venerdì 29 aprile 2016

Quando alle partigiane veniva negato l’onore della Resistenza di Perry Willson*



Esiste una storiografia affascinante sul ruolo delle donne nella Resistenza, arricchita dalla raccolta di innumerevoli testimonianze orali e dall’uso di diverse altre fonti memorialistiche. Molte delle storie raccolte sono commoventi, ma anche entusiasmanti. Alcune narrano atti di grande audacia di fronte a pericoli estremi. È anche una storiografia vastissima: i libri e gli articoli sul ruolo delle donne nella Resistenza superano di gran lunga il numero di quelli scritti su altri ruoli svolti dalle donne in tempo di guerra. Infatti, di tutti gli argomenti trattati nel presente volume, la Resistenza è quello più esaurientemente studiato dagli storici. Il motivo è l’importanza che la Resistenza assunse, come fenomeno politico e culturale, nel dopoguerra, in quanto fu intesa come movimento che conferiva legittimità politica alla repubblica appena nata, un fenomeno capace di ridare onore all’Italia e riscattarla dal suo passato fascista. Le donne volevano ovviamente essere partecipi della cittadinanza che la lotta di liberazione poteva conferire. La resistenza inoltre è spesso presentata non solo come spartiacque tra fascismo e democrazia, ma anche come preludio di una nuova era di maggiore emancipazione conquistata dalle partigiane per le donne del dopoguerra. (…)
Per ovvi motivi non sono disponibili cifre attendibili, ma è chiaro che un numero enorme di donne partecipò a vario titolo alla Resistenza (pur restando una minoranza delle donne italiane). Secondo alcune stime, le donne attive nella Resistenza sarebbero state due milioni. Ciononostante, gran parte della prima storiografia in materia descrisse la Resistenza essenzialmente come un movimento armato maschile. Ciò fu facilitato dal fatto che molte ex partigiane erano o troppo modeste o troppo intimorite per farsi avanti  e rivendicare un riconoscimento. L’esperienza della partigiana comunista Tersilia Fenoglio (nome di battaglia «Trottolina») dopo la Liberazione non è insolita. Ricordava che
alla sfilata non ho partecipato: ero fuori, a applaudire. Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto Mauri, poi tutti i distaccamenti di Mauri con le donne che avevano insieme. Loro sì che c’erano. Mamma mia, per fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che eran delle puttane.  […] E i compagni hanno fatto bene a non farci sfilare: hanno avuto ragione.
Altre furono semplicemente messe in ridicolo, perché nel primo dopoguerra la Resistenza finì per essere celebrata come un’impresa maschile.
Che fossero o non fossero ufficialmente riconosciute, la ricerca ha dimostrato che molte donne vi presero parte, donne di tutte le fasce di età e di tutte le classi sociali. Le donne parteciparono alle attività svolte da ogni gruppo politico nella Resistenza in tutta l’Italia occupata. Tra di loro c’erano operaie, studentesse, impiegate, casalinghe, contadine.

*Perry Willson è docente di Storia europea contemporanea presso la University of Dundee, in Scozia. Quello che abbiamo pubblicato è un brano del suo libro “Italiane. Biografia del Novecento” (Laterza, 2011).

giovedì 28 aprile 2016

DONNE E VIOLENZA SESSUALE: GLI ABUSI DIMENTICATI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE di DALILA FORNI

C’è un lato della seconda guerra mondiale spesso non considerato, come a volerlo dimenticare. Si tratta delle violenze sulle donne italiane, abusate dai Nazisti quanto dagli Alleati. La seconda guerra mondiale infatti, al contrario delle battaglie ottocentesche, puntava anche alla fetta di popolazione più debole: donne, bambini, anziani. Le regole di civiltà vennero a cadere, la disinibizione fu totale e nemmeno le categorie considerate indifese – anche se, ricordiamolo, le donne hanno avuto modo di dimostrare il loro coraggio e la loro forza in più occasioni – fermarono l’orrore della guerra. Oltre ai bombardamenti, i civili subirono quindi rapine, violenze corporali e sessuali, senza contare i casi di sfruttamento della prostituzione.

Eppure, dello stupro di guerra si parla sempre come di un comprensibile incidente di percorso, raramente lo si descrive per quel che è: uno strumento di tortura e di sottomissione, un abuso che va al di là della religione, dell’età, della fazione politica. È in realtà una pratica di dominazione psicologica che ha segnato più generazioni e annientato ulteriormente famiglie già di per sé distrutte.

