giovedì 31 dicembre 2020


 

L’Argentina approva la legge sull’aborto: una gran conquista di civiltà Michele Giordano

Proprio mentre nella cattolicissima Polonia il Pis, il partito ultraconservatore al potere, ha praticamente reso impossibile l’interruzione di gravidanza attraverso una sentenza che ne ha cancellato la possibilità persino in caso di malformazione del feto, scatenando una sommossa popolare, l’Argentina, a 99 anni da una legge del 1921 che la vietava, ha finalmente approvato la nuova legge.

In aula mancavano due antiabortisti: l’ex presidente argentino Carlos Menem, oggi novantenne e malato, e l’ex governatore José Alperovich, in aspettativa per – paradossi del destino – una denuncia di abuso sessuale. Vittoria dunque per il movimento dei “fazzoletti verdi” che da anni si batte (contro quello “azzurro”) per una regolamentazione (Francesco, il Papa argentino, ha dichiarato, poche ore dopo l’annuncio: “Tutti nasciamo perché qualcuno ha desiderato per noi la vita”, pronunciamento che sarà certo oggetto di svariate interpretazioni).

Da oggi “le donne incinte potranno accedere a un aborto legale fino alla 14esima settimana dopo aver firmato un consenso scritto e un periodo massimo di dieci giorni tra la richiesta di interruzione della gravidanza e la sua esecuzione”.

In effetti, l’aborto in Argentina sulla carta era parzialmente concesso, ma solo in caso di stupro, un’affermazione giuridica che, però, si è dimostrata più teorica che pratica. L’influenza cattolica e dei gruppi evangelici in America latina era ed è fortissima, nonostante più di 7000 bambine e ragazze di età compresa tra 10 e 14 anni abbiano partorito tra il 2016 e il 2018, spesso a seguito di stupro (dati di un rapporto di Rete argentina di accesso all’aborto sicuro) e, secondo un’inchiesta del Guardian, nel Paese di Maradona 40.000 donne, nel 2016, sono state ricoverate negli ospedali pubblici per complicazioni dovute ad aborti illegali. Fra loro, 6400 erano ragazze e adolescenti fra i 10 e i 19 anni.

Almeno 65 ragazze sono morte dopo aver subito interventi illegali da mammane o incompetenti nel triennio 2016-2018, metà ventenni e 9 adolescenti. Infine almeno 73 donne, oltre a medici e infermieri, sono state arrestate o fermate, accusate di aborto illegale. “Quando sono nata io, le donne non votavano, non potevamo ereditare né andare all’università. Non potevamo divorziare, non avevamo pensioni per le casalinghe. Quando sono nata io, le donne non erano nessuno. Provo emozione per la lotta di tutte le donne che sono fuori ora a manifestare per questa legge”, ha dichiarato in aula la senatrice Silvia Sapag (pro aborto).

Mentre María Belén Tapia (antiabortista) ha ribadito: “Gli occhi di Dio guardano ogni cuore e ci mettono di fronte alle condizioni odierne della nostra Nazione. Saremo benedetti se daremo valore alla vita, maledetti se sceglieremo di uccidere innocenti. Non lo dico io, lo dice la Bibbia sulla quale ho giurato”. Fatto sta che in Argentina circa 500.000 donne abortiscono clandestinamente ogni anno.

Secondo il Guttmacher Institute, “solo il 21 per cento delle donne in età riproduttiva abita in Paesi in cui l’aborto è esplicitamente permesso solo per salvare la vita della donna e l’11 in Paesi in cui è permesso per proteggere la salute fisica della donna”. I Paesi che che lo proibiscono totalmente sono 26. Il Washington Post, poi, ci fa sapere che, tra il 2000 e il 2017, 28 paesi hanno cambiato le loro leggi sull’aborto e, in tutti i casi tranne uno, le nuove leggi hanno concesso più libertà rispetto alle precedenti.

Contemporaneamente, però, alcune Nazioni con leggi piuttosto permissive (Stati Uniti, dove l’aborto è legale dal ’73) stanno rendendo più difficile abortire. In generale, il limite è di 12 o 14 settimane. Tra i Paesi che prevedono questa possibilità ci sono Usa, Canada, Australia, Russia, Cina, Germania, Francia, Italia e vari altri paesi europei. Lo Stato con la legge più punitiva al mondo è El Salvador dove è sempre vietato abortire, anche a rischio di vita della madre. Si rischiano fino a 30 anni di prigione.

Secondo dati forniti da Sky Tg 24, leggi restrittive contro l’aborto le hanno Angola, Egitto, Gabon, Guinea-Bissau, Madagascar, Senegal, Iraq, Laos, Isole Marshall, Filippine, Repubblica Dominicana, il citato El Salvador, Haiti e Nicaragua. Si può abortire invece in Nigeria, Somalia, Libia, Sudan, Afghanistan, Bangladesh, Paraguay, Venezuela e Indonesia, ma solo se la vita della puerpera è a rischio. Permesso anche in caso di stupro e malformazioni del feto anche in Messico, Cile e Panama, condizione che si aggiunge all’incesto (come in Nuova Zelanda, Algeria, Eritrea, Gambia, Namibia, Seychelles, Sierra Leone, Israele, Colombia e Giamaica).

