giovedì 30 marzo 2017

Le responsabilità istituzionali per la diseducazione sessuale degli adolescenti inserito da Maddalena Robustelli

Una dei fanalini di coda in Europa, l'Italia continua a privare i propri adolescenti della necessaria educazione alla sessualità
Sono trascorsi così pochi giorni dalla notizia della condanna a Vicenza di una giovane donna rea di procurato aborto, che occorrerebbe meglio delineare i contorni di questa vicenda, di modo che non venga annoverata tra gli innumerevoli casi di cronaca nera. In primo luogo perché per l’ennesima volta si accendono i riflettori mediatici sul fenomeno degli aborti illegali, secondariamente perché ad essere punita è chi da minorenne aveva praticato altre tre interruzioni di gravidanza sempre con la stessa metodologia, quale il ricorso a dosi massicce di un farmaco antispastico. Una prassi sempre più diffusa questa, ossia acquistare il misopristolo che, assunto in maniera impropria, comporta l’espulsione del prodotto del concepimento. Non sempre però questo particolare aborto farmacologico è privo di conseguenze negative, come la metrorragia, il sanguinamento dell’utero non dovuto a mestruazione.
Come accaduto due anni fa a Genova, in un episodio che indusse la Procura della Repubblica cittadina ad aprire un’indagine sulle preoccupanti interruzioni di gravidanze attraverso il Cytotec, utilizzato sempre di più sia da minorenni che da prostitute. I magistrati genovesi erano stati allertati dal caso di due adolescenti che, temendo una gravidanza indesiderata, scoprirono su internet che il suddetto farmaco anti ulcera avesse come effetto collaterale “le fortissime contrazioni dell’utero e un aborto quasi sicuro entro le prime nove settimane”. Indotta dal fidanzato la giovane donna assunse la dose consigliata da un blog, ossia nove compresse in una sola giornata. Ma le conseguenze furono, oltre all’aborto, dieci giorni di perdite di sangue, tanto da comportare il ricovero della ragazza in ospedale e la conseguente ammissione di avere utilizzato quel farmaco per interrompere la gravidanza.
L’anno scorso alcuni medici ed ostetriche sottoscrissero una lettera aperta alla Ministra Lorenzin per protestare contro l’aggravio economico che aumentava in maniera spropositata le sanzioni per chi abortisce clandestinamente, chiedendole di promuovere una seria campagna di monitoraggio su questo fenomeno sottostimato dallo stesso Governo.
Anche il gruppo di attiviste #ObiettiamoLaSanzione, nel richiedere la revoca della sanzione, sottolineò i rischi per la salute delle donne che ricorrono all’aborto farmacologico fai da te, chiedendo nel contempo anche una reale presa in carico del problema delle interruzioni di gravidanza fuori legge. Problema che ancora ad oggi il Ministero della Salute continua ad ignorare affermando nelle Relazioni parlamentari sullo stato di applicazione della legge 194 che il fenomeno dell’aborto clandestino si sarebbe mantenuto costante negli ultimi 10 anni. Avvenimenti come quello di Vicenza dimostrano invece il contrario e dovrebbero indurre le istituzioni ad intervenire a monte, soprattutto al riguardo del ricorso a tali prassi da parte degli adolescenti. Sempre più si appalesa conseguentemente la necessità di puntuali campagne informative che li vedano destinatari di una congrua ed opportuna educazione sessuale.
I consultori, a tal ruolo preposti, negli anni sono venuti a perdere questa specifica funzione per una serie di svariati motivi, lasciando conseguentemente scoperta la platea degli eventuali utenti giovanili, sempre più in balia dell’informazione fai da te. Approfondendo alcuni dati del 2010, difatti, si rileva che il 27% non usa alcun anticoncezionale, il 22% utilizza il metodo del coito interrotto, il 27% ricorre al preservativo ed il 18% alla pillola. Risulta alquanto evidente che circa la metà dei nostri teenagers non riesca a vivere consapevolmente la propria sessualità, preferendo rincorrere delle vere e proprie leggende metropolitane, quali che la lavanda alla coca–cola, al limone o all’aceto possa fungere da anticoncezionale. Senza contare il tam-tam che circola insistentemente sulla circostanza che fare l’amore in piedi riesca a non rendere incinte le ragazze. Proprio la vicenda della giovane donna condannata a Vicenza, denunciata nel 2015 a seguito di un malessere a scuola a cui conseguì il ricovero in ospedale per emorragia, induce a dare ragione a Marco Rossi, presidente dell'Associazione Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale, quando sostiene che: «I ragazzi hanno informazioni sulla sessualità che derivano prevalentemente dai propri coetanei, e che i loro coetanei prendono da internet, senza gli strumenti per discernere il falso dal vero».
Non entrando nel merito di come e quanto si discuta in famiglia di tali temi, ma focalizzando l’attenzione sulle modalità con le quali la scuola pubblica italiana funzioni da agenzia educativa in tema di sessualità consapevole, c’è da dire che non esistono norme obbligatorie al riguardo. L’informazione è nelle mani di insegnanti volenterosi, che sopperiscono ad oltre un trentennio di coscienti scelte omissive da parte delle istituzioni competenti. Tutti i tentativi di introdurre per legge l’educazione sessuale nelle scuole sono miseramente naufragati nel mare magno di una preventiva opposizione da parte delle gerarchie ecclesiastiche e di alcune formazioni partitiche. Eppure un recente rapporto dell'Organizzazione mondiale della Sanità sugli impatti dell'educazione sessuale ha rivelato che, nei Paesi in cui è in vigore, essa ha determinato una diminuzione delle gravidanze adolescenziali e degli aborti, delle malattie sessualmente trasmissibili e dell'HIV, senza parlare degli ulteriori effetti nel tempo lungo per gli abusi sessuali e i casi di omofobia. In Italia, d’altronde, un’indagine dell’Osservatorio nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza, predisposta nel 2013 su 1400 giovani di sette scuole diverse, ha appalesato in particolare che “il 19% degli adolescenti ha rapporti sessuali prima dei 14 anni, una cifra quasi raddoppiata rispetto alle stime dell’anno precedente: il problema è che il 73% dei ragazzi non conosce le principali malattie a trasmissione sessuale (Mts) e il 33% pensa che la loro incidenza sia trascurabile” (fonte Valigia blu).
Diventa, quindi, oltremodo colpevole che la classe politica italiana continui ad allontanare nel tempo la propria specifica responsabilità al proposito dell’adozione di programmi ministeriali in tema di educazione sessuale. Programmi che puntino a ritardare l’età del primo rapporto sessuale, a far diminuire la frequenza e il numero di rapporti con partner diversi, nonchè a determinare una maggiore prevenzione di rapporti sessuali a rischio. Non c’è altro tempo da perdere, perché evitare che succedano casi come quello di Vicenza dovrebbe indurre a prendere le giuste determinazioni al riguardo. Altrimenti a chi sui media ha definito la giovane donna in questione “professionista dell’aborto”, sarebbe da replicare che gli unici veri professionisti sono i legislatori rei del mancato avvio dell’educazione sessuale nelle scuole pubbliche italiane. Professionisti nel portare su di sé la responsabilità di un vuoto normativo che impedisce ai nostri adolescenti di acquisire quella consapevolezza adeguata ad evitare gravidanze indesiderate, malattie sessualmente trasmissibili e persino forme di sfruttamento, coercizione ed abuso.

http://www.noidonne.org/blog.php?ID=07904

mercoledì 29 marzo 2017

Infermiera sì, ministra no Se il femminile non è questione di grammatica (ma di potere) di Silvia Morosi

Le parole hanno un peso e danno forma alla realtà. E dunque segnano le differenze tra uomo e donna in termini di ruoli e riconoscimenti sociali. «Bisogna insistere, correggere espressioni che penalizzano la dimensione femminile, anche correndo il rischio di essere noiose», spiega Stefania Cavagnoli, linguista e docente dell’Università di Roma Tor Vergata

Il dibattito (storico) sul sessismo linguistico
La questione è tornata d’attualità con le ultime elezioni amministrative di Roma e Torino e con la richiesta di numerose ministre di essere chiamate tali. Nell’uso dell’italiano sono ancora molte le remore nel declinare al femminile i nomi di mestieri, professioni, ruoli istituzionali, soprattutto quando la posizione che indicano è prestigiosa. Non è strano quindi sentire nominare il magistrato Ilda Bocassini, l’avvocato Giulia Bongiorno o il rettore Stefania Giannini, ma storciamo il naso se sentiamo parlare della ministra Valeria Fedeli. Eppure, se leggessimo un discorso del Cancelliere Merkel, potremmo sorridere. Non solo, cosa succederebbe se trovassimo in un titolo di giornale «il sindaco di una città annuncia di essere incinta»? Perché è tanto difficile superare le resistenze e chiamare correttamente «architetta» o «chirurga» le donne arrivate a ruoli fino a ieri solo maschili? Perché non lo è, invece, per la maestra, l’infermiera, la cameriera o l’operaia?

Dietro la semplice questione grammaticale si nasconde quello che, anche nel nostro Paese, è stato racchiuso sotto la nozione di «sessismo linguistico». In Italia il dibattito sulla sociologia del linguaggio e sull’uso non sessista della lingua è ancora in essere, nonostante dell’argomento si discuta dagli anni Ottanta, sulla scia del linguistic sexism elaborato negli anni ‘60-’70 negli Stati Uniti. Nel 1987 l’uscita del volumetto «Il sessismo nella lingua italiana» di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha allargato il discorso all’ambito socio- linguistico ed è arrivato a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico. Lo scopo del lavoro era politico e puntava a (ri)stabilire la «parità fra i sessi» — obiettivo all’epoca di primaria importanza — attraverso il riconoscimento delle differenze di genere. Al linguaggio veniva riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà, e quindi anche dell’identità di genere maschile e femminile.

