nei gradi di comando. Nell’autunno 1944 prese il nome di “brigata Alice Noli”, in omaggio a una giovane staffetta di Campomorone, nell’entroterra di Genova, seviziata e uccisa dalle milizie nere per aver dato sepoltura ad alcuni tra i 147 partigiani morti nell’eccidio della Benedicta, nell’aprile dello stesso anno.

Alice era una ragazza piena di passioni: amava il canto e la pittura, “e spesso scendeva da Campomorone fino al centro di Genova per ottenere un autografo dai suoi artisti preferiti”, racconta Massimo Bisca, presidente provinciale dell’Anpi. A 16 anni aveva cominciato a lavorare alla Brambilla, una ditta di pelletteria nel quartiere genovese di Pontedecimo. Fece assidua propaganda partigiana, procurò aiuti e rifornimenti e collaborò con i Gruppi di difesa della donna, la più importante organizzazione femminile di sostegno alla Resistenza. Nel gennaio del 1944 era entrata a far parte della 3° brigata “Liguria”. Scoperta e catturata insieme ad altri sei compagni, venne portata in caserma: poiché si rifiutava di fornire informazioni, fu caricata su un camion e infine fucilata.

Nei mesi successivi, la brigata femminile che già operava sui monti di Genova – svolgendo una funzione di raccordo tra gli stabilimenti industriali della Val Polcevera e i nuclei partigiani – adotta il nome di Alice. Con l’inizio della guerra le donne avevano sostituito gli uomini in molti luoghi di lavoro, sviluppando coscienza di genere e iniziando le prime lotte per la parità salariale. L’8 marzo ’45 le donne della ‘Alice Noli’ distribuirono clandestinamente a Genova 20mila volantini e realizzarono oltre 500 scritte sul selciato, per testimoniare il proprio ruolo nella Resistenza.

Dopo la Liberazione, nel grande corteo del 1° maggio in cui sfilarono tutte le formazioni partigiane, qualcuno non vedeva di buon occhio la presenza della brigata femminile. Un dirigente delle Sap – Squadre d’azione patriottica – disse a una partigiana di stare attente a sfilare in pantaloni, perché avrebbero rischiato di sembrare delle poco di buono. “Lei gli rispose in malo modo – racconta Massimo Bisca – e assicurò che avrebbero cucito delle gonne per il corteo, ma lo mise in guardia dal toccare le armi dei fascisti che loro stesse avevano conquistato in battaglia”.

Felicita "Alice" Noli: nata nel 1906, fucilata l'8 agosto 1944, Medaglia di Bronzo al valor militare alla memoria.

A 16 anni si impiegò a Pontedecimo presso la ditta Brambilla e nell'ultimo anno fu direttrice del ramo confezioni di borse. Fece attivissima propaganda per i partigiani, procurando pure aiuti, e divenne attiva collaboratrice dei Gruppi di Difesa della Donna. Dopo l'8 settembre 1943, i tedeschi avevano disarmato soldati italiani e li avevano imprigionati. Alice, a braccia aperte in mezzo alla strada, obbligò un camion di soldati tedeschi a fermarsi. Impassibile, mentre i soldati le puntavano i mitra addosso, si rivolse al capitano e a voce alta esclamò: "Mi prometta che non si farà del male ai nostri soldati". L'ufficiale, che non aveva l'aria di intendere il valore di quell'intervento, rimase interdetto, poi disse: "Si, prometto". In più occasioni Alice mostrò con tenacia e coraggio le sue idee, come quando gridò in faccia ad un tenente fascista, a Pegli, cosa pensava del Duce e del regime; o come quando vide, davanti al ponte della Ferriera, un posto di blocco tenuto dai tedeschi e dalle brigate nere della "Silvio Parodi" e, sentendosi investita da un moto di rivolta, gridò loro in faccia: "Vigliacchi!". Bruscamente la fecero scendere dalla bicicletta, la scortarono nell'ufficio e la misero in stato di accusa. Impavida si difese, dichiarando apertamente la sua simpatia per i partigiani, ed ebbe il coraggio di aggiungere che le violenze che i tedeschi e le camicie nere commettevano erano inutili perchè ormai essi avevano perso la guerra e c'era da vergognarsene ad agire in quella maniera. "Non illudetevi: la guerra finirà presto, potete andarvene". Ciò che poi accadde sta a provare che i repubblichini si legarono al dito quell'offesa. E non soltanto quella, visto che, in un'altra occasione ancora, Alice aveva anche distribuito, davanti ad un comando di polizia, cibo e acqua a un gruppo di partigiani appena rastrellati. Nel gennaio 1944, la Noli entrò a far parte della III° Brigata Liguria svolgendo un'intensissima attività. Il 7 agosto '44 la brigata nera Ponzanelli bussò alla porta di casa di Alice, che fu portata in caserma. La donna si rifiutò di fornire ai tedeschi informazioni su dove fossero nascosti i partigiani e per questo venne picchiata violentemente. Verso l'una di notte fu caricata sul cofano di un camion. Lungo la strada per Isoverde (attuale Via Martiri della Libertà) il camion si fermò, fece scendere Alice ed altri sei arrestati. Dopo aver fucilato gli uomini, qualcuno disse "C'è anche la donna". Spinta al muro, le armi si abbassarono e la finirono. La sorella Rosita seguì l'amara vicenda, al buio, dal poggiolo. Dopo gli spari scese di corsa le scale, ma fu trattenuta dai vicini: uscirà di casa solo all'alba. Non appena riuscì a raggiungerla le abbassò le palpebre e scorse tra le dita un piccolo crocifisso che Alice portava al collo: lo aveva stretto tra i denti fino ad inciderlo. A suo nome fu intestata una brigata femminile delle SAP cittadine, ed a lei personalmente vennero attribuite la croce al merito di guerra ed una medaglia garibaldina. A fine guerra, furono dedicate alla intrepida donna una strada, una scuola materna di Pontedecimo e una scuola media di Campomorone.

https://femminismorivoluzionario.blogspot.com/2019/04/normal-0-14-false-false-false.html

venerdì 23 aprile 2021

Verso il 25 aprile: la Resistenza delle donne, di ieri e di oggi, per continuare a essere libere di Michela Ponzani

Michela Ponzani, storica, autrice e conduttrice televisiva, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di “Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45)”. In questo contributo, scritto per A Parole Nostre, ci spiega perché il coraggio, il sacrificio e la lotta di quelle protagoniste della Seconda guerra siano valori ancor più attuali adesso, soprattutto per le nuove generazioni

Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.

Nella guerra totale che, fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, investe le popolazioni civili, sono soprattutto le donne a resistere e combattere.

Rimaste sole con i mariti al fronte, dispersi o catturati come prigionieri di guerra, le donne diventano protagoniste di una Resistenza senz’armi, fatta di piccoli-grandi gesti di sopravvivenza quotidiana. Oppresse tra fame, solitudine e abbandono, corrono nei rifugi per salvare la vita dei figli, durante i bombardamenti; sopportano il freddo da sfollate, fanno la fila per il pane sperando, ogni giorno, di riuscire a sfamarli. Staffette per il trasporto di armi, cibo e medicinali, o combattenti nelle bande partigiane che operano in montagna e in città, le donne rischiano di essere fermate ai posti di blocco tedeschi, di cadere nella rete delle spie, di finire nelle camere di tortura della polizia fascista, dove lo stupro è liberamente usato per estorcere confessioni.V

Bersagli strategici dei nazisti e dei militi della Repubblica sociale, sono le donne a scontare con maggiore crudeltà una strategia terroristica fatta di stragi e rastrellamenti, di incendi a paesi e villaggi; di fucilazioni e torture sui corpi dei prigionieri politici.

Ma nella disperata lotta per la sopravvivenza, le donne decidono di non essere più vittime. E si ribellano a quella cultura di guerra che usa lo stupro come arma per umiliare il nemico sconfitto, riducendo il corpo femminile a bottino e preda degli eserciti (occupanti o liberatori).

Le memorie taciute delle donne raccontano storie di coraggio e di rivolta. E come ho ricordato in Guerra alle donne (Einaudi), ciò vale soprattutto per gli stupri di massa, compiuti dalle truppe marocchine e algerine nella primavera-estate del 1944 e le violenze subite dalle donne costrette a prostituirsi nei campi bordello, costruiti dall’esercito tedesco dietro la linea Gotica. Veri e propri tabù nella memoria nazionale e nel senso comune dell’Italia del dopoguerra.

La lotta partigiana delle donne è quindi una guerra di liberazione anzitutto contro la criminale violenza nazifascista; ma è anche una scelta di libertà. Una guerra privata, combattuta per l’emancipazione dalle discriminazioni e da ogni forma di subalternità sociale e culturale. Per le donne, la Resistenza è un atto di disobbedienza radicale; uno strappo definitivo con la società patriarcale, la liberazione dall’educazione fascista improntata al rispetto delle gerarchie fuori e dentro le mura domestiche, che le condanna ad essere la “pietra fondamentale della casa, la sposa e la madre esemplare”. Che non permette d’iscriversi alle facoltà scientifiche e considera irrazionale la mente femminile, perché “il genio è maschio”.

Ma perché oggi una ragazza dovrebbe appassionarsi a vicende che hanno più 70 anni?

Al di là di discorsi ingessati o retorico-celebrativi, forse la risposta sta nel fatto che quelle storie – con le emozioni, le paure, i tormenti che segnano la scelta partigiana, dolorosa e carica di responsabilità – continuano a parlare al nostro presente.

Perché se oggi il destino delle donne non è più quello di stare a casa e di lasciare tutto il mondo agli uomini, è grazie alle ragazze che hanno combattuto la dittatura fascista, rinunciando alla spensieratezza della gioventù.

E che nel dopoguerra hanno continuato a battersi, affrontando discriminazioni insopportabili.

“Donna partigiana, donna puttana” si sentì dire Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare, durante un dibattito alla Camera da alcuni deputati della destra postfascista, con tanto di inequivocabili gesti osceni. E Marisa Rodano (che ha da poco festeggiato i 100 anni) ha raccontato che “negli anni ’50 le carceri erano piene di adultere”. Il marito poteva spedire la moglie in galera, se questa aveva una relazione con un altro uomo.

Fortissime erano poi le disparità nella sfera domestica e professionale: le donne non potevano divorziare o interrompere una gravidanza, né diventare giudici o poliziotte perché troppo fragili.

Persino ucciderle non era così grave: la legge, concedeva le attenuanti se un uomo, per ragioni di onore, uccideva la moglie, la sorella o la figlia (il delitto d’onore sarà abrogato solo nel 1981). Altre norme permettevano di picchiare la moglie per correggerne il carattere e giustificavano lo stupro se seguito da un matrimonio riparatore (solo nel 1996 diverrà reato contro la persona e non contro la morale).