E in Europa? A Malta è proibito senza alcuna eccezione. In Gran Bretagna, Islanda e Finlandia è consentito abortire solo in alcuni casi e se si è indigenti. Certo che la nostra legge 22 maggio 1978, n. 194, è stata una gran conquista di civiltà, anche se il 71 per cento dei medici italiani si dichiara obiettore (ovvero non pratica aborti) con un picco di quasi il 93 per cento, non al Sud – come qualcuno potrebbe ipotizzare – ma in Trentino Alto Adige.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/30/largentina-approva-la-legge-sullaborto-una-gran-conquista-di-civilta/6051854/

mercoledì 30 dicembre 2020

Trentino, uccisa in casa Agitu Gudeta, la rifugiata etiope simbolo dell'integrazione di Andrea Selva

Scappata dal suo Paese, aveva fondato l'azienda agricola "La capra felice" nella Valle dei Mocheni dove allevava animali a rischio di estinzione

L'hanno trovata senza vita all'interno della sua casa di Frassilongo (Trentino), colpita con violenza alla testa. Un omicidio, hanno confermato i carabinieri che nel tardo pomeriggio sono giunti sul posto, chiamati dai vicini e stanno lavorando per ricostruire l'accaduto.

È finito così - forse con un colpo di martello - il sogno di Agitu Ideo Gudeta, pastora etiope che avrebbe compiuto 43 anni il giorno di Capodanno e che si era data l'obiettivo di salvare dall'estinzione (e anche dagli attacchi dell'orso) la capra mochena, una specie che sopravvive in una valle isolata della Provincia di Trento dove la donna aveva trovato casa.

Ma il suo problema - aveva denunciato un paio di anni fa - più che gli orsi erano i vicini: "Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto" aveva denunciato ai carabinieri, raccontando anche pubblicamente la sua storia. Le indagini però si concentrerebbero su un giovane africano dipendente dell'azienda 'La Capra Felice'. A quanto pare, l'uomo - che non è quello che l'aveva minacciata ed aggredita - avrebbe avuto dissidi con Agitu per motivi economici. A dare l'allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini a loro volta chiamati da un uomo con il quale la vittima aveva un appuntamento al quale non si era presentata.

Sul caso delle minacce arrivò la solidarietà del presidente della giunta provinciale, all'epoca Ugo Rossi: "Il fatto che Agitu, da rifugiata, abbia avviato la sua attività agricola sul nostro territorio dimostra che il Trentino crede nell'accoglienza e nella solidarietà". Una storia di minacce e danneggiamenti, finita in tribunale con la condanna a 9 mesi per lesioni di un uomo del posto che aveva sempre liquidato la faccenda come una lite fra vicini: "Il razzismo non c'entra". La donna quindi aveva ripreso a girare i mercati del Trentino per vendere i prodotti realizzati con il latte delle sue cinquanta capre, con il furgone che sulla fiancata riportava il nome dell'azienda agricola: "La capra felice".

Agitu Gudeta era fuggita in Italia nel 2010 e aveva ottenuto lo status di rifugiata e dopo qualche anno era riuscita ad avviare la sua azienda agricola a Frassilongo scommettendo sulle capre mochene. Nel 2017 aveva partecipato all'incontro "Donne anche noi", raccontando la sua storia di migrante arrivata in Italia. Originaria della capitale Addis Abeba, era stata costretta a lasciate l'Etiopia perché a causa del suo impegno contro l'accapparramento delle terre da parte di alcune multinazionali era stata oggetto di minacce di morte.

https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/trentino_trovata_morta_agitu_gudeta_donna_42enne_simbolo_di_integrazione_ipotesi_omicidio-280360648/?fbclid=IwAR1ptlRX2VDrnnIn59e_hbXQRxng6qK0Pd0hMl_5zamL6Np6O1Svjap8uWg

martedì 15 dicembre 2020

L'unica soluzione è che noi donne prendiamo il potere. Di LIDIA RAVERA

Perché il fatto che il potere sia ancora saldamente in mani maschili è diventato inaccettabile ed è disgustoso che alcuni maschi (non tutti) ancora se ne servano per rimorchiare. Persino in tempi di #MeToo

Un centinaio d’anni fa, ero da poco felicemente ventenne, fui presa a “fare la tremesista” presso il settimanale Panorama. I tremesisti erano quelli che poi sono stati battezzati stagisti e sono diventati famosi grazie a Monica Lewinsky (stagista presso la Casa Bianca, con il compito di intrattenere il presidente Clinton, sotto la scrivania). Dunque, a fare quella bella esperienza, pagata 80.000 lire al mese e utilissima alla mia formazione di giornalista, mi invitò Guido P., redattore del magazine, che era stato inviato a intervistarmi, in quanto fondatrice e direttrice di un giornalino un po’ underground, denunciato per pornografia da una preside bacchettona, a causa di una inchiesta sul rapporto degli studenti con il sesso, completa di distribuzione di un questionario ritenuto troppo esplicito. Me lo ricordo perfettamente, Guido P: leggeva gli articoli e mi chiedeva chi li aveva scritti, risultavo quasi sempre io e siccome la scrittura era ottima mi ritrovai, in fine mattinata, seduta davanti alla scrivania del direttore di Panorama, Lamberto Sechi. Sechi mi trovò brava e così incominciò la mia carriera. Presto e bene.

Mi sono chiesta, nel corso dei cent’anni seguenti: se non avessi trovato simpatico Guido P., se lui non mi avesse trovata divertente, se non fossimo diventati subito amici, avrei avuto lo stesso quella bella occasione di essere assunta e valorizzata, io, una sconosciuta ragazzina che viveva in una comune sgangherata con sei pazzerelli della sinistra extraparlamentare? Chi può dirlo? A Panorama ero la più giovane, dovevo imparare tutto, imparavo da tutti. Mi piace chi ne sa più di me ancora adesso (nei cinque anni in cui, ormai sessantenne, ho fatto l’assessore alla cultura della Regione Lazio ero ancora così: chiedevo «insegnami» anche all’ultimo dormiente impiegato statale alle mie dipendenze), all’epoca il desiderio divorante di imparare si coniugava con la pelle fresca dei 20 anni. Ero carina. Facevo la carina? Certo che facevo la carina, ma non era un calcolo, era un impulso irrefrenabile: provavo una sincera attrazione verso tutti quelli che avevano qualcosa da insegnarmi. Gli oggetti della mia passione di apprendista erano lusingati, tiravano fuori il Pigmalione che sonnecchia in ogni maschio adulto e mi valorizzavano.