Le parole e le desinenze hanno un senso
Ma le resistenze sono rimaste perché la lingua è creatrice di realtà e strumento di potere. «Nominare le donne, usare le forme al femminile mostra la presenza delle donne, e quindi riequilibra la società e i suoi poteri. Credo che questa sia una forte motivazione per mantenere lo status quo. Quello che personalmente non capisco è la battaglia contro la modifica del linguaggio. La lingua cambia, è dinamica. Solo in questo diventiamo puristi. E la cosa che mi fa riflettere, e intristire, è che spesso sono proprio le donne quelle con posizioni più contrarie e radicali», spiega Stefania Cavagnoli, professoressa associata di linguistica e glottologia presso l’Università di Roma Tor Vergata, dove insegna linguistica generale e applicata. «Nei molti incontri che ho avuto con il mondo delle avvocate, per esempio, una delle motivazioni maggiori per l’uso al maschile del titolo professionale era: «Ho fatto tanto per arrivare qui, ed ora voglio essere chiamata avvocato». Casi in cui non serve provare a spiegare che si tratta di grammatica, dato che la ritrosia parte proprio dalle donne. L’unico modo per convincere le donne a farsi chiamare in modo adeguato è dire che si tratta di una questione di potere. «E se ci si pensa bene, in fondo un piccolo cambiamento linguistico potrebbe provocare un grande cambiamento nell’immaginario collettivo».
Le donne se non sono nominate spariscono
«Ognuno di noi, anche le persone sensibili all’argomento, se sentono una formulazione al maschile immaginano una corrispondenza al maschile: i giornalisti scrivono, gli avvocati conducono le cause, i giudici sentenziano, i professori insegnano», continua Cavagnoli.  Ma dove sono le donne? In tutte queste professioni «alte» le donne sono molto presenti, se non addirittura in maggioranza. Però non sono nominate, e quindi spariscono. Nelle professioni tipicamente femminili, e notoriamente di minor potere, si usa il femminile, ed anzi sembrerebbe strano leggere le vicende dell’«operaio Maria Rossi». A chi dice che certi femminili «suonano male», è facile rispondere che è solo questione di abitudine all’uso di parole nuove. La lingua è dinamica, si modifica in continuazione, si adegua alle necessità della società e ai suoi cambiamenti. Se serve un nome, lo si crea. «Se le donne in magistratura non erano ammesse fino al 1963, non c’era nemmeno bisogno di pensare al termine magistrata. Quando nel lessico si inserisce un nuovo vocabolo o si declina al femminile una parola di solito usata al maschile, può esser richiesto un po’ di tempo per abituarcisi», evidenzia la professoressa. «Suona male» ciò che, al nostro orecchio, si allontana dalla normalità. Ma le norme si modificano, e anche l’orecchio si adegua. In fondo, usiamo spesso parole nuove, ce ne facciamo un vezzo, soprattutto se sono prestiti da altre lingue.

Il neutro non esiste (e non è la soluzione)
Perché allora ci dà così fastidio la declinazione (nella norma) delle professioni al femminile? Usare il maschile per le donne che ricoprono professioni e ruoli di prestigio non solo disconosce l’identità di genere e nega quello femminile, ma addirittura nasconde le donne. «Credo che al fondo ci sia una convinzione radicata nelle donne, in alcune donne, che gli uomini riescano meglio in certe professioni. Conseguenza di un’educazione non attenta al genere, ma anche di continue difficoltà reali nell’ambito del lavoro, pensato al maschile. L’uso adeguato della lingua potrebbe essere un primo passo per modificare gli ambienti professionali. Le donne ci sono, competenti, e si nominano».  La questione non può essere risolta o bypassata, come sostengono alcuni, dal cosiddetto «maschile neutro», un ossimoro. «Il maschile è maschile. L’italiano ha due generi, femminile e maschile. Il neutro non esiste. L’italiano è una lingua androcentrica, e il maschile spesso è inteso in modo inclusivo».
«La signora ministro» francese
L’Italia non è un paese per donne.  In altri paesi, infatti, suonerebbe strano utilizzare il maschile inclusivo al posto del femminile. Un esempio? In Germania la discussione sulla lingua di genere è vecchia, e i risultati si vedono. Angela Merkel, nel giorno della sua nomina, ha fatto modificare la pagina web e Bundeskanzler è diventato Bundeskanzlerin. Normalità della lingua, adeguamento a una nuova realtà, in quanto Merkel rappresentava la prima donna con la funzione di Cancelliera. I nostri media ci hanno impiegato anni a chiamarla così, come è successo anche in altri Paesi come ha evidenziato una ricerca di Babbel la app per imparare le lingue nel minor tempo possibile, nata nel 2007. Nella lingua francese, ad esempio, la questione è stata affrontata in due modi: mentre l’Exagone resta fedele al maschile per i titoli di prestigio anche qui «il ministro» presenta la forma maschile, creando però al femminile un ibrido curioso come «madame LE ministre» (madame IL ministro) , il Québec ha sancito per legge nel 1979 il doppio uso, maschile e femminile, nelle professioni.

Il caso di «a presidenta» brasiliana
Lo spagnolo sostituisce la finale maschile «o» con la «a», come ad esempio «ministro/ministra», o aggiunge una -«a» alla fine della professione (juez/jueza il/la giudice). Nella lingua polacca il femminile delle professioni si forma normalmente aggiungendo il suffisso «ka» alla forma maschile: «nauczyciel - nauczycielka» (maestro - maestra). Il problema nasce quando lo stesso suffisso è usato anche per la forma diminutiva: kawa - kawka (caffè - caffettino). E così fa notizia Joanna Mucha, ministra polacca dello Sport e del Turismo dal 2011 al 2012, quando decide di non usare il termine convenzionalmente accettato di pani minister («signora ministro») ma la versione femminile «ministra» (ricalcata dal latino), snobbando anche il neologismo ministerkaper non incorrere nel diminutivo. In portoghese, la maggioranza dei prefissi presenta una distinzione tra maschile e femminile. Alcune professioni che storicamente non avevano un parallelo al femminile non hanno tuttora un suffisso. Il termine «presidente» però, come da regola, non avrebbe bisogno di un termine extra, dato che esiste ed è corretto il termine «a presidente». Esiste però una corrente che accetta la versione «a presidenta» e il fatto che l’ex presidentessa del Brasile Dilma Roussef abbia deciso di scegliere quest’ultima acquista un’importante connotazione politica.
Rispettando la grammatica si rispettano le donne
Per sensibilizzare su un corretto uso della lingua, il ruolo della scuola è determinante. Per il bambino l’esempio è fondamentale, sia che esso venga dalle insegnanti, dalle famiglie, che dai libri, dai manuali, dai cartoni animati. «Per bambine e bambini è normale applicare le regole della grammatica che imparano a scuola e formarsi idee e riferimenti sulla base di quanto sentono, vedono, vivono. Se gli esempi sono sempre al maschile, e le donne spariscono, nulla si modificherà», spiega Cavagnoli. Certo, anche la politica  gioca un ruolo nella diffusione di una cultura più attenta all’utilizzo del linguaggio di genere. «In occasione dell’8 marzo ho partecipato a un incontro in un ministero, un seminario sul tema della presenza delle donne nelle istituzioni. Sul palco solo donne, ma sulla locandina solo alcune cariche sono declinate al femminile, nonostante la mia insistenza nel far correggere le altre. Mi è stato risposto che le relatrici preferivano il maschile. Vorrei tanto che passasse l’idea che non è una questione di preferenza, ma di grammatica e sì, di impegno politico. Avrebbero preferito il maschile anche se la professione fosse stata quella di maestra, cameriera, impiegata?», conclude la professoressa. Rispettando la grammatica si rispettano le donne.
http://www.corriere.it/extra-per-voi/2017/03/10/infermiera-si-ministra-no-se-femminile-non-questione-grammatica-ma-potere-bbac8f0a-05a6-11e7-882a-48a6b14b49a6.shtml

martedì 28 marzo 2017

E se Cenerentola fosse la favola più ribelle di tutte?

Una giovane dalla vita sfortunata, costretta a dimenticare i propri sogni di felicità a colpi di straccio e di scopa. Le persone che la circondano non fanno che ricordarle qual è il suo posto e sono decise a impedirle di realizzarsi ed essere felice. Ma lei non demorde, insiste, tiene duro e, complici alcuni amici molto speciali, riesce ad arrivare dove si era ripromessa e una volta lì, si trasforma. È bellissima, irresistibile, sa di poter ottenere tutto quello che vuole. E infatti se lo prende.

Non è anche questa una favola perfetta per bambine ribelli? In cui la protagonista si ribella a quello che il destino sembra aver scritto per lei? Non solo. Ci ritroviamo alcuni dei temi fondamentali del femminismo e della battaglia che ciascuna donna deve combattere per trovare la propria strada: la solitudine che ti si spalanca intorno nel momento in cui reclami il diritto a fare di testa tua, il senso del dovere imposto a forza contro il piacere, la necessità di essere ostinata e non mollare mai, anche quando il sogno sembra ormai perduto e impossibile realizzare.

Che cosa cambia, allora, se per riuscirci servono dei topolini che si improvvisano sarti, una zucca che si improvvisa carrozza e una fata che per un pelo non si lasciava il vestito nella bacchetta? E che cosa cambia se il sogno della protagonista era sposare il principe azzurro? Non è questa la parte più importante. L’importante è quello che fa per riuscirci, che ci creda fino in fondo, che non molli mai. È questa la lezione che Cenerentola ha lasciato alle bambine di mezzo mondo (insieme a una pessima reputazione per le matrigne). Il principe è un simbolo, poco di più. Potremmo scambiarlo con un viaggio, con un bel lavoro, con una casa e la storia non cambierebbe poi più di tanto.

Lo dimostra il fatto che i bambini e le bambine non amano Cenerentola perché lei alla fine sposa il principe. Della favola nella versione Disney ameranno soprattutto i topini, l’apparizione della fata smemorata, la cattiveria e la ridicolaggine delle sorellastre. Ameranno tutto ciò che li ha emozionati e li ha fatti ridere, quindi l’ingiustizia e poi l’arrivo al ballo e il riscatto tanto a lungo sognato. Proprio come chi scivola e si affanna sul palo della cuccagna non lo fa perché sa che in cima troverà un prosciutto o una bottiglia di spumante, lo fa per l’ansia e il piacere di vincere. Il principe delle favole, insomma, è un po’ il nostro prosciutto. Dice un paio di battute, non si fa notare troppo, nel complesso ha il carisma di un merluzzo sotto sale, ma è lì, a indicare il traguardo, la fine della storia.

Altro che castelli e bianchi destrieri, niente ci ha preparate alla futura convivenza come un principe che da solo non trova neanche le armi, se qualche fatina irriverente non gliele piazza in mano, che prima ti bacia e poi ti chiede come ti chiami, che è convinto di essere il protagonista solo finché le donne della storia glielo lasciano credere e fanno tutto il lavoro sporco al posto suo. Non ricordo il volto di un solo principe delle favole Disney, ma riconoscerei ovunque una delle principesse. Non è emancipazione, questa, in un certo senso? Non c’è bisogno che alla fine la protagonista apra un ristorante come avviene in La principessa e il ranocchio, non è neanche necessario che lei alla fine diventi una famosa tennista o una pittrice. Quello che importa è la magia, è la fiaba, è credere nella possibilità che il sogno si avveri, se ci metti tutta te stessa e tieni duro, nonostante tutto. Quello che conta è sapere che ciascuno ha la propria favola e il diritto di viverla fino in fondo.

Non è quel che si racconta, insomma, ma come lo si racconta. Generazioni di bambine si sono identificate in Mowgli e in Peter Pan e perfino in Bambi, senza avere bisogno di un corrispettivo femminile. È la storia a fare la differenza, il modo in cui vengono distribuite le informazioni, la posta in gioco, i conflitti, la dimensione emotiva. Se la storia funziona, se ti coinvolge, se ti emoziona, se ti permette di identificarti, non importa più che il protagonista sia un maschio o una femmina. Non c’è neanche bisogno che sia una persona. Sono sempre le parole a compiere la magia, non la storia edificante che vogliono raccontare.

Una favola ben raccontata è ribelle e rivoluzionaria, a prescindere dal sesso dei suoi protagonisti. Basta che scatti la magia, che la storia ci porti con sé, che ci insegni a superare i nostri limiti e a realizzare le nostre aspirazioni. Che ci convinca che abbiamo il diritto di inseguire i nostri sogni, sempre e comunque, senza lasciarci scoraggiare dalle matrigne crudeli o dai lupi cattivi.