Lo sbarco degli Alleati del 1943 fece sperare agli italiani che la guerra fosse ormai agli sgoccioli. L’orrore però non era ancora finito e proprio in quegli anni i soprusi sul corpo femminile si moltiplicarono. Nel novembre del 1943, con l’ordine chiamato Merkblatt 69/1, i vertici militari tedeschi cancellarono ogni distinzione tra partigiani e popolazione civile. Così, nel violento massacro dei cittadini, lo stupro della donna diventò una conseguenza inevitabile, un atto terribile per annientare l’avversario a ogni livello, fisico e mentale. Il nemico non era più l’uomo, il militare armato da sconfiggere, ma un intero popolo, donne comprese. Nella zona della Toscana per esempio i soldati avevano l’abitudine di irrompere nelle case italiane, farsi preparare del cibo e poi violentare la padrona di casa.

Alcuni documenti redatti dal Ministero della Guerra nell’ottobre del 1946 tentano di fare ordine sulle altissime cifre di abusi subiti dai civili, pur non venendo mai presi dei provvedimenti effettivi, né cercati dei colpevoli. I dati parlano molto chiaro:

«Secondo il Gabinetto nel 1943, dal giorno dell’armistizio, in Italia furono 8 le violenze carnali compiute e 4 quelle tentate. Nel gennaio del 1944 avvennero 5 casi, nel febbraio 2, nel marzo 3, ad aprile 9, fino ad arrivare a 391 casi accertati nel maggio e 626 a giugno. nel 1944, secondo il Ministero della Guerra italiano, sono state 1111 e per l’anno successivo si contano 38 casi di abuso. Un ulteriore allegato ricomponeva la situazione a livello geografico. Secondo i dati il Lazio deteneva il primo posto con 818 violenze, seguito dalla Toscana con 227 casi e dalla Campania con 52 abusi».

È davvero difficile dare un numero certo, ma i dati d’archivio ipotizzano cifre ancora superiori: basti pensare che nell’unico dibattito in Parlamento sul tema, ben 60.000 donne chiesero un risarcimento, mentre molte altre probabilmente preferirono tacere, anche se l’ex Partito comunista italiano, le forze cattoliche e l’Unione donne italiane le incoraggiarono a raccontare i torti subiti. Avere dei numeri precisi è difficile anche perché il problema degli stupri venne in parte sfruttato: non solo le violenze erano un ottimo strumento per raffigurare il nemico come ancor più terribile, ma molte donne finsero di essere state abusate per ottenere l’indennizzo, cumulabile con la pensione di guerra.

Mediamente, gli abusi più denunciati erano quelli legati alle truppe coloniali. In effetti, le violenze, sia fisiche sia sessuali, venivano chiamate marocchinate in quanto eseguite dai militari francesi provenienti dalle colonie, soprattutto – ma non solo – marocchini. Lo racconta per esempio Norma Lewis nell’opera Napoli ’44:

«Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate… A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n’erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I marocchini di solito aggrediscono le donne in due – uno ha un rapporto normale, mentre l’altro la sodomizza».

Gli ufficiali francesi chiesero addirittura di assumere più prostitute per placare la furia dei goumiers, ma la questione era solo in parte sessuale. D’altro canto, gli Alleati non fermarono mai questi episodi di violenza, tanto che quando i soldati americani di passaggio da Spigno sentirono le urla delle donne violate, il sottotenente Buzick rispose al sergente Mc Cormick, che gli chiese cosa fare: «credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa».

Incolpare i soli goumiers degli stupri tra il 1943 e il 1945 sarebbe quindi riduttivo. Tra i soldati europei e quelli delle colonie, tra quelli nazisti e quelli americani non c’è più alcuna differenza: la guerra porta a una totale perdita di civiltà, un trionfo della barbarie contro chiunque. Basti pensare che alcuni gruppi di fascisti stuprarono le partigiane o le donne civili: una colpa quindi di cui si sono macchiati uomini provenienti da ogni parte del mondo, di ogni fazione politica o credo religioso. Invasori o presunti liberatori, nessuno risparmiò nessuno.


La letteratura e il cinema sono arrivati prima degli storici a toccare un tema difficile ma fondamentale come quello dello stupro di guerra. L’esempio più celebre è La Ciociara di Alberto Moravia, un libro che spiega la seconda guerra mondiale da un punto di vista femminile, quello di una madre e di una figlia, senza censurare gli episodi di violenza e le sue devastanti conseguenze. Dal romanzo del 1957 è stato poi tratto l’omonimo film di Vittorio de Sica, che valse un meritato Oscar a Sophia Loren.