Adesso la faccenda si è complicata: si sa che le ragazze sono più brillanti dei loro pari maschi, i quali spesso reagiscono ostacolandole. Chi avrebbe la possibilità di insegnare (che è sempre una pratica nobile) usa la debolezza delle principianti per ricattarle. Quarant’anni di femminismo ci hanno rese orgogliose e minacciose. Il #MeToo ha paralizzato ogni corteggiamento aziendale, giustamente. Perché, dopo quarant’anni di femminismo, il fatto che il potere sia ancora saldamente in mani maschili è diventato inaccettabile ed è disgustoso che alcuni maschi (non tutti) ancora se ne servano per rimorchiare. Fare la carina con chi potrebbe favorire la tua carriera non è più pratica innocente, ma rischio e umiliazione. Non ci resta che prendere il potere, prenderlo noi, e imparare a farne buon uso.

https://www.elle.com/it/magazine/storie-di-donne/a34843708/donne-lavoro-metoo/?fbclid=IwAR3XSK4t3RFkZa4gNy768nEhJKJsyp9Q8zXMumghLJVA0Nei5b8ax6Cj1Wo

domenica 13 dicembre 2020

Molestie, quello che le Università non dicono. Nomi e numeri per denunciare di Antonella De Gregorio, Elisabetta Rosaspina, Elvira Serra, Francesca Visentin (coordinamento Giovanni Viafora)

 Le dottorande sono le più esposte, perché hanno un rapporto stretto con il docente di riferimento e dipendono da lui per il futuro. Ma tra paura, pudore e omertà in Italia uscire allo scoperto è ancora difficile. Mentre solo in un ateneo su tre si trova la «consigliera di fiducia», cioè la figura deputata a raccogliere le segnalazioni e tutelare le vittime. Nostra inchiesta sul fenomeno e sugli strumenti a disposizione di chi viene colpito

All’inizio erano solo complimenti. «Sei bellissima», «Che bel collo », «Che belle mani», «Che bei piedi». Lei faceva finta di niente e cambiava discorso. Poi lui le ha proposto di fargli da assistente all’università, un incarico molto ambito, anche se non retribuito. E lei ha accettato. Da quel momento sono cominciati i messaggi e le telefonate di giorno e di notte. «Come sei vestita?», «Che rossetto hai su quelle belle labbra?», «Mandami una tua foto». Frasi inequivocabili, insistenti, fuori luogo. Fino all’aggressione fisica. E, per ultimo, il ricatto: «Ha minacciato di ostacolarmi nella carriera universitaria. Ha detto che non ero all’altezza di fare l’assistente, che l’avrebbe fatto sapere a tutti e avrebbe preso provvedimenti». C’è voluto un anno perché Silvia, 25 anni, modella nel tempo libero, laureanda in un grande ateneo del Nordest, denunciasse l’intoccabile barone (clicca qui per leggere l’intervista integrale a Silvia e la sua testimonianza). Il docente è stato convocato dalla commissione disciplinare dell’ateneo e poi si è dimesso. Silvia, dopo poco tempo, si è laureata. Aveva realizzato che quello che il professore stava facendo con lei lo aveva già fatto con altre. Ha dovuto aspettare, ma poi ha individuato lo strumento migliore per farsi aiutare e sentirsi protetta. Quello strumento è di tre parole: consigliera di fiducia, la «sentinella» chiamata a raccogliere le segnalazioni di molestie all’interno dell’Università. Per lei è stata la salvezza; ma per tanti altri in Italia, nella sua stessa posizione, non è così; perché molti nostri atenei sono indietro nel fornire tutele adeguate a chi è vittima di molestia. E perché il tema, nel mondo accademico, rappresenta ancora un tabù. Così abbiamo deciso di contattare tutti gli atenei d’Italia per capire quanti fossero provvisti di questa «sentinella», che la legge consente loro di attivare. Ma anche per cercare di dare un contorno, in senso più lato, al fenomeno.

Il primo contatto

L’articolo 21 della legge 183 del 2010 rende obbligatorio per le pubbliche amministrazioni il Cug, Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni. E da questo discende la creazione della consigliera di fiducia, una persona imparziale alla quale può rivolgersi chiunque lavori in ateneo per eventuali segnalazioni di discriminazione, molestie sessuali e morali o casi di mobbing. Solo trentadue atenei su ottantacinque indicano però la presenza di una «consigliera di fiducia» (come mostra la panoramica offerta dal grafico qui sotto): quasi totalmente assenti gli atenei privati (c’è un’unica piccola eccezione a Milano), i quali affermano di sopperire con altri istituti che non sempre tuttavia offrono la stessa tutela.