Una favola ben raccontata è sempre femminista, a modo suo, perché non c’è niente di più femminista che credere nell’impossibile e trasformarlo in realtà.
https://rosapercaso.wordpress.com/2017/03/20/e-se-cenerentola-fosse-la-favola-piu-ribelle-di-tutte/

lunedì 27 marzo 2017

Chi sono le "madri fondatrici" dell'Europa di Maria Pia Di Nonno

Maria Pia Di Nonno dottoranda e autrice di una ricerca che è diventata libro e mostra itinerante, ci conduce sulle tracce delle donne che hanno fatto l'Europa. Un lavoro, spiega, ancora tutto da completare

Il recente libro Breve storia delle donne della illustratrice inglese Jacky Fleming si apre con una vignetta ironica e pungente sulla questione della presenza delle donne nei manuali di storia. Si tratta di un disegno in cui viene rappresentato uno scienziato intento a osservare un insetto con una lente di ingrandimento e dove si legge: "Una volta non c’erano le donne e questa è la ragione per cui non si trovano mai nei manuali di storia. C’erano solo gli uomini e alcuni di essi erano dei geni". Un libro che, come riporta il Sunday Times, mostra come la storia sia, ancora oggi, intrisa di una prospettiva patriarcale e di come le gesta delle donne siano state ritenute, spesso, non meritevoli di menzione. La lista delle donne “dimenticate”, che varrebbe la pena ricordare, è ben più lunga di quello che si potrebbe ritenere e il lavoro di ricerca che ho condotto sulle madri fondatrici dell’Europa nasce proprio con la speranza che altre e altri giovani comincino a incuriosirsi e a rovistare nei cassetti della memoria per ritrovare quelle testimonianze nascoste che potrebbero suggerir loro un altro modo di essere Europa e, più in generale, un'altra prospettiva storica.

L'idea della ricerca nasce da una curiosità personale. Dal 2014 infatti ho cominciato a interrogarmi su come contribuire a rendere l’Europa un po’ più vicina alle aspirazioni mie e di tutti i cittadini e le cittadine. Quella che inizialmente era solo un'idea ha iniziato a concretizzarsi, e sono riuscita a coinvolgere dei giovani dell’Istituto Luigi Sturzo nell'organizzazione di una serie di conferenze sulle “madri fondatrici dell’Europa”. Si tratta di uno sparuto gruppo, gli Young Leaders, che è riuscito a realizzare tra il 2015 e il 2016 la prima parte di quell’impresa: un ciclo di incontri dedicati a Ursula Hirschmann, Sofia Corradi, Sophie Scholl, Simone Veil e Ada Rossi. Intanto, convinta della bontà di quel progetto, ho continuato tenacemente a cercare di dare un seguito all’iniziativa. E dopo l’esito positivo del Dottorato in Storia dell’Europa all’Università Sapienza di Roma, nel 2016, ho ottenuto un finanziamento dall'ateneo per organizzare una conferenza sul tema, il 17 febbraio 2017, con la presentazione di quello che nel frattempo era diventato un libro (Europa. Brevi Ritratti delle Madri Fondatrici, Edizioni di Comunità, 2017) e una mostra - arricchita dai disegni di Giulia Del Vecchio - che ha l’aspirazione di diventare itinerante. Dopo essere stata esposta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 6 marzo, la mostra sarà visitabile a Montecitorio dal 24 marzo per circa dieci giorni. E continuerà, in seguito, il suo tour in giro per l’Italia e, chissà, forse anche per l’Europa.

Ecco quali sono state le figure individuate in questa prima fase progettuale:

Ursula Hirschmann: diffuse in Italia il Manifesto di Ventotene, organizza il primo incontro del Movimento Federalista Europeo e fonda il gruppo “Donne per l’Europa”;
Ada Rossi: diffonde il Manifesto di Ventotene e promuove attivamente le attività del movimento Giustizia e Libertà;
Louise Weiss: apre la seduta inaugurale del Parlamento Europeo eletto per la prima volta a suffragio Universale (1979) e fonda la rivista l’Europe Nouvelle, la Nouvelle Ecole de la Paix e il movimento La Femme Nouvelle;
Eliane Vogel-Polsky: professoressa e avvocata, è grazie a lei se la questione della diretta applicabilità dell’art. 119 del Trattato Istitutivo delle Comunità Economiche Europee, relativo alla parità salariale, giunge alla Corte di Giustizia della CEE;
Maria De Unterrichter: è tra le ventuno donne elette alla assemblea costituente ed è sostenitrice della causa delle donne, dell’educazione e dell’Europa;
Sophie Scholl: studentessa uccisa dalla polizia nazista per aver disseminato i foglietti del Gruppo ‘La Rosa Bianca’ che inneggiavano alla pace tra i popoli europei;
Fausta Deshormes La Valle: caporedattrice della rivista “Giovane Europa” (organo della Campagna Europea delle Gioventù) e Responsabile dell’Ufficio Informazione Donne della Commissione Europea;
Sofia Corradi: promotrice del Programma Erasmus e vincitrice nel 2016 del prestigioso Premio Carlo V;
Simone Veil: prima donna ad essere eletta Presidentessa del Parlamento europeo, eletto dal 1979 a suffragio universale.
Una ricerca non ancora esaustiva, "un lavoro da continuare", come suggerisce il titolo dell'ultimo capitolo del libro. Di fatto, ritrovare e ricercare le storie di queste donne che per volontà, o anche semplicemente per noncuranza dovuta alla cultura del tempo in cui sono vissute sono andate perdute, non è facile. Solo alcune di loro hanno lasciato memorie e scritti e, ancora, solo alcune di loro hanno avuto l’accortezza di raccogliere documenti ufficiali e di donarli ad archivi storici.

C'è qualcosa, inoltre, che lega queste storie. Storie che apparentemente potrebbero sembrare lontane ma che, in fin dei conti, sono accomunate da uno stesso principio: proteggere quel progetto di pace affinché la guerra - che tutte loro avevano vissuto - non insanguinasse più l’Europa e investire le proprie energie per trovare strumenti concreti e far sì che le cittadine e i cittadini europei sentissero l’Europa sempre più vicina alle proprie esigenze.

La speranza che anima il progetto è proprio che l’idea venga condivisa e riesca a diffondersi a livello europeo, in modo che altre e altri giovani possano incuriosirsi e intraprendere un percorso di riflessione comune attorno al ruolo che ognuno di noi ha nella storia.

Joyce Lussu - altra coraggiosa e eclettica figura del ‘900 - riportava in un suo libro un incontro con una signora in treno che le chiese quale lavoro facesse e che rimase sorpresa quando lei le rispose che “faceva storia”, sebbene non insegnasse. Quell’episodio la condusse a riflettere sul fatto che tutti noi facciamo storia e scrisse: "Tutti facciamo storia perché tutti in qualche modo facciamo delle scelte e abbiamo potere su noi stessi e su ciò che ci circonda (…) Ma il problema sono appunto gli enormi dislivelli di scelte e di potere, per cui altri possono, non scegliere un’erba buona da una cattiva ma far coltivare milioni di ettari di grano o distruggerli, eliminare milioni di esseri umani o farli vedere forzando la qualità della loro vita. Fare storia vuol dire indagare su questo insieme di energie umane per indirizzare le scelte verso la sopravvivenza e la convivenza e non verso la mutilazione e la distruzione."

A tal riguardo, è emblematica la vignetta che chiude il libro già citato all'inizio dell'illustratrice inglese Jacky Fleming, dove un gruppo di donne riesce a fuoriuscire dalla figurata “pattumiera della storia”. La storia delle donne, in effetti, non è poi così tanto breve; e basterebbe mettersi alla ricerca delle storie delle donne che hanno fatto l’Europa per notare come siano collegate tra loro da un nastro che non si è mai spezzato.

domenica 26 marzo 2017

«Zitta»: te lo ordina il cervello La fisiologia della paura E i silenzi di chi subisce uno stupro di Cristina Muntoni

«Non urlare mentre si subisce una violenza sessuale, non significa acconsentire. È una reazione al trauma spiegabile scientificamente con la Teoria Polivagale». A spiegarlo, dando così una interpretazione che ribalta quella che ha portato alla discussa sentenza di assoluzione dell’accusato di violenza sessuale a Torino, è Ilaria Vannucci, psichiatra e psicoterapeuta specializzata in trauma psichico, membro del Gruppo di Ricerca Internazionale sui Disturbi di Personalità coordinato dal St. Olavs Hospital di Oslo e docente in Disturbi d'Ansia e Dissociativi alla Scuola di Psicoterapia Cognitiva ATC di Cagliari. «Purtroppo questo concetto, così chiaro per chi si occupa di delle dinamiche legate al trauma psichico, ancora non passa nei circuiti giudiziari. E ciò, a danno delle vittime che non reagiscono perché traumatizzate, non certo perché consenzienti come viene mal interpretato». La sentenza assolutoria in questione è stata motivata dal collegio giudicante perché la donna che si è dichiarata vittima non ha urlato, né chiesto aiuto, ma solo espresso il suo rifiuto con ripetuti “basta”.
La donna, che ora dovrà rispondere delle accuse di calunnia per disposizione della prima sezione penale presieduta dalla giudice Diamante Minucci, secondo la psichiatra avrebbe invece avuto una reazione facilmente spiegabile con una teoria elaborata dal neuroscienziato e psicofisiologo, Stephen Porges. La tesi del direttore del Brain–Body Center dell’Università dell’Illinois sarebbe la risposta scientifica capace di smontare la motivazione della sentenza. Proprio l’assenza di «quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona» che è diventata fulcro della motivazione della sentenza, secondo la psichiatra descriverebbe «una delle possibili risposte fisiologiche di sopravvivenza durante il trauma».
In cosa consiste questa teoria?
«Alcune delle reazioni delle vittime di violenza non vanno sotto il controllo della parte corticale del cervello, ma sono mediate dalle strutture sottocorticali che forniscono la possibilità istintiva di reazione, ma non integrano dal punto di vista cognitivo quello che sta capitando. Se tu sei impegnato a sopravvivere e devi fronteggiare un pericolo nell’immediato, devi essere molto veloce per cui anche la sovrastruttura corticale, per quanto rapidissima, è sempre a rilento, quindi l’unico strumento per sopravvivere è quello di lavorare col sistema nervoso autonomo e con le strutture sottocorticali. Avviene un allentamento delle connessioni tra la corteccia frontale mediale e le strutture limbiche».
In termini pratici, cosa significa?
«Vuol dire che quando si sta affrontando un pericolo, come la violenza, lo si affronta senza la corteccia, cioè si agisce solo con sistemi automatici, quelli che si è costruiti da bambini e che sono comuni per la sopravvivenza a tutte le specie animali. La donna che si blocca come quella della sentenza non lo fa volontariamente, ma perché il suo sistema nervoso autonomo ha deciso che per lei quello era il sistema migliore per sopravvivere».
Il fatto che la donna in questione fosse stata vittima di violenze da parte del padre da quando aveva 5 anni può aver inciso?
«Certo. Fino a 8 anni si ha la massima incidenza del meccanismo di difesa dal trauma che è la dissociazione dalla realtà. Al ripresentarsi di determinati traumi quel meccanismo si riattiva creando una frattura della continuità col mondo reale. Praticamente il sistema nervoso autonomo funziona con tre sistemi gerarchici e il più antico è quello che dà la reazione dell’animale che si finge morto col predatore che incombe. Questa reazione è legata a un’immobilità ipotonica, cioè la persona può persino cadere a terra incapace di reagire e, in queste condizioni, se si ha un estremo rallentamento del battito cardiaco si può anche morire di sincope. Ad esempio il caso di cronaca del professionista morto improvvisamente a un posto di blocco. La sua morte era stata causata da un meccanismo di questo tipo e questo ci fa capire la potenza del sistema nervoso autonomo e delle strutture sottocorticali implicate nel trauma. Se si può arrivare a morire per la paralisi fisica che consegue al trauma, si può capire bene anche il non riuscire a parlare e a reagire per respingere un aggressore».
Perché non si tiene conto di questi meccanismi nei processi?
«Semplicemente perché non si conoscono. In Italia ci sono pochissimi specialisti che si occupano di questo tipo di dissociazione in maniera concreta perché ci vuole una preparazione fortemente specialistica. Si dovrebbe iniziare a creare una cultura sulla dissociazione. Nel caso specifico della donna della sentenza di Torino, lei potrebbe non essere riuscita a reagire perché il terrore e il tentativo di sopravvivenza l'hanno privata del supporto della corteccia e ha lavorato solo con le strutture sottocorticali. Il fatto di non essere collegata a livello delle funzioni superiori a volte non permette di esprimersi neanche con le parole, a volte non si riesce neanche a gridare e si può avere un’impotenza muscolare, la sensazione di diventare flaccidi. Questo si associa spesso a livello emotivo anche a sentimenti di senso di vergogna e di colpa perché la persona non si spiega come mai non ha reagito. Bisogna conoscere a fondo questi meccanismi sottostanti, ma una volta compresi è facilmente decodificabile il comportamento».
Un comportamento che, se non interpretato con le giuste conoscenze, può portare ad una assoluzione dell’accusato solo perché la presunta vittima «non riferisce di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale». A volte «il fatto non sussiste» potrebbe essere solo un fatto che non è stato analizzato con gli strumenti di conoscenza adeguati.
http://27esimaora.corriere.it/17_marzo_25/zitta-te-ordina-cervello-fisiologia-paura-silenzi-chi-subisce-stupro-473f5b2e-1187-11e7-8518-37eb22c51aa5.shtml