«Adesso lui mi stava sopra; e io mi dibattevo con le mani e con le gambe; e lui sempre mi teneva fissa la testa a terra contro il pavimento, tirandomi i capelli con una mano; e intanto sentivo che con l’altra andava alla veste e me la tirava su verso la pancia e poi andava tra le gambe; e tutto a un tratto gridai di nuovo, ma di dolore, perché lui mi aveva acchiappato per il pelo con la stessa forza con la quale mi tirava i capelli per tenermi ferma la testa. […] e io, invece, stesi la mano di sotto, gli acchiappai i testicoli e glieli strinsi con quanta forza avevo. Lui allora diede un ruggito, mi riacchiappò per i capelli e mi batté la testa, a parte dietro, contro il pavimento con tanta violenza che quasi quasi non provai alcun dolore ma svenni. […] Purtroppo, però, Rosetta non era svenuta, e tutto quello che era successo lei l’aveva veduto con i suoi occhi e sentito con i suoi sensi. […] L’avevano trascinata o lei era fuggita fin sotto l’altare; stava distesa, supina, con le vesti rialzate sopra la testa e non si vedeva, nuda dalla vita ai piedi. Le gambe erano rimaste aperte, come loro l’avevano lasciate, e si vedeva il ventre bianco come il marmo e il pelo biondo e ricciuto simile alla testina di un capretto e sulla parte interna delle cosce c’era del sangue e ce n’era anche sul pelo. Io pensai che fosse morta anche per via del sangue il quale, benché capissi che era il sangue della sua verginità massacrata, era pur sangue e suggeriva idee di morte».

Se quindi da un lato le donne parteciparono attivamente alla guerra, rendendosi utili non soltanto come infermiere, dall’altro lato questo trionfo del genere femminile venne oscurato dai soprusi subiti, fatti di una violenza non solo fisica, ma più di tutto simbolica e psicologica, umiliante, troppo spesso ignorata.

Fonti:
Alessia D’Innocenzo, Lo stupro come arma dei Nazisti e degli Alleati. La violenza sessuale in tempo di guerra

Giovanni De Luna , Il caso delle donne italiane stuprate durante la seconda guerra mondiale al centro di nuove ricerche
http://fascinointellettuali.larionews.com/donne-violenza-sessuale-gli-abusi-dimenticati-della-seconda-guerra-mondiale/

mercoledì 27 aprile 2016

Ci chiamavano libertà di Silvia Neonato

“Vieni fuori di lì che poi ti devi sposare”. Con questa frase sulle labbra molti padri afferravano per un braccio le figlie e le tiravano fuori, d’autorità, dalle sfilate che il 1° maggio del ’45, ancor più del 25 aprile, avevano messo accanto, sulle nostre strade, partigiani e partigiane finalmente scesi dalle montagne. Altre furono pregate dai comandanti stesse di farsi da parte: non conveniva loro e neppure, forse, alla brigata mostrare quelle giovani donne accanto ai ragazzi, magari con uno sten in mano.

Lo raccontano a Donatella Alfonso alcune delle partigiane liguri che, in questi ultimi anni, è andata a intervistare per raccontare la loro epopea nel libro, corredato di foto e anche di un video, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945. La parola ridata alle donne. Appunto, ridare la parola alle donne e capire quante di loro furono incoraggiate a tornare velocemente nei ranghi appena finita la guerra. Il risultato fu che – in tutta Italia e non certo solo in Liguria – molte non si presentarono neppure per avere il riconoscimento ufficiale di partigiana, altre addirittura lo cedettero a un fratello o al fidanzato perché quell’attestato permetteva di trovare un lavoro.
Oggi le loro parole ci lasciano incredule e dispiaciute. Tina Tomanelli, che al tempo era un’impiegata e, tra le varie attività svolte, nascose addirittura un tedesco disertore che voleva unirsi alla Resistenza, racconta che non lo aveva mai detto prima. In effetti quanti glielo avevano chiesto? Lo stesso stupore lo mostrano, nel magnifico libro della Nobel Svetlana Aleksievic La guerra non ha un volto di donna, le volontarie sul fronte russo nella seconda guerra mondiale: nessuno le aveva mai interrogate sulle loro imprese in guerra in cui furono staffette, artigliere, infermiere… Stesso imbarazzo, stessi silenzi reticenti delle partigiane italiane di fronte alle domanda della giornalista. Con alcune eccezioni. Come la cecchina russa racconta senza esitazioni come tirava bene e quanti tedeschi uccise, Vera Del Bene, spezzina, racconta che salì in montagna ben decisa da subito a sparare come gli uomini. E così fu. Un’esperienza che l’ha segnata per tutta la vita, una vita in cui, dice, “ho sempre gestito da sola il mio cervello e il mio corpo”. Ma sparare, ammette, “non è facile, perché i morti ti guardano”.