 Le ragazze della Resistenza lasciano dunque il testimone alle generazioni future. Non scorderò mai quella studentessa di liceo che trovò il coraggio di parlare delle violenze subite in famiglia, dopo aver letto il diario di una partigiana. Le venne il desiderio di diventare una donna libera (disse proprio così). Grazie al movimento #MeToo, abbiamo squarciato il velo d’ipocrisia sugli abusi e le molestie sessuali (non solo nel mondo dello spettacolo) e abbiamo più coraggio nel denunciare gesti e parole di offesa, urlate o allusive. E possiamo dichiarare, senza il timore di essere considerate pazze o esagerate, di non sopportare più allusioni sessuali non richieste (in ufficio, a un colloquio di lavoro o all’università), o di vederci sminuite nella nostra professione; come quando la dottoressa che ti visita in ospedale viene definita signorina.

Ma l’emergenza Covid-19, che ci ha rintanate in casa, ha visto aumentare i femminicidi. Perché quando si è fragili e abbandonate a una vita di isolamento e degrado, è proprio la famiglia a trasformarsi in un’orrenda prigione. E ci arrivano come macigni le notizie di uomini che odiano e ammazzano le donne: “buoni padri di famiglia” che uccidono per “troppo amore”; uomini “per bene” travolti da un raptus perché “lei voleva lasciarlo”. 

E allora festeggiamo questo 25 aprile con le parole che Marisa Ombra, staffetta nelle brigate Garibaldi ha dedicato a tutte noi. “Siate partigiane, per essere libere sempre”.

*Storica, autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45) (Einaudi, pp. 384, € 14,00)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/04/21/verso-il-25-aprile-la-resistenza-delle-donne-di-ieri-e-di-oggi-per-continuare-a-essere-libere/6170549/?fbclid=IwAR0WiECKn_z4iirra33hWfdPBPXTLmWrLrbyi2DPn_d9YbhQJZViMX1Tias




giovedì 22 aprile 2021

comunicato 25 aprile 2021

 “Bandite” il docufilm delle registe Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini racconta il ruolo delle donne nella lotta di Liberazione dal nazifascismo

Il 25 Aprile alle ore 21 in streaming sulla pagina faceboock del Cinema Cristallo

Per la rassegna “Cineforum Donna” organizzata dal Cinema Cristallo con la partecipazione delle associazioni “Sibilla Aleramo” di Cesano Boscone, “Demetra Donne” di Trezzano sul Naviglio e “ventunesimodonna” di Corsico


“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione nazista, contro la guerra fascista...” così Sandro Pertini il 25 aprile del 1945 proclama lo sciopero generale a Milano. 

“A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 Aprile 1946 è dichiarato festa nazionale...” dal Decreto legislativo  luogotenenziale emanato da re Umberto III su proposta del governo provvisorio guidato da Alcide De Gasperi.

Era il 22 aprile 1946.

Due tappe storiche con le quali il 25 Aprile diventa la giornata simbolo della Liberazione dell'Italia dall'occupazione nazista e della Resistenza, politica e militare, al regime fascista. 

Sappiamo che la presenza delle donne nella storia è stata dimenticata, ignorata o sottovalutata. Le donne sono state considerate soggetti che hanno ruolo solo nel privato o che agiscono di secondo livello attraverso la delega agli uomini. Sappiamo che così non è stato. Da tempo le donne sono diventate “oggetto di storia” e le storiche hanno riscattato la presenza come soggetto attivo della storia del mondo.

In “Bandite” il docufilm delle registe Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini più voci di donne, partigiane e studiose, nella loro diversità raccontano attraverso i ricordi ed i documenti il protagonismo ed il ruolo importante delle donne nella lotta di Liberazione dal nazifascismo.

Bandite, combattenti, guerrigliere, partigiane non solo staffette, cuoche, infermiere.

Hanno fondato i “Gruppi di Difesa delle Donne”, presenza clandestina femminile pluripartitica che agiva per la partecipazione alla lotta contro il regime fascista, per il sostegno della popolazione che soffriva e per l'emancipazione delle donne.

Donne coraggiose capaci di uscire dal ruolo di spose, madri, casalinghe loro assegnato dal fascismo, consapevoli che alle pene inflitte agli uomini (manganellate, olio di ricino, confino, torture, condanne a morte) se ne poteva aggiungere una di esclusiva pertinenza femminili: lo stupro, ancora oggi ampiamente praticato in zone di guerra ed anche in aree di pace...

Le Partigiane sono state donne capaci di liberarsi e liberare le donne dagli stereotipi. Capaci di conquistare i diritti di cittadinanza di cui noi donne italiane del XXI secolo possiamo disporre, a partire dal diritto di voto. Capaci di segnare come Madri Costituenti i principi ed i valori della nostra Costituzione.

Nelle loro voci anche il monito alla necessità di continuare a difendere i diritti che, come oramai sappiamo, non sono conquistati per sempre, ma possono essere sfilati come succede in molte parti del mondo. Ed anche in Italia non mancano esempi di ripetuti tentativi di “restringimenti e revisioni”.

Ringraziamo le donne che come dice una di loro “hanno combattuto con il cuore di donna” e ricordiamo che adesso tocca noi difendere e rinnovare l'eredità che ci hanno lasciato.

Riteniamo doveroso ricordare l'oscuramento causato da un attacco hacker al Memoriale Digitale “Partigiani.it” da poco istituito grazie al lavoro di raccolta di Laura Gnocchi e Gad Lerner delle memorie di partigiane e partigiani. 

Un attentato mediatico che racconta come la cultura fascista circola ancora fra di noi e quanto sia necessario continuare a ricordare l'importanza dei valori fondativi del 25 Aprile nell'Italia Repubblicana.


Comunicato congiunto delle assocoazioni “ventunesimodonna” di Corsico, “Demetra” di Trezzano, “Sibilla Aleramo” di Cesano Boscone.



Che cosa è il victim blaming, quando la vittima diventa colpevole di Chiara Pizzimenti

Il video di Beppe Grillo in difesa del figlio riporta un tema che è presente in molte storie di violenza, la colpevolizzazione della vittima. È una questione giudiziaria, ma anche sociale e culturale

Si chiama victim blaming, è la colpevolizzazione della presunta vittima. «Immaginate, per un solo minuto, di essere lei. Di accendere la tv, i social, qualsiasi sito, qualsiasi tg. E scoprire che tutta Italia, tutta Italia, sta ascoltando il potente padre di uno dei tuoi presunti stupratori, che parla del tuo stupro. Che parla di te. Di te circondata da suo figlio e i suoi amici “col pisello di fuori”. Tu al centro. E decine di milioni di italiani, amici, famigliari, colleghi, tutti, lì ad ascoltare».

L’avvocata Cathy LaTorre prende il punto di vista della presunta vittima per raccontare la vicenda del video di Beppe Grillo che vuole difendere il figlio e i suoi compagni, ma lo fa attaccando la ragazza che era con loro e che ha denunciato lo stupro.

Il victim blaming è la tendenza a biasimare le vittime, considerandole, anche solo parzialmente, responsabili per la violenza subita. Il video postato da Grillo insiste sul fatto che la ragazza non ha denunciato subito la violenza, sul fatto che sono ragazzi che si divertono, che le immagini dimostrano che lei è consenziente.

Sono solo alcune delle posizioni che ritornano in casi di violenza. «Come mai era lì?». «Perché era vestita in quel modo?», «Sembra proprio che se la sia andata a cercare». Sono diverse le «colpe» attribuite alla vittima. È screditata attraverso frasi del genere. L’obiettivo è arrivare a scagionare il responsabile del reato.

Non è solo questione giudiziaria, anche se questa è arma usata in tribunale. Il victim blaming è prima di tutto retaggio culturale. Laura Rivolta, psicoterapeuta e sessuologa di Milano, lo ha spiegato a Vanity Fair: «Un primo potente fattore che confonde e porta a puntare il dito contro la donna sono gli antichi retaggi culturali, di stampo maschilista. Ossia l’idea che certe libertà (per esempio, quella di fare tardi la sera, bere alcolici o vivere la sessualità senza inibizioni), siano normali per un uomo e non per una donna. E quindi, per esempio, di fronte a donne vittime di Revenge Porn, molte persone tendono a pensare che, in fondo, se la donna fosse stata più prudente e si fosse tenuta alla larga da certe situazioni, non sarebbe successo nulla».

Fra le «prove» a difesa del figlio portate da Grillo c’è anche la mancata denuncia immediata. Nel caso del 2019 in cui è coinvolto Ciro Grillo risale a 8 giorni dopo i fatti, ma può andare anche oltre. Ci sono sei mesi di tempo per fare la denuncia. Il perché lo spiega Maria Silvana Patti che fa parte del servizio di psicotraumatologia di Arp, Studio Associato Di Psicologia Clinica, del capoluogo lombardo. «C’è una parte clinica e una sociale. Per la prima quando noi siamo sottoposti all’orrore ci possiamo bloccare e non siamo in grado di capire quello che ci sta succedendo, a maggior ragione se siamo sotto effetto di sostanze. Il blocco è una reazione fisiologica ai traumi. Questo ce lo portiamo a lungo come ottundimento cognitivo, è una funzione protettiva».

Quando si riesce ad affrontare quanto successo è il momento della denuncia. «Siamo a un bivio perché scatta il problema della sicurezza. È sicuro denunciare? Mi espongo a una nuova traumatizzazione? Ci si trova di fronte ad accuse, giudizi e commenti. È questione culturale».

Così lo racconta anche Cathy LaTorre. «Quella paura che ti blocca. La paura di non essere creduta. La paura di essere tu colpevolizzata. Di essere definita tu la carnefice e i tuoi stupratori le vittime. E che ti spinge ad attendere giorni, settimane, mesi, anni. Quella paura che Grillo, con quel delirio, non ha fatto altro che confermare. Ecco perché, Beppe Grillo, una ragazza ci mette 8 giorni a denunciare. Perché teme che il papà potente di uno dei suoi presunti stupratori possa usare quel suo potere contro di lei. E devastarla di nuovo. E ancora. E ancora».

La psicoterapeuta Laura Rivolta indica nella gallery in alto possibili antidoti al victim blaming.

https://www.vanityfair.it/news/approfondimenti/2021/04/21/che-cosa-e-il-victim-blaming





mercoledì 21 aprile 2021

L’avvocata " Il consenso va dimostrato Erano in quattro contro una ragazza" di Maria Novella De Luca

Intervista a Teresa Manente di "Differenza donna"

«Dietro le parole di Grillo, così come, purtroppo, dietro molti processi per stupro in cui ancora oggi le vittime faticano ad essere credute, c’è lo stereotipo per cui la donna è sempre sessualmente disponibile. E che lo stupro non sia, come invece è, un delitto, ma una forma di sessualità eccessiva. Del resto Grillo lo dice, in modo grottesco: quei quattro si stavano divertendo». 

