venerdì 28 aprile 2017

Invito a una festa speciale per mamme (e papà)

Per la Festa della mamma, quest'anno vogliamo fare un dono speciale alle mamme [ed ai Papà]:
incontriamo
 la Dott.ssa Riccarda Zezza,autrice con Andrea Vitullo del  libro“  MaaM - La Maternità è un Master”, che ci racconterà in modo innovativo la maternità [e la paternità responsabile]“occasione di crescita straordinaria che porta con sé nuove energie e abilità essenziali anche per la vita professionale”.



mercoledì 26 aprile 2017

Uccise, torturate, stuprate: le donne partigiane che pochi ricordano di Fabio Zanuso

Hanno salvato ebrei, fatti fuggire gli uomini durante i rastrellamenti. I nazi-fascisti infierivano su di loro
 
Carla era un’infermiera alquanto atipica, curava, cuciva, correva, rischiava.
Non era armata, come Tina, una sua compagna, che in bicicletta percorreva le stradine fra Treviso e Padova, per portare radio ricetrasmittenti, a continuo rischio cappio, e che un giorno decise di farsi dare un passaggio da un camion di nazisti, aggirandoli con la scusa di avere un sacco di libri pesanti dentro la valigia.
Nello stesso periodo Adriana riparava i ricercati dalla gestapo, e quando la banda Koch la catturò, questa donna bellissima fu “stesa su un letto di chiodi e battuta con un arnese che serviva per il camino, persi tutti i denti, mi spaccarono quasi tutte le costole, ma io non parlai, per otto giorni non parlai…. Ah, scordavo, mi strapparono anche tutti i capelli, ma io non parlai”.
Quelle che andavano sui monti si occupavano di tutto, quelle che restavano in citta’ si occupavano di tutto.
Ines, Gina e Livia restarono in città, e si inventarono la prima forma di resistenza pacifica; appena avevano il sentore che nel paese limitrofo le Ss stavano organizzando una rappresaglia, davano l’allarme, tutti gli uomini abbandonavano l’abitato, e loro, donne bellisssime, si schieravano di fronte alle loro case, tenendosi per mano, aspettando i tedeschi cantando le canzoni che di norma si sentivano nelle risaie. Tutte senza armi.
Paola lavorava al Comune, a stretto contatto con i fasci, e riusciva a far sparire centinaia di stati famiglia bollati come “di razza giudia”, alcuni li bruciava, altri li faceva falsificare, Fam. Goldstein diventava Fam. Bianchi, e così salvò migliaia di esseri umani facendoli transitare per i valichi svizzeri, salvo poi essere impiccata in pubblica piazza.
C’era Clorinda, combattente, che venne catturata, stuprata, azzannata dai cani della gestapo, torturata dal capo nazi, infine impiccata pure lei.
Alla fine di queste donne bellissime rimase poco o nulla, si contarono in circa diecimila le vittime deportate, torturate, seviziate e macellate come bovini, talune si salvarono, e a parte casi rarissimi (leggi Nilde Iotti e Tina Anselmi), tornarono a fare i lavori di casa fra le mura domestiche, continuarono a fare la vita di prima, lavare, cucinare, badare, crescere i figli, accudire il focolare, senza che nessuno dicesse loro grazie.
Su 70mila donne bellissime solo 18 furono insignite di medaglia al valore, e null’altro.
Dopo il 25 aprile vi furono le sfilate nelle città liberate, prima gli alleati, poi i gruppi partigiani composti dagli uomini, in fondo alla parata le donne bellissime, solo alcune e non sempre, dato che persino il Pci all’epoca considerava scostumato far sfilare una donna che era stata sui monti con gli uomini, e le medesime venivano insultate dalle donne che non avevano mosso un dito, al grido di “puttane” quando andava bene, e questo comportamento ignobile fece sì che le storie uniche e irripetibili di questo meraviglioso esercito di eroine finisse irrimediabilmente nel dimenticatoio.
Io non vi ho mai conosciute, care Compagne, ma vi avrei sposate tutte.
Mi sento come pervaso da un senso di latente colpevolezza, da uomo mi sento corresponsabile di questo abnorme insulto perpretato per decenni, vi porgo le mie scuse, per quanto possano servire, care donne bellissime.

martedì 25 aprile 2017

Marisa Rodano: un 25 aprile di ieri. E quello di oggi.Conversazione con Marisa Rodano, ricordando il ruolo delle donne nella Lotta di Liberazione inserito da Tiziana Bartolini

“Un 25 aprile che mi è rimasto nel cuore è quello del 1995 quando l’Udi, nel cinquantesimo anniversario, dedicò tutta la giornata alle tante donne che ebbero ruoli di primissimo piano durante la Lotta di Liberazione dal nazifascismo”. È la risposta ‘a caldo’ di Marisa Rodano, classe 1921 e una vita per la politica, alla sollecitazione a raccontarci uno tra i tanti 25 aprile che ha vissuto. “Con quella giornata si volle sottolineare l’importanza delle donne, un contributo che ha avuto un peso sia numerico sia in relazione alle responsabilità affidate loro. È stata una reazione alle celebrazioni che ricordavano solo alcune figure femminili, soprattutto quelle cadute, ma ignoravano volutamente le tante e tante partigiane che sono state protagoniste della Resistenza e che vi hanno partecipato attivamente e in vario modo. Penso alle staffette, ma non solo”.
È il tema della rimozione storica che colpisce le donne, mistificazione che queste ultime devono continuamente contrastare, anche per quanto riguarda gli eventi più recenti. La trasmissione della nostra Storia, e dei suoi valori, è il fondamento della nostra democrazia. E se la memoria collettiva è precaria, quella delle donne è costantemente sotto la minaccia di una erosione che sembra difficilmente  contrastabile. Dal 25 aprile di oltre venti anni fa a quello odierno. Marisa Rodano passa a raccontare un incontro cui ha partecipato la settimana scorsa a Trecastelli, un paese in provincia di Ancona. “È stato commovente ascoltare i pensieri e le poesie degli studenti e delle studentesse delle scuole medie e superiori sulla Liberazione. Le insegnanti li avevano preparati, anche con un filmato sull’esperienza di alcuni partigiani in Piemonte tra cui Marisa Ombra, e si capiva che loro comunicavano lo stupore di chi ha fatto una scoperta. Del resto a casa non si trasmette questa memoria e per fortuna la scuola un po’ colma questo vuoto”.
Ci incuriosisce sapere cosa le hanno chiesto, questi giovani, e anche cosa ha distillato dalla sua lunga esperienza politica una donna che è stata consigliera comunale a Roma, parlamentare - oltre che europarlamentare - e che ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della Camera dei deputati, prima donna in Italia. "Ho spiegato il grande ruolo delle donne durante la Resistenza, che senza di loro la Resistenza non si sarebbe fatta. Ho ricordato che fu una donna a portare l’ordine di insurrezione al Comitato di Liberazione di Bologna; ho raccontato alcuni episodi: per esempio di come la moglie del direttore del carcere di Regina Coeli abbia fatto uscire Pertini e Saragat con un falso ordine di scarcerazione. Poi ho parlato loro del ruolo dei Gruppi di Difesa della Donna e del Manifesto con le prime rivendicazioni per la parità salariale e la tutela della lavoratrici madri. Ho spiegato che dalla partecipazione alla Resistenza è nato il diritto del voto alle donne”.
Devono capirlo, i giovani, che la Liberazione è stata la lotta per la conquista della democrazia in Italia e, per le donne, il primo passo verso la conquista di diritti fondamentali loro negati e non ancora ottenuti fino in fondo. Quello delle donne è un cammino sempre in essere, è un traguardo mai raggiunto pienamente o definitivamente. Qual è il senso, oggi, della parola Resistenza o Partigiano, secondo Marisa Rodano? “Stiamo attraversando un periodo molto, molto brutto. Talvolta ho l’impressione di vivere tensioni e premesse analoghe a quelle del 1939, sento il pericolo dello scoppio di un’altra guerra… Oggi una nuova Resistenza richiede per prima cosa ricostruire un progetto di società, poi di spiegare alla gente che bisogna associarsi perché si possono fare cose buone solo se si è uniti mentre invece c’è troppo individualismo, la terza cosa da fare è ricostituire i valori della giustizia e della libertà”.
Speravamo che le donne sarebbero state una risorsa, ma vediamo donne di potere in cui non ci riconosciamo. Che ne pensa? “Molte donne si comportano come gli uomini: hanno perso la capacità di essere sé stesse e nella vita pubblica hanno smarrito il loro bagaglio culturale e di sentimenti, la capacità di affermare una diversità. Considero questa realtà una tra le tante cose negative di questo momento. Rimango convinta, però, che bisogna battersi perché le donne abbiano ruoli paritari in ogni luogo in cui si decide. È l’obiettivo che perseguiamo come Accordo di Azione Comune per la Democrazia Paritaria, aggregazione di associazioni di cui faccio parte”. E che di cui è una delle fondatrici, aggiungiamo noi. Non solo per amore di precisione.