Le consigliere sono figure di solito esterne (avvocate o psicologhe); in tre casi, a rappresentare l’ufficio, sono invece uomini. La funzione ha una retribuzione variabile annuale dai 4-5 mila euro agli 8-9 mila, a seconda dell’impegno (che può cambiare da una volta al mese a tre volte alla settimana). Per essere contattate, di solito le consigliere indicano una email (consiglieradifiducia@nomedellateneo.it) e spesso di un numero fisso. All’Università di Trento il numero pubblicato sulla pagina web dell’università è collegato direttamente al cellulare della consigliera, mentre solo in quattro atenei è indicato direttamente un cellulare (Siena, Modena e Reggio Emilia, Camerino, Padova). Tuttavia, anche quando in ateneo è prevista la figura della consigliera di fiducia, non è sempre facile raggiungerla: con le Università di Ferrara e Camerino non siamo stati in grado di stabilire un contatto, nonostante varie telefonate e mail. Anche questo un segnale. Il primo compito della consigliera è sondare il terreno per una soluzione conciliativa, e solo dove non sia possibile si procede con un provvedimento amministrativo (trasferimento del responsabile in un altro reparto, sospensione dello stipendio). Nei casi più gravi la denuncia in procura è l’unica strada. È interessante osservare che in Puglia, a Bari, ci sono stati due casi clamorosi di prof denunciati per molestie di cui si è occupata la stampa e di nessuno di loro il Cug dell’Università era stato informato.

Dove sono

Soltanto una università privata in Italia ha la consigliera di fiducia: è la Sigmund Freud University di Milano. In realtà ciò si spiega con il fatto che questi atenei sono esonerati dall’applicare la legge 183/2010 già citata. La figura viene sostituita dalla presenza di un Comitato Pari Opportunità o dell’Organismo di vigilanza, del Garante degli studenti o del Collegio di disciplina. Oppure si fa riferimento allo stesso Codice di disciplina. In tutti i casi si attinge a un professionista interno all’ateneo. Ma, come si capisce, non è la stessa cosa: per una vittima è più facile trovare tutela in una singola professionista esterna alle dinamiche dell’ateneo piuttosto che rivolgersi a comitati formati da più persone interne all’Università. Il dato di fatto è che nessuno degli atenei privati che abbiamo contattato riporta casi di molestie. Quanto alla distribuzione geografica della consigliera di fiducia, lo scenario non è incoraggiante. In sette regioni d’Italia nessun ateneo ha questa figura: sono l’Umbria (l’Università di Perugia nei giorni scorsi ha però attivato uno sportello anti-violenza), il Lazio, la Sardegna, la Sicilia, la Valle d’Aosta, l’Abruzzo e la Calabria. In Puglia e in Campania ce l’ha solo un’università: quella del Salento e la Federico II di Napoli.

https://27esimaora.corriere.it/20_dicembre_10/molestie-quello-che-universita-non-dicono-ecco-nomi-numeri-denunciare-1c01a136-3a2f-11eb-bd0f-1c432ae6dd98.shtml?fbclid=IwAR13Wbs6kRu8Pbqj-4hTuAwNbXqnWjCT1dkPBv0YUA5LqoJU7Kl42KlIxoI

venerdì 11 dicembre 2020

La magistrata: “Il codice rosso aiuta, ma in aula restano pregiudizi sulla violenza di genere” di Virginia Pedani

BOLOGNA – A distanza di un anno dall’entrata in vigore della Legge 69/2019, il cosiddetto ‘Codice rosso’, strumento introdotto per contrastare la violenza di genere, si tirano le somme di quello che ha funzionato e di quello che invece c’è ancora da fare sul tema. “È importante ribadire che il luogo della lotta reale alla violenza di genere non è l’aula di giustizia, ma questo non vuol dire che non debba essere un luogo in cui le donne possano trovare fiducia e sostegno”. Esordisce così, ospite del ‘Festival della violenza illustrata’ di Bologna, Paola di Nicola, magistrata e scrittrice marchigiana che da anni si batte contro i pregiudizi e gli stereotipi legati all’ambiente delle toghe.

IL PROBLEMA È LA STRUTTURA SOCIALE

“Avevamo un efficace apparato normativo anche prima dell’introduzione del ‘Codice rosso’- spiega l’avvocata-. Quest’ultimo ha sicuramente accelerato a livello pratico tutto l’iter di presa in carico di un caso di violenza, comprese le indagini preliminari, ma il grosso problema nel nostro Paese rimane un altro”. Quale? “Il tarlo più grave e preoccupante è che la struttura sociale intorno a cui gira il tema della violenza sulle donne, e che è composta perlopiù da Forze dell’ordine, testimoni, avvocati e magistrati, è un sub-strato che è ancora caratterizzato da forti pregiudizi e stereotipi, di cui purtroppo non possiamo negare l’esistenza”. Per fare esempi pratici, continua Di Nicola, “in una sentenza dello scorso anno emessa dal Tribunale di Genova su un caso di femminicidio, si legge che ‘l’indole aggressiva fa sì che egli tenda a reagire in modo violento ai torti subiti’. Ecco- continua Di Nicola- in questa rappresentazione, emerge che la vittima è stata uccisa da un carattere violento, per via di un ‘raptus’ incontrollabile dell’uomo, e non per la sua volontà effettiva”.

IL COSIDDETTO ‘MITO DELLO STUPRO’ NON FUNZIONA

Ma qual è il principale ‘errore’ della giustizia con cui le donne vittime di violenza devono fare i conti? “Quando sentiamo parlare di passione e gelosia- sottolinea Di Nicola- si avvicina la violenza all’amore, e questo, è uno dei più grandi errori che si possa fare, perché non si riconosce la relazione di potere che è presente in quel contesto familiare, relazione in cui un uomo punisce una donna per aver esercitato libertà che le spettano di diritto. Per questo- esorta Di Nicola- parole come gelosia, passione, tradimento, non dovrebbero essere scritte nelle sentenze, anche perché non sono presenti nel codice penale”. Ma si può fare qualcosa per sensibilizzare gli ‘addetti ai lavori’? “Noi, purtroppo, come magistrati, assistenti sociali, medici, non abbiamo una formazione obbligatoria, se non autonoma, quando dobbiamo valutare se esiste o meno un caso di violenza sessuale- risponde Di Nicola- non conosciamo quali sono le possibili reazioni di una donna di fronte a uno stupro. So che all’estero, specialmente in ambienti universitari e Pronto soccorso, analizzano in dettaglio storie che stridono con il cosiddetto ‘mito dello stupro’; si tratta di un ‘modello standard’ secondo cui, la violenza sessuale avverrebbe di solito di notte, ad opera di uno sconosciuto (preferibilmente straniero), e ai danni di una bella donna. Sappiamo dalla realtà e dalle nostre esperienze che questi criteri non corrispondono al ‘mito'”. Bisogna quindi “‘depurarci’ da stereotipi e pregiudizi e guardare ai fatti. Solo così, la donna può finalmente uscire dal circolo della violenza”. Anche per l’assessora alle Pari opportunità del Comune di Bologna, Susanna Zaccaria, “ogni sentenza che contenga dati discutibili, e che si concentri soltanto sulla vittima invece che sull’autore” è “di fatto un fallimento per tutti”.