Teresa Manente, avvocata penalista, responsabile dell’ufficio legale di "Differenza donna" di vittime della violenza maschile ne ha difese, con successo, centinaia. «Dietro il concetto di "consenso", si gioca sempre la difesa degli stupratori. Ma oggi abbiamo leggi e sentenze della Cassazione che impongono agli accusati una rigorosissima dimostrazione di quel consenso».

Manente, come giudica le parole di Grillo?

«Terribili e incaute da un punto di vista giudiziario. Solo il fatto che in quella villa, fossero in quattro contro una ragazza e questa ragazza il giorno dopo ha denunciato uno stupro, rende credibile il suo racconto».

Loro affermano che lei era d’accordo.

«E quale dissenso puoi dimostrare se sei sola contro quattro? Magari hai pure bevuto, ma capisci che se resisti potresti avere conseguenze peggiori? Lo stupro è una sorta di omicidio per una donna, un processo per stupro è un dolore inenarrabile.

Quante possono mentire?».

Ma come si dimostra in tribunale, in mancanza di referti medici, una violenza sessuale? Anche mesi e mesi dopo?

«L’accusato deve dimostrare il consenso e la vittima il dissenso. E proprio perché sappiamo quali sconvolgimenti subisce una donna dopo uno stupro, il legislatore ha allargato i tempi in cui si può sporgere querela fino a un anno. Le donne escono spezzate dalla violenza sessuale, afone. Per questo le denunce arrivano anche mesi dopo. Gli otto giorni della giovane che accusa il figlio di Grillo sono niente, nulla».

Torniamo al consenso. E al dissenso.

«Per dimostrare che la donna "ci stava" gli accusati utilizzano ogni mezzo: com’era vestita, che vita faceva, perché era salita in quella casa, non era scappata, non aveva urlato, si era vestita in modo così sexy. La tecnica è: colpevolizzare la vittima, dimostrare che era "facile". Contro tutto questo però ci sono la parola della donna e la legge».

Non credo basti la parola della vittima.

«No, certo, sono processi difficilissimi e lunghi. Ma una donna che ha subito uno stupro, lo dico sulla base dei tanti casi in cui ho ottenuto condanne dei violentatori, riesce a ricostruire, dopo, con una precisione assoluta cosa le è successo. Da qui partono riscontri, indagini, testimonianze. Chi ha subito quella ferita non mente. Grazie ai cambiamenti della giurisprudenza oggi il famoso "consenso" deve essere provato davvero, in ogni passaggio del rapporto si deve dimostrare che non c’è stata coercizione. Per questo nei tribunali oggi possiamo vincere».

Parole terribili, ma incaute dal punto di vista giudiziario C’è lo stereotipo della donna  sempre disponibile per il sesso 

 https://quotidiano.repubblica.it/edizionerepubblica/pw/flipperweb/flipperweb.html?testata=REP&issue=20210421&edizione=nazionale&startpage=1&displaypages=2&backurl=https%3A%2F%2Fquotidiano.repubblica.it%2Fedicola%2Fedicola.jsp

martedì 20 aprile 2021

Casa delle donne per non subire violenza ONLUS




Le dichiarazioni di #Grillo sono un vergognoso manifesto della cultura dello stupro. Come Casa delle donne per non subire violenza ONLUS esprimiamo massima solidarietà alla donna che ha subito violenza e che dopo aver trovato il coraggio di denunciare si trova costretta ad una gogna mediatica e ad un giudizio alle intenzioni che altro non è se non una seconda violenza. 

In Italia sono ancora moltissime le donne che decidono di non denunciare stupri e violenze proprio a causa di una cultura che colpevolizza e/o vittimizza chi subisce violenza piuttosto che chi la agisce. Il teatrino mediatico-politico che sta andando in scena in queste ore è una violenza a tutte le donne che hanno subito violenza, che abbiano denunciato o meno. 

Quando Grillo si chiede perché la donna non abbia denunciato subito, la risposta è nelle sue parole e nel tono della sua voce, espressione del maschilismo più arcaico e portatrice di una violenza verbale e non verbale intollerabile: se ci sono donne che non denunciano, è perché esistono uomini come lui. E purtroppo, molto spesso gli uomini come lui hanno potere, soldi e visibilità. 

L'immagine del padre che difende il figlio a prescindere è la perfetta icona del patriarcato. Grillo non è giustificabile in quanto padre (un'idea che non è altro che la versione familistica del cameratismo da spogliatoio), ma è doppiamente colpevole in quanto uomo bianco, ricco e potente, una persona che sta usando i suoi privilegi per difendere la cultura dello #stupro. 

A tuttə lə politicə e giornalistə che in queste ore stanno esprimendo giudizi sulle parole di Grillo, riproducendole e amplificandole, chiediamo un rifiuto netto delle sue parole. Non è una questione di opinioni, e non può essere una questione di schieramenti politici. La cultura dello stupro deve essere rifiutata e combattuta. Non si fa politica sul corpo delle donne.

https://www.facebook.com/casadonnebologna/

lunedì 19 aprile 2021

Gender gap: in selezione i ruoli di leadership sono proposti meglio agli uomini che alle donne scritto da Jacopo Pasetti

La modalità in cui viene presentata una opportunità, a volte, genera più motivazione dell’opportunità stessa. Allo stesso modo il coinvolgimento di una persona in un progetto può essere stroncato attraverso una comunicazione non adeguata o disincentivante. Come in uno sliding doors, il modo (più che la sostanza dell’offerta) possono cambiare le sorti di una carriera o di una selezione.

Nel mio percorso da sportivo professionista il passaggio da attaccante a difensore non appariva una grande opportunità per chi, come me, sognava di segnare goal a ripetizione.

“Le azioni partono dalla difesa e da lì potrai condurre la distruzione del gioco avversario e a guidare la ripartenza della squadra. Il tuo fisico e la velocità potranno renderti capace di goal importanti in contropiede”.

Sono bastate poche parole del mio allenatore per cambiare la mia visione del nuovo ruolo che mi veniva assegnato. Pensavo di dover recuperar palloni per chi poi avrebbe finalizzato il gioco, e invece mi ritrovavo a giocare come protagonista della costruzione del gioco della mia squadra, oltre che a difesa della nostra porta. Ma come sarebbero andate le cose se il mio coach non avesse avuto la capacità di presentarmi l’idea di cambiamento in chiave positiva?

Nei colloqui di lavoro si ripetono spesso situazioni simili: l’immagine del ruolo che viene trasferita in fase di selezione è la base su cui il candidato o la candidata potrà costruire la propria motivazione ad entrare in azienda e a dare il meglio all’interno dell’organizzazione. Ma è ipotizzabile che esistano delle barriere all’ingresso che derivano proprio dalla modalità con cui la posizione viene descritta durante il colloquio? È possibile, ad esempio, che lo stesso ruolo venga raccontato in modo diverso ad un candidato uomo rispetto ad una donna? Come questo aspetto potrebbe influenzare il gender gap?

Della risposta a queste domande si è occupato uno studio, recentemente pubblicato da Organizational Behavior and Human Decision Processes, che si prefiggeva di indagare possibili pregiudizi di genere nell’impostare la comunicazione funzionale ad un colloquio di assunzione per posizioni di leadership (“It’s a man’s world! the role of political ideology in the early stages of leader recruitment” B. Oc, E. Netchaeva, M. Kouchakic)

Lo studio

I ricercatori hanno coinvolto un gruppo di persone assegnando loro l’incarico di condurre per un’azienda immaginaria una selezione per una posizione manageriale. In questo gruppo di selezionatori sono state individuate figure più aperte al cambiamento ed altre più orientate a mantenere lo status quo. Per creare questa divisione tra i reclutatori, il gruppo di ricercatori è partito dall’ipotesi che l’ideologia politica possa essere un buon rilevatore di bias (stereotipi). Sono stati così costruiti due “team” di pari numerosità distribuendo equamente le persone di stampo più conservatore e quelle più inclini al cambiamento. Un gruppo avrebbe simulato la selezione con il candidato uomo e l’altro con la candidata donna.

Nonostante tutti i partecipanti avessero ricevuto le medesime informazioni sull’azienda e sulla posizione, è emerso in maniera evidente come l’uso delle stesse sia stato differente durante i colloqui: la maggior parte dei “selezionatori” con idee più conservatrici ha presentato al candidato uomo un maggior numero di informazioni positive sulla posizione e sull’azienda, rispetto a quanto fatto con la candidata donna. La medesima situazione si è verificata quando ai selezionatori è stato chiesto di preparare una mail per descrivere la posizione: le parole usate con l’uno e con l’altra non sono state le stesse. Al contrario, le persone identificate come più inclini a ricercare il cambiamento non hanno mostrato questa tendenza e si sono mossi con la stessa modalità comunicativa con entrambi i candidati.

Il gender gap parte dai colloqui

Nel mercato del lavoro, è cosa nota, esiste ancora una grossa disparità, ovviamente a favore del genere maschile, tra il numero di uomini e di donne in posizioni apicali. Purtroppo questa ricerca non fornisce indicazioni incoraggianti. Guardando i dati, infatti, se una metà del gruppo attraverso una comunicazione neutrale ha favorito una decisione equa, una seconda metà ha invece involontariamente spinto verso un non cambiamento che tende a mantenere questo gap di genere a favore dell’uomo.

Appare pertanto evidente che le battaglie svolte fino ad oggi per promuovere la meritocrazia e superare le discriminazioni si scontrano ancora con condizionamenti culturali e psicologici, tanto radicati quanto persino involontari. Fino a quando questi ostacoli non saranno riconosciuti e superati, il “leadership gender gap” continuerà a esistere anche in fase selettiva. Sicuramente questo divario si è ridotto negli ultimi decenni grazie anche alle politiche che in tutto il mondo tendono a superare la discriminazione di genere, ma i pregiudizi persistono. Il Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum ha rilevato che “c’è ancora un divario medio di genere del 31,4% che deve essere colmato a livello globale”, confermando che la strada da percorrere è ancora lunga.

Durante i processi di selezione, nella stragrande maggioranza dei casi, è il “recruiter” stesso a definire la modalità di presentazione della posizione alle candidate ed ai candidati. La consapevolezza che tali modalità possano essere, anche involontariamente, piene di pregiudizi dovrebbe spingere le direzioni risorse umane a riflettere sul modo di porsi e di relazionarsi con i potenziali e le potenziali aspiranti.