lunedì 17 aprile 2017

Siamo sicure che per essere donne occorra essere Superdonne? di Silvia Vegetti Finzi

E’ sempre con grande dolore che il mondo apprende la morte di una donna e di una mamma che lascia orfano un figlio di 9 anni. In questo caso si tratta di Carmen Chacòn, una figura straordinaria nella storia dell’emancipazione femminile. Nata con una grave malformazione cardiaca, è stata capace di percorrere la straordinaria carriera che l’ha portata a essere la prima donna nominata “ministra della difesa”, nella storia della Spagna e dell’umanità. Tutti la ricordiamo mentre giovane e bella, vestita di una camicetta bianca che rivela la sua gravidanza avanzata, passa in rassegna un reparto dell’esercito che la onora della presentazione delle armi. Anche dopo questo importante incarico, Carmen non ha mai abbandonato la lotta politica. Ed è giusto e doveroso riconoscere la forza e il coraggio con cui ha trasformato una inferiorità fisica in superiorità sociale. Credo che la sua testimonianza colpirà tutte le donne che, col femminismo, hanno rivendicato la parità dei generi, la specificità della loro identità sessuale e il diritto all’autodeterminazione. Ma poiché questo messaggio giungerà a tutte , alle ragazzine che stanno leggendo un libro di grande successo, come Bambine disobbedienti, alle adolescenti in cerca di figure ideali e alle giovani che chiedono conferma dei loro diritti, vorrei suggerire, a costo di essere impopolare, un momento di riflessione. Siamo sicure che per essere donne occorra essere Superdonne? Che l’eroismo personale sia sempre e comunque una virtù, anche quando coinvolge la vita di un figlio?
Nulla ci garantisce che Carmen non sarebbe morta lo stesso, anche se avesse fatto l’impiegata o la sarta, ma non è della persona che sto parlando, quanto della sua icona. L’elogio dell’onnipotenza è sempre pericoloso ma in modo particolare per una generazione, i cosiddetti nativi digitali, soggetta alle lusinghe della Rete, ove la vita simulata, ove tutto è possibile, prende spesso il posto della vita reale. Mentre i successi scolastici, artistici e professionali delle donne stanno trovando il riconoscimento che meritano, scivola sempre più nell’ombra l’altro versante dell’identità femminile, la maternità. Ne sono una riprova il calo delle nascite, l’incremento della sterilità, l’uso abituale di contraccettivi, non preventivi ma posticipati rispetto al rapporto sessuale. Non sappiamo più attendere, scrive Baumann, perché il presente è diventato l’unica dimensione del tempo: vogliamo tutto e subito.
Il rifiuto del limite impedisce di scegliere nella misura in cui ogni scelta comporta di stabilire delle priorità e di rinunciare a delle possibilità. Ma la maternità, idealizzata a parole è poi ostacolata nei fatti. Molte giovani donne si pongono il problema quando suona l’allarme dell’orologio biologico, ma anche allora non hanno esperienze di bambini piccoli, immagini che prefigurino il percorso materno, precognizioni del nascituro, parole per dire un desiderio che proviene dall’inconscio e chiede di essere riconosciuto e valorizzato. La donna che desidera essere madre ha bisogno, per accogliere, di essere accolta. Ma in una società competitiva non c’è posto per sentimenti materni, spesso scambiati per debolezza e inefficienza. Abbiamo bisogno di penombra e di silenzio per ritrovare ciò che manca a una identità compiuta e a una vita armoniosa. I valori femminili non sono migliori di quelli maschili, sono solo diversi e dobbiamo trovare il coraggio di dichiararlo per dare, come diceva un vecchio slogan, “alle donne la forza delle donne”.
http://27esimaora.corriere.it/17_aprile_11/siamo-sicure-che-essere-donne-occorra-essere-superdonne-43ed0332-1e92-11e7-a4c9-e9dd4941c19e.shtml

venerdì 14 aprile 2017

Il femminismo spiegato ai bambini di Cecilia Falcone

Dal libro Cara Ijeawele di Chimamanda Ngozi Adichie, 4 idee per insegnare la parità ai nostri figli.

