lunedì 25 settembre 2017

28 .9.2017 ore 18,30 al Pirellone, piazza Duca d'Aosta Milano. Noi ci saremo, vi aspettiamo sotto lo striscione di ventunesimodonna



Mi hai stufato di lunanuvola di Maria G. Di Rienzo

Dico a te, “La Repubblica”.

Il 15 settembre pubblichi un articolo dal titolo “La violenza delle coppie giovani, oltre una ragazza su dieci aggredita prima dei 18 anni” che presenta “uno dei pochi studi condotti nel nostro Paese sul tema, condotto su un campione di oltre 700 studenti delle scuole secondarie di secondo grado”.
“Di questo e temi collegati si parlerà – prosegue il pezzo – il 13 e 14 ottobre a Rimini in un convegno organizzato dal Centro studi Eriksson, dal titolo ‘Affrontare la violenza sulle donne – Prevenzione, riconoscimento e percorsi d’uscita’ nel quale una parte consistente sarà rappresentata dalla discussione della Teen dating violence, la violenza da appuntamento tra adolescenti e della violenza nelle giovani coppie. Si tratta, sottolineano gli organizzatori del convegno, di situazioni di violenza non facili da individuare e comprendere per le stesse ragazze che ne sono vittime, coinvolte da quello che dovrebbe essere il ‘primo amore’, ma che con l’amore e il rispetto che deve accompagnarlo non ha nulla a che fare.”
L’articolo contiene l’intervista a una delle relatrici, la psicologa Lucia Beltramini, che spiega: “Negli ultimi anni le riflessioni e gli interventi sul tema della violenza contro le donne e le ragazze hanno ottenuto maggiore diffusione e visibilità, e la volontà di realizzare interventi preventivi (…) Tali interventi non possono però prescindere da un’attenta analisi di quello che è il contesto sociale e culturale nel quale ragazzi e adulti si trovano a vivere, un contesto ancora fortemente permeato, anche a livello mediatico, da modelli stereotipati di maschile e femminile e rapporti tra i sessi poco improntati alla parità.”
Ma la conclusione a cui il testo sembra arrivare è che la colpa sia delle femministe: “Uno dei problemi maggiori nell’affrontare il fenomeno è la necessità di spiegare ai ragazzi che quanto stanno vivendo è violenza, non normalità, poiché spesso tali atti non sono riconosciuti come violenza e inaccettabili. In particolare, comportamenti di dominazione e controllo sono scambiati per segni di interessamento e amore. “Non vuole che parli con altri perché sono sua, ci tiene a me”, si sente dire alle ragazze, frasi che fanno chiedere dove siano finite le battaglie femministe nelle quali al centro si poneva ben altro concetto, quel “io sono mia” fondamento dell’autodeterminazione.”
Repubblica, assieme a una valanga di altri giornali e pubblicazioni ci hai triturato le ovaie per anni con concetti quali “la fine del femminismo”, “l’inutilità del femminismo nella società moderna”, “gli errori del femminismo”, “l’obsoleto femminismo che non capisce/vede…. (aggiungi il termine che preferisci)”, “il nuovo femminismo della scelta”, “prostituzione e pornografia sono manifestazioni del femminismo” eccetera.
Dove sono finite le lotte femministe? Non sono finite. Stiamo ancora lottando. Ma se non volete vederci non ci vedrete, è molto semplice. Per esempio, TUTTA la legislazione che in Italia riguarda diritto di famiglia, divorzio, interruzione volontaria di gravidanza, accesso ai diritti civili per le donne, violenza di genere si è generata da quelle stesse lotte. Se avessimo aspettato la buona volontà dei politici e dei governanti a quest’ora nella redazione de “La Repubblica” le donne presenti sarebbero unicamente quelle che puliscono gli uffici o preparano il caffè. Non occorre che ci diciate “grazie”, ma almeno smettete di sputarci in faccia. Maria G. Di Rienzo
https://lunanuvola.wordpress.com/2017/09/16/mi-hai-stufato/

domenica 24 settembre 2017

“Non vogliamo più morire. Ascoltate le donne e i Centri Antiviolenza”.Comunicato di D.i.Re-Donne in Rete contro la violenza.

La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha respinto e giudicato inammissibile il ricorso del Governo Italiano contro la condanna del marzo scorso per il caso di Elisaveta Talpis. E’ un caso che fa storia e di grande rilevanza giuridica e politica.
Nel marzo scorso la Corte aveva condannato l’Italia per non aver agito adeguatamente nel proteggere una donna e il figlio dalla violenza del marito, che alla fine aveva ucciso il ragazzo e tentato di assassinare la moglie. A ricorrere a Strasburgo, nel 2014, era stata proprio Elisaveta Talpis che, prima della tragedia, aveva denunciato invano le violenze del marito. La Corte ha riconosciuto che Elisaveta Talpis è stata oggetto di discriminazione in quanto donna e che la sua denuncia è stata sottovalutata. A presentare il ricorso a nome di Elisaveta Talpis era stata nel 2014 l’avvocata Titti Carrano, Presidente di D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, Associazione che raccoglie 80 Centri Antiviolenza in tutta Italia, con l’avvocata Sara Menichetti. "La sentenza è definitiva – dichiara l’avvocata Titti Carrano – e ha una rilevanza enorme anche perché cade in un momento in cui in Italia accadono numerose e efferate violenze sulle donne e femminicidi. Invece di ricorrere contro la sentenza della Corte il nostro Governo avrebbe dovuto assumersi le responsabilità del caso e correggendo un sistema di protezione che è evidentemente inadeguato come la governance del Piano Nazionale antiviolenza. Questa sentenza mette il nostro Governo di fronte alla necessità di riconoscere questa inadeguatezza e rimediare”.
Il Governo italiano ha un comportamento ambiguo,  ha dichiarato ancora l’avvocata Titti Carrano: “Da una parte a parole dichiara di combattere la violenza sulle donne e la ritiene inaccettabile, ma poi ha presentato ricorso per un riesame alla Grande Camera sulla sentenza Talpis, quasi rivendicando come corrette proprio quelle azioni che sono state condannate dalla Corte e hanno avuto un esito tragico”.
L’attuale Piano Nazionale contro la violenza ancora una volta considera i Centri Antiviolenza meri esecutori, disconoscendo la loro esperienza, saperi, capacità di scelta e operatività. Le donne che vogliono uscire dalla violenza e salvarsi la vita e si rivolgono alle forze dell’ordine, alla magistratura, ai servizi sociali, troppo spesso sono inascoltate e vanno incontro a nuove violenze e alla morte. Nei Centri Antiviolenza nessuna viene lasciata sola. E’ fondamentale che i Centri siano riconosciuti come cardine del sistema che combatte la violenza maschile nella prevenzione e nella protezione.
La sentenza di Strasburgo dimostra che questo Governo è molto lontano dalla volontà di entrare nel merito del fenomeno strutturale della violenza maschile sulle donne, e del resto neppure una parola è stata spesa da Palazzo Chigi in questi giorni di grande allarme dell’opinione pubblica per stupri e femminicidi, gli ultimi due particolarmente atroci perché hanno trovato la morte due ragazzine, Noemi Durini e Nicolina Pacini, nonostante la famiglia avesse cercato di salvarle denunciando la violenza e la persecuzione da parte di chi poi le ha assassinate.
La Presidente della Camera Laura Boldrini, invece, dimostra il suo impegno costante contro la violenza sulle donne, sollecitando azioni efficaci. Nonostante lei stessa sia oggetto di violenza, minacce e misoginia, Laura Boldrini rende visibile la straordinaria forza delle donne e la volontà di vincere con le altre questa battaglia.
https://www.cooperativaeva.com/2017/09/21/non-vogliamo-pi%C3%B9-morire-ascoltate-le-donne-e-i-centri-antiviolenza/