https://www.dire.it/05-12-2020/214803-la-magistrata-il-codice-rosso-aiuta-ma-in-aula-restano-pregiudizi-sulla-violenza-di-genere/?fbclid=IwAR0kosRlBnnrieGvB-4GsfeWLkQSpri1nlr6jqegvbtcsUAMAcPK-N-Q_CY


sabato 5 dicembre 2020

«NON LO FO PER PIACER MIO MA PER DAR DEI FIGLI A DIO» Graziella Priulla

È una faccia — nemmeno tanto nascosta — dell’addomesticazione della sessualità femminile verso una modalità di servizio che non costituisca minaccia per la stabilità sociale. La legittimazione del piacere sessuale anche per le donne avviene solo in tempi recenti. Come ricaviamo da moltissime testimonianze, per le nostre nonne la sessualità è stata inibizione, vergogna, estraneità e silenzio, spesso associati a paura e sofferenza, sempre a ignoranza. Un solo soggetto era legittimato al desiderio, l’amore coniugale per le mogli non essendo che devota affezione. L’orgasmo per loro era termine inaudito, concetto e soprattutto esperienza sconosciuta. Il sesso, spesso veloce e maldestro, uno spiacevole inconveniente del matrimonio.

 L’apparato genitale femminile è rimasto a lungo anche in Europa il più misterioso perché il meno studiato e conosciuto del corpo umano: su di esso si sono accumulati nei secoli tabù, pregiudizi, convinzioni bizzarre, descrizioni fantasiose e teorie fantascientifiche penalizzanti. Mia nonna diceva “là sotto”. Faceva imbarazzo e paura. Il desiderio femminile, laddove venisse preso in considerazione, si configurava come una dimensione illegittima e perversa che tradisce le più profonde e sacre leggi naturali. Nei corsi di morale matrimoniale veniva insegnato che il marito può sempre chiedere il debito coniugale, ma non è conveniente che sia la moglie a chiederlo. 

 Nel trattato Psychopatia Sexualis (1886) lo psichiatra tedesco Von Krafft-Ebing, docente all’università di Graz, dichiarava: «Se la donna è normalmente sviluppata mentalmente e bene educata, il suo desiderio sessuale è scarso. Se così non fosse il mondo intero diventerebbe un bordello e il matrimonio e la famiglia impossibili!». Nel 1896 il giurista Bernhard Windscheid sentenziava: «Nelle donne normali, soprattutto in quelle delle classi sociali più elevate, l’istinto sessuale è acquisito, non innato; quando è innato o si risveglia spontaneamente, allora c’è anormalità. Poiché non conoscono tale istinto prima del matrimonio, le donne non ne sentono la mancanza se non hanno nella loro vita l’occasione di apprenderlo». Nietzsche scriveva: «La felicità dell’uomo si chiama ‘io voglio’, la felicità della donna si chiama ‘egli vuole’». Nelle trattazioni di diritto penale dell’Ottocento è facile imbattersi in dissertazioni sulle insormontabili differenze biologiche che donano al maschio “l’energia dell’assalto” e alla femmina una “frigidità naturale”. «L’uomo in quanto tale deve copulare, la donna no», sentenzia ancora nel XX secolo il senatore socialdemocratico Nino Mazzoni durante il dibattito sulla legge Merlin. 

 Tanti miti fondativi raccontano l’agire di maschi predatori ai danni di fanciulle. Un grande storico della Roma antica, Paul Veyne, ha parlato in proposito di “virilità da stupro”, per stupro intendendo non solo quello vero e proprio, ma a monte una concezione predatoria dell’uso dell’organo virile (l’arma con cui Priapo proteggeva le proprietà, utile non solo a procreare e a godere, ma a imporre un dominio — ossia un altro e più sottile piacere). 

 Il gioco delle parti tra i sessi presuppone che l’impeto maschile debba vincere una “naturale” resistenza e ritrosia della partner. Freud — disorientato dal femminile — dichiarava d’altronde che la sola libido è fallica. Il fallo è il pieno, l’attività, il tutto; la vagina è il vuoto, la passività, il niente. È chiaro che tale visione può rendere un rapporto sessuale molto simile a uno stupro quando presuppone che la donna attenda l’avvicinamento dall’uomo e abbia bisogno del suo stimolo, magari energico, per acconsentire al sesso. Di qui i criteri che portano a selezionare il lessico entro repertori di aggressività, di forza, di caccia, di lotta, di possesso (la chiavo — la fotto — la trombo — la spacco — me la faccio — la metto a 90° gradi — glielo ficco di qua e di là… ). Questa convinzione, costruita socialmente e culturalmente, crea lo squilibrio che è all’origine della violenza. è talmente interscambiabile il nome e l’immagine delle armi con l’organo di riproduzione maschile, che si chiama ‘pistolino’ quello dei bambini.