"Mamma, cos'è una femminista?". Una femminista è una persona che considera le femmine e i maschi importanti allo stesso modo. Si potrebbe rispondere così, coinvolgendo in un abbraccio entrambi i generi. Un modo inclusivo per avvicinare bambini di tutte le età al delicato concetto di parità. E per allontanarli dallo stereotipo con cui siamo cresciuti noi, quello della femminista arrabbiata che odia gli uomini. Se una bambina - o volesse il cielo, un bambino! - oggi pone questa domanda è perché si guarda intorno: il femminismo ha assunto i toni del glamour, le popstar più seguite inneggiano al Girl power e sulle t-shirt ricompaiono gli slogan di 40 anni fa. È il momento di sfruttare la leggerezza mainstream e la loro curiosità per approfondire e rieducare, da subito.
 È appena uscito in libreria
 Cara Ijeawele. Quindici consigli per crescere una bambina femminista (Einaudi), di Chimamanda Ngozi Adichie.
Lei è la scrittrice nigeriana che con l’intervento Dovremmo essere tutti femministi al TED ha elevato l’attenzione al tema. Il nuovo lavoro nasce come lettera a un’amica che le chiede consigli sulla formazione da dare alla sua bambina. In pratica, è un manuale di autoconsapevolezza, di femminismo contemporaneo. Che possiamo riassumere in questi quattro punti. 1. Siamo tutti, maschi e femmine, individui. Ma i ruoli di genere che ci inculcano dai primi anni di vita ci impediscono di sviluppare a pieno le nostre potenzialità e aspirazioni. Salta agli occhi con i giochi: quelli che tradizionalmente riguardano i bambini sono legati alla conquista, all’esplorazione, alla libera fisicità. Per le bambine ci sono le bambole e molte più regole, finalizzate all’essere brave, ordinate, obbedienti. Cresciamo soffocate dall’idea di “come dovrebbe essere” una ragazza. Vi ritrovate? Una femminista è chi lotta per evitare che le donne di domani (e anche noi) si trovino costrette in queste caselle.2. Piuttosto va stimolata la fiducia nelle loro capacità, esaltata l’importanza di cavarsela da sole. Inizieranno da piccole conquiste, come riparare un trenino. E leggeranno tanto per comprendere il mondo, allenarsi a esprimersi e capire chi vogliono diventare (se di romanzi non vogliono saperne, la Adichie suggerisce un trucco: pagarle. Pochi spiccioli, che si rivelano un super investimento).3. Attraverso le parole riconosceranno anche le insidie che si nascondono nella lingua e che plasmano il modo di vedersi ed essere viste. Se tante di noi hanno mal sopportato di dover prendere il cognome del marito, vale la pena considerare anche le implicazioni degli appellativi Signorina e Signora. Un chiaro esempio di disparità che a una bambina va spiegato, lo capirà facilmente. Un uomo, sposato o no, rimane Signor. Lo status sociale di una donna invece con il matrimonio cambia. Una femminista è chi lo contesta. E avverte: sposarsi può essere un’esperienza felice, ma non è l’aspirazione a cui una donna deve tendere per essere riconosciuta.4. L’obiettivo di una femmina - che coincide con quello di una femminista - è «essere pienamente se stessa, onesta e consapevole della pari umanità degli altri», come sintetizza la Adichie. Può essere bella, senza la schiavitù dei canoni. Può essere gentile, senza l’ansia di compiacere, ricordando che il suo consenso è importante. Può e le si augura di amare! Nella coscienza che darsi emotivamente è un atto reciproco. Le verrà naturale se crescerà circondata da esempi positivi di donne, da ammirare per la loro forza e il loro ruolo “alternativo” nel mondo. E da uomini in gamba. Quelli per cui viene voglia di chiedere: Cos’è un femminista?
http://www.marieclaire.it/Lifestyle/bambini-scuola-giochi-viaggi/Femminismo-spiegato-ai-bambini-Chimamanda-Ngozi-Adichie

martedì 11 aprile 2017

Violenza sulle donne, il ddl sull’ “omicidio di identità da Angela Carta

In questi giorni sono stati resi noti gli ultimi dati Istat relativi alla violenza di genere.

È difficile restare impassibili di fronte ai numeri presentati: oltre 4,5 milioni di donne hanno dichiarato di aver subito violenze di varia natura, come stupri e rapporti sessuali non desiderati, mentre 8,3 milioni di donne hanno confessato di esser state psicologicamente vessate dal partner o dall’ex. Dalla svalutazione su più livelli all’isolamento, l’obiettivo è privare la donna delle risorse pratiche ed emotive che potrebbero aiutarla ad emanciparsi da un contesto di violenza, considerando inoltre che proprio dalla denigrazione può nascere quel senso di colpa che rende complesso il percorso di uscita da una relazione tossica e determinante il ruolo svolto sul territorio dai centri antiviolenza e dalle associazioni di primo ascolto.

Ci sono stati tuttavia casi particolarmente eclatanti, nei quali oltre ad intervenire il desiderio di sottomettere la donna è subentrata una concreta volontà di annullarne ogni percezione fisica, ovvero di sopprimerne l’identità. Mi riferisco in particolar modo a quanto accaduto a Lucia Annibali e Gessica Notaro, aggredite con l’acido da quelli che erano stati loro partner e letteralmente derubate della propria fisionomia. I loro percorsi hanno previsto una lenta rinascita tanto fisica – attraverso dolorosi interventi chirurgici – quanto psicologica, per affrontare la vita con rinnovata grinta e per trasformare una dolorosa esperienza in un utile insegnamento per tutti noi.

Il ddl Puppato, anche se in tante hanno firmato e contribuito alla sua stesura, propone proprio la nascita di una nuova fattispecie di reato all’interno del Codice Penale, con l’introduzione degli artt. 577-bis, 577-ter e 577-quater che rivisitano la materia e la innovano, alla luce delle dinamiche complesse della violenza di genere e degli intenti nascosti dietro attacchi di tal portata.
Di seguito, alcune delle novità apportate alla materia da questo disegno di legge:
– una pena non inferiore ai 12 anni di reclusione per danni inflitti volontariamente, che siano essi parziali o totali;
– un incremento della pena da un terzo alla metà se il reato viene commesso da un coniuge, ex coniuge, convivente e/o parte dell’unione civile, da un ascendente o da un discendente;
– perdita di ogni diritto agli alimenti e alla successione;
– sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte;
– possibilità, in caso di condanna, di godere di benefici di pena solo sulla base di un’osservazione scientifica della personalità per almeno un anno.
Tralascio in questa sede alcuni aspetti interessanti, legati in particolar modo al monitoraggio della casistica e ai progetti previsti in ambito scolastico, poiché meriterebbero riflessioni più mirate, ma quello che è importante sottolineare è l’intento di restituire dignità e rispetto a chi subisce violenze, evidenziando l’intenzionalità dell’azione e la necessità di punire adeguatamente il reato.

Il presupposto è che il viso sia lo strumento attraverso il quale si fissano le basi per la comunicazione e l’interazione con gli individui: cancellarne ogni tratto distintivo mina il riconoscimento di sé, ma anche il riconoscimento da parte degli altri, vanificando quel lungo percorso di crescita e costruzione dell’identità che dura tutta una vita.
Proposte concrete come questa– al di là di slogan elettorali e politici – possono rivelarsi un buon deterrente e porre solide basi per la prevenzione della violenza sulle donne.
http://www.dols.it/2017/03/31/violenza-sulle-donne-il-ddl-sull-omicidio-di-identita/

lunedì 10 aprile 2017

E’ “femminicidio” per 85 donne uccise su 100. I dati shock della Giustizia

L’85% delle donne uccise in Italia sono vittime proprio “in quanto” donne, non per altre ragioni. L’incredibile percentuale l’ha fornita il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel corso del suo intervento al convegno degli ordini degli avvocati romagnoli, a Forlì.