sabato 23 settembre 2017

Da Nicolina Pacini a Gloria Pompili: i femminicidi che svelano l'ipocrisia dei media Televisioni e stampa non trattano le vittime allo stesso modo: se sono adolescenti si pubblicano foto che le ritraggono sorridenti. Se invece sono prostitute, due foto possono bastare. E poi si passa oltre. di Cristina Obber

Nicolina era una ragazzina molto bella, lo sappiamo perché tutte le testate, a cominciare dall’Ansa, ne annunciano la morte pubblicandone i selfie probabilmente scaricate dal suo profilo Facebook, compreso quello in cui tira fuori la lingua scherzosamente. Nonostante sia morta. Nonostante sia minorenne.
Dovrebbe bastare questo secondo dettaglio a preferire una narrazione più asciutta, più rispettosa e pudica e meno a caccia di click. La stessa cosa è avvenuta per Noemi Durini, anche lei 15enne, uccisa da un fidanzato violento a Lecce, anche lei splendida nel suo sorriso di adolescente. I suoi selfie spensierati ci inducono a dimenticare che il suo corpo è finito sul lettino di un obitorio.
Niente foto invece - o molto poche, molti hanno preferito dare la notizia utilizzando un’immagine di una volante dei carabinieri o la classica foto di una ragazza che si copre il volto con la mano - per Gloria Pompili, 23 anni, uccisa di botte su una provinciale del litorale romano dalle persone che la sfruttavano facendola prostituire.
Le foto di Gloria non ci sono perché quando a morire sono le prostitute la macchina mediatica mette la prima, al massimo la seconda, poi parcheggia. Donne di serie B per la stampa e per tutti noi che ci passiamo a fianco, invisibili da vive, invisibili da morte; senza storia, dunque senza volto, appunto. Le foto di Gloria non ci sono anche perché i suoi occhi tristi sono tutto fuorché accattivanti, niente sguardi ammiccanti, niente pose sexy, niente di niente. Quella foto con gli occhi tristi in cui si intravedono i volti dei suoi bambini è straziante e porta con sé le contraddizioni di un paese che si affanna a indossare il vestito della festa nascondendo sotto il tappeto il suo degrado.
Che ci sia un talk show che abbia voglia, sì voglia, desiderio, slancio, di raccontarci la sua storia, di interrogarsi sul degrado che circonda tante esistenze sulle strade del nostro bel paese perché continuiamo a considerare normale e ineluttabile che gli uomini abbiano il diritto di pagare per avere rapporti sessuali che sono violenze senza grida, stupri senza difesa di tantissime ragazze, anche minorenni di 14 o 15 anni? È un tabù chiedersi perché gli uomini si fanno complici di un sistema di sfruttamento che non si mette in discussione in virtù del fatto che è vecchio come il mondo come ci si sente dire spesso? La violenza è antica, dunque non si tocca. Ma perchè? La storia di Gloria ci interessa, la storia di Gloria ci riguarda.
Ma a chi importa davvero delle ragazze?
A Chi l’ha visto? , forse, che sulla scomparsa di Noemi ci ha buttato in pasto - sul servizio pubblico - uno degli spezzoni più trash della tivù del dolore?
A chi importa delle ragazze se la cosa che accomuna Nicolina, Noemi e Gloria è che si tratta di morti che si sarebbero potute evitare se in questo paese si smettesse di sottovalutare la violenza maschile contro le donne, se si decidesse di cambiare rotta?
Sia Noemi che Nicolina sono state uccise nonostante ci fossero state delle denunce alle forze dell’ordine. Gloria è stata uccisa dopo ripetute violenze subite per cui non ha sporto denuncia, così come non ha chiesto aiuto chi la conosceva e ne era a conoscenza. Per rassegnazione, per ignoranza, per paura, perché non sempre si sa a chi rivolgersi? Non lo sapremo mai ma poco conta adesso.
A chi importa delle ragazze se a Francesco Mazzega, il femminicida che a luglio ha ucciso Nadia Orlando, 21 anni, il Tribunale del Riesame di Trieste ha concesso gli arresti domiciliari?
La presidente della Camera Laura Boldrini ha lanciato un appello alle forze politiche affinché si approvi un provvedimento che aumenti le tutele per le donne in situazioni di rischio e rafforzi le misure di interdizione contro gli uomini violenti, sottolineando inoltre la necessità di intervenire sulla prevenzione che può avvenire solo a scuola e in famiglia.
Ci auguriamo che il governo Gentiloni, sordo fino ad oggi a tutte le richieste che arrivano dalla società civile, dall’attivismo femminista, dai centri antiviolenza, si assuma le responsabilità che gli competono. Anzi, competerebbero, perché qui il condizionale ci sta tutto.
http://www.letteradonna.it/it/articoli/punti-di-vista/2017/09/21/da-nicolina-pacini-a-gloria-pompili-i-femminicidi-che-svelano-lipocrisia-dei-media/24309/

venerdì 22 settembre 2017

Chi è che stupra? Mi chiedevo, di chi è la colpa di un delitto?

Chi è che stupra?
Mi chiedevo, di chi è la colpa di un delitto?
Se c'è un furto, la colpa è del ladro.
Se c'è una rapina, la colpa è del rapinatore.
Il rapimento ha il rapitore, l'omicidio l'assassino e via così.
Facile e lineare, son quelle cose che impari alle elementari con i disegnini sul sussidiario.
Solo che poi si arriva allo stupro.
E chi ha la colpa di uno stupro?
"Lo stupratore!" diranno subito le mie piccole lettrici. No ragazze, avete sbagliato. (semicit.)
Per lo stupro la faccenda è più complicata di così.
Lo stupro è l'unico delitto per cui si hanno decine, centinaia, migliaia di colpevoli che non necessariamente coincidono con lo stupratore. Sarebbe così banale!
Qualche esempio, giusto per capire di cosa parliamo.
Colpa di uno stupro può essere la notte, una strada isolata, il gran caldo, una gonna, una maglietta, un paio di birre, le canne, la noia, l'orario, il quartiere, il colore della pelle, il mestiere, la provenienza, l'occupazione, l'istruzione ricevuta.
Ma più di ogni altra cosa, la colpa dello stupro è la donna.
Lo dicono in tanti/e da sempre, a volte a mezza bocca, quasi per non farsi sentire, come se si avesse vergogna di dire che, insomma, se ti stuprano la colpa è tua.