Un’ipotesi potrebbe essere quella di integrare i processi di selezione con strumenti che garantiscano uniformità di informazioni, ad esempio, attraverso l’utilizzo di video o podcast a disposizione di tutti i candidati. Qualunque sia il correttivo adottato, la consapevolezza rispetto ad una possibile soggettività delle modalità di comunicazione è il primo passo per guidare un processo che miri ad essere sempre meno influenzato dai pregiudizi di genere e agli errori umani. Confidiamo che persone ed aziende lavorino proprio sulla crescita di questa consapevolezza per dare una spinta ancor più forte e più profonda  alla tanto agognata riduzione del gender gap all’interno delle aziende.

https://alleyoop.ilsole24ore.com/2021/04/15/gender-gap-selezione-ruoli-leadership-proposti-meglio-agli-uomini-alle-donne/?fbclid=IwAR1hjMpNdFwWvEo_8pAYpPzWXGUdk9A6oBje7YbK4m5xhrZ1xfp4B4UsI58&refresh_ce=1



venerdì 16 aprile 2021

In Italia lavora 1 donna su 2, penultimo posto nella classifica Eurostat: il più grande freno alla crescita

L'Italia è in coda alla classifica europea dell'occupazione femminile, una delle più pesanti diseguaglianze che caratterizzano il nostro Paese. Una diseguaglianza che è anche un freno alla crescita. Riprendiamo l'articolo di Gabriele De Stefani su La Stampa di oggi che riflette sull'occupazione delle donne e l'impatto della pandemia sui progressi in tema di parità di genere.

Donne e giovani affrontano gravi difficoltà occupazionali

L'occupazione femminile in Italia è al 49% e il divario con il resto d'Europa è notevole: la media Ue rilevata da Eurostat è del 67,7%. Per le giovani generazioni va meglio: tra le ragazze con meno di trent'anni, il 25,4% non lavora, non studia e non cerca un occupazione. Non sorprendono quindi i dati sulla sfiducia: in Europa sono 8,6 milioni i cittadini che si definiscono "sfiduciati" e di questi uno su tre vive nel nostro Paese, dove tre milioni di persone non cercano nemmeno più un lavoro.

«La recessione figlia della pandemia, rispetto alle altre grandi crisi del passato, ha la particolarità di aver colpito più i servizi della manifattura e per questo ha penalizzato maggiormente le donne» riflette Andrea Garnero, economista dell'Ocse. Nell'ultimo trimestre, ad esempio, l'Istat segnala che 249 mila dei 400 mila posti andati in fumo erano occupati da donne. «In altri Paesi questa differenza è stata meno marcata, perché in Italia è più spiccata la divisione per comparti, con settori a netta prevalenza maschile e altri, come i servizi alla persona, in cui lavorano soprattutto donne. Una svolta è necessaria, anche perché una bassa occupazione femminile è un pesantissimo freno alla crescita: famiglie con un solo reddito hanno meno entrate, quindi spendono meno, investono meno e chiedono meno servizi».

La recessione della pandemia ha colpito di più i servizi della manifattura, penalizzando maggiormente le donne

La recessione della pandemia ha penalizzato maggiormente i settori produttivi a con più alta concentrazione di donne.

 Persiste il gender pay gap

A proposito di redditi, in Italia resta ampia anche la forbice delle retribuzioni: il “Global Gender Gap Report” del World Economic Forum  - di cui vi abbiamo parlato qui - ci colloca al 63° posto tra i 156 Paesi analizzati. A pesare negativamente è la partecipazione economica, che ci vede scivolare al 114esimo posto, fanalino di coda a livello europeo: persistono le disparità di reddito e le donne in posizioni manageriali sono ancora poche. Avanti di questo passo, serviranno 135,6 anni per colmare il divario, a livello globale. Un bilancio nettamente peggiorato nell'anno segnato dal Covid: la pandemia ha fatto crollare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, non sono in Italia ma in tutto il mondo. In parallelo sono diminuite le opportunità per le ragazze e le madri hanno visto ulteriormente appesantirsi il carico delle incombenze di cura. «Servono misure specifiche – ha commentato Saadia Zahidi, direttrice generale del World Economic Forum –. Penso alla definizione di obiettivi di genere specifici per il recupero delle assunzioni e alla riqualificazione professionale per chi occupava ruoli che difficilmente torneranno. Poi vanno alzati i salari per i lavori essenziali che sono svolti soprattutto da donne, come il settore infermieristico o la prima linea dell'insegnamento scolastico».

Per scoprire tutti i dati del Global gender gap Report

https://valored.it/news/in-italia-lavora-1-donna-su-2-penultimo-posto-nella-classifica-eurostat/?fbclid=IwAR2g6MQjzkcVJOfgbXWJb3ZmgnyzpvKwACOCp1fUYeqymu3Uv9ah1f751kk

 


 

giovedì 15 aprile 2021

Non sono i tuoi figli a frenare la tua carriera: è tuo marito A cura di Valentina Grassini

Uno studio della Harvard Business School conferma un dato tristemente noto: la carriera degli uomini vale più di quella delle donne.

Quando l’avvocatessa statunitense Linda Hirshman nel 2006 sostenne nel suo libro “Get to Work: A manifesto for the Women of the world” che le donne ambiziose e desiderose di far carriera avrebbero dovuto sposare uomini con meno soldi e prospettive di carriera, la cosa fece molto scalpore e attirò parecchie polemiche.

Hirshamn spiegò però che si trattava di una scelta intelligente, e non “brutalmente strategica”, come era stata definita, e che poteva consentire alle donne di perseguire i propri obiettivi di carriera, scegliendo di sposare qualcuno che potesse sostenerli e avesse piacere a farlo. Insomma, consigliava di fare quello che per secoli era stato fatto dagli uomini.

E, guardando ai dati e alla situazione di oggi, in cui le donne sono ancora le prime a rimetterci in quanto a carriere e vite lavorative, anche per via della solita “questione della cura” che sempre su di loro ricade, pare che la teoria di Linda Hirshman avesse più che un fondamento, soprattutto se letta a 15 anni di distanza, nei quali le cose non sembrano essere cambiate di molto.

Ma la questione è ben più complessa di come appare a un primo sguardo: secondo uno studio condotto da Robin Ely e Colleen Ammerman della Harvard Business School e dalla sociologa Pamela Stone dell’Hunter College, che prende in esame i laureati della Harvard Business School negli ultimi decenni, la gran parte delle donne con un potenziale di carriera ed aspettative elevate non hanno raggiunto quello che si erano prefissate nei 20 anni precedenti, quando si erano iscritte al College e laureate con il massimo dei voti e l’ambizione di una carriera promettente.

E la ragione di questa situazione è da ricercarsi secondo le ricercatrici, non nella scelta di rinunciare al lavoro per la cura domestica e dei figli, ma perché le donne tendono a dare priorità alla carriera dei compagni rispetto alla loro.

I risultati dello studio della Harvard Business School

Nello studio, le ricercatrici hanno intervistato 25.000 ex studenti, uomini e donne, laureatisi negli ultimi decenni e appartenenti alla categoria della generazione dei Baby Bomber (che indica i nati tra il 1946 e il 1964) e della generazione X (tra il 1965 e il 1980).

Dall’indagine è emerso che una percentuale maggiore degli uomini intervistati si trovava in posizioni di più alta responsabilità e in ruoli apicali. Ma non solo. Le testimonianze raccolte da entrambi i sessi e le diverse generazioni coinvolte hanno reso uno scenario ben più chiaro: le donne acconsentivano a riconoscere una maggiore rilevanza alla carriera del partner, arrivando a farsi carico in misura decisamente maggiore della gestione della casa e dei figli.

Nello specifico, più del 70% degli uomini intervistati hanno dichiarato che la loro carriera era più importante di quella delle loro mogli e il 86% di questi ha ammesso che sono le partner a prendersi cura maggiormente dei bambini e della casa.  Un dato confermato anche dal 65% delle donne della generazione X e dal 72% delle donne appartenenti alla generazione dei Baby Boomer.

Ma c’è un altro dato interessante, che riguarda le aspettative di entrambi i sessi nel periodo immediatamente successivo all’università: se più della metà degli uomini dava per scontato che le donne avrebbero fatto un passo indietro per dare precedenza alla carriera di questi ultimi, solo il 7% delle donne delle generazione X e il 3% delle donne cosiddette “boomer” facevano lo stesso ragionamento. Comunque la stragrande maggioranza delle donne pensava all’epoca a un matrimonio egualitario, quel modello di gestione familiare cosiddetto “dual earner” che però nei fatti, per mancanza di infrastrutture di sostegno e la resistenza di modelli culturali patriarcali, porta ancora una volta a far ricadere le incombenze della cura sulle spalle femminili.

Ovviamente, la gestione degli accordi familiari è solo uno dei problemi che ostacolano la vita lavorativa delle donne e le loro possibilità di carriera.

Non possiamo non rilevare un dato di fatto per niente incoraggiante: ancora oggi per il sistema lavoro, le donne che hanno uno o più figli continuano a essere delle lavoratrici di serie B, perché “divise” tra lo status di lavoratrice e di madre. Cosa che però non sembra accadere ai padri, per i quali la paternità assume addirittura valore fino a diventare un vantaggio, anche e soprattutto lavorativo, che li porta a ottenere promozioni, crescita professionale e aumento salariale. Le ragioni sono da ricercarsi in un sistema culturale che si basa ancora oggi sulla priorità del modello male breadwinner, almeno da un punto di vista concettuale, se non nei fatti.

E così, ecco che le donne-madri si ritrovano a subire diminuzioni di salario, part-time forzati e sollevamenti da incarichi e ruoli fino a quel momento ricoperti, e sono costrette a vedersi sfumate sogni e prospettive di carriera, per quanto dotate della piena capacità di sostenerle, anche con dei figli a carico.

Ma lo studio ci mette di fronte a un altro problema: se, prendendo in considerazione la categoria dei millennial uomini, si nota una maggiore tendenza all’uguaglianza con la controparte femminile, comunque sempre il 50% di questi continua a sostenere che la loro carriera debba avere la precedenza su quella delle partner e che sempre a queste ultime spetterebbe la maggior parte della cura dei bambini.

Ecco perché, ancora 15 anni dopo, le parole di Hirshman suonano profetiche, oltre a essere confermate dai fatti: la maggior parte delle donne che oggi ricoprono un ruolo di amministratrice delegata hanno dei mariti che non lavorano.

Una di queste è Ursula Burns, Ceo di Xerox, che in una conferenza del 2013 ha citato il libro di Hirshman e rivolto alla platea una frase ironica, che nascondeva però una verità:

Il segreto del successo è sposare qualcuno di 20 anni più vecchio.

La donna si riferiva al fatto che il marito, più grande di lei, era prossimo alla pensione proprio quando lei era all’apice della sua carriera, un aspetto che ha permesso all’uomo di prendersi cura dei figli e a Burns di dedicarsi al suo lavoro senza essere costretta a fare sacrifici e a scendere a compromessi.