giovedì 23 marzo 2017

«Se non urli non è uno stupro»: la sentenza che umilia le donne di Giulio Cavalli

A Torino un uomo è stato assolto dall'accusa di violenza sessuale perché, secondo la Corte, la vittima avrebbe "solo" detto "no, basta" senza mettersi a urlare. E ora sotto processo ci finirà lei, per calunnia.

Migliaia di parole, manifestazioni, convegni e bozze di legge per arginare il doloroso disprezzo verso le donne, addirittura una trasmissione pomeridiana chiusa con gran clamore su Rai Uno e poi dal tribunale di Torino emerge una storia che, stando agli elementi a disposizione, mette i brividi vanificando tutto il resto: un uomo è stato assolto (perché "il fatto non sussiste") dall'accusa di avere abusato di una collega di lavoro perché, secondo il giudice, la donna avrebbe detto "solamente" no basta senza mettersi a urlare.  La colpa della donna insomma sarebbe di non avere «tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona» e ora per lei si configura addirittura il reato di calunnia.

Secondo quanto racconta il Corriere della Sera la vittima avrebbe alle spalle un'infanzia già segnata dagli abusi da parte del padre fin dall'età di cinque anni che avrebbero contribuito a definirne un profilo psicologico tormentato dall'«esperienza traumatica di abuso infantile reiterato intrafamiliare subito». La donna, durante la deposizione al processo, ha confessato che quel suo collega di lavoro, più anziano e "professionalmente più stabile" le aveva ricordato la figura paterna. Un dolore che affonda le unghie nei fantasmi del passato che però non ha convinto la corte.

Non solo non ha urlato, secondo il giudice, ma anche «non riferisce di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, sensazioni di sporco, test di gravidanza, dolori in qualche parte del corpo.» E a niente sono valse le spiegazioni della presunta vittima che, singhiozzando, aveva raccontato: «uno il dissenso lo dà, magari non metto la forza, la violenza come in realtà avrei dovuto fare, ma perché con le persone troppo forti io non… io mi blocco».

L'imputato (un quarantaseienne in servizio alla Croce Rossa) tra l'altro non ha mai negato "palpeggiamenti" e "alcune effusioni" verso la collega specificando però che fossero assolutamente consenzienti. Non solo: secondo l'uomo a causa della denuncia della collega avrebbe avuto dei seri problemi famigliari e professionali.

Scrive la corte sulla donna: «Non grida, non urla, non piange pare abbia continuato il turno dopo gli abusi», parla di "malessere" «ma – scrive la presidente di sezione – non sa spiegare in cosa consisteva questo malessere». Quindi il racconto "non appare verosimile" e il processo può dirsi chiuso.

La vicenda, al di là dei risvolti squisitamente giudiziari, ripropone un'altra volta l'abitudine di valutare la gravità di una violenza basandosi sulla reazione della vittima ed è, almeno culturalmente, un segnale pericolosissimo perché lascia sottinteso un recondito "piacere" che avrebbero le vittime nell'essere desiderate, palpate e violentate. E fa niente che l'imputato risulti patetico nel lamentare "conseguenze nella serenità famigliare" come se il problema fosse la denuncia e non le azioni (i palpeggiamenti di fatto sono stati confermati in fase dibattimentale): reagire poco è una colpa.

Alla prossima violenza le donne abbiano cura di reagire secondo il protocollo, grazie.


http://www.fanpage.it/se-non-urli-non-e-uno-stupro-la-sentenza-che-umilia-le-donne/

martedì 21 marzo 2017

Sessismo e razzismo in Rai: Parliamone Subito

"Parliamone Sabato" è stata chiusa, soppressa per razzismo e sessismo (e anche per idiozia).
La decisione di Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale della Rai è arrivata dopo le scuse di Andrea Fabiani, presidente di Rai 1, e di Monica Maggioni, presidente Rai che si era detta offesa come donna, per i contenuti della defunta trasmissione.
La puntata intitolata: “La minaccia arriva dall’est. Gli uomini preferiscono le straniere”. Sottotitolo: “Sono ruba mariti o mogli perfette”?   andata in onda sabato scorso con un penoso siparietto tra  Perego, gli  ospiti  e una grafica che  illustrava “la qualità delle donne dell’est” ha suscitato indignate proteste  e petizioni.  Ne ha parlato anche la stampa spagnola e probabilmente  la notizia approderà su altre testate straniere.    La rete Non Una di meno ha organizzato il flashmob “Rai ma che fai? Parliamone subito”  e mercoledì 22 marzo alle 14 (viale Mazzini, 14 Roma) davanti alla sede della Rai ci sarà una protesta per dire basta agli stereotipi sessisti e razzisti e alle narrazioni tossiche.

Il ritratto della donna perfetta secondo la Rai? Essere sottomessa, brava donna di casa, fattrice, avvenente, disponibile a perdonare tradimenti e acquiescente. Un po’ santa, un po’ puttana, un po’ colf.  L’ibrido tra l’Anastasia di 50 sfumature di grigio, un efficiente elettrodomestico e  una wonder woman dedita alla soddisfazione delle aspettative maschili,  vivrebbe soprattutto nei Paesi dell’Est. La  narrazione degradante e umiliante delle donne e in particolare delle donne dell’est, tra sessismo, misoginia e razzismo sarebbe stata ispirata , escludendo gli abitudinari avventori ubriachi del solito bar sport, dal sito Oltreuomo (o la sua  pagina Facebook dove si possono leggere edificanti contenuti quali “Perché la ragazza che non si mette in tiro fa decollare gli uccelli degli uomini”) e il suo post “Venti motivi per farsi una ragazza dell’est” . I sei punti illustrati nella grafica del programma Rai sarebbero stati la sintesi di quella ventina di motivazioni (Come ha suggerito Domenico Naso in un post sul Fatto quotidiano).
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Non sono trascorse nemmeno due settimane dallo sciopero delle donne organizzato l’8 marzo  dalla rete Non una di meno insieme ad un movimento mondiale che in  50 Paesi ha portato nelle strade milioni di manifestanti per rivendicare diritti, libertà dalla violenza, lotta agli stereotipi, alle discriminazioni e al sessismo che la televisione pubblica italiana  gioca con un nostalgico immaginario sessista, razzista, stupido e volgare, degno del ventennio fascista. I diritti e la dignità delle  donne? Questioni leggere, da poter piegare alle esigenze di una sterile caccia all’audience che solletica il basso ventre in violazione del codice etico della Rai e della Convenzione di Istanbul che sollecita i media ad assumere un ruolo responsabile per essere parte attiva di un cambiamento culturale.

Lorella Zanardo che si occupa da più di un decennio del linguaggio della televisione italiana scrive sulla pagina Facebook de Il corpo delle donne che : “non capisce i motivi dello scandalo. La televisione italiana è così da dieci anni. Lo abbiamo denunciato con un documentario e meglio di cosi non si poteva dire. Perché non ci siamo limitati alle grida che durano un giorno, abbiamo reso noto il pogrom che viene compiuto nei confronti delle donne. Non serve gridare allo scandalo. Serve rifondare la RAI. Chiedere alla Commissione di Vigilanza che cavolo fa tutto il giorno. Chiedere che la RAI non sia più lottizzata dai partiti. Che il profitto non sia più l’unico obiettivo. Che il terzo articolo della Costituzione sia rispettato e di conseguenza le donne. Serve riflettere che via Berlusconi, la RAI continua a promuovere programmi sessisti. Di immagini come quelle che girano sul web oggi ne abbiamo schedate centinaia. Su queste si basano i nostri corsi da anni, sulla loro analisi e destrutturazione. Avanti. La protesta va costruita bene”.

Ciliegina sulla torta:  ieri sera  il giornalista sportivo, Ivan Zazzaroni  ha detto a Patrizia Panìco, neo allenatrice degli Azzurri under 16, (prima donna nella storia del calcio)  che la sua nomina è “solo un’operazione di marketing” , asserendo che una donna non possa allenare il calcio maschile.

No. Chiudere una trasmissione non basta!
https://ilportodellenuvole.wordpress.com/2017/03/20/sessismo-e-razzismo-in-rai-parliamone-subito/






giovedì 16 marzo 2017

Quelli che ci vorrebbero obbedienti e con le mutande coperte di Mariangela Mianiti

Habemus Corpus. Fra le reazioni maschili seguite allo sciopero femminile e femminista dell’8 marzo scorso, due mi hanno colpito, una per imbarazzo, l’altra per rabbiosità

Fra le reazioni maschili seguite allo sciopero femminile e femminista dell’8 marzo scorso, due mi hanno colpito, una per imbarazzo, l’altra per rabbiosità.