Finalmente, però, Lucetta Scaraffia su Il Messaggero non ha paura di prendere posizione e ci dice senza mezzi termini e ipocrisie come stanno le cose nel suo "manuale per le donne".


Innanzi tutto la colpa è di una che accetta passaggi dagli sconosciuti, tanto più alle 4 del mattino.
Quindi se ti stuprano con ogni probabilità la colpa è tua che non hai ascoltato gli insegnamenti che di certo qualcuno deve averti dato. So' le basi. Gli sconosciuti, le caramelle, i passaggi, 'ste cose qua.
Senza contare poi che il mito della raggiunta eguaglianza con gli uomini stia portando a effetti perversi, che fanno si che molte ragazze ormai girino di notte senza prendere le più elementari precauzioni.
Purtroppo Scaraffia non ci offre un elenco delle precauzioni più elementari, ma possiamo immaginare comprendano maglioni larghi, capelli arruffati e magari zozzi, pantaloni  che non lascino vedere le forme, scarpe comode per correre e magari un maschio accanto. La cintura di castità è fuori moda, ma ha sempre dato ottimi risultati.
In ogni caso mai, mai, mai credere nell'eguaglianza con gli uomini. Questa folle idea è pericolosissima ed è una grande causa di stupro.
Quindi dobbiamo essere prudenti e usare precauzioni.
Meglio ancora dovremmo rimanere in casa, soprattutto di notte, almeno lì alle brutte ci stupra qualcuno che conosciamo già.
Ma sopra ogni cosa, amiche mie, la colpa è sua, di quello schifoso, infido, immondo, riprovevole Femminismo.
Il femminismo infatti ha rigettato con orrore l'idea che le donne avessero bisogno di protezione, preferendo inseguire una libertà dal loro destino biologico, cioè negando sia la maternità sia la maggiore fragilità, per arrivare a equipararle in tutto e per tutto ai maschi. [...] La debolezza di questo progetto, così evidentemente utopistico, è stata pagata a duro prezzo da quelle donne, soprattutto giovani, che hanno creduto di non avere più bisogno di cautele. In realtà, un rapporto più libero e consapevole con il proprio corpo non deve escludere la necessità di riconoscere i rischi e le debolezze del destino femminile, per prevenirli.
Maledetto Femminismo, che ci ha parlato di gioia, di libertà, di indipendenza.
Che ci ha promesso un'esistenza piena così come la desideriamo, che ci ha detto che siamo forti, che possiamo tutto, che non dobbiamo piegarci mai.
Che ci ha detto che il nostro destino non è essere madri, ma che possiamo decidere noi stesse cosa fare delle nostre vite. Magari addirittura fare figli. Decine di figli e figlie.
Lui, che ci ha illuse cancellando l'antica idea che gli uomini devono proteggere le donne, che ci ha detto che avremmo potuto andare per il mondo da sole, magari alle 4 di notte, magari con una gonna corta e la canottiera aderente.
Ancora una volta ho imparato qualcosa: se mi stuprano la colpa sarà sempre e solo mia, che mi ostino a non accettare il mio destino, quello di un essere debole e inferiore e bisognoso di una corazza protettiva, possibilmente maschile.
Ho imparato che prima ancora di educare i maschi a non violentarmi devo essere educata io a restare al mio posto, quello stesso posto che mi è stato assegnato duemila anni fa, un posto di subalterna, di comparsa.
Devo ricordarmi bene di questi insegnamenti, perché in tutti questi anni al contrario ho sempre pensato che la colpa dello stupro fosse dello stupratore.
http://ritentasaraipiufortunato.blogspot.it/2017/09/chi-e-che-stupra.html


giovedì 21 settembre 2017

LE RAGAZZE SONO GIÀ EDUCATE ALLA DIFFIDENZA MA NON FUNZIONA E NON BASTA di FRANCESCA MANDELLI


Noemi Durini è scomparsa domenica 3 settembre in provincia di Lecce. Aveva solo 16 anni. Li avrà per sempre, perché dieci giorni dopo la sua scomparsa, il fidanzato, un giovane di diciassette anni con alle spalle tre trattamenti sanitari obbligatori, ha confessato di averla uccisa (e non importa come) indicando il luogo in cui si trovava il cadavere. Il padre del giovane è indagato per concorso in omicidio volontario. La vicenda ha diversi lati oscuri, tanto che il Csm ha aperto un fascicolo sulla procura per i minorenni di Lecce alla quale la madre di Noemi aveva già segnalato la pericolosità del ragazzo. Una denuncia, quella della donna, completamente inutile.
L’ultimo post pubblicato su Facebook dalla ragazza rivela la consapevolezza di vivere un rapporto malato, fatto di abusi e violenze, che niente hanno a che vedere con l’amore: «Non è amore se ti fa male. Non è amore se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia (…). Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore. C’è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!». Una vita che Noemi non avrà modo di vivere, come le 117 donne uccise nel 2015 nel nostro paese (dati della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna).
Oggi, una donna su tre subisce violenza nel corso della sua vita e i fatti delittuosi sono in aumento, soprattutto – come afferma la presidente di Cerchi d’Acqua, Graziella Mazzoli, che da oltre trent’anni si batte contro la violenza di genere – perché l’uomo non si adatta ad accogliere un rifiuto.
Che fare quindi? «Purtroppo è necessario che le ragazze sappiano che i rapporti con i ragazzi, e con gli uomini in generale, possono comportare dei rischi», scrive Valentina Saini su queste pagine, che continua, «Rischi da non dare per scontati, ovviamente, ma neanche da liquidare come rari o patologici o eccezionali. Bisogna educare le ragazze a individuare subito i segnali di pericolo, e ad agire di conseguenza». Mentre si educa la società al cambiamento culturale necessario affinché non vi sia più la piaga del femminicidio e del maschilismo, bisogna educare le ragazzine, le donne, alla diffidenza, afferma Valentina.
Insomma, bisogna tamponare, in attesa di risolvere il problema, ma a farne le spese, sono comunque le donne. Il punto, però, è che a quella diffidenza, in un modo o nell’altro, sono già educate, siamo già educate, tutte. Da quando sono adolescente, scelgo di non camminare da sola in luoghi isolati la sera, soprattutto in città, mi guardo alle spalle se rientro col buio d’inverno, ho sperimentato la paura di certi sguardi, e il terrore che qualcuno mi stesse seguendo (e sì mi stava seguendo). Se prendo un taxi a tarda sera, chiedo al tassista di aspettare che sia entrata in condominio prima di andare via. Da ragazzina, ho imparato che se metto il rossetto rosso, allora non devo troppo truccare gli occhi, e non per una questione di buon gusto, ma per non sembrare quella che molti definirebbero una facile, perché “non si sa mai”. In coda per entrare nei locali, ai concerti, ho avuto addosso “per sbaglio” le mani di molti uomini, italiani e stranieri. Cosa sarà mai una “palpata”?! Ho avuto la fortuna (perché anche di questo si tratta) di aver vissuto e vivere relazioni sane, ma mi sono ritrovata, a volte, a dover difendere lo stesso il mio diritto ad essere fisicamente e mentalmente libera e considerata in qualità di persona, al di là del genere. Pretendo per questo rispetto. Come me, moltissime mie amiche, a volte anche a sproposito, alzano la guardia se un uomo urla troppo forte, o ha un atteggiamento che somiglia al sessismo, al maschilismo. Siamo già educate alla diffidenza, soprattutto noi fortunate, cresciute in un contesto comodo e accogliente, in famiglie in cui un uomo o una donna hanno esattamente lo stesso valore di essere umani, le stesse opportunità, gli stessi diritti e doveri (mio fratello comunque cucina molto meglio di me). E in ogni caso, molto spesso, la violenza di genere non è affatto frutto di situazioni di degrado o emarginazione come spesso si pensa, quindi, anche le più fortunate ne sono vittime.
Non sono sicura, nonostante tutto, che continuare ad educare alla diffidenza le ragazzine, mentre la società si impegna e lavora per il cambiamento che ormai noi donne aspettiamo da sempre, possa essere una delle strade migliori da percorrere oggi, peraltro in un momento in cui le più varie paure verso l’altro vengono continuamente alimentate. Non vorrei che mia nipote vivesse tenendo alta la guardia. Forse ha ragione Valentina, che spesso si occupa di questioni di genere e femminismo, e la cruda realtà suggerirebbe una soluzione di questo tipo, insieme a molto altro. Di sicuro però (e su questo siamo d’accordo) c’è l’esigenza di un’educazione ai sentimenti, al rispetto dell’altro, che è sempre diverso da noi. Anche perché l’educazione alla diffidenza non mi sembra che abbia granché funzionato finora.
http://www.glistatigenerali.com/questioni-di-genere/le-ragazze-sono-gia-educate-alla-diffidenza-ma-non-funziona-e-non-basta/