 «L’uomo è cacciatore e la donna è preda». Lo dicono da sempre i padri ai figli, le madri alle figlie; lo mormorano le donne tra loro alzando gli occhi al cielo. Ancor oggi una giovane persona su quattro crede sia del tutto normale, per i ragazzi, esercitare pressioni sulle ragazze per fare sesso. Solo verso la fine degli anni Quaranta i rapporti Kinsey sul comportamento sessuale degli esseri umani svelarono al mondo che anche le donne intendono provare piacere: furono considerati controversi e sensazionalistici e vennero attaccati violentemente dai conservatori, ma da allora le inchieste e gli studi dedicati alla sessualità femminile si sono moltiplicati. In pochi decenni siamo passate da una società patriarcale, che non prevedeva per noi che pochi diritti, a un nuovo assetto sociale dove possiamo scegliere. Scegliere se fare sesso o no. Scegliere come e quando farlo. Scegliere se stare in coppia o no. Scegliere di avere un’altra relazione. A volte queste scelte costano la vita. 

 Se è vero che i due elementi della coppia si definiscono anche per reciprocità, una parte del problema della violenza di genere sta nel fatto che le società occidentali si sono ormai organizzate — almeno formalmente — sul presupposto dell’uguaglianza dei sessi, minando le antiche certezze e conferendo alle donne nuova autorevolezza e un’inedita autodeterminazione. Il maschile, però, non è stato capace di reggere il cambiamento e molto spesso si attesta su un’estenuata conservazione, forte del fatto che gran parte del potere reale sta ancora nelle sue mani.

 Ciò che le donne hanno dovuto fare da secoli, cioè la gestione delle relazioni che prevede anche saper accettare i desideri e le decisioni dell’altro, diventa impossibile per alcuni uomini che si trovano a dover gestire capacità relazionali che non possiedono in misura adeguata.

mercoledì 2 dicembre 2020

Femminicidio: il 25 novembre il Senato è passato ai fatti, ma poi è morto Maradona di Valeria Valente

Dirò subito che sarò provocatoria: c’è qualcosa che non va in un Paese in cui la morte di Diego Armando Maradona, nella Giornata internazionale della lotta alla violenza contro le donne e in piena seconda ondata della pandemia da Covid, occupa ancora le prime pagine e buona parte dei quotidiani, suscitando decide e decine di ricordi, interviste, editoriali.

Intendiamoci, Maradona è stato un genio indiscusso del calcio. Di più, ha interpretato la napoletanità sul campo di pallone, ha donato a Napoli, la squadra della mia amata città, il sogno dello scudetto, dei vertici assoluti. Ma, appunto, siamo nel pieno di una storica epidemia e quel giorno stavamo ricordando a noi stessi che l’Italia è un luogo dove una donna ogni tre giorni muore ammazzata per mano di un uomo con cui ha o aveva una relazione di qualche tipo e 7 milioni di donne nella loro vita hanno sperimentato una forma di abuso sessuale. Il nostro è un Paese che ha un robusto apparato legislativo di contrasto, ma le donne continuano ad essere uccise, violate, discriminate. Chiedo: è ora che prima di tutto gli uomini comincino a chiedersi cosa c’è che non va, senza voltarsi dall’altra parte alla prima occasione utile?

Proprio il 25 novembre, l’Aula del Senato ha approvato all’unanimità (un vero segnale, in questo momento politico) un disegno di legge fondamentale per combattere il femminicidio, ma la cosa è passata quasi sotto silenzio, se non perché poche giornaliste donne hanno deciso di occuparsene. Eppure si tratta di una legge storica, perché introduce in Italia due principi fondamentali.

Il primo: bisogna finalmente cominciare a porre alle bambine, alle ragazze, alle donne malmenate, perseguitate, stuprate, che si recano in pronto soccorso, in una centrale di Polizia o in una caserma dei Carabinieri, le domande giuste. Non più: com’eri vestita? Cosa hai fatto per evitare la violenza? Perché non hai denunciato prima? Ma, in primis: chi è per te costui che ti ha picchiato o peggio? E’ tuo padre, tuo marito, il tuo compagno o il tuo ex quello che ti ha speronato con l’auto o ti ha tolto di che vivere?

Il secondo principio, che discende dal primo: per combattere davvero femminicidio e violenza di genere servono per prima cosa statistiche ufficiali, non basta che le femministe, le giornaliste, le politiche, le operatrici dei centri e delle associazioni della rete antiviolenza (con un corale lavoro preziosissimo) tengano il conto delle morte ammazzate dall'inizio dell’anno.

Il disegno di legge di cui sono prima firmataria e che è stato il lavoro di tutta la Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio reca “misure per le statistiche sulla violenza di genere” e prevede che l’Istat e il Sistema statistico nazionale comincino a raccogliere i dati disaggregati per sesso e a utilizzare indicatori sensibili al genere. Istituisce inoltre l’obbligo, per il ministero della giustizia e dell’Interno, di rilevare nelle notizie di reato anche la relazione che intercorre tra autore e vittima della violenza. Questo per 25 tipologie di reato, non solo per l’omicidio, il tentato omicidio o lo stupro, ma anche per l’appropriazione indebita, le lesioni, l’abbandono di minore, il danneggiamento.

Esistono infatti dei reati “spia”, anche di tipo economico, che possono preludere a violenze ben più efferate e che possono anche in qualche modo preannunciare la morte della vittima. Oggi tutte queste informazioni vanno perdute e spesso anche i femminicidi non vengono riconosciuti subito.