Il premio per il sottile livore lo vince Dario Di Vico che, sul Corriere della sera, ha definito lo sciopero «un mezzo disastro» perché, secondo lui, è stato fatto più da uomini che da donne, era praticabile solo da chi ha il posto fisso, ha penalizzato le fasce meno abbienti e altre donne perché coinvolgeva soprattutto trasporto pubblico e scuole, ha rischiato di rivelarsi una dimostrazione di debolezza più che di forza perché non aveva una controparte precisa (sic).

Il premio per l’imbarazzo, invece, lo vince Enrico Mentana che, in un servizio sul tg de La7, mostrava un gruppo di ragazze che sollevavano provocatoriamente le gonne per mostrare al mondo le loro mutande. Però, arrivato sul più bello, mentre le ragazze dicevano: «Uno, due, e …» ha fermato l’immagine proprio sul tre, giusto un secondo prima che le mutande comparissero. Sembrava un coitus interruptus.

Da una parte uno, dal suo piedistallo benpensante, ci ha fatto la predica dicendo che avremmo dovuto protestare in modo più calmo, sensato e che non desse troppo disturbo alla consueta quotidianità. Se avessimo voluto essere obbedienti e ancellari, mica saremmo scese in piazza così numerose e arrabbiate. Oltre tutto, questa volta non si metteva sul piatto solo il problema della violenza, ma anche una serie di temi che riguardano il modo di vivere e produrre, il peso e lo scarso riconoscimento del lavoro di cura, le differenze salariali, i modelli sociali e quindi la biopolitica.

È qualcosa che riguarda tutti, non solo le donne. E poi, non si è accorto Di Vico che la protesta è stata mondiale? E quale sarebbe, secondo lui, la controparte precisa da interrogare?

Dall’altra parte, Mentana ha sì capito che questa volta non si trattava più solo di mimose, ma ha avuto paura di mostrare fino in fondo che siamo disposte anche ad alzarci le gonne in pubblico per dire «Adesso basta». Pruderie, confuso senso della decenza, paura della fascia protetta, vai a capire perché ha voluto quel fermo immagine e ha censurato le nostre mutande.

Nel caso certi direttori e vicedirettori non lo sapessero, do una notizia.

Dentro le nostre mutande, oltre a ciò che vi ha generato, c’è una cosa che si chiama clitoride e che ha circa 8000 terminazioni nervose, il doppio di quelle che stanno attorno al pene. Se poi si contano i dintorni, le terminazioni nervose coinvolte arrivano a 15.000. Altro che nate dalla costola maschile.

Significa che ognuna di noi è una potenziale bomba di piacere. Oltre tutto, venite tutti da lì e, che vi piaccia o no, siete figli del nostro desiderio e del nostro amore perché vi abbiamo portato in grembo, allevato, nutrito.

Certo, a volte i risultati non sono stati e non sono brillanti, ma mica lo abbiamo allestito noi il globo così com’è ora. Sono i maschi che si fanno le guerre, che pensano e costruiscono armi, che inventano le torture, che si divertono a darsele, e in molti casi a darcele, di santa ragione. E sono soprattutto maschi quelli che, fino a ora, hanno comandato ovunque, da nord a sud, da est a ovest.

Perché pretendete di dirci come ci dobbiamo comportare? Perché temete le nostre battaglie? Perché, se usciamo dai ruoli calmi e consenzienti, vi spaventate? Perché, invece di giudicare o censurare, non vi confrontate, soprattutto fra voi? Perché non vi chiedete perché?

Noi siamo orgogliose della nostra differenza che fa di ognuna di noi una signoria. Ma forse è proprio questo che ha sempre fatto paura, a certi maschi.

mariangela.mianiti@gmail.com
https://ilmanifesto.it/quelli-che-ci-vorrebbero-obbedienti-e-con-le-mutande-coperte/

mercoledì 15 marzo 2017

Quale lavoro, quale equilibrio, quale uguaglianza da Simona Sforza

L’economia italiana è penalizzata dalla scarsa partecipazione femminile al lavoro: l’Italia ha bisogno di migliorare le politiche per le famiglie, qualunque sia la loro geometria, e di una maggiore partecipazione degli uomini al lavoro domestico.
L’Italia è il terzultimo paese OCSE, davanti a Turchia e Messico, per livello di partecipazione femminile nel mercato del lavoro: 51% contro una media OCSE del 65%.
Meno del 30% dei bambini al di sotto dei tre anni usufruisce dei servizi all’infanzia e il 33% circa delle donne italiane lavora part-time per conciliare lavoro e responsabilità familiari (la media OCSE è 24%). Le donne sono spesso percepite come le prime responsabili per la cura della famiglia e della casa. Il tempo dedicato dalle donne italiane al lavoro domestico e di cura – in media 3,6 ore al giorno in più rispetto agli uomini – limita la loro partecipazione al lavoro retribuito.
Le proiezioni OCSE mostrano che – a parità di altre condizioni – se nel 2030 la partecipazione femminile al lavoro raggiungesse i livelli maschili, la forza lavoro italiana crescerebbe del 7% e il PIL pro-capite crescerebbe di 1 punto percentuale l’anno.

Questo è quanto sottolinea l’Ocse per l’Italia in merito al gender gap. La partecipazione al mondo del lavoro è la chiave di volta. Ma come far capire che è essenziale un cambiamento di cultura aziendale e dell’intera società, perché non è una questione femminile e sulle nostre spalle non deve ricadere ogni responsabilità? Si cambia dentro le aziende, si cambia nei servizi pubblici (per l’infanzia e non solo, studiando soluzioni ad hoc per ciascun territorio), nei costi degli stessi, nell’equilibrio vita-lavoro-tempo per sé tra uomini e donne. Si deve cambiare l’organizzazione aziendale per aprire a una rivoluzione dei tempi e dei modelli di lavoro. Occorre incidere sulla parità salariale, sulla trasparenza delle retribuzioni, perché retribuire adeguatamente le donne significa consentirgli di poter gestire al meglio la giornata, avvalendosi di aiuti. Il Censis conferma la differenza tra le retribuzioni, con le donne che nel settore privato percepiscono salari inferiori del 19,6% (nel pubblico il gender pay gap è del 3,7%). Inoltre, come alcuni studi evidenziano, nel calcolo del gender gap hanno un notevole peso la percentuale di donne occupate e il fatto che si basi sul salario orario.
Occorre promuovere politiche che incentivino i padri a usufruire del congedo parentale, con ricadute positive sulla divisione dei carichi di lavoro domestico.
Investire in servizi sociali rivolti a famiglia e minori fa la differenza, purtroppo in Italia abbiamo una situazione molto disomogenea.
Occorre investire seriamente in servizi e progetti di ricollocamento lavorativo per le donne di tutte le età, che sia in grado di rispondere alle esigenze concrete di ciascuna.
Se invece la “normalità” è essere precarie, sottopagate, fare orari folli, non poter accedere a flessibilità oraria o a forme di smart work, perdere il lavoro senza prospettive per il futuro, l’effetto sarà una situazione stagnante e altamente regressiva per le donne.
Fare le ore piccole al lavoro è notoriamente improduttivo, come se per coltivare un terreno seminato continuassimo a irrigarlo senza sosta per tutto il giorno. Dopo un tot, marcisce tutto.
Flessibilità e orari più a misura umana sono le leve per una genitorialità migliore e in generale per una vita dagli equilibri sani. Passare del tempo, a sufficienza, con i figli è importante, perché delegare non è sempre una cosa positiva. Avere del tempo da dedicare a sé, alle proprie passioni e per staccare dalla routine è essenziale.
Il mondo del lavoro è cambiato, ne dobbiamo prendere atto e ricalibrare tutto.
Chi siede ai vertici deve muovere questa rimodulazione.
In UE si torna a riflettere sul lavoro e sulle politiche sociali, attraverso un percorso di consultazione iniziato a fine 2016 sul cosiddetto Pilastro europeo dei diritti sociali, approvato di recente dall’Europarlamento. Il documento prevede tre aree: pari opportunità e accesso al mercato del lavoro; eque condizioni di lavoro; adeguata e sostenibile protezione sociale. Lavoro di qualità e uguaglianza di genere i pilastri per assicurare benessere e inclusione, oltre che di sviluppo economico.
Come qualcuno ha già rilevato, occorre restare vigili affinché i diritti sociali non siano subordinati allo stato di occupazione, ma restino dei diritti individuali certi e garantiti sempre. Anche perché il mondo del lavoro è mutato e reddito/autosufficienza/benessere non possono più essere legati unicamente al lavoro, occorrono altri strumenti per garantirli.
Inoltre per l’occupazione femminile occorrerebbe varare una strategia stutturata centrale che faccia lavorare insieme diverse aree e ministeri. Una rivoluzione del welfare e dei servizi. Basta bonus o soluzioni tampone che non hanno intaccato le disuguaglianze e non mirano certo a creare benessere diffuso. Verifichiamo anche l’uso e i vantaggi derivanti dai voucher per i servizi di asilo nido e baby sitter (che coprono solo in parte i costi e poi occorre sempre pensare ai giorni di permesso se il figlio si ammala). Riflettiamo se queste risorse possono essere utilizzate altrove, per misure strutturali che non siano pannicelli caldi. Troviamo forme di agevolazione fiscale per le spese per la cura sostenute dalle famiglie in cui si lavora in due o nelle quali il coniuge disoccupato cerca attivamente lavoro. Naturalmente occorre razionalizzare l’intero sistema di agevolazioni/interventi.
Investire oggi per ottenere risultati nel futuro, anche se non immediato (e quindi poco appetibile per chi guarda solo ai risultati elettorali). Per non lamentarci poi solo dei dati demografici. Se nel 2016 i bambini nati in Italia sono appena 474.000, registrando un nuovo minimo storico, un motivo (o più) ci sarà.
Osservare i dati del Global gender gap report o dell’Istat non ci aiuterà se non cercheremo di affrontare i problemi. Come pensiamo di intervenire sul fatto che ancora quasi un terzo delle donne tra i 25 e i 49 anni è inattiva? In generale in Italia, il tasso di attività femminile è del 54,1 per cento (uomini: 74,1 per cento), molto basso rispetto alla media europea del 66,8 per cento. In più, meno delle metà delle donne è occupata, solo il 47,2 per cento (Eurostat). Come valutiamo la quota di part time involontario che è doppia rispetto al resto d’Europa (oltre il 60%, con una crescita del 38% dal 2008)? Questo dato stride poi con chi vorrebbe scegliere il part time e non riesce a ottenerlo.
A casa come ce la caviamo? Perché la doppia presenza è ancora un punto da risolvere.
L’Ocse conferma che gli uomini italiani sono ancora poco collaborativi nei lavori domestici e dedicano ad aiutare le partner soltanto 100 minuti in media al giorno. Peggio di noi soltanto in Turchia, Portogallo e Messico.
L’ultima indagine dell’Istat sull’uso del tempo (pubblicata a novembre 2016 ma si riferisce al 2014) ci spiega cosa sta cambiando nell’organizzazione dei tempi di vita di uomini e donne: nel 2014 c’è ancora squilibrio nei comportamenti tra i due sessi nella gestione dei tempi di lavoro, sia familiare che retribuito, ma qualcosa sta cambiando.
Si inizia da piccole: “Sin da bambine, le donne svolgono più lavoro familiare e hanno meno tempo libero dei coetanei. La differenza inizia a manifestarsi già tra gli 11 e i 14 anni e aumenta sensibilmente al crescere dell’età.”
Le donne adulte stanno progressivamente riducendo il tempo per il lavoro familiare, da 5h21′ a 5h13′. Il calo riguarda per la prima volta anche le “giovani anziane” (65-74 anni) che recuperano 13′ di tempo libero e perdono 10′ di lavoro familiare.
E gli uomini? Rispetto al 2009 aumenta di 12’ al giorno il tempo dedicato dagli uomini adulti al lavoro familiare (1h50’). Un buon miglioramento se pensiamo che in passato era aumentato di soli 17’ in vent’anni.
“Segnali positivi per la parità di genere si registrano fra le coppie di genitori occupati (con la madre tra 25 e 44 anni), che incontrano più difficoltà a conciliare i tempi di vita. L’indice di asimmetria del lavoro familiare scende per la prima volta nel 2014 sotto il 70%: si attesta al 67,3% dal 71,9% del 2009.”
I segnali più incoraggianti che ci fanno ben sperare provengono dalle coppie con figli di 3-5 anni, in cui la donna è laureata, della generazione dei Millenial che hanno una distribuzione più equa dei carichi di lavoro familiare. L’asimmetria di genere migliora al Nord e al Centro mentre è invariata nel Mezzogiorno (74%) dove gli stereotipi sono ancora forti anche nelle nuove generazioni.
Tra le coppie di genitori tra i 25 e i 44 anni entrambi occupati “i padri arrivano a dedicare al lavoro totale 8h22’ (la media per il complesso degli occupati è di 7h28’), mentre le madri arrivano fino a 9h07’ (la media per le adulte è di 8h26’): la somma del lavoro domestico, del lavoro di cura di figli e del lavoro retribuito che gravano su entrambi i partner rende la gestione dei tempi quotidiani e degli equilibri tra di essi rappresentativa dei ruoli di genere del Paese. Il carico di lavoro è tale, infatti, che la collaborazione tra i partner e una buona divisione del lavoro dovrebbe essere la regola, mentre sappiamo dalle precedenti edizioni dell’indagine quanto in passato il carico gravasse pesantemente sulle donne. Tra l’altro il ricorso da parte di tali coppie ai servizi privati (colf e babysitter) continua a riguardarne una porzione marginale (il 7,7% si avvale di un aiuto nelle attività domestiche e il 4,5% di una babysitter), pertanto per la gran parte delle coppie il lavoro familiare resta totalmente a carico della famiglia.”
Nel 2014 il 67,3% del lavoro familiare delle coppie di “giovani adulti” a doppio reddito è a carico delle donne; rispetto al 2009 c’è stato un calo di quasi cinque punti percentuali (71,9%).
Nel 2014 le madri occupate tra 25 e 44 anni dedicano al lavoro familiare 5h11’, dato rimasto stabile rispetto a quanto osservato nel 2009, mentre i loro partner vi dedicano 2h16’, con un incremento di 17’ rispetto alla passata edizione. Piccoli passi che si spera mantengano il trend di crescita.
Ma come viene distribuito il lavoro domestico?
Le attività che vedono prevalere il contributo maschile rispetto a quello femminile restano la manutenzione della casa e dei veicoli (solo l’8,8% delle ore è svolto dalle donne) e la cura di piante e animali (30,4%), anche se ricordiamo che tali attività hanno frequenze di partecipazione molto basse (in un giorno medio le svolgono rispettivamente solo il 5,1% e il 10,7% degli uomini).
Per il resto delle attività di lavoro domestico la divisione dei ruoli all’interno delle coppie è ancora molto sbilanciata sulle donne, in particolare lavare e stirare grava per il 94% su di loro, pulire casa per il 77% e la preparazione dei pasti per il 76,6%, valori ancora molto asimmetrici, anche se in miglioramento.
L’attività di cura che più impegna le madri riguarda le cure fisiche e la sorveglianza (dar da mangiare, vestire, far addormentare i bambini o semplicemente tenerli sotto controllo): in un giorno medio settimanale vi dedicano 57’, contro i 20’ dei padri. Tuttavia rispetto al 2009 il livello di condivisione è migliorato, poiché l’asimmetria è scesa dal 77,6% al 72,6% grazie all’aumento della quota di padri che inizia ad assumersi l’onere di queste attività (dal 35% al 42,2%).
L’attività che, invece, impegna i padri più delle madri è quella di giocare con i bambini: è a carico loro il 61,7% delle attività svolte dalla coppia (in media 26’ al giorno, contro i 22’ delle madri).
Sono il 37,5% dei padri e il 30,6% delle madri che nel giorno medio hanno indicato di spendere almeno 10’ in attività di gioco con i propri figli.
Lo stereotipo dell’uomo breadwinner, che deve sostenere economicamente la famiglia, resiste soprattutto tra chi ha un basso titolo di studio.
Insomma, piano piano, educando anche i maschi a occuparsi di alcune attività potremo sovvertire stereotipi e ruoli secolari, a beneficio dell’intera comunità.
Il tempo libero delle donne per potersi ritagliare una stanza tutta per sé è ancora una sfida di equilibri. Che si lavori o meno, perché anche quando si perde il lavoro, si resta a casa più o meno volontariamente, la giornata è di fatto in gran parte fagocitata dalle cure familiari. Piano piano uomini e donne devono imparare a condividere pesi e responsabilità, per un benessere eguale.