L’analisi statistica è frutto di ricerca estesa a tutti i casi di omicidio preterintenzionale che vedono come vittime le donne basata sulle circostanze che emergono dalla lettura delle sentenze e, proprio per questa ragione, era nella disponibilità del Guardasigilli, che è anche candidato alla segreteria del Pd.

“Su 417 casi di sentenze esaminate nell’arco temporale che va dal 2012 al 2016, 355 ossia l’85% dei casi sono classificabili come femminicidio, sono cioè donne uccise da uomini in quanto donne”, ha sottolineato Orlando.

Non ci sono differenze tra Nord e Sud, centro e periferia. I più violenti con le donne, oltretutto, sono gli italiani. “La distribuzione geografica è sostanzialmente omogenea, la nazionalità conferma la prevalenza di soggetti italiani, gli stranieri sono coinvolti nel 25% dei casi come autori e nel 22,4% come vittime”, ha confermato il ministro.

Un dato simile fu diffuso già nel 2010 dalla Polizia e allora il ministro dell’Interno, che era il leghista Roberto Maroni, protestò. Aggiunge Orlando: “Nel 55,8% dei casi tra autore e vittima esisteva una relazione sentimentale. Se aggiungiamo una relazione di parentela raggiungiamo il 75% dei casi in cui la vittima viene uccisa in un ambiente familiare, teoricamente in un ambito protetto e sicuro che spesso invece si rovescia nel suo contrario”.

Il “femminicidio”, che è regolato dal 2009 con una serie di aggravanti, è frequentemente un atto particolarmente efferato. “Quello che più colpisce sono le modalità con cui viene commesso il delitto”, ha aggiunto Orlando, “dal momento che non siamo solo in presenza di esecuzioni rapide con armi da fuoco, ma spesso di casi in cui l’uomo sfoga sulla donna una furia inaudita”.

Non è un “semplice” omicidio come quelli della criminalità organizzata, ma, dice il Guardasigilli, se è possibile, ancora peggio: “Quasi mai i colpi inferti sono uno o due, spesso ‘ un accanimento e spesso la morte arriva dopo una violenza brutale compiuta a mani nude o con qualunque mezzo a portata di mano”.

http://instante.it/2017/04/04/femminicidio-donna-la-colpa-dell85-delle-vittime-numeri-shock-della-giustizia/

domenica 9 aprile 2017

I Grandi diano una risposta alla violenza contro le donne di Linda Laura Sabbadini

Vorremmo che non fosse così, ma anche nei Paesi del G7 la violenza contro le donne è fenomeno ampio e diffuso e il problema non è risolto. Insieme, totalizzano 4608 omicidi di donne in un anno, più della metà di questi omicidi è opera di partner o ex. È un dato che parla da solo. Dunque, la violenza più diffusa per le donne è quella domestica, la violenza inattesa giunge da parte di chi la donna ama o ha amato.

Nel gruppo dei 7, gli Stati Uniti sono il Paese che presenta i valori più alti. Ma i femminicidi sono solo la punta di un iceberg, prima vengono maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, economica, sessuale, stalking. Si tratta di violenza di genere, cioè le donne la subiscono in quanto donne, riguarda trasversalmente donne di tutte le classi sociali. Esistono, però, gruppi più vulnerabili di altri. In Italia, sono le donne migranti che subiscono la violenza più grave, e anche le donne disabili sono molto esposte. Negli Stati Uniti, le donne nere sono più colpite delle bianche, in Canada le donne aborigene. Le forme della violenza possono assumere caratteristiche diverse e più gravi, se si combinano con altri fattori come l’orientamento sessuale, la religione, l’ origine etnica, la classe sociale, l’età, la nazionalità, la disabilità. La vulnerabilità si accentua laddove l’empowerment economico delle donne è basso e la maggior parte delle donne non lavora, dipendendo tra l’altro dal permesso di soggiorno del marito, come nel caso italiano delle marocchine e delle albanesi.

Le donne migranti di alcune comunità specifiche sono anche più esposte al traffico di esseri umani e alle mutilazioni genitali, problema presente per i Paesi del G7 con movimenti migratori di particolari comunità ed etnie.

La violenza contro le donne pone una barriera all’empowerment femminile, cioè allo sviluppo della libertà e indipendenza delle donne, genera paura e insicurezza nella loro vita e rappresenta un grande ostacolo al raggiungimento della parità, dello sviluppo, del benessere. Vittime sono anche bambini e bambine che assistono alla violenza della loro madre, e rischiano di vedere la loro vita futura fortemente segnata da questa esperienza. È diffusa l’idea che in presenza di tante vittime si debba correre ai ripari attraverso politiche di sola tutela e di aiuti alle donne. In realtà non basta, la via è un’altra.

Per combattere la violenza è necessario sviluppare programmi di empowerment, azioni che potenzino la libertà delle donne. Le politiche, le stesse pratiche delle associazioni devono rapportarsi alle donne non come a vittime e soggetti vulnerabili, ma a soggetti che possono essere protagonisti del percorso di uscita dalla violenza, pratica che da tanti anni viene portata avanti dai centri antiviolenza e anche in strutture pubbliche sanitarie di eccellenza. Si tratta di sviluppare azioni che potenzino la libertà femminile, sostenere i centri antiviolenza, che già mettono in pratica questo approccio da anni nei vari Paesi, potenziare e formare adeguatamente gli operatori e le operatrici dei servizi sociali, sanitari, di polizia, le forze armate, perché agiscano in un’ottica di empowerment femminile.

La sinergia di tutti gli attori in campo è la chiave del successo di queste politiche. Per prevenire, e contrastare la violenza contro le donne, c’è bisogno di una grande rivoluzione culturale che abbatta gli stereotipi di genere in tutti i Paesi e metta in discussione profondamente la radice della violenza contro le donne, il desiderio di dominio dell’uomo sulla donna. C’è bisogno di una grande offensiva educativa nelle scuole e più in generale nella società a tutti i livelli, verso gli uomini perché perdano il loro desiderio di possesso e per le donne, per far crescere il loro livello di autostima, fondamentale antidoto contro la violenza. C’è bisogno che gli uomini scendano in campo e non solo le donne. E che i media si facciano sentire, ma nel modo giusto, rinunciando alle immagini femminili irrispettose e stereotipate e dando spazio paritario alle donne e alle loro vite reali in trasmissione. È venuto il momento di lavorare intensamente in sinergia su questo a livello di G7, imparando gli uni dagli altri, perché i problemi sono gli stessi. Sarebbe un grande passo in avanti per tutti.
http://www.lastampa.it/2017/04/06/cultura/opinioni/editoriali/i-grandi-diano-una-risposta-alla-violenza-contro-le-donne-d8zH2Qw8iKpcb2zaUIfXvL/pagina.html

sabato 8 aprile 2017

L'inesistenza della Teoria del Gender - La circolare del Ministero dell'Istruzione alle scuole

Da qualche tempo, in Italia come all'estero, sta prendendo piede una pericolosa caccia alle streghe basata su quella che viene definita Teoria del Gender, una teoria per cui il movimento LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) vorrebbe abbattere le differenze biologiche dei generi per "confondere" la mente dei bambini, sfruttando le scuole per indottrinarli ad abbandonare la propria identità sessuale in favore di un genere "indefinito".