Dobbiamo invece imparare a “leggere” correttamente la violenza contro una donna, quando la incontriamo, perché questo riconoscimento ha una profonda valenza culturale. L’Istat, che finora grazie anche all’impegno di Linda Laura Sabbadini ha prodotto importanti indagini sulla violenza, avrà ora il compito effettuare indagini e relazioni triennali dedicate a questi temi e biennali aventi per oggetto l’utenza e l’attività dei centri antiviolenza e delle case rifugio. Cosa ci aspettiamo da questo ddl che speriamo la Camera possa licenziare in fretta? Che contribuisca a fare chiarezza, che ci dia la possibilità di monitorare le leggi e le politiche attuate per capire come migliorare e anche che contribuisca a creare la cultura dell’attenzione alla condizione femminile in Italia. Siamo consapevoli che serve tanta formazione, per tutti gli operatori della filiera, dalla sanità alla giustizia: medici, infermieri, avvocati, giudici, forze di Polizia.

L’educazione e la formazione sono la chiave per incidere su questo drammatico fenomeno strutturale di natura culturale, a partire dall’università che forma i nostri insegnanti e dalla scuola stessa, per realizzare un comune sentire diverso, una coscienza collettiva del rispetto. Soprattutto, dobbiamo uscire dalla retorica che si sta creando anche sul 25 novembre e passare ai fatti. Il governo sta facendo molto, sostenendo i centri antiviolenza e le case rifugio, l’occupazione femminile che è fonte di autonomia e di libertà, la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Come Senato, sento che quest’anno abbiamo fatto la nostra parte.


Valeria Valente è senatrice del Pd, presidente della Commissione di inchiesta sul Femminicidio e la violenza di genere


https://immagina.eu/2020/11/27/femminicidio-il-25-novembre-il-senato-e-passato-ai-fatti-ma-poi-e-morto-maradona/?fbclid=IwAR3bm0oiopFEcWaHdfzFnDFukd2ZmvbDeicyaXyPuE_8G2VVajRTT5b4i1k

martedì 1 dicembre 2020

La legge sul divorzio in Italia ha 50 anni di Antonella Baccaro

I dati dell’Istat sul divorzio in Italia: la legge entrò in vigore il 1 dicembre 1970, il boom avvenne tra il 2014 e il 2015, ma siamo sempre sotto la media Ue

Cinquant’anni di legge sul divorzio. Cosa è cambiato nel tempo nella definizione dei rapporti tra ex coniugi? Per capirci di più dobbiamo affidarci ai dati dell’Istat, che vanno interpretati alla luce delle novità normative introdotte dal legislatore. Le più recenti sono l’iter negoziato nel 2014 e il divorzio breve nel 2015. Ma andiamo per ordine.

Un po’ di storia

«Il codice del 1942 non conosceva lo scioglimento del matrimonio - spiega Claudio Cecchella, professore ordinario di Diritto processuale civile all’Università di Pisa e presidente dell’Osservatorio sul diritto di famiglia -, ma si deve dire all’abilità dei codificatori, per lo più appartenenti a giuristi di stampo liberale, l’introduzione di una separazione dal sapore di scioglimento nel caso uno dei coniugi abbandonasse la causa di separazione dopo la prima ordinanza del giudice, che al punto valeva per sempre». La legge 898 del 1970, dopo lunga battaglia, introduce finalmente il divorzio, ma con una scelta unica in Europa: far precedere lo scioglimento da una fase di separazione, una sorta di anticamera cui affidare un eventuale ripensamento dei coniugi, la cui durata è stata drasticamente ridotta dal «divorzio breve».

Visti da fuori

Secondo Eurostat, in Italia si divorzia poco. Dagli ultimi dati sui divorzi ogni mille abitanti, l’Italia è a quota 1,53, considerando una media del 2016, 2017 e 2018: decisamente meno del valore medio Ue di 1,9. A alzare la media sono i Paesi del Nord e dell’Est, come la Lettonia, dove si arriva a un massimo di 3,1, la Lituania, con 3,07, la Danimarca, con 2,73 e l’Estonia, a quota 2,47, seguita da Finlandia e Svezia con 2,43. Nel nostro Paese il tasso di divorzio è balzato da 0,9 a 1,4 solo nel 2015 con l’approvazione del «divorzio breve». Ma se siamo tra i Paesi con meno divorzi per abitante, poiché in Italia i matrimoni sono in calo, siamo tra i primi cinque nella Ue per divorzi per numero di matrimoni, ben 47,9, dopo Paesi Bassi (50,9), Finlandia, Repubblica

I dati storici

I divorzi nel primo anno di applicazione della legge, il 1971 furono 17.134, raddoppiarono l’anno dopo (31.717), si assestarono nel ‘73 (21.272), calarono l’anno appresso (14.087). A dieci anni dall’introduzione, nel 1981, se ne contarono ancora meno: 12.608. Il dato esplode alla fine degli anni ‘80: nel 1991 i divorzi sono 27.350, nel 2001 arrivano a 40.051, nel 2011 a 53.806. Secondo l’Istat, tra il 1991 e il 2018 si è assistito a un vero e proprio boom dei divorzi in Italia. Basti pensare che nel 1991 i divorziati erano 375.569 ma, nel giro di un quarto di secolo, sono lievitati superando quota 1,6 milioni (1.671.534 persone). All’interno del valore complessivo si può osservare che il numero più consistente si concentra da sempre nella fascia tra 15 (valore statistico, ndr) e 65 anni anche se, nel periodo considerato, è proprio qui che si registra un notevole calo: dall’88,1% del totale nel 1991 al 77,9% del 2018. Un dato interessante è quello che vede unaumento consistente nel gruppo tra 65 e 79 anni, il quale raddoppia dal 1991 a oggi la sua quota: dall’11,9% al 22,1% (da 44.848 a 368.678 divorziati) e il gruppo over 80 che addirittura arriva quasi a triplicare la sua presenza passando dall’1,3% al 3,2% (da 4.818 a 53.174).