L'autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso di Francesco Merlo

La 'nera' tra tv e giornali. Quello di Noemi Durini è soltanto l'ultimo caso della deriva di un certo tipo di giornalismo italiano
È ODIOSA la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, “anzi no, era un coltello”. Ora al pantografo sono finite le ferite, il sangue e la lama affilata. Ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti.
È un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: «Non ne facciamo il nome» dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia.
Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di Chi l’ha visto? ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: «Ancora non sapevano che il figlio avesse confessato». Il padre, che è indagato, dice allora « bedda mia », si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: «Hanno creato un mostro» grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona a una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta «ora siamo morti» e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale.
È vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. È insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi...
Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze. Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’ di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento.
Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris... Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo- immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi — nel 2003! — «danno un rilievo altissimo ai fatti di violenza», eccedono, insistono, scavano con un furore che «finisce per dare a quei drammi una valenza esemplare che essi sicuramente non hanno», e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi, «un grave attentato alla dignità umana».
Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea “neutrale”, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili.
Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per “necessità di sapere”, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà.
Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece,
che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»
http://www.repubblica.it/cronaca/2017/09/15/news/l_autopsia_in_prima_pagina_quando_la_cronaca_diventa_abuso-175568064/





martedì 19 settembre 2017

Che cosa non abbiamo fatto per Noemi? Si chiama «prevenzione primaria» e comincia nelle nostre case di Barbara Stefanelli

C’è un ragazzo di 17 anni che — se tutto verrà confermato — lapida una ragazza di 16, poi va e nasconde il corpo nelle campagne, qualche decina di chilometri più a sud, dove il Salento si chiude a punta nel Mediterraneo. Lo chiamano «il fidanzatino». Lo chiamano in quel modo che pare affettuoso, ma tanti sanno — sapevano — che è un giovane uomo violento. Noemi ha postato su Facebook e Instagram frasi sull’amore che non è amore «se ti fa male» e sull’uomo che «non è più un uomo dall’istante in cui alza le mani». La madre di Noemi è pure andata a denunciare tutto. Due procedimenti avviati: uno penale, uno civile. Nessun provvedimento cautelare.
Ancora una volta, qualcuno dirà che è la cronaca di una morte annunciata. Che non era complicato leggere tra le righe, o direttamente nelle righe, la minaccia diventata poi lapidazione. In questa storia resteranno due video che hanno incastrato l’assassino e tutt’intorno lo sguardo insufficiente di chi, prima, non avrebbe mai immaginato una fine così nera. O forse sì, qualcuno tra gli amici avrà anche temuto il peggio: e tuttavia non si è mosso, non è bastato.
Resteranno una madre che ha cercato di alzare lo scudo dell’autorità a protezione di sua figlia e un padre che ha aiutato il figlio a cancellare le tracce. E restiamo noi che, in un rito spaventoso, ci domandiamo — davanti ai nostri ragazzi che diventano adulti — che fare. Noi possiamo metterci di traverso: si chiama «prevenzione primaria» e comincia dai bambini per arrivare agli adolescenti, parte nelle case ed entra nelle scuole.
Non stanchiamoci di ripetere — e di dimostrare — che l’amore non ha proprietari. Insegniamo alle femmine a non scambiare il controllo per attenzione o dedizione, a non farsi lusingare dalle ossessioni, a non cedere mai alla richiesta di una prova d’amore e d’eroismo. E trasmettiamo ai maschi la bellezza e la radicalità della forza che riconosce la libertà, le fragilità, anche il fallimento. L’amore non è una pietra, né un coltello, l’amore non è un colpo di pistola.
http://27esimaora.corriere.it/17_settembre_13/che-cosa-non-abbiamo-fatto-noemi-si-chiama-prevenzione-primaria-quella-che-comincia-case-c606bb96-98cd-11e7-b032-1edc91712826.shtml