Quello di "teoria del gender" è un concetto creato dall'estrema destra religiosa fondendo le definizioni di "gender studies" e "queer theory". Il risultato è una presunta "gender theory", che però, al di fuori di questo contesto, non esiste, e non è mai stata teorizzata da nessuno. In Italia, la provenienza dei sostenitori di questa visione dalle frange più estreme della Chiesa cattolica spiega l'insolita rozzezza delle loro tesi, la cui difesa è spesso affidata a "esperti" autonominati, dei quali è spesso facile dimostrare che letteralmente "non sanno nemmeno di cosa stanno parlando". (cit. Wikipink)

Per fortuna, dopo varie sollecitazioni, anche il Ministero dell'Istruzione ha preso posizione su questa controversa questione, smentendo l'esistenza di questa fantomatica teoria e affermando che "nell'ambito delle competenze che gli alunni devono acquisire, fondamentale aspetto riveste l'educazione alla lotta ad ogni tipo di discriminazione, e la promozione ad ogni livello del rispetto della persona e delle differenze senza alcuna discriminazione."
Inoltre "pone all'attenzione delle scuole la necessità di favorire l'aumento delle competenze relative all'educazione all'affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere".

Nella circolare viene inoltre espressamente citato l'orientamento sessuale tra le discriminazioni richiamate dalle norme comunitarie che devono trovare applicazione nella scuola italiana.

Leggi la circolare del Ministero dell'Istruzione »

Di seguito, altre importanti dichiarazioni sulla Teoria del Gender:

Il Sottosegretario all'Istruzione Faraone sull'inesistenza della Teoria del Gender: leggi l'articolo »
L'Associazione Italiana Psicologia sull'incosistenza scientifica della Teoria del Gender: leggi il documento »
L'Associazione Italiana Sociologi sull'inesistenza della Teoria del Gender: leggi l'intervista »
Prof.ssa Nicla Vassallo, filosofa: leggi l'intervista »
Prof.ssa Chiara Saraceno, sociologa: guarda il video »
Altre testate che hanno affrontato la questione:

Wired: leggi l'articolo »
Internazionale: leggi l'articolo »
Ordine degli Psicologi, Lazio: leggi l'articolo [1] »
Ordine degli Psicologi, Lazio: leggi l'articolo [2] »
Wikipink: leggi l'articolo »

http://www.omphalospg.it/component/content/article/78-progetti/lotta-alle-discriminazioni/367-l-inesistenza-della-teoria-del-gender-la-circolare-del-ministero-dell-istruzione-alle-scuole.html

giovedì 6 aprile 2017

LETTERA APERTA ALLE LAVORATRICI E SCIOPERANTI DE LOTTOMARZO| NONUNADIMENO


Care scioperanti: lavoratrici-disoccupate-inoccupate-studentesse-artiste-professioniste-casalinghe-pensionate…
scriviamo, dopo lo Sciopero globale dello scorso 8 marzo, in primo luogo per ringraziare tutte per la forza, il coraggio, per la passione, la fantasia con cui è stata animata e fatta vivere questa splendida giornata di lotta e mobilitazione globale.
Lo Sciopero è stato un successo. Non era facile andare controcorrente, sfidare il blocco che in tante aziende è stato disposto non tanto e non solo dai datori, ma anche dai sindacati confederali, che non hanno ritenuto la violenza maschile sulle donne ragione abbastanza concreta per proclamare lo sciopero generale.
Eppure, noi lo sentivamo nei nostri corpi, nelle nostre teste, nel nostro diritto inalienabile a vivere e lavorare con dignità e libertà; lo avete e lo abbiamo fatto, reinventandolo tutte insieme, senza paura.
In tanti luoghi di lavoro, nei servizi e nelle cooperative, nelle scuole e negli ospedali, nel pubblico impiego come in quello privato, abbiamo incrociato le braccia, ci siamo astenute dalla fatica, abbiamo lottato. E non hanno scioperato soltanto le lavoratrici dipendenti; lo hanno fatto anche, mettendosi doppiamente a rischio, le lavoratrici autonome e parasubordinate, quelle precarie che il diritto di sciopero non lo hanno. Ognuna a suo modo, ognuna mettendosi in gioco fino in fondo. Abbiamo scioperato in Italia, milioni di donne hanno scioperato e si sono mobilitate in tutto il mondo, in oltre 50 paesi.
Dobbiamo dirlo, senza arroganza: forse il più importante evento di lotta degli ultimi decenni.
Passato l’evento, con il ricordo ancora nitido, si tratta ora di consolidare questa straordinaria nuova marea femminista, conquistando uno dopo l’altro i diritti che ci vengono negati quotidianamente, affermando concretamente, battaglia dopo battaglia, il nostro Piano femminista contro la violenza. Piano che, già a partire dalle assemblee nazionali di novembre e di febbraio scorsi, abbiamo cominciato a delineare. Per questo motivo, invitiamo tutte a continuare insieme questo percorso, a partecipare ai prossimi appuntamenti e momenti di discussione: alle riunioni dei Tavoli che stanno proseguendo nel lavoro di studio e di scrittura per il Piano, sino alla prossima assemblea nazionale di Non una di meno, che si svolgerà a Roma il 22 e 23 aprile. Saranno occasioni per elaborare collettivamente quanto è accaduto lo scorso 8 marzo, per portare a termine il nostro Piano, per definire le prossime scadenze di lotta, per articolare il nostro intervento nei territori.
Ci siamo riprese la strada e la piazza, ci siamo riprese lo Sciopero, ora dobbiamo imparare a riprenderci tutto. Unite possiamo farcela.

Non una di meno
https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/04/04/lettera-aperta-alle-lavoratrici-e-scioperanti-de-lottomarzo/

martedì 4 aprile 2017

Dopo l’Islanda, la Germania approva la legge contro il divario salariale fra uomo e donna. E l’Italia? scritto da Monica D'Ascenzo

Se più governi scendono in campo per porvi rimedio, vuol dire che il problema esiste. La differenza salariale di genere, testimoniata da diversi studi a livello internazionale, è entrata a pieno titolo nelle agende di lavoro delle istituzioni di diversi Paesi, dopo che l’Unione Europea da anni ha posto l’accento sul tema tanto da creare un progetto ad hoc per sensibilizzare i Paesi membri.
La linea che si sta seguendo, nella maggior parte dei casi, è quella di rendere “visibili” le remunerazioni, secondo il principio che rendere noto il divario sia di per sé già un incentivo a sanarlo. E dopo la legge islandese (in verità ben più restrittiva), ieri è stata la volta della Germaia, che ha approvato la normativa in tema di gender pay gap.