Le combattenti risultano in tutto 35 mila, 20 mila sono le patriote con funzioni di supporto e circa 70 mila le donne inquadrate nei GDD i Gruppi di Difesa della donna avviati nel 1943 a Milano da alcune donne presenti nel Cln. Pur essendo, come certifica l’Anpi, cifre bugiarde per difetto, sono impressionanti e mostrano quello che molti studiosi e studiose hanno finalmente scritto in questi anni: e cioè che senza la rete di migliaia di donne, capillare e tenace, senza il loro lavoro di cura, logistica e comunicazione in città e montagna, la Resistenza non sarebbe stata possibile. Le staffette, come l’Agnese di Renata Viganò, sono state indispensabili ed è ormai accertato quanto fosse importante il loro portare ordini, informazioni, armi, medicine, notizie. Ma le cifre parlano anche di 1070 donne cadute in combattimento. Di 2812 fucilate o impiccate. Di 4653 arrestate e spesso torturate e 2650 deportate nei lager.

Mirella Alloisio, che ha poi fatto la giornalista a “Noi donne” e raccolto già nel ’57 le prime testimonianze di partigiane, a 17 anni, a Genova era la segretaria del Cln e custodiva, da sola, il segreto dei veri nomi di tutti i membri del gruppo dirigente. Oggi dice senza mezzi termini che il “ruolo delle donne è sempre stato sottovalutato per una forma di maschilismo diffuso anche nelle brigate partigiane”. E le poche che osarono dirlo allora non furono certo ben viste perché si rovinava, in quel modo, l’immagine a tutto tondo delle brigate partigiane. Vanda Bianchi, staffetta tra Sarzana e la Val di Magra racconta a Donatella che se l’avessero mandata alla scuola di partito non si sarebbe sposata. “Perché un uomo non lo capisce che una moglie possa far politica… Così quando sono rimasta vedova ho ripreso il mio posto”, e ha presieduto la sezione Anpi fino a due anni fa, quando se ne è andata.

Il dopoguerra è stato duro per tutti, civili e anche molti partigiani, che furono esclusi dalla vita politica per aver voluto conservare intatta la propria utopia di una società più giusta. E le nostre madri partigiane, a lungo trascurate o misconosciute, hanno finalmente avuto i riconoscimenti che meritano e ascoltare le loro storie ha un senso profondo. Anche nell’antologia Storie della Resistenza, curata da Domenico Gallo e Italo Poma, è stata inserita una sezione che raccoglie i racconti scritti da donne che hanno partecipato alla resistenza come la toscana Maria Luigia Guaita o la piemontese Marisa Ombra, autrice nel 2009 di una autobiografia intitolata La bella politica (Edizioni Seb).

 http://www.societadelleletterate.it/2016/04/ci-chiamavano-liberta/

Donatella Alfonso, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945. La parola ridata alle donne, De Ferrari editore, 2015

Domenico Gallo e Italo Poma, Storie della Resistenza, Sellerio 2013


lunedì 25 aprile 2016

Oggi. Corsico 25 aprile 2016

Ricordiamo il ruolo che le madri costituenti hanno avuto nella definizione dei valori fondativi della Repubblica Italiana e della Democrazia.
Ne è esempio l’ Art. 3 della costituzione italiana:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
dove la “non distinzione di sesso” è dovuto all’impegno della madre costituente Marisa Merlin.

Ricordiamo inoltre che anche grazie alle partigiane e alla loro lotta per liberare l‘Italia dal nazifascismo le donne italiane hanno ottenuto per la prima volta il diritto di voto e il  2 giugno di quest’anno ricorre il 70 anniversario.