Otto marzo passato, così l’attenzione fugace e un po’ ipocrita dei media. Poi tutti su Lingotto e Salvini. Tutti nuovamente impegnati a rimuovere le donne dall’agenda politica. Che vuoi che sia, tanto sono questioni “risibili”, come qualcuno asserisce. Nemmeno le 70 città che hanno aderito all’appello di Nonunadimeno hanno scosso le menti e i pensieri dei nostri uomini politici (e al contempo di qualche donna politica). Nulla, la nostra classe politica è ancora altrove. Nemmeno si degna di capire cosa si muove tra i movimenti sociali. Se poi sono movimenti delle donne, godono di ancor minore considerazione. Non è contemplata una risposta. E quindi questo tipo di agire politico continua ad annaspare tra vecchie manie di superiorità, immunità, autosufficienza, di autoreferenzialità e di isolazionismo. Le battaglie devono riuscire a smuovere questa situazione, altrimenti sono lampi passeggeri e innocui. Non mi è mai piaciuta la camomilla. La mia azione politica è un movimento tellurico. Dovremo imparare a mobilitarci ogniqualvolta qualcuno tenti di svilire le nostre rivendicazioni e non rispetti i nostri diritti. Se non verranno sufficientemente difesi sappiamo che lentamente evaporeranno. Chi ci ascolterà e chi pretenderà una risposta adeguata dalla nostra classe dirigente? Non lasceremo calare il silenzio, dovremo richiamare con forza le istituzioni alle loro responsabilità. Pensiamo che cambierà qualcosa se non pretenderemo che si cambi registro? È questione di principio e di sostanza, per il futuro, affinché sia davvero nettamente diverso. Ma occorre coraggio, occorre saper e voler rischiare in prima persona. Alla fine avremo molti nemici, ma forse avremo conquistato qualche diritto o tutela in più. Soprattutto avremo tentato di cambiare.
http://www.dols.it/2017/03/15/quale-lavoro-quale-equilibrio-quale-uguaglianza/

martedì 14 marzo 2017

L'Islanda è il primo Paese al mondo a chiedere che le imprese dimostrino parità di retribuzione per uomini e donne

L'Islanda è diventato il primo Paese al mondo a costringere le aziende a dimostrare che i propri dipendenti ricevano uguale compenso indipendentemente dal sesso, dall'etnia, dal genere e dalla nazionalità. Nessun tipo di discriminazione, dunque, nella paga che i lavoratori ricevono: il governo, infatti, ha annunciato una nuova legge che impone ad ogni azienda con 25 o più persone di esibire un certificato in cui dimostri che la parità salariale è in vigore.

Un sistema che colloca il Paese scandinavo immediatamente dopo in ordine di tempo alla Svizzera e al Minnesota, che già possiedono un tipo di legislazione come questa che limita le disuguaglianze sociali. La differenza sta nel fatto che in Islanda sarà obbligatorio per le imprese certificare che questo avvenga realmente. Come ha detto il ministro per l'uguaglianza e gli affari sociali Thorsteinn Viglundsson, "è il momento giusto per fare qualcosa di radicale. Dobbiamo fare in modo che gli uomini e le donne godano di pari opportunità sul posto di lavoro. È nostra responsabilità prendere tutte le misure per raggiungere questo obiettivo", ha concluso.

La nazione del nord Europa, che conta circa 330 mila abitanti, ha intenzione di eradicare il gap retributivo di genere entro il 2022. Nel mese di ottobre, migliaia di dipendenti di sesso femminile in tutta l'Islanda hanno abbandonato il posto di lavoro alla stessa ora (le 2:38) per protestare contro la differenza di paga rispetto agli uomini. Sebbene l'Islanda sia stata nominata il miglior Paese per la parità di genere nella classifica del World Economic Forum, le donne islandesi infatti continuano a guadagnare, in media, dal 14 al 18 per cento in meno rispetto agli uomini.

Ciò a fronte di un divario retributivo di genere che nel Regno Unito si attesta sul 17,5 per cento, mentre la media del gruppo dei paesi industrializzati dell'OCSE che è del 15,5 per cento. "Probabilmente qualcuno si opporrà parlando di inutile burocrazia", ha fatto sapere Viglundsson, "capisco che si tratti di un obbligo oneroso per le aziende, ma abbiamo imposto tali doveri perché bisogna essere audaci nel combattere le ingiustizie".