Fino a che non saranno messi in atto una serie di cambiamenti culturali e strutturali mirati a considerare la vita lavorativa delle donne al pari di quella dei partner – anche e soprattutto con una politica economica che investa su infrastrutture a sostegno della maternità e della questione della cura – la teoria sollevata da Hirshman potrebbe essere purtroppo l’unica via possibile per non ritrovarsi a fare compromessi e sacrificare la propria carriera, del tutto o in parte.

https://news.robadadonne.it/non-sono-figli-frenare-carriera-tuo-marito/


mercoledì 14 aprile 2021

Nell’anno della pandemia aumentano i femminicidi e i reati di revenge porn di Viola Rigoli

Calano furti, rapine e omicidi, ma non quelli con vittime le donne. In crescita anche i delitti via web legati a pedopornografia, adescamento, truffe, revenge porn. I dati diffusi dalla Polizia di Stato

Diminuiscono gli omicidi, ma niente ferma l’aumento dei femminicidi. È questa la drammatica fotografia dell’ultimo anno in Italia, quello del Covid, per quanto riguarda l’omicidio di donne.

Femminicidi in aumento

Nel 2020, anche a causa della pandemia, è avvenuta una riduzione dei reati rispetto al 2019, soprattutto quelli contro il patrimonio e la persona, come furti, rapine e ricettazione, lesioni, percosse e violenze sessuali.

La brutta notizia è che però sono cresciuti i femminicidi: a febbraio, già l’Istat confermò nel suo report sulla criminalità in Italia che, nel primo semestre 2020, gli assassini di donne erano stati pari al 45% del totale degli omicidi, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019, e raggiungendo il 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile 2020. Con un elemento molto preoccupante che vedeva le vittime uccise principalmente in ambito affettivo e familiare (90% nel primo semestre 2020) e da parte di partner o ex partner (61%).

Femminicidi in aumento: quasi tutti in ambito familiare

Ora ci sono anche i dati sulla diffusione del crimine diffusi dalla Polizia: dei 275 omicidi commessi, infatti, 113 sono stati a danno delle donne (nel 2019 erano 111) e 144 in ambito familiare o affettivo. Tra questi ultimi 99 vittime erano di sesso femminile, 67 sono commessi da partner o ex partner. 

Reati telematici

Tra i reati in aumento ci sono quelli informatici, in particolare la pedopornografia e il revenge porn: l’attività d’indagine del Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia on line (Cncpo) ha analizzato 3.243 casi e  indagato 1.261 soggetti. Dei contenuti analizzati, 34.120 siti web, 2.446 hanno trovato posto nella black list per inibirne l’accesso dal territorio italiano. 

Adescamento online

Il dato più allarmante è l’adescamento online, con 401 eventi trattati e un incremento di vittime d’età compresa tra 0-9 anni. 118 i minori denunciati all’Autorità Giudiziaria per condotte delittuose riconducibili al fenomeno del cyberbullismo.

Per quanto riguarda il contrasto dei reati contro la persona perpetrati sulla Rete: 1.772 casi analizzati con l’arresto di  10 persone e 378 soggetti indagati, responsabili di aver commesso estorsioni a sfondo sessuale, stalking, molestie, minacce e ingiurie. 

Revenge porn e incitamento all’odio

Risulta in costante aumento l’attività di contrasto al revenge porn, con 126 casi e 59 indagati. Molta attenzione è stata data anche al contrasto dei reati d’incitamento all’odio. Si registra la continua crescita delle truffe on line, con oltre 93.300 segnalazioni ricevute e trattate che hanno consentito di indagare 3.860 persone.

Cyberterrorismo

Sono inoltre stati gestiti 509 attacchi a sistemi informatici di strutture nazionali di rilievo strategico, 69 richieste di cooperazione nel circuito High tech crime emergency e avviato 103 indagini con 105 persone indagate. Intensa l’attività di prevenzione con la diramazione di 83.416 alert. 

In materia di cyberterrorismo sono state denunciate 18 persone, di cui una tratta in arresto. Sono stati, altresì, visionati 37.081 spazi web, per individuare contenuti di propaganda islamica, in 85 casi sono stati rilevati contenuti illeciti. Particolare attenzione è stata rivolta al fenomeno della disinformazione, amplificato dall’emergenza Covid-19, che ha visto la proliferazione delle fake news, a fronte delle quali sono stati predisposti 137 specifici alert.

https://www.iodonna.it/attualita/storie-e-reportage/2021/04/12/nellanno-della-pandemia-aumentano-i-femminicidi-e-i-reati-di-revenge-porn/?fbclid=IwAR1u8R6YdapWj1cydg-43yoLT2kJ8x5arLsYnADr08jwEPRM739jvaxaC5o

martedì 13 aprile 2021

Le mamme acrobate che salvano scuola e famiglia di Rossana Campisi

 Tra turni, amiche e vicine di casa gestiscono figli e lavoro, per di più evitando "assembramenti" in salotto. Con il continuo ricorso alla Dad e i nonni fuorigioco, se tutto è rimasto a galla è grazie alla solidarietà femminile. Che, oggi più che mai, lega le donne in una rete sempre più coesa. Capace di raggiungere molti risultati

Mamme acrobate, nessun’altra descrizione è possibile. L’agenda di Michela D., 43 anni, mamma, base a Milano e nonni rintanati tra la Toscana e Bergamo, somiglia un po’ a un cruciverba e un po’ a una battaglia navale. “Ettore+Giorgia+Guido” e poi sotto “Cate+Celeste+Eli”sono le due strisce, con sei nomi, che riempiono prima il riquadro della mattina e poi quello del pomeriggio di ogni sacrosanto giorno feriale. Michela, e non solo lei, per tenere aperta l’agenda del suo lavoro – riempirla, spuntarla e benedirla – ne ha aperta insomma un’altra. Clandestina. Data di inizio: giovedì 11 marzo ore 13.

Scuole chiuse e piani B impossibili
La notizia dell’ultima chiusura delle scuole dall’oggi al domani ha visto infiammare le chat materne, fare quattro calcoli nelle famiglie in una sola notte (la tata tutto il giorno?), rivedere i piani B possibili e immaginabili (nonni, vicine di casa, giorni di ferie residui del papà e congedi parentali utilizzabili della mamma): ovvero continuare un racconto che va avanti in realtà da un anno, quello ideato dalle donne alleate contro il Covid, la politica che improvvisa e la Didattica a distanza mista ai litigi dei figli in casa.

Il risultato? Che nessuno è affondato, evviva, ma se tutto è rimasto a galla è merito delle mamme che, una accanto all’altra – strette, unite – hanno creato una rete di soccorso. Un ordito di pazienza da un lato e una trama di tenacia dall’altro: una tela fatta di messaggi, chiamate, porte aperte. «Tutte le mamme che conosco si aiutano. Io pianifico con loro ogni domenica sera la settimana successiva e il calendario è fittissimo. Con tre condividiamo la tata. Poi un pomeriggio a testa e una mattina a me. Questo per Ettore, il piccolino di 5 anni e mezzo che farebbe la materna.

Mamme acrobate, capaci dell’impossibile
Stamani ho tenuto la compagna di Cate, la mia grande, quasi otto anni, perché la mamma lavora fuori e il papà è in smart working ma oggi doveva andare a portare il nonno in ospedale. Quindi avevo Cate in una camera, la compagna nell’altra, mio marito fuori al parco con Ettore e cinque amichetti. Oggi pomeriggio Cate è con la tata di un’altra compagna ed Ettore da un altro amichetto che avremo noi giovedì. Tutto così, un casino bestiale», racconta Michela, designer, e per alcuni anche mamma fuorilegge. Per quelle che vogliono rispettare le misure anticontagio, le riunioni in casa sono da tenere alla larga perché in fondo contano sulle nonne, e per proteggerle azzerano i contatti sociali, o in extremis anche sulla fortuna della porta accanto: la vicina.

Famiglie allargate… patto di solidarietà
«Dovevo accompagnare mio figlio dal medico e l’altra era in Dad, come dovevo fare?» racconta Chiara R., 35enne torinese, vicina di casa di zia Ada, settant’anni, una pensione vissuta tra bici e serie tv. «Ada doveva controllare solo che mia figlia si connettesse puntuale per la lezione su Classroom, averla accanto sarebbe stata anche un conforto per lei. L’ho invitata da noi e ha accettato senza batter ciglio». Anche Ada è una fuorilegge che rischia contagi nella casa di Chiara. Ma qui è tutta una catena esponenziale.

Ed è per questo che Alberto Pellai, medico, ricercatore all’Università degli studi di Milano e psicoterapeuta dell’età evolutiva, nonché padre di 4 figli, ha scritto al Comitato tecnico scientifico del Ministero della famiglia lanciando un appello: «Ogni famiglia dovrebbe gemellarsi con un’altra che abbia bambini di pari età, firmando un patto di corresponsabilità dove ci si impegna a non diventare fonte di contagio reciproca. Dentro questa bolla viene preservata per i bambini la possibilità di interagire e soprattutto giocare assieme ai coetanei. La famiglia allargata diventa anche utile per gli adulti che possono alternarsi e aiutarsi, cosa che lo scorso anno è completamente mancata».

Lui lo chiama patto di responsabilità contro i contagi tra due nuclei familiari. Nell’attesa che diventi ufficiale, quello più ufficioso, necessario e femminile, va avanti. Chiamatelo patto della solidarietà.

Il prezzo pagato dalle mamme
Ginevra R., 45 anni, per dire, ha mollato il suo lavoro perché con due figli in casa non poteva più raggiungere il suo ufficio. Però ha accettato la proposta di Isa, un’amica oberata di lavoro che le ha proposto di collaborare da consulente con partita Iva alla sua società di servizi.

Guadagnerà meno rispetto a un tempo; è diventata una freelance di seconda generazione, una di quelli con alte qualifiche che guadagnano sempre meno. Vabbè ma del resto se paghi la tata... La ricerca di baby sitter dopo la chiusura delle scuole è aumentata dell’11,3 per cento in una settimana (fonte sitly.it ). Ginevra, a fronte della disoccupazione in aumento in pandemia (a dicembre 2020, fonte Istat, su 101mila nuovi disoccupati, 99mila sono donne), ha ancora un lavoro grazie a Isa, a Michela e a tutte le mamme della sua agenda.

Mamme acrobate in Rete
«La rete delle mamme in questo momento è più coesa che mai. La mia personale testimonianza di solidarietà viene dalla rete» racconta Angelica Massera, mamma e attrice seguitissima sui social. «Insieme ad altre mamme attive sul web, tra cui Alice Mangione della Pozzoli Family e Francesca Fiore e Sarah Malnerich della pagina Mammadimerda, stiamo cercando di dare voce a chi sempre di più sta combattendo per farsi ascoltare. Siamo partite qualche settimana fa con un video-manifesto che abbiamo pubblicato sul web al grido di “Giù le mani dalla scuola“, che ha superato le 700.000 views su Instagram e le 740.000 views su Facebook.