 Ventunesimodonna ringrazia le partigiane, le Madri costituenti e le numerosissime donne che grazie alle loro lotte e al loro impegno  ci hanno fatte DIVENTARE CITTADINE A TUTTI GLI EFFETTI e ci hanno aperto le porte per la conquista dei diritti sociali, politici e civili.

domenica 24 aprile 2016

Buon 25 Aprile! tutte a cantare BELLA CIAO alle 11.30 davanti al monumento alla Resistenza di fronte al cimitero di Corsico

BUON 25 APRILE

BELLA CIAO! di Chiara Ferrari
La storia lunga, complessa e affascinante di una canzone-mito. Le sue tante interpretazioni ed esecuzioni, da una ballata del 500 francese fino ad oggi di seguito al link

http://www.patriaindipendente.it/idee/copertine/la-bella-emozione-di-una-canzone-mito/

giovedì 21 aprile 2016

E finalmente si parlerà anche delle donne partigiane perchè raramente la storiografia ricorda il contributo fondamentale che le donne hanno dato alla liberazione dal nazifascismo.

Donne che da un giorno all’altro sono state chiamate a sostituire gli uomini, andati al fronte, nei lavori più duri e si sono scoperte operaie meccaniche, tornitrici, fresatrici…
Donne che, rimaste sole, hanno preso in mano le redini della famiglia e hanno allevato, educato, e sfamato i figli…
Donne che, infine, oppresse dalla guerra e dal nazifascismo, non hanno esitato ad impugnare le armi e a diventare partigiane.

Trentacinquemila le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 
20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 
70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa;
16 le medaglie d’oro, 
17 quelle d’argento; 
512 le commissarie di guerra; 
683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 
1750 le donne ferite; 
4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 
1890 le deportate in Germania.
Sono questi i numeri (dati dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) della Resistenza al femminile, una realtà poco conosciuta e studiata.

Voglio ricordare qui una testimonianza di una delle tante donne che partecipò alla Resistenza, tratta dal film di Elisabetta Sgarbi «Quando i tedeschi non sapevano nuotare»:

“ERA IL 18 FEBBRAIO DEL 1945, L’APPUNTAMENTO ERA PER LE 10 DI MATTINA IN PIAZZA. FU LÌ CHE TROVAI LE DONNE. SI AVVICINÒ LA MIA AMICA SILVANA: «Dobbiamo fare una cosa noi donne mi disse però bisogna avere pazienza e stare attenti con chi si parla, perché questa cosa deve riuscire. Avvicina le persone per bene, che sai come la pensano, e chiedi di fare un po’ di passaparola, perché la cosa si allarghi, perché dovremo essere in tante.»
E fu così che tutto cominciò. Con tanta titubanza e tanta paura fu così che quella domenica mattina, il 18 febbraio, ci trovammo verso le dieci. Fu anche difficile per me uscire, dovevo raccontar bugie a mia madre, perché in casa nessuno sapeva che facevo parte di questa organizzazione. Insomma, quel mattino, in tre, io, Silvana e Vittorina Dondi, che abitava a Ospitale sulla strada che porta a San Biagio verso la foce del Po, siamo partite. (…) E fu così: lei con un cartone con scritto sopra «Vogliamo pane, abbiamo fame, basta con la guerra!», siamo partite. (…)”
http://www.lauraonofri.it/25-aprile-libere-tutte/

martedì 19 aprile 2016

Misure per uscire dalla violenza e per essere finalmente libere da Simona Sforza

Arriva la circolare INPS che disciplina i congedi per le vittime di violenza.
A distanza di quasi un anno è arrivata la circolare INPS  per rendere applicabile il congedo per le vittime di violenza di genere contenuto nell’art. 24 del decreto legislativo n. 80 del 15 giugno 2015.
La normativa prevede che le lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato, escluse le lavoratrici del settore domestico, possano avvalersi di un congedo indennizzato per un periodo massimo di 3 mesi al fine di svolgere i percorsi di protezione certificati dai servizi sociali del Comune di appartenenza, dai Centri antiviolenza o dalle Case Rifugio. Il congedo può essere fruito su base giornaliera o oraria entro tre anni dall’inizio del percorso. Per le giornate di congedo la lavoratrice ha diritto a percepire una indennità giornaliera, pari al 100% dell’ultima retribuzione da calcolare prendendo a riferimento le sole voci fisse e continuative della retribuzione stessa.
Si tratta di un piccolo ma importante passo per consentire un percorso con meno intoppi di uscita dalla violenza. In altri Paesi interventi simili esistono già da tempo e sono inquadrati in un sistema più organico e strutturato, per dare alle donne vittime di violenza un’autonomia economica e la sicurezza di poter guardare al futuro più serenamente.
Se per esempio guardiamo la Spagna, vengono coperte anche le lavoratrici autonome, che hanno diritto a una serie di agevolazioni, incentivi e sospensioni delle tassazioni. Hanno avviato dal 2004 programmi di inserimento lavorativo, incentivi alle imprese che assumono donne con esperienze di violenza, spazi abitativi, sussidi integrativi, facilitazioni per la mobilità geografica. Insomma per lo Stato i diritti economici e lavorativi di queste donne sono centrali, insieme agli interventi di prevenzione, per il cambiamento culturale e al sostegno ai centri antiviolenza.