L'Islanda ha introdotto altre misure per agevolare il ruolo delle donne, comprese le quote per la partecipazione femminile nei comitati governativi e nei consigli di amministrazione. Tali misure si sono dimostrate controverse in alcuni paesi, ma hanno un ampio sostegno in tutto lo spettro politico islandese.
http://www.huffingtonpost.it/2017/03/09/islanda-retribuzione-sesso-certificato_n_15259084.html

lunedì 13 marzo 2017

«Ho provato a lavorare “da donna” (e confesso: non è per niente facile)» di Davide Casati

«Questa è la breve storia di quando @nickyknacks mi ha insegnato quanto sia impossibile, per una donna, ottenere il rispetto che le è dovuto, al lavoro». Inizia così — con un tweet diventato virale — quella che è certo giusto definire breve: ma che è anche una storia indigesta, faticosa, importante. I protagonisti sono Martin Schneider e Nicole Hallberg, ora copywriter/blogger, ai tempi dell’accaduto entrambi impiegati in per un’agenzia interinale. Schneider — secondo quanto racconta su Twitter (la storia è stata raccolta da un altro utente qui) — sapeva che il loro capo aveva un’ottima opinione di lui, ma non di Nicole: «troppo lenta».
Un giorno, scrive Martin, un cliente prese a rispondergli alle mail in modo scorbutico, contestandogli di tutto. Dopo l’iniziale stupore, Martin si accorse di stare utilizzando — all’interno della casella di posta condivisa — l’identità di Nicole. Spiegò al cliente di essere Martin: le risposte mutarono immediatamente. Lui e la collega decisero di scambiarsi identità digitale per una settimana: lui avrebbe lavorato come Nicole, lei come Martin. Il risultato fu — per lui — stupefacente: lei ebbe la settimana più produttiva della sua vita, lui quella più complicata. «Un inferno. Tutto quello che chiedevo, o suggerivo, veniva criticato. Clienti che avevo sempre trattato senza problemi mi rispondevano in tono condiscendente. Uno mi ha chiesto se fossi single».
Sconvolgente, per Martin: almeno quanto vedere che per Nicole non lo fosse affatto. «Sapeva che per un uomo le cose erano diverse». Su Twitter c’è chi gli ha chiesto come mai non avesse creduto alla collega, e abbia avuto bisogno di questo esperimento per accorgersi della differenza di trattamento tra uomini e donne. Schneider si è scusato. Nicole ha scritto un post — su Medium: da lì è tratta anche la foto che vedete qui sopra — raccontando la sua versione della storia: e quel che aveva già dovuto subire dal loro capo, incapace di trattenere battute e commenti sessisti. Quel capo non credette a Nicole, prima, e a Martin, poi. Si sono entrambi licenziati. «Non ho mai capito che cosa ci potesse guadagnare, dal non riconoscere nemmeno l’esistenza del sessismo», scrive Nicole. «Ora, finalmente, posso abbassare le mie difese, al lavoro».
http://27esimaora.corriere.it/17_marzo_12/ho-provato-lavorare-da-donna-confesso-non-niente-facile-c3087664-0705-11e7-96f4-866d1cd6e503.shtml

domenica 12 marzo 2017

Una generazione, nuova e globale, sulla scena politica di Bia Sarasini

8 marzo. Uno sciopero guidato e pensato da donne, una mobilitazione internazionale come non succedeva dai tempi dei social forum. Si comincia da qui, dalle giovani femministe

Ha fatto un bel po’ paura, lo sciopero delle donne, l’8 marzo. Tutte quelle ragazze, ragazzi, donne, uomini, persone lgbt in piazza. Rumorosamente assenti dal lavoro. Un milione? Bisognerà fare le mappe e i conti delle mille iniziative sparse nel pianeta.

Il punto è che un’enorme quantità di persone si sono mobilitate. Un popolo che sciopera, cioè si prende e mostra la propria forza. Che si muove non contro i nemici additati dalla propaganda di destra, i migranti, gli stranieri, o una casta politica diventata ormai metafisica, fantasma di un potere che rimane invisibile.

No, la mobilitazione, proprio perché era uno sciopero, era contro un’organizzazione del sociale, della divisione sessuale del lavoro e del lavoro stesso. Insomma, contro il potere reale, le sue radici violente, arcaiche e contemporanee, di cui il femminicidio è la forma estrema e paradigmatica.

Uno sciopero guidato e pensato da donne, poi. Un fatto inaudito. La visione delle donne si allarga, mostra di sapere e potere riorganizzare la vita sociale e il mondo. A partire dalla propria esperienza, dal dominio subito e dalla lotta per ribaltarlo. Non succedeva dal tempo dei social forum, una mobilitazione internazionale nella stessa giornata. Non si era più abituate neanche a un 8 marzo che non fosse un rito, di presidenti che elogiano l’indispensabilità delle donne, multinazionali che creano premi, sindaci che danno le medaglie. E la leadership femminile, è una novità assoluta. Tutte e tutti a invocarla, e quando te la trovi squadernata davanti, cosa si finisce per dire? Che è stato un successo, ma alla fine è un disastro.

Dispiace che una femminista autorevole come Alessandra Bocchetti, invece di chiedersi perché tante, tantissime sono scese in strada, evochi un’autonomia delle donne che questo 8 marzo, con la sua proposta inclusiva e intersezionale, avrebbe messo a a rischio. Più conseguente Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, che critica lo sciopero come strumento arcaico, visto che il lavoro è precario.

E dire che proprio questa è la forza di questo otto marzo 2017. Donne che proclamano uno sciopero. Avere rotto una barriera. Avere buttato all’aria quella compartimentazione prima di tutto mentale in cui è imprigionata la società. Quella frammentazione per cui ai sindacati spettano gli scioperi, quelli veri, che riguardano i lavoratori veri che stanno nei posti di lavoro riconosciuti come tali. Cosa ne sanno le donne? Cosa c’entrano le case, o i femminicidi, i lavori precari e qualificati, che puoi fare perfino in autobus e sulla metro, visto che quello che conta è la connessione? Che cosa si sono messe in testa le femministe, di proclamare lo sciopero? Il maschilismo ha molte facce. Questa rigidità ne è senz’altro un aspetto.

Eppure spero che proprio il successo dell’8 marzo globale apra gli occhi. Perché l’inerzia misogina rischia di farsi complice della passivizzazione di chi lavora, rischia di coltivare l’impotenza prodotta dalla svalorizzazione del lavoro, invece di combatterla. Dispiace che la Fiom, che pure ha incontrato la rete organizzatrice dello sciopero in Italia, NonUnaDiMeno, non abbia colto l’occasione.

Perché lasciare che sia il mercato a mettere al lavoro migranti, donne povere e impoverite in attività malpagate e sfruttate, tutto delegato all’iniziativa individuale? Perché non pensare a un nuovo welfare, a nuovi lavori da unire a un reddito minimo, da garantire quando necessario?

Si comincia da qui, dalle giovani femministe, una nuova generazione politica, che hanno preso la guida. È un progetto, una speranza. Si rivolge a tutti coloro che subiscono il potere neocapitalista, le conseguenze di una globalizzazione violenta che, lasciandosi noncurante alle spalle i propri detriti, defluisce in una de-globalizzazione addirittura più barbara.

In tante abbiamo cercato la strada, da donne libere e sempre impreviste, come diceva Carla Lonzi. Ora possiamo. Partiamo da qui.

https://ilmanifesto.it/una-generazione-nuova-e-globale-sulla-scena-politica/


giovedì 9 marzo 2017

Lo sciopero delle donne che i grandi giornali non hanno visto di Tiziana Barillà

Siamo alieni noi di Left o lo sono tutti gli altri? Se andate in edicola adesso, fino a venerdì 10, trovate un numero della nostra rivista con l’intera copertina dedicata allo sciopero globale delle donne di ieri. #LottoMarzo lo abbiamo titolato. E ci è sembrato logico oltre che giusto: perché il fatto che milioni di donne decidano di scioperare in tutto il mondo è quantomeno un evento politicamente straordinario, tanto più perché la protesta è spontanea: in tanti angoli del mondo si è protestato e discusso senza che un’organizzazione tradizionale le aiutasse a farlo – anzi, organizzazioni come la Cgil in Italia si sono guardate bene dal farlo.

Che obiettivo aveva questo sciopero? La partecipazione in piazza, l’adesione nei luoghi di lavoro e di cura. A giudicare dalla realtà, dalle immagini e dai dati, è dunque uno sciopero riuscito. Decisamente. Le piazze d’Italia si sono riempite, da Roma a Palermo, da Bologna a Bari, da Napoli a Venezia, fino al cantiere di Chiomonte in Val Susa. E si sono colorate di fucsia e nero anche altre piazze del mondo. Piazze impressionanti come quella di Madrid, emozionanti come quella di Istanbul. E mentre da noi era notte, in America Latina una marea di donne riempiva le strade delle grandi città e dei villaggi indigeni. Così anche negli Stati Uniti. #InternationalStrike #ParoInternacional: significa sciopero internazionale, globale.

Ma se qualcuno ieri avesse dormito tutto il giorno e questa mattina avesse guardato le prime pagine dei giornali italiani per sapere cos’è successo, non avrebbe saputo nulla. L’8 marzo non era ancora finito, infatti, che i principali giornali italiani avevano già deciso di archiviarlo. Niente titoloni, niente foto in prima pagina (tranne il manifesto e l’Unità), nemmeno quelle tanto caratteristiche che fanno un po’ carrozzone, folkore. Niente. Abbiamo letto solo un po’ di “polemichetta” della vigilia: favorevoli o contrari allo sciopero delle donne? Crea troppo disagio o no? Poi, più niente. Come se nessuno avesse paralizzato una città come Roma per chiedere libero aborto e reddito di autodeterminazione, dignità, parità, vita; per rivendicare che il femminicidio è il caso estremo, ma che la violenza non è un raptus ma un sistema che discrimina, economico e politico innanzitutto.

«Se le nostre vite non valgono, allora noi scioperiamo», hanno scritto in mille lingue su mille cartelli. Tra quelli che sfilavano a Roma ce n’era uno: “Attitudine ribelle”, che vuol dire anche scrivere quello che gli altri non vogliono vedere. Ma sui media non li avete visti. Ed è allora perfetta la sequenza con la nostra prossima copertina, dedicata proprio a questo, alla politica che si edifica sulle bugie. L’abbiamo chiamata #FakePolitics – come va di moda adesso – quella pratica che costruisce realtà parallele e ci sguazza dentro. Tra “supercazzole” e “gomme da cancellare”, in pugno a media incapaci di leggere la realtà, figuriamoci di scriverla.
https://left.it/2017/03/09/lo-sciopero-delle-donne-che-i-grandi-giornali-non-hanno-visto/

lunedì 6 marzo 2017

8 marzo: non più festa ma sciopero generale Anche a Milano la rete Non Una di Meno scende in piazza per dire no a tutte le forme di violenza contro le donne di Monica Serra

La rete Non Una Di Meno scende in piazza l’8 marzo anche a Milano, oltre che in altre città italiane e in 40 Paesi nel Mondo. Le tante iniziative che si svolgeranno nel capoluogo lombardo in occasione della Giornata internazionale della donna sono state presentate questa mattina alla Casa delle donne maltrattate (Cadmi). Lo sciopero globale, cui aderiscono collettivi, associazioni femministe e sigle sindacali (come Cobas, Flc Cgil, Usi, Usb e Sgb), è frutto di un lungo percorso avviato nell’ottobre scorso in Argentina, dove le donne hanno deciso di incrociare le braccia dopo l’ennesimo femminicidio, e in Polonia, dove in centinaia si sono riversate in strada contro la legge sull’aborto. L’onda si è propagata fino all’Italia, con la grande manifestazione che a Roma, il 26 novembre, ha raccolto 200 mila persone. Occasione in cui si è avviato il lavoro che ha portato alla stesura del manifesto programmatico “8 punti per l’8 marzo”, un piano femminista che esprime il rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, razzismo, sessismo, omo e transfobia.