lunedì 18 settembre 2017

Ci stavano di Maria G. Di Rienzo

Ci stavano, dai. Questa è la linea difensiva dei due carabinieri di Firenze accusati di stupro. Intossicate al punto che una delle due quasi non si reggeva in piedi, le studentesse americane non hanno gridato, non hanno opposto sufficiente resistenza, non hanno detto no, hanno (chissà perché?!) avuto paura di due uomini armati. Secondo il più giovane dei carabinieri – che, mi si spezza il cuore, “in alcuni frangenti è scoppiato in lacrime” – sono “state le studentesse a invitarli a salire nella loro casa”, ma dovevano essere così in calore, le cagne, che a salire in casa non ci sono neppure riuscite: un carabiniere si è dato da fare nell’ascensore e l’altro nell’androne del palazzo.
È vero che erano in servizio, è vero che non hanno avvisato la centrale dell’accompagnamento delle ragazze, è vero che si sono fermati in una zona di competenza della polizia e non dei carabinieri, ma per tutto questo – virilmente e per l’onore della divisa – sanno di aver sbagliato e sono “pronti a pagare”. Per le bambole rotte no, e che diamine, si è mai visto un vero uomo prendersi la responsabilità di aver spezzato un giocattolo.
Questa faccenda sta invece avendo un grosso impatto sulla salute degli unici due esseri umani presenti… i carabinieri: con doverosa preoccupata gravità, i giornali ci informano che hanno le occhiaie e i volti tesi. Quando saranno riusciti a svangarla gettando la colpa sulle studentesse, bisogna proprio regalare loro una settimana di vacanza in un centro benessere o magari, visti i tipi, in un centro massaggi. E giustamente, di come stanno le ragazze americane non frega un fico a nessuno.
Ci stava, dai. Questa è la linea difensiva del 26enne israeliano accusato da una turista belga di aver tentato di violentarla. Si erano appena conosciuti in un locale pubblico: “Una chiacchiera tira l’altra e poi i due decidono di fare una passeggiata, lasciando gli amici al pub. Vanno in piazza Venezia, percorrono via del Corso, poi tornano indietro. Si dirigono verso il Campidoglio e lungo la scalinata lui tenta un approccio che lei respinge. Ci prova ancora e lei ancora lo respinge. Alla sua insistenza la ragazza inizia a urlare: gli agenti della polizia di Roma Capitale in servizio al Campidoglio la sentono e accorrono”.
Qui il caso sembra diverso: la giovane dice di no, ripete di no, grida. Ma non fa in realtà differenza alcuna, perché gli oggetti in tale tipo di situazione non possono avere voce in capitolo, nè alcun tipo di controllo sulla propria vita. Il tipo è convinto di essersi guadagnato il diritto di stuprarla, durante la serata: “Lei ci stava, assolutamente: mi aveva già dato un bacio, avevamo parlato tutta la sera, bevuto insieme, passeggiato, baciati ancora: ci stava, non c’è altro da dire”.
In tutto il mondo, gli uomini stuprano e uccidono donne in qualsiasi scenario possibile. Nelle case, nelle parrocchie, alle feste, per le strade, nei locali e spazi pubblici, sui mezzi pubblici, nelle automobili, nelle scuole, ai concerti, nei campeggi…
Le donne possono evitare, come è loro consigliato, le aree poco illuminate e prive di via di fuga; le donne possono stare il più possibile in casa, possono evitare di uscire la sera, di bere qualcosa in pubblico, di indossare gonne corte eccetera eccetera. Possono restringere la propria libertà sino ai minimi termini – e nulla cambia, perché sino a che gli uomini persistono nel considerare naturale, mascolino, giustificabile il loro comportamento violento e sino a che lo usano per stuprare e uccidere le donne continueranno ad essere stuprate e uccise. Non importa dove si trovino o cosa stiano facendo.
Sino a che non mettiamo in questione il punto dolente e cioè il collegamento diretto fra la mascolinità costruita socialmente e la violenza, l’unico mondo in cui le donne non saranno più assalite dagli uomini può essere solo un mondo in cui le donne non esistono più.

* Giornalista, formatrice e regista teatrale femminista, autrice del prezioso blog lunanuvola. Ha autorizzato Comune a pubblicare i suoi articoli.

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https://comune-info.net/2017/09/ci-stavano/

domenica 17 settembre 2017

Uomini che non accettano la nostra emancipazione Il commento di Dacia Maraini

Stupri, violenze, femminicidi? Tutte reazioni all’emancipazione femminile: più le donne diventano libere e autonome, più provocano reazioni violente negli uomini che identificano la loro virilità nel possesso, nel dominio, nel potere.
C’è stato un rivolgimento dei ruoli della famiglia, la famiglia è cambiata, le donne hanno acquistato la capacità di scegliere per se stesse, di decidere della propria vita. Questo per molti uomini è insopportabile, diventano matti. Sono uomini apparentemente normali, bravi ragazzi, padri di famiglia, ma non reggono alla perdita del privilegio, del potere. Non reggono allo smacco, alla sconfitta. Non si uccide per amore, si uccide quando si perde qualcosa e non si sopporta di averla perduta.
 In fondo, in altro ambito, pensiamo alle lotte terribili tra operai e proprietari, pensiamo alla canzone «Se potessi avere mille lire al mese», a quel tempo in cui lavorare otto ore al giorno era un miraggio. Quelle otto ore sono state una conquista che è costata tante vite. Perché anche lì, in un ambito diverso, era una questione di potere, di privilegio di una parte su un’altra parte.
 Per accettare la volontà di autodeterminazione della donna, bisogna essere maturi, razionali, bisogna avere la capacità di adeguarsi, Non sempre gli uomini lo sanno fare. E hanno paura. La violenza nasce sempre dalla paura. La violenza non appartiene alle persone sicure, forti, armoniose, la paura appartiene agli insicuri, ai deboli, ai malati di nervi.
 Pima dell’autonomia magari la donna odiava il marito, ma lo sopportava perché fuori dal matrimonio la donna semplicemente non esisteva. Non è che i sentimenti fossero diversi, ma nessuna osava ribellarsi. Magari aveva un amante, magari più di uno. Ma non rompeva il matrimonio. Pensiamo ad Anna Karenina, una donna che si separa dal marito ma poi si butta sotto un treno perché non può restare in vita, perché la società la ostracizza. Pensiamo a Effi Briest, il romanzo di Theodor Fontane, che sostanzialmente racconta la stessa storia.
 Lo stupro poi è l’atto di violenza estremo. Simbolicamente è l’aggressione verso la sacralità del ventre della donna, dove nasce la vita, dove nasce il futuro. In guerra era lecito, faceva parte dei diritti del vincitore perché in questo modo si agiva sul futuro della generazione vinta. Tutti coloro che lo compiono, anche inconsapevolmente, fanno questo. Umiliare la donna nel suo potete di procreare.
La cosa che fa ridere - se non fosse tragica - è che tutti gli stupratori si difendono dicendo la stessa cosa, che la donna era consenziente. Se si vanno a studiare i verbali, il copione non cambia. È la loro unica difesa, soprattutto quando, come nel caso che ha visto coinvolti i due carabinieri, ci sono tracce biologiche di un rapporto fisico. Non possono dire che non è vero. Dicono che la donna ci stava. Perché nessuno dice di una persona rapinata che quella era consenziente? Basta pensarci, è la stessa cosa.