La soluzione tedesca
La Cdu di Angela Merkel festeggia la nuova norma per la riduzione del gap fra gli
stipendi di uomini e donne in Germania. Il Bundestag tedesco ha approvato il 30 marzo una normativa che dovrebbe favorire la riduzione dello scarto di remunerazione. La legge prescrive per le imprese con oltre 200 impiegati di render conto, a chi vuole saperlo, di quanto viene pagato un collega per la stessa prestazione lavorativa. Nel provvedimento sono coinvolte 18 mila imprese tedesche. Mentre circa 4.000 imprese con oltre 500 impiegati dovranno regolarmente fornire dei rapporti proprio sul trattamento salariale, chiarendo quindi quanto gli stipendi siano effettivamente “allineati”.
La misura si è resa necessaria dal momento che lo scarto di stipendio fra uomini e donne in Germania è del 21% circa. In media ogni donna guadagna 4,50 euro meno degli
uomini.

L’imposizione islandese
In Islanda il governo (nel quale metà dei ministri sono donna) ha deciso di fare un passo in più. La legge, approvata poche settimane fa dall’Althingi (il parlamento islandese) e ora pubblicata sulla gazzetta ufficiale, prevede che i datori di lavoro dovranno fornire documentazione sufficiente per ottenere la certificazione ufficiale di azienda o istituzione che davvero rispetta la parità retributiva tra gender. Il controllo del rispetto della gender equality salariale non è, però, solo teorico. E’ stato, infatti, affidato alla Lögreglan (polizia), alla polizia tributaria e anche al reparto scelto delle forze dell’ordine. I controlli inizieranno dal 2018 e termineranno entro il 2022. Nel Paese, di 330mila abitanti, l’occupazione femminile è attorno all’80%, mentre il divario salariale si attesta tra il 14 e il 20%. Le donne da anni scendono in piazza in sciopero in segno di protesta, guidate da The Icelandic Women’s Rights Association.

La via britannica
In Gran Bretagna sta per entrare in vigore (probabilmente dal prossimo 6 aprile) la regolamentazione 2017 del The Equality Act 2010 (Gender Pay Gap Information), in base alla quale le società private con oltre 250 dipendenti dovranno pubblicare, entro un anno dall’entrata in vigore, i dati relativi alle remunerazioni e ai bonus dei dipendenti (quanto e a quanti) con uno spaccato di genere. Da quest’anno l’obbligo sarà annuale e interesserà 7.960 aziende e 11 millioni di dipendenti, pari al 34% della forza lavoro totale britannica.
La normativa è il frutto del lavoro del Women and Equalities Select Committee, che ha presentato lo scorso anno un report sulla situazione in Uk a seguito dell’impegno dell’allora primo ministro di voler chiudere il gender pay gap innell’arco di tempo di una generazione. In base agli ultimi dati disponibili (aprile 2016) nel lavoro a tempo pieno gli uomini hanno in media una paga settimanale di 578 sterline, mentre le donne si fermano a 480 steline: il 17% in meno.
La “volontarietà” americana
Negli Stati Uniti era stato John F. Kennedy ha firmare nel 1963 The Equal Pay Act. Allora le donne guadagnavano in media 59 centesimi ogni dollaro guadagnato da un uomo. Dopo 50 anni erano arrivate a 77 centesimi. Un progresso troppo lento, secondo l’amministrazione Obama, tanto che nel 2009 il presidente firmò Lilly Ledbetter Fair Pay Act, cui ha fatto poi seguito The White House Equal Pay Gap del 2016. Quest’ultimo, già siglato da oltre 100 società, è l’impegno volontario a dare visibilità delle politiche di remunerazione interne e dei dati relativi agli stipendi.
Certo, lasciare che si aderisca in modo volontario ha il rischio che non ci sia un impegno concreto da parte delle aziende. Ma un nuovo fattore sta entrando in gioco, a cominciare dagli Usa: le richieste degli investitori istituzionali. Non è passata inosservata la notizia che la società di gestioni Pax World Management, con masse gestite attorno ai 4,1 miliardi di dolalri, ha convinto alcune società in cui investe (Goldman Sachs, BNY Mellon, Verizon, AT&T e Qualcomm) a prendere un impegno a favore della parità salariale fra i generi. Un segnale non da poco, per quanti sono quotati a Wall Street. Segnale che potrebbe essere seguito da altri investitori istituzionali.

E l’Italia?
Forse non tutti sano che anche da noi esiste una normativa a riguardo. Si tratta dell’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), (modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione). Cosa prevede?
1.Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta.
2.Il rapporto di cui al comma 1 è trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e alla consigliera e al consigliere regionale di parità, che elaborano i relativi risultati trasmettendoli alla consigliera o al consigliere nazionale di parità, al Ministero del lavoro delle politiche sociali e al Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
3. Il rapporto è redatto in conformità alle indicazioni definite nell’ambito delle specificazioni di cui al comma 1 dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con proprio decreto.
4. Qualora, nei termini prescritti, le aziende di cui al comma 1 non trasmettano il rapporto, la Direzione regionale del lavoro, previa segnalazione dei soggetti di cui al comma 2, invita le aziende stesse a provvedere entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza si applicano le sanzioni di cui all’articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1955, n.520. Nei casi più gravi può essere disposta la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda.
Il termine per presentare gli ultimi rapporti sulla situazione del personale è scaduto il 30 aprile 2016. Forse eravamo distratti e non ci siamo accorti di questa marea di informazioni. Resta il fatto che in Italia il divario di remunerazione, fra uomini e donne è del 10,9%. Una differenza che sale al 36,3% fra i laureati.
http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2017/04/03/dopo-lislanda-anche-la-germania-approva-la-legge-contro-il-divario-salariale-fra-uomo-e-donna/


lunedì 3 aprile 2017

Lidia Menapace Novara 1924 - vivente. di Monica Lanfranco e Rosangela Pesenti

«Molto mi ha giovato la lettura dei testi che le donne vengono scrivendo e pubblicando, ma più ancora – sto per dire – il poterle incontrare, il parlarsi di persona, vedere volti e gesti, inflessioni di voce e timbro di sorriso, sentire quanta parte della ricerca è andata persa per circostanze varie, quali orizzonti apre, quali motivazioni ha avuto».