Ed è successo anche altro: nuora e suocera alleata, potenza della solidarietà anti Covid. Lei, più del suocero, non teme contagi e si lancia nella battaglia della sopravvivenza. Accade a Catania: Lara Latorre, tre bambine, uno studio di avvocata, una suocera che ormai si è trasferita da loro e una certezza: «Ho scoperto un’amica saggia, mia suocera. E pensare che ho litigato con mio marito che temeva brutti risvolti da questa convivenza…» racconta Lara. I risvolti, e chi può prevederli.

Mamme acrobate, pranzi e cene per tutti
«Io sono molto ligia e non faccio incontrare nessuno ma è anche vero che ho un lavoro che posso gestirmi con una certa flessibilità, dei figli più o meno autonomi nella Dad e una tata già collaudata», precisa Annalisa Cuzzocrea, giornalista e autrice di Che fine hanno fatto i bambini. Cronache di un Paese che non guarda al futuro (Piemme). «Ho deciso di scrivere questo libro il giorno in cui durante il primo lockdown sono andata a una riunione del Governo con la Commissione Colao durata otto ore, e in quelle lunghe otto ore non hanno mai parlato di scuola e bambini. Mi ha fatto molta impressione. La solidarietà clandestina la capisco ma non la giudico, del resto le leggi italiane sono fatte con il presupposto che tanto le famiglie se la cavano da sole. Più che scarse risposte ho visto una scarsa lettura di ciò che succede nelle case» conclude.

Superiorità, oltre che solidarietà
Una mano tesa, l’altra afferrata: è così che le mamme alla fine preparano cene e pranzi per tutti e alle riunioni fiume on line sono sempre puntuali. La scienza a tutto ciò ha dato un nome: superiorità, oltre che solidarietà. Lo ha scritto in La metà migliore. La scienza che spiega la superiorità genetica delle donne (Utet) Sharon Moalem, medico e ricercatore di fama mondiale, specializzato in neurogenetica e biotecnologie: le donne combattono meglio degli uomini virus, infezioni e tumori, scrive. A parità di condizioni critiche hanno più possibilità di sopravvivere rispetto ai maschi. Vedono persino il mondo in uno spettro di colori più ampio.

Le donne sono meglio degli uomini? Per rispondere Moalem analizza pubblicazioni specialistiche e riporta esperienze personali nei reparti con bambini sieropositivi e anziani. Sì, è la risposta. Tutta grazie al doppio cromosoma X femminile: alcuni dei geni presenti su questo cromosoma attivano processi di guarigione e garantiscono dunque alla donna maggiore resilienza. Come afferma Moalem, «quasi tutto ciò che è difficile da fare, dal punto di vista biologico, è fatto meglio dalle donne». Adesso non approfittatene, però. Ok

iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA




venerdì 9 aprile 2021

Sgarbo diplomatico o violenza istituzionale maschilista?


Ci sediamo accanto a Ursula von der Leyen sul divanetto laterale, distante dalle due sedie del potere “maschile”, che il Sultano di Ankara ha riservato alla donna delle Istituzioni Europee, presidente della Commissione UE, carica politica di importanza mondiale.

Molte le letture possibili dietro questo cerimoniale. Messaggi all’Europa ed ai suoi valori ed alle donne turche? Serve sicuramente accendere riflettori sul tema della violazione dei diritti umani e sulle migrazioni.

In attesa che i vertici europei assumano giuste e doverose prese di posizione scendiamo nelle piazze con le coraggiose donne turche private recentemente, dal Presidente Erdogan, della Convenzione di Istanbul che tutela donne e bambine dalla violenza maschile privata e istituzionale.



mercoledì 7 aprile 2021

Gli uomini preistorici erano anche donne Di Autrici di Civiltà -14 Ottobre 2020 “Le donne preistoriche sono state rese invisibili: una archeologa fa uscire le donne dalle caverne della storia” di Clara Hage

 Riportiamo l’articolo della giornalista francese Clara Hage del 25 settembre 2020 pubblicato su NEON, magazine d’informazione. E’ un argomento che conosciamo bene e con riferimenti anche più approfonditi ma riteniamo importante constatare che in Francia, nazione che ha visto nascere lo studio della Preistoria e grazie al lavoro di una archeologa accademica, viene evidenziata l’incredibile cecità che ha impedito la conoscenza delle nostre origini fin dai suoi albori. L’articolo presenta il libro “L’uomo preistorico è stato anche una donna” dell’archeologa preistorica Marylène Patou-Mathis edito da Allary Editions ancora inedito in Italia.

“Le donne preistoriche sono state rese invisibili: una archeologa fa uscire le donne dalle caverne della storia” di Clara Hage

Durante la preistoria, anche le donne cacciavano i grandi mammiferi, dipingevano le pareti delle caverne e andavano in guerra. È l’archeologa preistorica Marylène Patou-Mathis ad affermarlo nel suo libro “L’uomo preistorico è anche una donna.”, portando a sostegno di ciò la visione errata della società patriarcale.

Immaginatevi l’era preistorica, i suoi mammut, le sue grotte; virili Cro-magnon in pelli di animali che reggono in una mano la pietra con cui hanno acceso il fuoco e nell’altra l’ascia che respingeva i clan nemici. Usurati dalle loro gesta e dall’inarrestabile evoluzione del loro ingegnoso cervello, tornano stanchi nella grotta dove li aspettano le loro mogli. Donne che raccolte alcune piante durante il giorno, preparano la selvaggina cacciata dagli uomini e servono loro il pasto. Poi gli uomini si dedicano a varie attività, come dipingere le pareti della grotta, perché sono decisamente molto intelligenti; le donne si prendono cura dei bambini e… Aspettate, non è forse una visione un pochino antiquata?

“No, le donne preistoriche non hanno dedicato tutto il loro tempo a spazzare la grotta e ad accudire i bambini in attesa che gli uomini tornassero dalla caccia”, afferma Marylène Patou Mathis, archeologa e direttrice della ricerca del CNRS. Dopo Neanderthal dalla A alla Z (Allary Editions), pubblica nella stessa casa editrice Prehistoric man is a woman, un saggio che racconta una (pre) storia liberata dai pregiudizi sessisti che l’hanno costruita e che si basa su nuove scoperte archeologiche. Una storia che dice anche che il patriarcato non risale alle origini del mondo e che dalle loro grotte, uomini e donne preistorici possono avere molto da insegnarci sull’uguaglianza di genere.

D: “L’uomo preistorico è anche una donna“, perché non suona bene?

Marylène Patou-Mathis, archeologa: Ho notato durante i miei anni di ricerca che il posto delle donne nelle società preistoriche era sconosciuto, l’argomento poco trattato. Non solo il vocabolario esclude completamente la questione del loro ruolo in questo periodo: si parla di “uomo preistorico”, di “museo dell’uomo”, di “evoluzione dell’uomo” piuttosto che di “umano” ma nell’immaginario collettivo ci sono cliché ereditati dai primi studiosi di archeologia preistorica – tutti uomini – che non si basano su alcuna evidenza archeologica. ” Come se l’evoluzione umana fosse avvenuta senza le donne. Il loro posto durante la Preistoria non è certo del tutto negato: è loro concessa una partecipazione biologica all’evoluzione perché sono loro a dare alla luce i bambini. Ma culturalmente, l’idea che l’uomo sia l’autore di tutte le principali invenzioni (strumenti, fuoco…) è dominante. Inoltre, le azioni presumibilmente maschili, come il taglio della selce, la caccia o la pittura, erano valorizzate. La maggior parte delle rappresentazioni nei film o nelle ricostruzioni, con poche eccezioni, danno ad esempio un’immagine esclusivamente maschile dei pittori di Lascaux. Perché dovrebbero essere solo uomini? Nessuno ha scattato una foto che dimostri che erano i soli a tenere in mano il pennello di peli di tasso.

D: Come allora sapere se erano le donne a tenerlo?

Non sto dicendo che le donne abbiano eseguito tutte le opere di arte parietale. Semplicemente, dobbiamo proporre altre ipotesi, aprire il campo delle possibilità: non ci sono ragioni, né fisiologiche né intellettuali, che escluderebbero automaticamente le donne da determinate attività. Un altro presupposto riguarda la caccia e la raccolta. Alla donna preistorica è stata attribuita la raccolta e all’uomo cacciatore e la caccia è valorizzata rispetto alla raccolta. Perché? Non solo supponiamo che le donne svolgano determinate attività e non altre, ma abbiamo anche dato la priorità ai compiti apparentemente maschili rendendoli più nobili di quelli femminili. In effetti, le piante tra i popoli cacciatori-raccoglitori erano considerate importanti per la loro economia quanto la caccia, sia per il cibo che per la guarigione.

D: Qual è l’evidenza tangibile che oggi ci permette di ridefinire il ruolo e lo status delle donne preistoriche?

Oggi ci sono progressi tecnologici e nuovi metodi di indagine che ci permettono di far parlare meglio i resti archeologici che scopriamo durante gli scavi. Ad esempio, il DNA che troviamo nelle ossa di scheletri umani dissotterrati ci permette di identificare con certezza il sesso degli individui. Il loro studio, la paleoantropologia, ha inoltre fornito preziose informazioni sulla morfologia degli individui, sulle loro malattie e sui traumi associati a determinate attività. Abbiamo notato, ad esempio, grazie a studi effettuati su più di 1000 scheletri, che le donne preistoriche dell’Europa centrale erano robuste quanto le attuali campionesse del lancio del peso o del giavellotto. Ciò indica che durante il periodo neolitico le donne si occupavano di compiti legati all’agricoltura, compiti molto fisici come la macinazione dei cereali con pesanti macine.

La divisione dei compiti appare più complementare di quanto si pensasse in precedenza e dovrebbero essere suddivisi più in base alle attitudini di ciascuno che in base al genere. Ora sappiamo che le donne entravano nelle caverne, nel mondo sotterraneo che sembrava riservato esclusivamente agli uomini perché vi lasciavano le impronte delle mani. Abbiamo anche come indizi le opere d’arte dell’epoca. Le rappresentazioni femminili sono la maggioranza, tra l’80 e il 90% delle rappresentazioni umane. Sono sagome, vulva dipinte o incise sulle pareti delle grotte, ma anche statuette, la famosa Venere preistorica. Sono per lo più nudi, ma a volte su certe statuette, dalla Siberia ad esempio, indossano una specie di giaccone. Ancora una volta, per molti ricercatori, sono stati gli uomini a dipingere o scolpire i corpi delle donne. Tuttavia, possiamo benissimo immaginare che alcune di queste statuette siano state realizzate da donne, anche per donne, come quelli traforati, considerati forse come amuleti e indossati durante il parto che poteva essere difficile perché all’epoca non c’era il taglio cesareo!