Testo raccolto da Laura Anello
http://www.lastampa.it/2017/09/14/cultura/opinioni/editoriali/uomini-che-non-accettano-la-nostra-emancipazione-zoqgz6wE2pVEvOIAQxfj9L/pagina.html

sabato 16 settembre 2017

Ultimo post di Noemi Durini

- non è amore se ti fa male.
- non è amore se ti controlla.
- non è amore se ti fa paura di essere quello che sei.
- non è amore se ti picchia.
- non è amore se ti umilia.
- non è amore se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piace.
- non è amore se dubiti della tua capacità intellettuale.
- non è amore se non rispetta la tua volontà.
- non è amore se fai sesso.
- non è amore se dubiti costantemente della tua parola.
- non è amore se non si confida con te.
- non è amore se ti impedisce di studiare o di lavorare.
- non è amore se ti tradisce.
- non è amore se ti chiama stupida e pazza.
- non è amore se piangi più di quanto sorridi.
- non è amore se colpisce i tuoi figli.
- non è amore se colpisce i tuoi animali.
- non è amore se mente costantemente.
- non è amore se ti diminuisce, se ti confronta, se ti fa sentire piccola.
Il nome è abuso.
E tu meriti l'amore. Molto amore.
C'è vita fuori da una relazione abusiva.
Fidati!
preso da un articolo de
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/13/noemi-durini-lultimo-post-della-16enne-uccisa-dal-fidanzato-non-e-amore-se-ti-fa-male-o-se-ti-picchia/3854764/

venerdì 15 settembre 2017

La libertà delle donne cuore dello scontro Bia Sarasini

È senza fine, lo strazio della violenza contro le donne. Ieri Lucio Marzo, 17 anni, ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, 16 anni, scomparsa dal 3 settembre. E ha portato i carabinieri nel luogo dove ne aveva nascosto il corpo, sotto alcuni massi. Sempre ieri, è stato denunciato un tentativo di stupro sulle scale del Campidoglio, a Roma. L’aggressore sarebbe un israeliano. La notte precedente ancora a Roma lo stupro di una ragazza finlandese, da un ragazzo del Bangladesh.

Di qualche giorno fa la denuncia delle ragazze americane a Firenze, appena prima la giovane donna polacca stuprata a Rimini. Lo strazio è infinito, mille connessioni che si allargano come onde, dal punto in cui è stata esercitata la violenza. Avranno conseguenze nelle vite di tutte le persone coinvolte. Penso ai genitori di Noemi, alla madre, che non è riuscita a convincerla che quel ragazzo era violento. Non è servita neanche la denuncia che aveva presentato per ottenere l’allontanamento di quel ragazzo dalla figlia, non era stato preso nessun provvedimento.

Le adolescenti sfidano i genitori, la madre in special modo, come fare a proteggerle senza renderle prigioniere? È una domanda che non ha facili risposte. O meglio. Non le ha oggi. Oggi che le ragazze sono libere, nei paesi come nelle metropoli. Oggi che i divieti e le proibizioni non sono più la regola condivisa.

E la libertà – delle donne, delle ragazze – è il punto geometrico del conflitto. La solidarietà, perfino il dolore, sono pieni di ombre, di dubbi. Perché quelle ragazze sono in giro di notte? Perché si fidano di chiunque? Perché si permettono di andare in giro come se fossero dei ragazzi, dei maschi? Si ipotizza che Noemi sia stata uccisa al culmine di una lite.

Sulla sua pagina facebook l’ultimo post fa pensare. L’immagine è il viso di una donna malmenata, a cui qualcuno tappa la bocca. Il testo comincia cosi: «non è amore se ti fa male». Su instagram il profilo è più esplicito: «Il giorno che alzerai le mani ad una donna, quello sarà il giorno in cui ufficialmente non sarai più un uomo». Aveva capito? È stata punita perché voleva la libertà? Un’azione diretta, un atto di guerriglia individuale, lo definisco. Come lo stupro, le aggressioni sessuali. Tentativi di sottomissione, per mantenere l’ordine patriarcale. Contro tutte queste donne che si permettono di aggirarsi libere per il mondo. E per questo è così difficile ascoltarne la voce, a parte la retorica della vittima, che si rivela sempre più finta. Non è solo l’antico gioco delle donne perbene messe contro quelle per male. Il conflitto è a tutto campo, nelle vite private come nello spazio pubblico, nelle forme inedite della vendetta. Anche nella scena mediatica. Che non vuole lasciare la parola alle donne, alla loro visione.

Quel grande interprete del sentimento medio che è Bruno Vespa l’ha detto senza esitazione a Porta a Porta: «La prima vittima è l’Arma». Il corpo delle donne rimane un pretesto. Usato contro i migranti, per legittimare il razzismo. Occultato di fronte alla “grande onta” della perdita di onore maschile. Eppure le femministe lo dicono da sempre. La violenza, lo stupro sono compiuti da uomini. Giovanissimi e anziani, di qualunque nazionalità, colore, religione. Qualunque divisa indossino. Oggi è tempo di dire di nuovo che le donne sono, siamo, libere. Che stiamo nel mondo. Perché non tornare nelle strade di notte, insieme?
https://ilmanifesto.it/la-liberta-delle-donne-cuore-dello-scontro/

giovedì 14 settembre 2017

Stupri di serie A e di serie B di Alessandra Mancuso

La sensazione è che il corpo delle donne venga utilizzato con finalità "altre" mentre la vittima scivola in secondo piano, diventando quasi invisibile
Stupri di serie A e di serie B. Per cui ci si indigna urlando. O che si trattano alzando il sopracciglio, cercando attenuanti e instillando sospetti sull’attendibilità delle vittime (ancora, nel 2017!). Le “nostre donne da difendere” da orde di migranti, da una parte, e “donne che se la sono cercata” se lo stupratore è un bravo ragazzo italiano. Clamore diverso per le violenze consumate in famiglia e quelle commesse da sconosciuti. Stupri ignorati. Quelli delle donne anziane. Sempre più frequenti. O quelli che denuncia su Avvenire, con una riflessione toccante che scuote le coscienze, suor Eugenia Bonetti: "gli ordinari misfatti che ogni notte avvengono sulle nostre strade, con ragazzine straniere che subiscono stupri “a pagamento” di clienti”. In maggioranza italiani, e al 90% battezzati, molte volte con mogli e figli, scrive la missionaria.
Perché, si chiede suor Eugenia, non fanno notizia quelle minorenni vittime di tratta, comprate e vendute, schiavizzate e violentate da cinici sfruttatori e da migliaia di “clienti”? Perché questi stupri, ignorati, non suscitano scalpore?
La sensazione, che fa arrabbiare e indigna, è che il  corpo delle donne venga sempre usato, con finalità  “altre”, anche quando la compassione per chi è sopravvissuta a una violenza dovrebbe prevalere su tutto. La vittima scivola in secondo piano, diventa quasi invisibile. Se lo stupro è compiuto da due carabinieri a preoccupare è l’onore dell’Arma, non il dramma delle due studentesse. La sensazione è che sul corpo delle donne si faccia politica sempre e comunque. Ci si indigna, a corrente alternata e con gradazioni diverse, ma della vittima non importa affatto. Dipende da chi è la vittima, certo. E da chi il carnefice.
E l'informazione, vuole farsi strumento di questo “uso” del corpo delle donne? Anche per l’informazione a stesso reato non corrisponde stesso trattamento. Una violenza va in prima pagina, un’altra si relega all’interno, o si ignora del tutto.
Che risposta diamo a suor Eugenia che assiste sconvolta alla grande enfasi che i tg hanno dedicato per giorni, con ampio spazio, agli efferati stupri del branco, a Rimini? Vorrei dire a suor Eugenia che lo sconcerto, il dolore per le vittime, suscitato dalla brutale violenza di Rimini, produce un'eco che l'informazione ha il dovere di registrare.
Il problema si pone quando l'informazione si fa strumento di propaganda e orientamento dell'opinione pubblica per interessi politici.  Ma questo riguarda una minoranza dei media.  Che quando travalica i limiti va denunciata e se commette violazioni  deontologiche, va sanzionata. Come abbiamo chiesto con un esposto nei confronti di Libero, come commissioni pari opportunità del sindacato e dell’Ordine e giornaliste di GiULiA, di fronte a un articolo che pubblicava i dettagli degli stupri, violando il divieto che ne fa la nostra carta deontologica.
E il problema si pone anche quando l’informazione si fa portare al traino dell'emotività, delle chiacchiere del bar dello sport, degli stereotipi e dei pregiudizi. Quando adotta due pesi e due misure a seconda di chi siano vittime e carnefici. E questo problema riguarda invece quasi tutti i mezzi di informazione.
E intanto il fenomeno, strutturale e devastante, della violenza maschile contro le donne, resta ancora, incredibilmente, fuori dall'agenda politica, fuori dai radar de programmi politici e delle politiche pubbliche. Come lo si vuole e come si deve eradicare? Silenzio assoluto. E trascuratezza da parte dell'informazione che non illumina abbastanza la violenza che le donne subiscono e la solitudine in cui sono lasciate, le risorse lesinate, i servizi carenti, la protezione insufficiente. La realtà di una società, come scrive suor Eugenia, “che consuma tutto, e tutto, anche le donne, riduce all'usa e getta”.
L'informazione può avere un ruolo, importante, nella definizione dell'agenda politica. E nel migliorare  la qualità e i livello del discorso pubblico, contrastando stereotipi e pregiudizi, contribuendo a costruire una società a misura di donna e di uomo, paritaria, basata sul reciproco rispetto. Un ruolo che dobbiamo assumere con convinzione e coraggio.
Di fronte al montare di una cultura retriva, per certi versi reazionaria e razzista,  che fabbrica paure, semina parole d'odio, abbiamo tutti bisogno, più che mai, di un'informazione razionale e responsabile. Corretta nel linguaggio. Bisogna lanciare a tutti i giornalisti la sfida di un grande cambiamento culturale da compiere, nelle redazioni, per non essere più "portatori sani" di visioni stereotipate, vettori inconsapevoli di pregiudizi tipici della sottocultura maschilista. Non siamo all’anno zero, fortunatamente, ma siamo ancora molto lontani. dall’obiettivo.
http://giulia.globalist.it/attualita/articolo/2011275/stupri-di-serie-a-e-di-serie-b.html