Veramente difficile riassumere il pensiero, il lavoro teorico e le pratiche suggerite e regalate per oltre sessant’anni da un’attivista femminista quale è Lidia Menapace.
Una anticipatrice: questa forse la caratteristica più nitida ed esclusiva del suo lavoro.
La prima a mettere l’accento sull’importanza del linguaggio sessuato come strumento fondamentale contro il sessismo, «[…]Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa?
Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere » (prefazione a Parole per giovani donne, 1993).
Ci ha regalato la definizione più suggestiva del Movimento delle donne osservando che è carsico come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”.
Negli anni dirompenti del Movimento femminista ha suggerito il riconoscimento come fondamento della relazione politica tra donne, ricordando che «Il processo della conoscenza-riconoscimento-riconoscenza non è né meccanico, né facile: richiede volontà, efficacia e anche strumenti, persino istituzioni ad hoc» e successivamente ha proposto la Convenzione, cioè un patto paritario per comuni convenienze, come forma politica per la costruzione di pratiche e azioni condivise, efficace senza essere mortificante per la molteplice soggettività propria dell’essere donna e del Movimento stesso.
Nell’UDI ha guidato la stagione politicamente più creativa contribuendo all’uscita dell’associazione dallo stallo generato dall’XI Congresso, attraverso l’innovazione delle forme politiche nelle responsabilità condivise, proponendo un Patto tra pensieri politici teoricamente incomponibili e promuovendo la formazione del gruppo nazionale, domiciliato al Buon Pastore occupato, allora cuore storico del femminismo, che prendeva il nome da quella Scienza della vita quotidiana, frutto dell’elaborazione politica raccolta per la prima volta nel libro Economia politica della differenza sessuale.
Comincia proprio con questo testo la proposta teorica intorno all’Economia della riproduzione, declinata nelle specificità biologica, domestica e sociale, che troppo spesso viene ancora genericamente definita “lavoro di cura”, mentre, osserva puntualmente Lidia, la cura è il modo senza il quale non si realizza il lavoro stesso.
Non solo molti libri: la sua produzione è diffusa, e talvolta dispersa, in una miriade di giornali, riviste, pubblicazioni. Questo per la sua disponibilità ad essere presente nell’accadere delle cose, nel tempo vissuto dei vari collettivi umani che la considerano una maestra, ma anche perché, lontana da ogni vezzo accademico, considera la forma “occasionale” dei suoi scritti parte integrante della sua stessa elaborazione teorica. Instancabile viaggiatrice, è sempre stata disponibile a raggiungere i più remoti gruppi in ogni parte d’Italia, e generosa nel diffondere il patrimonio della sua esperienza. L’occasione infatti, nel senso montaliano del termine, è il suo modo teorico di stare nel mondo, che per lei è sempre il territorio concreto, abitato, che può allargarsi a comprendere perfino tutta la terra, ma si tratta sempre di una terra che è tale in quanto incessantemente percorsa da donne e uomini e dalle loro umanissime vicende. Dice e scrive, attenta alle condizioni materiali della vita e a come i luoghi possono favorire o mortificare la conoscenza, continuando a scegliere per sé la scrittura dell’articolo più vicina alla continuità del pensiero nella vicinanza del vivere.
Attivamente pacifista ha proposto la Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre e la scuola politica sotto l’egida di Rosa Luxembourg, figura storica snobbata sia dai partiti a sinistra come da buona parte del femminismo che invece Lidia Menapace ha non solo riscoperto ma anche attualizzato, arrivando a scoprirne le radici protoecologiste e animaliste (cfr. Donne disarmanti- storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi (2003).
Pressoché unica a ricordare alle generazioni più giovani il lavoro di Alma Sabatini, che cita sempre quando parla della necessità di sessuare il linguaggio, generosa con chi le ha chiesto di partecipare anche in luoghi sperduti a dibattiti e incontri, sempre disponibile a scrivere e a condividere i suoi materiali, Lidia Menapace è probabilmente la miglior testimonianza di come il paese nel suo complesso, e la sinistra in particolare, non sappia valorizzare i suoi talenti: per oltre 20 anni, con raccolte di firme e petizioni, si è cercato senza successo di farla eleggere in Parlamento, a cominciare dal Pci dell’epoca della Carta delle donne di Livia Turco.
Una enorme quantità di firme sono state raccolte sia per la sua elezione parlamentare sia per la sua nomina come Senatrice a vita, anche in questo caso senza successo.
La sua breve permanenza in Senato (eletta nelle liste di Rifondazione Comunista), già ottantenne, è raccontata da lei stessa in una raccolta di lettere, inviate quasi quotidianamente, che restituiscono uno sguardo inedito:
«Sono convinta che una nuova strumentazione politica teorica possa muovere non da cattedre, bensì da tavole, non da scranni, bensì da incontri conviviali» scrive Lidia nell’introduzione del suo ultimo libro.
Sua madre è una ragazza emancipata d’inizio Novecento, così si autodefiniva e suo padre un geometra illuminista senza saperlo, che portava le figlie bambine a visitare città d’arte. Lidia Brisca è stata una giovanissima resistente durante la guerra di liberazione; ha avuto il grado di sottotenente, rifiutato poi assieme al riconoscimento economico subito dopo la guerra, come raccontato nel libro Resistè : non aveva fatto la guerra come militare – spiegherà – e ciò che aveva fatto non aveva prezzo e non era monetizzabile. A soli 21 anni, nel 1945, consegue la laurea col massimo dei voti, a conclusione degli studi in letteratura italiana. Partecipando a giugno del 2011 a Genova al decennale di Punto G, che nel 2001 aprì le manifestazioni politiche di dibattito sulla globalizzazione, Lidia Menapace ha raccontato di come alla sua laurea uno dei relatori avesse giudicato la sua tesi, per farle un complimento, “frutto di un ingegno davvero virile”. Ebbene lei, nonostante il luogo solenne e la giovane età, ebbe il coraggio di ribattere e quello di replicare che la candidata era proprio una donna, quindi “isterica” (video su YouTube).
Impegnata nella Democrazia Cristiana, prima donna eletta nel Consiglio Provinciale di Bolzano nel 1964, dove si era trasferita dopo il matrimonio con il medico trentino, Nene Menapace (morto nel 2004), accanto a lei con discrezione per tutta la vita. In quella stessa legislatura è anche la prima donna ad entrare nella Giunta provinciale come assessora alla Sanità, ma si giocherà una brillante carriera all’Università Cattolica dichiarandosi marxista e contribuendo alla fondazione del quotidiano «Il Manifesto» (1969) sul quale scriverà regolarmente fino alla metà degli anni ’80. Conflittuale, anche a causa della distanza dal movimento femminista, il rapporto con Rossana Rossanda, altra fondatrice dello storico giornale della sinistra italiana.
A partire dagli anni ‘70 è presente nella politica attiva in associazioni, movimenti, incarichi istituzionali con un impegno che si caratterizza da subito e sempre per il femminismo e il pacifismo. Eletta al Senato nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista, è attualmente direttora della rivista teorica per la rifondazione comunista «Su la testa<».
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/lidia-menapace/

domenica 2 aprile 2017

Il pregiudizio del muletto Quando i pregiudizi maschili sono duri a morire Arianne Lapelouse

È una vita che affronto con il sorriso sulle labbra e il sopracciglio alzato le tante verità e le troppe false idee legate ai pregiudizi maschili.

Facciamo un esempio: se sei donna e rispondi al telefono della TUA azienda, spesso ti senti chiedere: “Ciao, mi passi il titolare?”.
“La titolare sono io, salve!”.
“Ah, pensavo fosse LA segretaria”.
Come se per una donna fosse impossibile dirigere un’impresa e per un uomo fosse INCONCEPIBILE lavorare come segretario o telefonista.