Chiaramente in Italia la situazione non è rosea e la distribuzione dei fondi, sempre più esigui, è difficile da tracciare, come si evince dalla mappa #DonneCheContano 26 milioni e mezzo di euro (per il triennio 2013-2015) stanziati per il potenziamento dei servizi di assistenza e supporto per le donne che subiscono violenza in Italia. Tra ritardi nell’assegnazione alle Regioni e alle organizzazioni che operano sul territorio e una mancanza di informazioni su come vengano spesi questi fondi, forse in ottica di una maggior trasparenza, sarebbe opportuno avviare una piattaforma online che tracci l’erogazione dei fondi e il loro utilizzo, verificando i risultati raggiunti sul territorio italiano, per evidenziare criticità e casi virtuosi da prendere ad esempio. Fantascienza? Basterebbe organizzarsi e quindi torniamo al discorso della mancanza di una cabina di regia governativa, con l’assenza di una Ministra per le Pari opportunità.

Un segnale di un rischio concreto e attuale per le politiche di genere lo si può leggere anche in merito al caso di Linda Laura Sabbadini
Dobbiamo aiutare le donne che vivono un’esperienza di violenza a uscire da queste situazioni, incoraggiandole a rompere il silenzio, sostenendo loro e i loro figli, dandogli una sicurezza economica e una prospettiva di autonomia attraverso un lavoro, che non siano sotto un ricatto economico che gli impedisce di denunciare, di chiedere aiuto. Dobbiamo intervenire prima che la violenza possa sfociare in un femminicidio, dobbiamo fornire alla donna strumenti immediati, certi per uscire da questi pericolosi vincoli di subordinazione nei confronti di un partner/familiare violento. Raramente si tratta di un raptus di follia temporanea, questi soggetti arrivano a colpire dopo lunghi periodi di tormenti e violenze di ogni tipo nei confronti della compagna, non da ultimo la violenza economica. Ripeto, dobbiamo sottrarre queste donne a questo destino. Per questo è importante che i presidi territoriali non siano in permanente rischio chiusura come “La stanza dello scirocco” di Corsico.
A febbraio avevamo organizzato un incontro per fare il punto della situazione in Lombardia. A novembre 2015 è stato approvato il “Piano regionale quadriennale di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne”. Qui trovate un po’ di informazioni: http://issuu.com/simonasforza/docs/pda32-piano_quadriennale_prevenzion/1
http://www.dols.it/2016/04/18/misure-per-uscire-dalla-violenza-e-per-essere-finalmente-libere/

lunedì 18 aprile 2016

Quel che accade dopo Maria G. Di Rienzo

Katie Orenstein


Katie Orenstein

Perché le storie che raccontiamo determinano ciò che pensiamo di quel che accade, il che determina quel che accade dopo.






(Katie ha lavorato come opinionista per The New York Times, The Washington Post e The Miami Herald; è inoltre l’autrice di “Little Red Riding Hood Uncloaked: Sex, Morality & the Evolution of a Fairy Tale”, che esplora le storie e le fiabe raccontate sulle donne in oltre cinquecento anni attraverso molteplici continenti e mostra come ancora danno forma alle nostre vite quotidiane.)

Perché sessuare il linguaggio?

Perché contrastare il sessismo e la misoginia nei media?

Perché la storia delle donne?

Perché dare visibilità alle attiviste, alle artiste, alle autrici?

Perché ti preoccupi di quel che leggono le bambine?

Eccetera. La risposta è lì sopra.

* Giornalista, formatrice, regista teatrale femminista cura il prezioso blog lunanuvola (dove è apparso questo articolo, la cui pubblicazione su Comune è autorizzata dall’autrice). Sullo stesso tema ha scritto Il bisogno della storia delle donne

https://lunanuvola.wordpress.com/2016/04/03/quel-che-accade-dopo/katie-orenstein/

venerdì 15 aprile 2016

martedì 12 aprile 2016

Aborto. Più educazione sessuale e informazione alla contraccezione e meno terrorismo patriarcale di Simona Sforza


Chiediamo rispetto delle nostre scelte e uno Stato che si impegni in modo significativo e capillare dell'educazione a una sessualità consapevole. L'unica cosa da debellare è l'ignoranza. Quindi più rispetto per le scelte riproduttive delle donne e più informazione e prevenzione! E ricordiamoci di applicare pienamente la L. 194/78.