lunedì 4 settembre 2017

Maschi-femministe: prove di dialogo| Uomini, i segni del cambiamento: l’inchiesta di Luisa Pronzato

«Ho scoperto il femminismo e sono rimasto vivo». Nessuna ricerca di benevolenza. Anzi, fatica e gavetta: soffritti, piatti, spazzatura. Evitando autocoscienze. E 35 anni dopo è ancora possibile usare il plurale di coppia e dire «nello scambio ci abbiamo creduto».
In quanti, però, ci hanno creduto come rappa la canzone di Paolo Bertella, che esordirà il 10 settembre al Tempo delle Donne? Sono molti i “matrimoni lunghi” in cui la partner è femminista, ma sono anche molti i matrimoni saltati, le singletudini a vita di donne per nulla sante ma sole per scelte di quella che forse solo un tempo e forse anche ideologicamente si chiamava “autodeterminazione”. Il tema è il dialogo tra i femminismi e gli uomini. Più di cinquant’anni (e se contiamo il suffragismo possiamo dire anche quasi un secolo) in cui la cocciuta ricerca di equità ed equilibrio tra il maschile e il femminile nella società italiana ha avuto momenti di accelerazione, primo fra tutti la conquista del voto e l’entrata in Costituente delle donne, periodi di stallo silente e momenti di grandi risvegli come l’organizzazione dello sciopero delle donne dello scorso 8 marzo. Una corsa, dicevamo, in cui i femminismi hanno corso da soli, spesso anche in contraddizione tra loro, con sparuti uomini che tentavano di partecipare alla trasformazione sociale, e pochi momenti in cui il dialogo tra i femminismi e gli uomini sono avvenuti.
Su tutto un malinteso di fondo, quello che le donne, meglio le femministe, odino gli uomini. Nonostante questo la società italiana si è trasformata, attraverso il nuovo diritto di famiglia e le leggi di parità, sul divorzio, sull’interruzione di gravidanza, sulle tecniche contraccettive. Vediamo più donne che lavorano, più dirigenti, più ragazze nelle università e un pensiero femminile riconosciuto e in qualche caso anche autorevole. Anche se a una posizione delle donne più determinata nella società fa da contraltare l’aumento della misoginia, a volte anche femminile, il persistere di stereotipi, spesso invisibili quanto la violenza che, ben oltre l’indignazione per i femminicidi, sottende ancora nelle relazioni tra uomini e donne.
E allora che è successo? Proviamo a ripercorre alcune tappe di questi anni e cercare di dare un ordine ai momenti e alle idee per fare un punto di come siamo e a che punto stiamo. Il primo punto è il separatismo su cui è necessario distinguere tra rapporti nel privato e in politica. Matrimoni, amicizie sono nate e maturate, ognuno trovando regole proprie di complicità, affetto e organizzazione casalinga. Fu nel percorso politico che le femministe scelsero la via del non dialogo. «Fu una via obbligata del femminismo degli anni Settanta», dice Adriana Cavarero, filosofia e teorica in Europa del pensiero della differenza. «Era il bisogno a non pensare e non parlare “neutro” come invece la società patriarcale e maschilista faceva per cancellare l’individualità femminile. Fu un approccio puramente politico per ribadire e soprattutto riconoscere tra noi donne che incarnavamo una differenza». È l’epoca degli incontri solo tra donne e della scelta dell’autocoscienza come strumento (le femministe continuano a chiamarla “pratica”) per scambiare idee ed esperienze. «Certo, dovevamo trovare la forza di riconoscerci, parlare delle scelte politiche necessarie a superare il patriarcato, non potevamo condividere questo percorso dialogando con gli stessi uomini che, anche se oggi sembra una parola obsoleta, erano gli “oppressori». Per meglio interpretare quello che dice Cavarero, qualche dato storico: L’abolizione delle “clausole di nubilato” nei contratti di lavoro e la legge che vieta di licenziare le lavoratrici per “cause di matrimonio” sono del 1963, dell’anno dopo è l’abolizione del “coefficiente Serpieri”, un sistema di valutazione usato in agricoltura in base al quale il lavoro svolto da una donna era il 50% di quello svolto da un uomo, del 1968 è la legge per cui solo l’adulterio femminile non è più reato e solo nel 1981 viene abolito il “delitto d’onore”.
«Oggi, lo stesso pensiero della differenza può aprirsi al dialogo con gli uomini, modulandosi a seconda degli argomenti», continua Cavarero. «Se parliamo di aborto e gravidanza, parlino le donne, se stiamo ragionando sulla crisi dei padri, è giusto che siano gli uomini a interrogarsi. Se affrontiamo i grandi temi della migrazione, del clima, dell’economia occorrono parole comuni. I femminismi oggi sono ben diversi dagli anni ‘60 e ‘70, dobbiamo essere aperte alla dialettica, misurarsi a seconda degli argomenti e marciare simbolicamente insieme. Un esempio non simbolico è la marcia americana dello scorso gennaio. L’hanno chiamata “delle donne”, ma il bisogno e la consapevolezza comune di dire no al populismo era così forte che ha scosso le coscienze di tutti: è stata la più grande e mista marcia d’America».