I pregiudizi sono alla base di molte ingiustizie, che ci trasciniamo dietro da secoli come macigni.
A gennaio nei cinema americani è uscito Hidden Figures. Il film racconta della vera storia di tre scienziate della Nasa, che hanno lavorato al lancio di John Glenn in orbita nella celebre impresa spaziale del 1962.
È un film che accusa l’imperante maschilismo con il quale anche le donne più brillanti e preparate devono confrontarsi restando quindi spesso “hidden”, cioè nascoste, mentre sono i loro colleghi uomini a prendersi tutti gli applausi. Valeva negli anni ’60 e vale, in molto casi, ancora oggi.
I pregiudizi, si sa, sono duri a morire.

Ma piano piano, stanno cadendo uno a uno come i birilli del bowling dove voi maschietti, tra una birretta e l’altra, vi divertite a elencare i nostri presunti limiti.

Solo per schiarirvi le idee:

1. Vi assicuriamo che noi donne siamo portate per la matematica e le materie scientifiche esattamente come voi. Non abbiamo un difetto cerebrale che ci impedisca di fare le addizioni. Anzi, quando si tratta di chiedervi gli alimenti dopo che ci avete cornificate con mezzo condominio, siamo bravissime a calcolare il totale.

2. È poi ormai risaputo che noi donne sappiamo guidare l’automobile piuttosto bene. Anzi. Essere donna rappresenta un motivo di maggiore garanzia per le stesse compagnie assicuratrici, che tendono ad accaparrarsi le clienti. Meno incidenti, meno infortuni.

3. Certo, in molte donne c’è una vera e propria repulsione verso le catene da neve, di solito ci rifiutiamo di uscire sotto la tormenta per installarle. Ma perchè, sic et simpliciter, lo riteniamo un lavoraccio, faticoso e pure rischioso, così come lo trovate voi uomini. Tanto è vero che, potendo scegliere, optate ormai tutti massicciamente per un treno di gomme invernali.

4. Andrebbe anche rivista l’idea, tipicamente macho-latina, che le donne non sappiano fare squadra, non sappiano collaborare e siano solo capaci di demolirsi e di farsi dispetti infantili.
Si sa: noi donne siamo molto più concentrate sui reali problemi e, dovendo spesso dividerci tra casa e lavoro, facciamo tesoro del poco tempo a disposizione. Quindi non amiamo perderci tra faide e guerre di posizione. Non più di voi.

Detto questo: qualche anno fa nei test da superare all’esame da mulettista figurava la seguente domanda: “Puó una donna guidare un muletto?”. La risposta era ovviamente “Sì, caro. E saprebbe anche passarti sopra in retromarcia”.
http://www.syndromemagazine.com/it/il-pregiudizio-del-muletto/

sabato 1 aprile 2017

LE SCARPE CON IL TACCO PER NEONATE COMMERCIALIZZATE DA UN'AZIENDA STATUNITENSE

Le PeeWeePumps sono state ideate per bambine da zero a sei mesi di vita. Il prodotto, lanciato sui social media, è stato giudicato di cattivo gusto da molte mamme
Occhiali da diva navigata, un foulard avvolto a formare una fascia legata intorno al capo, con tanto di fiocco davanti, e scarpe con il tacco abbinate. A indossare un abbigliamento del genere non è una giovane modella impegnata a posare su qualche catalogo di moda, bensì una neonata.
Il prodotto realizzato da un'azienda di calzature americana, la PeeWeePumps, è stato messo in commercio al fine di soddisfare la voglia glamour di molte neomamme, almeno stando alle dichiarazioni della sua fondatrice, Michelle Holbrook.
Una volta commercializzate e pubblicizzate sui siti e sui social media, le calzature sono state giudicate di cattivo gusto e molte mamme hanno definito “sbagliato e disgustoso” ritrarre i neonati in questo modo.
Le scarpette con il tacco  denominate appunto PeeWeePumps, sono state realizzate in svariati colori: di raso, la calzatura somiglia nella forma alle decolleté per donne adulte. Il tacco che sporge è pieghevole, mentre la punta è arrotondata. Sono disponibili per bambine fino a sei mesi d'età.
Ad accompagnare il lancio del prodotto ci ha pensato un marketing definitio aggressivo per le frasi impiegate nel descrivere abbigliamento per neonati, come “cool” e “diva in erba”. Anche le foto che hanno accompagnato il prodotto non sono state apprezzate nella maggior parte dei casi.
Negli ultimi messaggi condivisi su Facebook dalla società, viene ritratta una bambina che siede a cavalcioni su una moto in miniatura accompagnata dalla seguente didascalia: “Questa piccola diva in erba si mette in posa con le #peeweepumps”.
L'azienda con sede a Greensburg, in Pennsylvania, non si è limitata a far indossare alle neonate protagoniste della campagna le scarpine con il tacco, ma anche collane di perline, abiti di paillettes e tutù.
Le critiche
“La promozione di prodotti per bambini in questo modo è malata”,  ha scritto un altro commentatore sotto il post.
Le opinioni su queste calzature dai colori svariati sono state innumerevoli. Non sono mancati i commenti positivi di alcune utenti che hanno definito le scarpe “adorabili”.
L'azienda è stata segnalata all'inizio del mese di marzo da un gruppo di utenti del Regno Unito, che avevano rilanciato le immagini delle calzature e della vasta gamma di prodotti per l'infanzia con il messaggio di avvertenza "attenzione, le foto sono scioccanti".
Chiamata in causa, la fondatrice del marchio PeeweePumps, Michelle Holbrook, ha risposto alle critiche attraverso un comunicato pubblicato sul sito della sua società: “I nostri prodotti non sono fatti per camminare, ma per soddisfare l'attuale e sempre crescente richiesta popolare di alta moda anche per quanto concerne l'abbigliamento infantile”.
Queste scarpette con il tacco destinate alle neonate sono ergonomiche, costano circa 20 dollari e permettono alle bambine di avvicinarsi in modo precoce al mondo della moda, o perlomeno lo permettono alle loro mamme.
La questione nasce proprio su questo punto, ossia sul valore etico di una campagna promozionale che vuole vendere alle madri delle scarpe per bambina che sembrano, esteticamente, da donna. Nonostante l'azienda abbia già venduto più di un migliaio di paia, alcune mamma che hanno valutato il prodotto l'hanno giudicato inadeguato per una neonata.
La fondatrice della società travolta dalle critiche si è scusata con chi ha frainteso lo scopo delle scarpe con il tacco in miniatura, ritenendolo un gesto d'amore per le neonate. Le bambine di una volta si appropriavano al mondo delle scarpe con il tacco giocando con quelle della madre, in età sicuramente superiore ai cinque mesi.
Qui si ha a che fare con neonate dai 0 ai sei mesi di vita che sono diventate loro malgrado le consumatrici finali di un articolo più adatto alle donne adulte, rischiando così di cadere in un processo di sessualizzazione precoce, di cui i principali responsabili sono proprio i loro genitori.
http://www.tpi.it/mondo/stati-uniti/azienda-americana-crea-scarpe-tacco-neonate