 Nel giorno dell’8 marzo di quest’anno si interromperà ogni attività produttiva e riproduttiva “perché la violenza di genere non si combatte con l’inasprimento delle pene, ma con una profonda trasformazione culturale della società”. Di questa mobilitazione “protagoniste sono le giovanissime, che non agiscono in rottura con chi le ha precedute, e sono mosse da una radicalità e concretezza che si evince dai report elaborati, capaci di creare nessi tra i temi di un dominio che attraversa la vita pubblica e privata delle donne”, sottolinea Lea Melandri, della Libera Università delle Donne. “Questo sciopero ha di certo una dimensione locale, in ogni luogo ogni donna solleva i problemi che la riguardano, ma anche globale – dice Carlotta Cossutta, del collettivo Ambrosia -. È significativo, ad esempio, che anche le statunitensi della Women’s March abbiano raccolto l’appello delle donne argentine”.
A Milano, in particolare, sono diversi i motivi della lotta. “L’ultimo ce lo ha dato la Regione Lombardia che ha chiesto ai centri antiviolenza del territorio – afferma Marisa Guarneri, fondatrice del Cadmi – di schedare chi ci chiede aiuto, con dati anagrafici e dettagli della storia personale, facendo saltare segretezza e anonimato, alla base del nostro lavoro. È scandaloso che il controllo di Regione Lombardia sui soldi stanziati per i centri antiviolenza diventi un ricatto: o segui la mia metodologia istituzionale o non ti finanzio. Noi, a questo, ci opporremo fino alla morte”.

Con lo slogan “Insieme siam partite, insieme torneremo, Non Una Di Meno”, a dare il via all’8 marzo milanese
sarà il corteo studentesco e delle lavoratrici (ritrovo alle 9.30 in Largo Cairoli).
Si proseguirà con lo sciopero della didattica per l’intera mattinata,
il presidio contro l’obiezione di coscienza di struttura (alle 12 davanti al Pirellone),
e la prestazione di 100 artiste che disegneranno un mandala di sale con i colori dell’8 marzo (nero, fucsia e magenta) in Galleria Vittorio Emanuele II, “un’opera nell’opera che simbolicamente si propaga dal centro della città”, spiega Cesarina Damiani della Casa delle Donne di Milano.
Il corteo serale si aprirà alle 18 davanti a Palazzo Lombardia e si svolgerà in collegamento con diverse piazze del Mondo.  
http://www.lastampa.it/2017/03/02/edizioni/milano/marzo-non-pi-festa-ma-sciopero-generale-oTgabYlN6PGv9k9LXHOYhJ/pagina.html

venerdì 3 marzo 2017

Femminicidio: la Camera approva la norma che tutela gli orfani delle vittime scritto da Alley Oop

Via libera della Camera – con 376 sì e nessun contrario – al ddl per la tutela dei circa duemila orfani di femminicidio. La norma, che ora dovrà passare all’esame del Senato, ha l’obiettivo di offrire loro più tutele mediche, legali ed economiche, e inoltre aumentare le pene per i colpevoli di omicidi in famiglia. “Si tratta di una norma significativa – ha commentato il ministro della famiglia Enrico Costa – che certo non cancella le sofferenze di tante giovani vittime, ma che dà il segnale che lo Stato è attivo per tutelarle ed è loro vicino”.

Vediamo, nello specifico, che cosa prevede il disegno di legge

Tutele anche per i maggiorenni
Le nuove tutele si applicano ai figli minorenni e maggiorenni economicamente non autosufficienti della vittima di un omicidio commesso dal coniuge (anche se separato o divorziato), dal partner di un’unione civile (anche se cessata) o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva e stabile convivenza.

Pene più severe fino all’ergastolo
L’omicidio del coniuge del partner civile e del convivente viene equiparato a quello dei genitori o dei figli. E ciò significa che la pena prevista sarà quella dell’ergastolo. Reclusione invece da 24 a 30 anni se la vittima è divorziata o l’unione civile era terminata prima del delitto.

Spese legali a carico dello Stato
Gli orfani di crimini domestici potranno accedere al gratuito patrocinio a prescindere dai limiti di reddito. Lo Stato si farà carico delle spese tanto nel processo penale quanto in quello civile, compresi i procedimenti di esecuzione forzata.

Risarcimenti più sicuri grazia al sequestro conservativo
A tutela del risarcimento del danno a favore dei figli della vittima, il pm che procede per omicidio ha l’obbligo di richiedere il sequestro conservativo dei beni dell’indagato. Agli orfani costituiti parte civile, in sede di condanna (anche non definitiva), spetta fin da subito una somma pari al 50% del danno ipotizzato che sarà liquidato in sede civile. Per questo motivo è prevista la conversione del sequestro in pignoramento già con la condanna in primo grado.

Pensione di reversibilità ai figli
Chi viene rinviato a giudizio per omicidio non ha più diritto alla pensione di reversibilità. La pensione sarà invece destinata ai figli della vittima, salso proscioglimento o archiviazione. Annullato anche il diritto al godimento dell’eredità per i colpevoli di omicidi in famiglia.

Un fondo di solidarietà per le vittime
Il Fondo per le vittime di mafia, usura e reati intenzionali violenti viene esteso anche agli orfani di crimini domestici con una apposita dotazione aggiuntiva di 2 milioni di euro all’anno per borse di studio e reinserimento lavorativo. Ai figli delle vittime è assicurata assistenza medico-psicologica gratuita fino al pieno recupero psicologico ed è attribuita la quota di riserva prevista per l’assunzione di categorie protette. Se il cognome è quello del genitore condannato in via definitiva, il figlio può chiedere di cambiarlo.
http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2017/03/02/femminicidio-la-camera-approva-la-norma-che-tutela-gli-orfani-delle-vittime/



giovedì 2 marzo 2017

D.i.Re Donne in Rete contro la violenza.

D.i.Re Donne in Rete contro la violenza
Eccovi i link a tre brevi video (teaser 1, 2, 3) di 45 secondi realizzati dalla creative producer Chloé Barreau e prodotti da D.i.Re per invitare tutte le donne a unirsi allo sciopero globale e combattere la violenza maschile. Le immagini sono tratte da più di 80 film celebri e raccontano come sarebbe il mondo se le donne si fermassero, se lasciassero il lavoro di cura e quello produttivo.
Copiate i link e diffondeteli!
Ogni video usa come colonna sonora una versione diversa del celebre brano You don’t own me"" che fu interpetato per la prima volta nel 1963 da Leslie Gore a soli 17 anni. Questo brano è spesso citato come fonte di ispirazione per il movimento femminista nordamericano e, in occasione della morte di Leslie Gore, è stato definito dal New York Times “indelebilmente provocatorio”. Nel corso dei decenni questo pezzo è stato cantato da moltissime artiste per rilanciare il messaggio di libertà e autodeterminazione generazione dopo generazione, proprio come nel femminismo. 
 Ringraziamo Keasound, Cristiano Lellini e Duccio Servi che hanno curato gratuitamente il mix e Sara De Simone per il suo contributo alla direzione artistica.

mercoledì 1 marzo 2017

NON UN’ORA DI SCIOPERO DI MENO. DIVISIONE SESSUALE DEL LAVORO, DISTRIBUZIONE DEL POTERE FRA I GENERI E CARRIERE ACCADEMICHE

L’8 marzo sarà uno sciopero globale. In oltre 30 paesi, dall’Argentina, alla Polonia, all’Italia le donne incroceranno le braccia interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva: perché la violenza maschile contro le donne è sistemica e si combatte con una trasformazione radicale della società.

L’8 marzo scioperiamo anche contro il sessismo nel sistema delle relazioni accademiche. Le pari opportunità non ci bastano: rifiutiamo l’ipocrisia del femminismo politicamente accettabile, quello che chiede alle donne di ‘farsi avanti’, quello corporativo della donna in carriera, che abbandona al loro destino la stragrande maggioranza di coloro che non hanno accesso all’autopromozione e all’avanzamento individuale. Scioperiamo perché, anche nell’università, la trasformazione radicale non si dà se la riproduzione sociale è considerata un problema delle donne, se  non si garantiscono reddito e diritti sul lavoro.

Le donne nell’intero comparto della formazione sono prevalenti. Nelle università, le nostre aule sono colme di studenti meravigliose e migliaia di dottorande, post-doc, assegniste col loro lavoro precario permettono a decine e decine di dipartimenti di funzionare. In quali condizioni? Con quali prospettive di reclutamento? E di carriera?

Nonostante sia luogo di produzione di cultura ‘alta’, l’università italiana continua a essere attraversata da una cultura profondamente sessista che quotidianamente si esprime attraverso la violenza dei più retrivi stereotipi di genere. Vogliamo nominarli, perché il contrasto alla violenza contro le donne passa anche dal suo smascheramento. Quante ricercatrici, docenti, studenti devono quotidianamente affrontare nel loro lavoro gli stereotipi che le dipingono come oggetti sessuali, ‘oche’, ‘isteriche’, ‘frustrate’, ‘oneste segretarie’ che si spacciano per scienziate,  ‘casalinghe frigide’ o ‘vogliose’ travestite da intellettuali? Non si tratta solo di violenza verbale, la riconosciamo nei mille volti subdoli con cui le molestie sessuali prendono forma.

La presenza femminile nelle università è massiccia ma per lo più relegata a ruoli marginali, quando non di manovalanza, che non rispecchiano quanto le donne producono, quanto valgono e non è all’altezza dei loro desideri..

Il continuo richiamo al c.d. tetto di cristallo ci ha stancato, suona stantio… . Finché non ci si confronta con i numeri: se al livello più basso della carriera accademica la distanza fra uomini e donne è quasi trascurabile (ricercatori 8.288, ricercatrici 7.620), man mano che si sale verso il vertice della carriera la forbice si allarga fino ad arrivare ad un rapporto di una a tre (ordinari 10.115, ordinarie 2.895). Numeri che si divaricano sensibilmente in quei settori disciplinari nei quali progredire nella carriera significa occupare posizioni di potere non solo accademico, ma anche economico. Nei quali cioè il prestigio accademico apre le porte al mondo degli affari e dei grandi studi professionali (e viceversa!). Per scienze mediche gli ordinari sono 1.570, le ordinarie 269; per scienze giuridiche gli ordinari 1.125, le ordinarie 336; per ingegneria civile e architettura gli ordinari sono 600, le ordinarie 138; per ingegneria industriale e dell’informazione 1.296 ordinari contro 124 ordinarie (ma potete continuare voi: http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/cerca.php9)

D’altra parte, la divisione sessuale del lavoro pesa come un macigno sulle carriere. Il lavoro di cura è ignorato nelle valutazioni accademiche, e la maternità ridotta ai periodi di astensione obbligatoria. La tirannia di parametri numerici falsamente obiettivi, le mediane, mentre mima l’impresa, insensata e ridicola, di misurare la qualità della produzione intellettuale non fa che legittimare e alimentare il gap provocato da una ineguale e ingiusta distribuzione del peso del lavoro riproduttivo fra i generi. Un peso che si fa insostenibile con il crescere della precarietà e delle differenze sociali.

Il divario fra presenza maschile e presenza femminile diventa stellare nel governo delle strutture e degli atenei. Quante rettrici? Quante direttrici di dipartimenti e di scuole? Quale presenza femminile nei consigli di amministrazione degli atenei? Al di là dei numeri, le donne raramente sono protagoniste delle scelte di politica accademica. Eppure molta dell’innovazione scientifica e didattica che in questi anni è entrata nelle aule dell’università italiana è dovuta alle donne, di ruolo e precarie.

L’8 marzo NON UN’ORA DI SCIOPERO DI MENO! Perché se le nostre vite non valgono, scioperiamo!
https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/02/16/non-unora-di-sciopero-di-meno-divisione-sessuale-del-lavoro-distribuzione-de-potere-fra-i-generi-e-carriere-accademiche/