Il confronto non è giusto ma è come lo “sguardo maschile” al cinema, uno sguardo su queste opere che fino a poco tempo fa era essenzialmente maschile e le interpretazioni fatte dalla maggior parte da archeologi; le donne sono solo modelle e non creatrici. La storia dei guerrieri rivela anche il pregiudizio sessista incorporato nell’immaginazione. Nel mio libro fornisco l’esempio di una tomba vichinga del X secolo che conteneva uno scheletro sepolto con armi, due cavalli e un tabellone di gioco di strategia. Scoperto nel 1880, è servito fino agli anni 2000 come riferimento per identificare i leader guerrieri. Senza certezza, il bacino era mal conservato, lo scheletro era stato attribuito a un uomo. Nel 2017, l’analisi del DNA ha dimostrato che si trattava di una donna, un signore della guerra! Nonostante questa prova indiscutibile, alcuni archeologi sono ancora convinti che i parenti di questa donna la vestissero da guerriera senza che ciò riflettesse il suo vero status sociale. C’è tanta malafede.

D: Da dove viene questa preistoria parziale?

La preistoria è apparsa come disciplina a metà del XIX secolo, prima in Francia e poi quasi ovunque nel mondo occidentale. I primi antropologi e archeologi preistorici hanno modellato sulle società antiche la visione della loro società patriarcale in cui le donne sono considerate minori e le loro attività spesso limitate ai compiti materni e domestici all’interno delle loro case. Il XIX secolo è stato segnato da una visione gerarchica e diseguale di razze e sessi, che avrebbe dovuto giustificare tutte le discriminazioni esistenti all’epoca. Il pregiudizio c’è.

Senza alcuna prova archeologica, i primi preistorici attività di genere, valorizzato il maschile e minimizzato il femminile. È una costruzione culturale a posteriori. Concordo con Françoise Héritier e Simone de Beauvoir: il sistema patriarcale, inferiorizzando le donne, le ha rese dipendenti, le ha rese subordinate per un grande periodo storico. Ma a differenza di loro, non sono convinta che questo sistema sia esistito fin dall’inizio. Il sistema patriarcale non è naturale o scritto nei nostri geni, ma culturale. Quindi non c’è determinismo, che è piuttosto una buona notizia, perché può essere sostituito da un altro sistema più equo, più equilibrato tra i due sessi.

D: Uomini e donne preistorici erano in grado di vivere in una società matriarcale?

Faccio questa ipotesi nel mio libro, ma bisogna stare molto attenti con questo termine. Preferisco l’espressione “sistema matrilineare” (sistema di filiazione in cui la trasmissione per eredità di beni, titoli, ecc., È fatta dalla madre, ndr). In ogni caso, non vi è alcuna prova che esistesse durante la preistoria delle società matriarcali, il contrario cioè del patriarcato come dominio di un sesso sull’altro. Nel sistema matrilineare le donne hanno un ruolo essenziale perché sono loro a garantire la sostenibilità dei clan in quanto madri e la trasmissione del sapere e del saper fare. Il rifiuto da parte di molti ricercatori dell’esistenza di questo tipo di società durante la preistoria, comune in Africa fino a tempi recenti, deriva da una visione occidentale dello status e del ruolo delle donne nella società. È una visione riduttiva che non tiene conto dei nuovi progressi nella conoscenza delle diverse culture durante la preistoria.

Poiché è un tempo lontano, molti hanno una visione globalizzante di queste società. Come se si potesse essere gli stessi in ogni tempo, per più di 400.000 anni e in tutti i luoghi! In Eurasia, dal Paleolitico, c’era una grande diversità di culture. I ruoli e lo status delle donne non erano gli stessi in Francia o in Ucraina, ad esempio. Tutto è ingarbugliato, dobbiamo uscire da una visione lineare e progressiva dell’evoluzione, sia biologica che culturale dell’umanità. Fino a poco tempo, le persone vivevano di caccia e raccolta e altre di agricoltura e allevamento di animali simili a quelle praticate nell’era neolitica.

D: Come far uscire le donne dall’oblio della preistoria?

Dobbiamo cambiare la nostra visione della preistoria e della storia. Oggi, ovunque vediamo donne emergere dall’ombra. Ricompaiono perché effettivamente erano molto presenti nel passato ma poi cancellate e trascurate dagli archeologi e dagli storici in particolare dell’Ottocento. Presupposti e pregiudizi devono essere sostituiti da fatti reali e verificati. Da questo momento in poi possiamo renderci conto che le donne hanno avuto un ruolo altrettanto importante di quello degli uomini nelle società preistoriche.

Non molto tempo fa, la nostra società pensava che alcune professioni non fossero accessibili alle donne perché, ad esempio, non erano abbastanza forti o abbastanza intelligenti. Quando queste professioni furono finalmente aperte a loro, le donne vi eccelsero. Questi stessi stereotipi erano, e talvolta lo sono ancora, modellati sulle donne preistoriche. A forza di pensare che non fossero in grado di svolgere determinati compiti, l’ipotesi che possano averli svolti non viene nemmeno presa in considerazione. Sentiamo sempre, spesso nostro malgrado, la necessità di dare priorità a persone, sessi, culture ed epoche. Tuttavia, se siamo qui, è perché uomini e donne preistorici sapevano adattarsi al loro ambiente e risolvere i problemi del loro tempo. Cambiando la nostra visione su questo lontano passato, potremmo immaginare più facilmente che il patriarcato, come la violenza, non governava le società preistoriche. Questo dà speranza perché la storia non è fissa, niente è fisso. Da parte mia, penso che il sistema patriarcale debba essere sostituito da un altro sistema, che resta da costruire insieme e non un sesso contro l’altro.

https://www.autricidicivilta.it/gli-uomini-preistorici-erano-anche-donne/?fbclid=IwAR3oh20PDHAoHMCquwb0b9fcRR6WZ09DiBMfiVthnfg-xuDeCsPvspym93M


martedì 6 aprile 2021

"Se volevi figli non firmavi il contratto": il mobbing da maternità che punisce le donne sul lavoro di Rita Rapisardi

Ai maschi non succede di sentirsi chiedere a un colloquio se nel prossimo futuro prevedono di fare un bambino. E il caso della pallavolista citata per danni perché rimasta incinta non è certo isolato

Ti hanno mai chiesto se avevi intenzione di avere in programma un figlio durante un colloquio di lavoro? Se hai risposto sì, sei una donna. Se hai risposto no, uomo. Perché in Italia è pratica nazionale, anche se illegale, informarsi sul futuro delle donne, sia che vogliano o non vogliano diventare madri. 

Ha fatto scalpore il caso della pallavolista Lara Lugli, citata per danni dal Volley Pordenone, perché avrebbe taciuto la possibilità di diventare madre, e poi una volta incinta, avrebbe danneggiato la società con la sua assenza. 

Il caso Lugli è certo particolare, perché riguarda il mondo dello sport non professionistico, un ambito che prevede le cosiddette clausole di gravidanza, una sorta di scrittura privata tra atleta e società. Le sportive possono essere licenziate in tronco qualora incinte, un malcostume che riguarda anche malattie inaspettate.

«Nello sport si consuma la più grande discriminazione per le donne. Le atlete non possono accedere alle leggi sulla maternità e a decidere è il datore di lavoro», racconta Luisa Rizzitelli, presidente dell’Associazione Assist - Donne nello sport, ex atleta che per 15 anni ha firmato la clausola anti-maternità. «Con la legge 91/1981 che regolamenta il lavoro sportivo, non si è stabilito quali fossero le discipline professionistiche, spetta alle federazioni e al Coni farlo, con il risultato che solo calcio, basket, ciclismo su strada e golf lo sono, e solo per i maschi». Si parla di migliaia di atlete considerate dall’Inps dilettanti, ma che in pratica non lo sono, visto che hanno fatto dello sport la loro vita. «Abbiamo rilasciato interviste a El Pais, al Guardian, i giornalisti rimangono sbigottiti. La giornalista del New York Times mi ha chiamato più volte per avere conferma dei dettagli, le è sembrato tutto assurdo», aggiunge Rizzitelli che ha promosso con Assist la campagna social #IOLOSO.  

Le eccezioni, assai rare, esistono. Mesi fa il Cesena Femminile, squadra di calcio che milita in serie B, ha rinnovato il contratto ad Alice Pignagnoli, portiera del club. Una decisione presa in libertà della società sportiva, dato che la calciatrice (non professionista) non rientra nelle tutele di gravidanza del sindacato FifPro.

Ma il caso Lugli non è isolato. Un precedente altrettanto noto riguardò Adriana Moises Pinto, cestista di punta del Faenza, che a metà stagione annunciò la maternità. Era il 2005 e la squadra era favorita per il titolo, Pinto fu messa alla porta. O la schiacciatrice Cristina Pirv, che dopo 13 anni in serie A ai massimi livelli, ha rotto i rapporti con il Novara una volta incinta. Di esempi ce ne sono decine, anche se la maggior parte si risolve senza clamori e con la fine della professione: «Lugli ha anche denunciato perché a fine carriera, ma sono pochissime quelle che lo fanno», spiega Rizzitelli. E non mancano episodi all’estero: Nike nel 2019 ha tagliato del 70 per cento il contratto della velocista Allyson Felix, vincitrice di sei ori olimpici, al rientro dalla maternità. 

Eppure tra le voci di condanna se ne alternano altrettante, per lo più maschili, di sostegno alla società sportiva, e quindi a quella mentalità che vuole una donna che scelga tra lavoro e gravidanza. «Se vuoi un figlio non firmi un contratto», «Sei una professionista sportiva, il minimo è avvisare», «Se voleva avere figli poteva rimanere a casa e non farsi assumere», si legge sui social. Come se la gravidanza fosse un atto di furbizia nei confronti dei propri datori di lavoro. Un’idea questa condivisa anche da alcune donne.

«Nella mia città, c’è una catena di negozi gestiti da un'unica famiglia, che da decenni al momento dell’assunzione fa firmare un documento concorde a non rimanere incinta», racconta Biancarosa, che aggiunge di non essere sconvolta, perché molte donne «sono sempre incinte, con notevoli disagi del datore di lavoro, è giusto sapere prima come andranno le cose». La gravidanza vista come un qualsiasi punto di un ordine del giorno, da mettere in calendario con il proprio datore di lavoro. 