Com’è cambiata l’Italia

Scrive l’esperta di statistica Linda Laura Sabbadini, a corredo dell’ultima analisi dell’Istat su dati del 2018: «In Italia l’instabilità coniugale è in costante crescita, a seguito delle importanti trasformazioni socio-demografiche che hanno riguardato la formazione e lo scioglimento delle unioni. Tuttavia, rispetto ad altri contesti, quello italiano si caratterizza per un’incidenza più contenuta di separazioni e divorzi e per una prevalenza delle prime rispetto ai secondi. Tradizionalmente si è osservato, infatti, che una volta separati legalmente i coniugi non sempre procedono con lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio che si ottiene solo con la sentenza di divorzio».

Il biennio della svolta

L’introduzione del decreto legge 132/2014 (iter extra-giudiziale per separazioni e divorzi consensuali) e della legge 55/2015 («divorzio breve») ha comportato una crescita che ha riguardato per lo più i divorzi e soprattutto quelli consensuali. Tra il 2014 e il 2015 i divorzi sono passati da circa 50 mila l’anno a oltre 80 mila, per poi raggiungere i 99 mila nell’anno seguente. Tra il 2014 e il 2016 il tasso di crescita annuo è stato del 44,6% per i divorzi rispetto al 5,8% per le separazioni. Al contrario, nel 2017 si è osservata una diminuzione del numero di divorzi. Si può supporre che l’effetto congiunturale della legge «divorzio breve» stia progressivamente riducendosi. Le separazioni, nota Sabbadini, hanno invece subito un incremento più contenuto: da 89 mila del 2014 a oltre 91 mila del 2015 per poi posizionarsi intorno a 99 mila negli anni successivi.

Il vantaggio delle nuove leggi

«Il decreto 2014 - spiega il professor Cecchella - consente ai coniugi che abbiano già ottenuto un provvedimento di separazione dal giudice, di accordarsi e chiudere il divorzio in 6 mesi, se assistiti da avvocati e in assenza di figli; oppure in 12 mesi, in assenza di legali (e sempre che non ci siano figli), semplicemente registrando gli atti all’ufficio dello Stato civile». Solo per avere un’idea, l’Istat registra nel 2018 qualcosa come 6.519 divorzi secondo la prima delle procedure, quella con gli avvocati e 20.203 secondo quella senza gli avvocati. «Dati in difetto - avverte Cecchella -perché spesso gli atti non vengono comunicati». La novità introdotta dal divorzio breve invece sta nel consentire di giungere dalla separazione al divorzio non più in tre anni, ma in sei mesi, se la separazione è consensuale, e in 12 se c’è contenzioso. Negli anni la tipologia di procedimento prevalente si è rivelata quella consensuale: nel 2017 si sono chiuse con questa modalità l’85,5% delle separazioni e il 73,3% dei divorzi; quota che risulta molto stabile nel tempo per le separazioni e leggermente in crescita per i divorzi.

Nord e Sud

Storicamente il Mezzogiorno mostra una maggiore tenuta dell’unione matrimoniale. Scrive Sabbadini che «questo risultato è anche frutto della diversa incidenza di alcune caratteristiche, come ad esempio la quota più alta di matrimoni religiosi», dove la propensione a separarsi è molto inferiore.

Genitori e figli

Per quanto riguarda il tipo di affidamento, con l’entrata in vigore della legge 54/2006 si è verificato un radicale cambiamento di approccio, sia per le separazioni sia per i divorzi. Infatti, l’istituto dell’affido condiviso dei figli minori tra i due coniugi è stato introdotto come modalità ordinaria. Secondo la nuova legge, entrambi i genitori ex-coniugi conservano l’esercizio della responsabilità genitoriale (che prima spettava esclusivamente al genitore affidatario) e devono provvedere direttamente al sostentamento economico dei figli, in misura proporzionale al reddito. Il «sorpasso» vero e proprio è avvenuto nel 2007 (72,1% di separazioni con figli in affido condiviso contro il 25,6% di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre). Tuttavia restano ancora ampi spazi per una discrezionalità eccessiva del giudice che conduce inevitabilmente ad orientamenti contrastanti.

 Il mantenimento

Anche l’assegno divorzile ha subito una forte evoluzione: il criterio del «tenore di vita» dei coniugi che andava mantenuto, contenuto in alcune sentenze del 1999, è stato superato drasticamente con una sentenza del giudice di legittimità del 2017 che collega la concessione dell’assegno solo al caso in cui il coniuge non abbia mezzi di sostentamento propri, né può facilmente conseguirli. «Il criterio - spiega Cecchella - è stato poi moderato grazie alla sentenza delle Sezioni Unite del 2018 che ha parametrato l’assegno non solo sul criterio assistenziale, ma anche su quello di compensazione. Cioè si tiene anche conto del caso che il coniuge abbia sacrificato la sua carriera professionale di lavoro per dedicarsi alla famiglia».

La pandemia

Il Covid-19 ha prodotto l’introduzione di alcune semplificazioni nelle procedure: tutte le udienze possono essere svolte da remoto(e spesso si tengono via Teams) o tramite note scritte degli avvocati. L’unica procedura che resta invariata è l’audizione dei minori che va svolta in presenza. La pandemia ha rallentato la lavorazione delle pratiche: gli uffici hanno ripreso a lavorare realmente da settembre e ora dovranno smaltire l’arretrato.

https://www.corriere.it/cronache/20_novembre_30/legge-divorzio-italia-ha-50-anni-f32e5e30-3343-11eb-af7b-c18cb439eaf5.shtml