Torniamo all’Italia. «Nonostante il separatismo politico i tentativi di dialogo non si sono mai interrotti», racconta Annarosa Buttarelli, tra le fondatrici di Diotima, comunità nata presso l’università di Verona nell’83 con l’intento di “essere donne e pensare filosoficamente” e autrice di Sovrane (Il Saggiatore). «Ce ne sono stati diversi, alcuni più riusciti, altri meno», dice. “Le interlocuzioni, e dialoghi attivi, tra il femminismo della differenza e gli uomini sono avvenuti durante le campagne referendarie del divorzio e dell’aborto, per esempio. A Bologna fu proprio il dialogo tra Luce Irigaray e il sindaco Renzo Imbeni a far nascere una stagione di ricerche sui linguaggi sessuati e di educazione nelle scuole al riconoscimento dei ruoli dei ruoli femminili e maschili. Furono progetti che contagiarono altre città. Erano gli anni ’90, in cui si svilupparono anche le leggi sulla parità. I risultati furono temporanei». E con la Bolognina quel fermento si fermò. «Le giovani generazioni, maschi e femmine, sembrano aver capito meglio gli scambi con i femminismi», continua Buttarelli. «Lo abbiamo visto nelle università, anche se la disoccupazione e la corsa alla sopravvivenza spegne, appena usciti dal percorso scolastico, gli interessi e l’attivismo. E se dobbiamo segnalare un cambiamento è quello dei femminismi e dei movimenti aziendali della diversity che hanno cambiato rotta: il dialogo oggi si cerca non più nella trasformazione della relazione donna-uomo ma nei grandi temi. Preso atto della propria autorevolezza, le donne vogliono entrare nel merito delle crisi generali, per questo il tema più attuale è quello della democrazia e della rappresentanza. Questi sono i dialoghi in corso a cui aggiungerei quello in atto tra le femministe cattoliche e il Vaticano. Chiesa, donne e mondo diretto da Lucetta Scaraffia, e allegato all’Osservatore Romano lo sta raccontando e dimostrando».
Alla fine degli anni 80 La Carta delle Donne del Pc fu un’altra prova di dialogo, sostenuta da Natta e Berlinguer. «Costruire la società umana, la società a misura di donne e uomini era l’ambizione”, come racconta Livia Turco che ne fu l’animatrice. «Si trattava dell’ assunzione del pensiero e della pratica della differenza sessuale, e la parte programmatica, fatta di obiettivi concreti che ci consentiva un dialogo a tutto campo con le donne italiane. Lavoro, welfare, pace nel mondo, ambiente, riforma delle istituzioni, i problemi del Mezzogiorno... Non lo specifico femminile ma la politica a tutto campo». La Carta girò tutta l’Italia con incontri nelle città, conteneva in pratica i principi delle leggi di parità degli anni ‘90. Ma poi, la crisi del Pc, e lo smembramento delle militanti congelò anche questa esperienza, come raccontano Letizia Paolozzi e Alberto Leiss in Cera una volta la Carta delle donne (Biblink ed.) che sarà presentato in questi giorni al Festival della letteratura di Mantova.
Esauste è il termine che usano molte femministe di generazioni mature affrontando la domanda su dialoghi possibili. «Come possiamo parlare di dialogo se il Pd oggi crea il Dipartimento mamme?», chiede Anna Maria Crispino, direttora di Leggendaria, rivista femminista che si propone come “vetrina dell’intelligenza femminile”. «Non è questione solo di terminologie: “mamme” significa non riconoscere altro ruolo alle donne. Fanno impressione i programmi esclusivamente reattivi dei partiti della sinistra (dovrebbero essere i nostri interlocutori) che pensano per categorie indifferenziate senza analizzare la reale complessità rispetto alle donne, ma pure ai giovani. Dal mio osservatorio poso solo dire che spero nelle nuove generazioni, e in quel femminismo 2.0 che molte 60enni ignorano».
E allora guardiamoci intorno. Le tshirt «I am feminist», snobbate in alcuni casi ma indossate anche da ragazzi posso condurre al dialogo? Le campagne ipercondivise su facebook come quella di Anita che chiedeva «per quanto tempo dovremmo sentirci fortunate per non essere state violentate» possono aprire dialoghi nuovi? «Finché si resta ancorate al binarismo uomini e donne nessun dialogo è possibile», dice Benedetta Pintus, creatrice del portale Pasionaria.it, che aderisce alla rete di NonUnaDi Meno identificandosi nel femminismo intersezionale, vale a dire aperto ai i generi, includendo ogni livello di discriminazioni, comprese omotransfobia, razzismo, disabilità e le diverse condizioni sociali. «Alle nostre discussioni partecipano anche persone che non si identificano in un genere. Parliamo al plurale, senza genere e partiamo dall’idea che pregiudizi e discriminazioni ingabbiano anche gli uomini. È la base di un terreno su cui ci confrontiamo anche con i ragazzi su temi che riguardano le identità, l’aborto, il razzismo, la contraccezione, la violenza, il bullismo… l’educazione alla differenza. A Cagliari, da qualche mese organizziamo assemblee pubbliche nel parco. Qualche non militante comincia a fermarsi. Ma lo sappiamo, facciamo ancora i conti con i pregiudizi che il femminismo si porta dietro».
http://www.corriere.it/cronache/uomini-cambiamento/notizie/maschi-femministe-prove-dialogo-680b17b2-905d-11e7-8eb0-0c961f9191ec.shtml

Vi aspettiamo al Tempo delle Donne alla Triennale di Milano
SALONE D’ONORE DOMENICA 10 SETTEMBRE ORE 16.00
MA DONNE E UOMINI HANNO IMPARATO A PARLARSI?
Parole e sguardi, un’indagine in tre tempi
Nuovi, usati, da inventare, da buttare, da riciclare  Test satirico di Cinzia Leone
Guardanti e guardati Monologo di Barbara Mapelli
Prove di nuovo lessico femminista
Con Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di Irriverenti e libere (Eir), Adriana Cavarero, filosofa, Lea Melandri, scrittrice e storica del femminismo, Benedetta Pintus, creatrice di Pasionaria.it, Danda Santini, direttrice Elle, Lucetta Scarafia, femminista cattolica, Giorgia Serughetti, ricercatrice universitaria, autrice di Libere Tutte (Minimum Fax)
Ho incontrato il femminismo e sono ancora vivo, con il rapper Bolla Gee su testi di Paolo Bertella Farnetti
Filosofie, pratiche e vita: dal separatismo in politica ai lunghi matrimoni.
I dialoghi possibili (e impossibili) secondo i femminismi.
Inchiesta a cura di Dario Di Vico e Luisa Pronzato
Il Tempo delle Donne: qui tutto il programma