TUTTI SANNO NESSUNO NE PARLA 

«La prima cosa che mi chiedevano ai colloqui era la mia intenzione di rimanere incinta o meno, anche per fare le pulizie, non dirigente d'azienda». «In passato un titolare mi ha anche chiesto se stessimo prendendo “precauzioni” con il mio compagno». «Dopo il primo figlio, al rientro sono stata messa in cassa integrazione per un anno rinnovato di settimana in settimana. Al secondo sono stata sbattuta direttamente a fare fotocopie». «Dopo il diploma ho cominciato a cercare lavoro, le prime domande che mi facevano erano se ero fidanzata e se avevo intenzione di avere figli: era il 1979, non è cambiato niente». 

La vicenda della pallavolista ha tirato fuori gli sfoghi di molte. Purtroppo a leggerle una di seguito l’altra, con le varie sfumature che ogni storia porta con sé, si intravede un unico filo rosso: "tutti sanno, ma nessuno ne parla". Già, perché se le donne stanno zitte per paura di ripercussioni o abbandonano per mancanza di tutele, i numeri sono lì: il tasso di occupazione delle donne in Italia è di 18 punti percentuali più basso di quello degli uomini (al sud è pari al 33,2% degli occupati), il lavoro part-time riguarda il 73,2% delle donne ed è involontario nel 60,4% dei casi.

«Non mi stupisce più nulla: quando mia figlia faceva le elementari più di una mamma ha criticato una maestra che era rimasta incinta - scrive Fabrizia - aggiungendo che le maestre dovrebbero garantire almeno i cinque anni». «Prima di firmare un contratto di lavoro è stato chiesto di impegnarmi a non rimanere incinta - racconta Chiara - feci buon viso a cattivo gioco, invece a una collega era stato fatto firmare un foglio di dimissioni in bianco, che il datore di lavoro teneva pronto». I ricatti si manifestano negli anni di fertilità delle donne, quelli in cui si entra nel mondo del lavoro, prima, e si dovrebbe fare carriera, poi. In molte aziende, ad esempio, non è possibile avere una promozione, se si è in part-time.

Madalina ha 28 anni, vive in Val d’Aosta, dove dice si conoscono tutti. Lavora, anzi lavorava nella ristorazione, ma vista la situazione, racconta all’Espresso, vorrebbe cambiare: «Tutti chiedono come gestisco mio figlio di tre anni, ma se ci sono sempre riuscita lavorando nella ristorazione, che ha orari particolari, perché non dovrei? Sono scuse per non assumere una donna con un figlio piccolo». In attesa di qualcosa Madalina pensa alla sua formazione: «Mi sono iscritta ai corsi che la regione offre: informatica e per fare l’Oss, ma non è quello che voglio fare. In alternative farò pulizie, anche non in regola». 

Su questi temi non partono quasi mai vertenze o segnalazioni al sindacato, semplicemente si tenta al colloquio successivo: «In generale, sarebbe meglio evitarle per non creare problemi futuri alle lavoratrici, che potrebbero subire mobbing o non vedersi rinnovati i contratti. Questo però quando le aziende collaborano, alcune non aprono neanche i dialoghi con noi. E le donne difficilmente sporgono denuncia, il sommerso in questo ambito è enorme, impossibile da calcolare», spiega Sabrina Bordone, Cgil Asti. 

Di recente il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha ricordato l’importanza del "Codice delle pari opportunità" dove è scritto il divieto di qualsiasi "riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive" (art. 27). Ci sarà un maggior controllo anche grazie a «piattaforme anonime per denunciare le aziende che vìolano quell’articolo che proibisce di fare domande sulla vita personale delle donne (ma anche degli uomini): perché lì si decide se assumere un uomo o una donna», ha dichiarato il ministro. 

E I PAPA’?

In questi discorsi dei papà, o possibili tali, neanche l’ombra, nessuno li tira in ballo, come se non esistessero. Certo non si può delegare loro la gravidanza, ma si potrebbero far passi in avanti nella gestione familiare. Perché a sentire tutte queste storie sembra che il diritto alla maternità, sancito dall’art. 31 della Costituzione, non sia mai stato scritto.

«All’età di 29 anni, fresca di matrimonio ho fatto dieci colloqui, cercavo lavoro a Bolzano in ambito finanziario - ricorda Ilaria all’Espresso - Anche con un ottimo curriculum la domanda sulla gravidanza arrivava sempre». “Il posto è tuo ma se investo, mi aspetto che per i prossimi sei anni non te ne vai, ci aspettiamo un ritorno”, si è sentita dire una volta. L’unica volta in cui non le hanno fatto la domanda è stata assunta: «Ho trentasei anni, due figli. Lavoro ancora nella stessa azienda, ma solo perché ha decine di dipendenti e un welfare rigido, la mia essenza non è pesata». Dice Ilaria aggiungendo anche che il marito essendo partita iva non ha potuto usufruire del congedo parentale, motivo per cui è rientrata a lavoro in part-time. 

Gravidanza vuol dire allontanamento dal posto di lavoro, per questo un discorso sul congedo per i padri è fondamentale. In Italia è solo di dieci giorni, da usare entro i cinque mesi di nascita. E pensare che in Svezia è stato introdotto nel 1975, al momento è di 12 mesi, come in Danimarca, in Finlandia addirittura 14. Mesi che non possono essere ceduti alla madre. Una proposta firmata dalla deputata del Pd Giuditta Pini prevede il congedo paterno obbligatorio per quattro mesi: «La legge è ferma da due anni, è tempo di portarla in commissione e approvarla. Diciamolo chiaramente: i genitori hanno uguali diritti e doveri nei confronti dei figli e delle figlie». 

https://espresso.repubblica.it/attualita/2021/03/30/news/mobbing_maternita_donne_lavoro-294351671/?fbclid=IwAR3V-MiC0tRGiQbyspRfIAV4BGON_280pIY2uZ12wjuVWRcNTCH8m4tcPnc

giovedì 1 aprile 2021

Ecologia e sviluppo sostenibile, il centenario di Laura Conti, cofondatrice di Legambiente Di Mariarosa Rossitto - 30/03/2021

 Il 31 marzo ricorrono cento anni dalla nascita di Laura Conti (1921-1993), partigiana, medico, scrittrice, divulgatrice scientifica, nota per l’impegno politico e per le numerose battaglie ambientaliste e contro il nucleare. Intransigente, appassionata, carismatica, pragmatica e, all’occorrenza, provocatoriamente polemica: dai suoi scritti, dagli articoli a lei dedicati e dalle testimonianze, la figura di Laura Conti emerge caratterialmente ben definita.

La vita di Laura Conti

Cresce negli anni del Regime e ne scopre presto gli orizzonti ristretti. «Il fascismo diceva che la donna era il trastullo del guerriero e questo era fastidioso e volgare per tutte noi. Quando ci ammannivano questa visione del nostro ruolo eravamo a disagio, […] infastidite, imbarazzate e piene di rancore». Così Laura Conti ricorda le impressioni sue e di molte coetanee circa la percezione del ruolo femminile nel Ventennio. Da ragazzina il suo «breviario» è la biografia di Marie Curie, che le propone un modello di donna lontano da quello imposto dal Regime. Dà un contributo attivo alla lotta antifascista entrando nel Fronte della gioventù e nel luglio 1944 viene arrestata e deportata nel campo di internamento di Gries (Bolzano).

Dopo la guerra si laurea in medicina. Al lavoro affianca l’impegno politico e l’attività di scrittrice. Si occupa anche di divulgazione scientifica, soprattutto per ragazzi, ed è molto attenta alle questioni ambientali. Non si definisce scienziata ma «studiosa di problemi ecologici» e insiste sulla necessità di coniugare tale studio all’azione politica: «Non basta studiare, bisogna anche darsi da fare».

Il suo nome resta legato in particolare alla tragedia di Seveso. Il 10 luglio 1976 un guasto causa la fuoriuscita di diossina dal reattore dell’Icmesa, azienda chimica della multinazionale svizzera Givaudan. È disastro ambientale, nonostante le rassicurazioni fornite inizialmente dall’Icmesa e dalle stesse autorità. Laura Conti – allora consigliere regionale per la Lombardia – lotta contro i tentativi di ridimensionamento degli effetti della nube tossica e per l’individuazione delle responsabilità dell’incidente. Dall’esperienza nella zona più colpita nasce Visto da Seveso (1977).

Sui fatti di Seveso aveva intenzione di scrivere anche un libro di divulgazione per ragazzi, ma già in fase di ideazione l’opera prende un’altra direzione: «i ragazzi dell’area inquinata desideravano dal mondo adulto informazioni su quello che sovvertiva la propria vita, e furono messi sgarbatamente a tacere. Se vollero informazioni dovettero rubarle, origliando dietro le porte: gli adulti, infatti, avevano troppa paura di parlare della diossina, per accettare di rispondere alle domande; e avevano paura perché l’inquinamento metteva in crisi i loro valori. […] Il libro progettato cambiava natura: da libro di divulgazione, cioè educativo, diventava un libro su una particolare crisi del processo educativo». In Una lepre con la faccia di bambina (1978) attraverso Marco, che cerca di ricomporre le notizie frammentarie e contraddittorie, colte nelle risposte reticenti degli adulti o in brandelli di discorsi carpiti, la vicenda emerge gradualmente nella sua drammatica evidenza. Prendendo sempre più coscienza degli effetti della contaminazione, Marco si trova a fare i conti anche con la miseria umana dei propri genitori e con la spregiudicatezza criminale del padre mobiliere, che non si fa scrupolo di vendere rotoli di tessuto contaminato. E forse anche per la rappresentazione della piccola borghesia imprenditoriale brianzola il film con Franca Rame, tratto da Una lepre con la faccia di bambina, fu accolto da accese proteste della stampa locale.

Nel libro il dramma è colto non solo nelle sue implicazioni umane e psicologiche, ma anche in quelle religiose (la legittimazione o meno dell’aborto in caso di malformazione del feto causata dalla diossina) e sociali (la contrapposizione tra i genitori di Marco e la numerosa famiglia di Sara immigrata dal Meridione). L’autrice è attenta a riprodurre anche – ma senza frettolose forzature – l’italiano impoverito dei ragazzini protagonisti a lei ben noto grazie alla propria esperienza professionale di medico scolastico. Lo definisce un «linguaggio di sottostima» che sottostima, appunto, «emozioni e stati d’animo (l’unico vocabolo che Marco possieda per designare una situazione psicologica è “incazzatura”)».

Laura Conti è stata tra i fondatori di Legambiente. A lei sono intitolati vari circoli dell’associazione

https://www.tecnicadellascuola.it/ecologia-e-sviluppo-sostenibile-il-centenario-di-laura-conti-cofondatrice-di-legambiente?fbclid=IwAR1bWnJ2AIReDcK1NPvnjRMvlFXHewM0Th--Mno3GT02JMwlqY4y5veEgnA