A guardare il panorama generale e al contesto attuale per quanto riguarda la salute riproduttiva delle donne e la possibilità di ricorrere a una interruzione di gravidanza in sicurezza e in piena libertà, non c'è da stare tranquille. In tutto il mondo sembra che il patriarcato stia attuando una vera e propria politica di backlash, che con un colpo di coda, una trincea reazionaria intende riportarci indietro di decenni, per tornare ad avere il controllo pieno sulle vite delle donne e sulle loro scelte riproduttive. Trump sbandiera fieramente il suo antiabortismo, arrivando a prospettare anche punizioni per le donne che decidono di abortire e per i medici abortisti.

A Varsavia (e in contemporanea in altre 15 città polacche), lo scorso 3 aprile migliaia di persone hanno manifestato davanti alla sede del Parlamento Polacco contro il progetto di legge (presentato dalle associazioni pro-life con il sostegno della Conferenza Episcopale polacca e del nuovo governo guidato dal partito nazional-conservatore) che vorrebbe vietare totalmente l'aborto, tranne nel caso di pericolo di vita della donna. Il testo di riforma prevede che le persone che partecipano ad un aborto illegale siano punite con cinque anni di carcere, anziché gli attuali due. Oggi l'aborto in Polonia è illegale tranne che nei seguenti casi: quando la gravidanza è il risultato di stupro o incesto, quando la vita della donna è in pericolo, quando il feto è gravemente malformato.

A questo punto occorre chiarire alcune cose.
Essere favorevoli a una legge che assicuri la salute della donna e la sua libertà di scelta in tema di maternità, significa essere aperti a una possibilità che non deve mai essere negata e che va garantita per evitare che la donna torni a pratiche clandestine e pericolose.
Il prezzemolo, i ferri da calza, i farmaci antiulcera non devono più essere la soluzione, pretendiamo che ci sia una prestazione sicura e adeguata, legale e gratuita, che sia chirurgica o farmacologica, ma tuteli la salute e la vita delle donne.

Altro che pro-life, questi soggetti vogliono solo impedire alle donne di scegliere in sicurezza e costringerle a una maternità forzata. Violenza machista allo stato puro.

A casa nostra non siamo certo da meno. Il 9 aprile tornano i No-194 a Milano (in contemporanea anche a Caserta), con la solita sfilata dalle ore 15 alle ore 18, il quinto corteo nazionale, con partenza da piazzale Cadorna. Obiettivo referendum abrogativo della legge 194 - Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza.

C'è una gran confusione e disinformazione, spesso strumentale. Basta vedere la riluttanza dei farmacisti a vendere la pillola del giorno dopo e quella dei cinque giorni dopo senza bisogno di ricetta medica per le maggiorenni. Nonostante le decisioni dell'Aifa c'è chi si inventa mille scuse per non fornirla. Per chi non lo sapesse, si tratta di contraccettivi di emergenza che agiscono sull'ovulazione e non sono assolutamente farmaci abortivi.

Manca l'informazione e una educazione adeguata, precoce, a una sessualità consapevole, alle malattie sessualmente trasmissibili (MTS), a un uso corretto dei contraccettivi e dei preservativi. Quello che nel nostro Paese manca è un approccio sistemico e strutturato per la prevenzione delle gravidanze indesiderate e delle MST. Una gravidanza su cinque, cioè il 20%, in Italia è indesiderata, in Lombardia dal 2010 c'è stata un'impennata delle gravidanze precoci, sono il 31% in più. Le adolescenti che diventano mamme nella sola Lombardia sono, ogni anno, 2.600. Tutto normale? La Regione Lombardia da anni mette a disposizione i fondi Nasko e Cresco, ci sono ospedali che forniscono supporto alle neomamme in difficoltà, con fondi sempre più scarsi. Ma la soluzione non può e non deve essere questa. Un figlio non è monetizzabile ed è per sempre, quindi non si può imporre una maternità MAI! Non dobbiamo lasciar passare la mentalità secondo cui tanto la soluzione si trova e che se resti incinta qualcuno per te provvederà, supportandoti. Non possiamo pensare che sia normale avere un'esplosione di maternità in età adolescenziale. Una adolescente deve essere informata adeguatamente, deve proteggersi dalle malattie, deve fare ed essere incoraggiata a fare altre mille cose prima di diventare madre, e comunque dovrà deciderlo consapevolmente. Le maternità casuali e indesiderate devono essere l'eccezione, questi numeri sono un segnale di un problema enorme, di un ritardo e di una ignoranza enormi. Non vogliamo educare i nostri figli ad avere una vita sessuale sicura, protetta e consapevole? Preferiamo non parlarne né a scuola, né in famiglia? Questi sono i risultati. Dobbiamo bloccare questi meccanismi che hanno un impatto pesante sulle vite di queste donne, più o meno giovani. Sinceramente non è comprensibile nel 2016 questa diffusa allergia ai preservativi, ai contraccettivi. Anche una corretta informazione sulla contraccezione di emergenza deve essere adeguatamente diffusa, dobbiamo usarla solo in caso di “incidenti di percorso”, sottolineando che per una contraccezione corretta esistono altri strumenti (pillole ormonali, spirale, diaframma, impianti sottocutanei, anelli vaginali), e soprattutto che se non si usa il preservativo non siamo protetti dalle MTS.

Non abbiamo bisogno del populismo di Mario Adinolfi, emulo di Trump, che arriva a dichiarare: “Se il Popolo della Famiglia andrà al governo abolirà la legge 194.” A Radio 24 ha rincarato la dose: “(...) da sindaco di Roma andrò anche personalmente a sostenere i medici obiettori di coscienza e a parlare con le donne che vogliono abortire per aiutarle a compiere la scelta più naturale: far nascere il proprio figlio. Le dichiarazioni hanno suscitato sconcerto nei miei interlocutori radiofonici, ma continuo ad essere convinto che il Popolo della Famiglia debba offrire in ogni contesto testimonianza delle sue profonde ragioni d'essere: tra queste, seguire l'esempio di ogni donna e ogni uomo che lavora nei centri aiuto alla vita e fa nascere bimbi destinati all'aborto. Alla guida delle città aiuteremo i Cav a svolgere il loro lavoro prezioso.”

La 194 ha portato a una diminuzione molto significativa delle IVG, la sua abolizione porterebbe solo alla clandestinità, al turismo all'estero per chi ha i soldi, a un accanimento disumano sui corpi delle donne. Questa non è politica, se per raccogliere consensi si pensa di passare sulle vite delle donne con uno schiacciasassi. Siamo indubbiamente sotto attacco, a gennaio sono state inasprite pesantemente le sanzioni per le donne che ricorrono all'aborto clandestino, fuori dalle strutture accreditate https://simonasforza.wordpress.com/2016/02/21/obiettiamolasanzione/.

Questo è disprezzo nei confronti delle donne e dei loro diritti.
Non consentire loro di scegliere liberamente se diventare o meno madri è una violenza, una forma di tortura che non può trovare spazio in uno Stato civile e progredito. Siamo ancora una volta di fronte ad un tentativo di ri-assoggettamento totale dei corpi delle donne alla volontà degli uomini, un dominio maschile che ci vede come mero strumento riproduttivo.
Attenzione! Questo non è uno strumento chirurgico. Rendi l'aborto sicuro e legale

Attenzione! Questo non è uno strumento chirurgico. Rendi l'aborto sicuro e legale
http://www.mammeonline.net/content/aborto-piu-educazione-sessuale-informazione-alla-contraccezione-meno-terrorismo-patriarcale

sabato 9 aprile 2016

8 aprile al Bem Viver " Le femministe...queste sconosciute"

Bellissima serata sui femminismi, partecipata e condivisa dalle presenti e dai presenti che ringraziamo per aver discusso con noi un argomento così poco conosciuto ma tanto criticato.






Pillola del giorno dopo senza ricetta: i farmacisti rispettino le regole di Redazione @PasionariaIT · 7 aprile 2016

Vignetta di Anarkikka: "Per il farmacista che obietta non c'è ricetta!"



Vignetta di Anarkikka: "Per il farmacista che obietta non c'è ricetta!"

L’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha stabilito che le donne maggiorenni hanno diritto ad accedere ai vari tipi di farmaco per la contraccezione di emergenza (pillola del giorno dopo, pillola dei cinque giorni dopo) senza bisogno di prescrizione medica.

I farmacisti che rifiutano la somministrazione di questi farmaci (Norlevo, EllaOne), nonostante il richiamo dei loro ordini professionali, commettono un illecito e nessuna scusante è valida: non l’obiezione, perché si tratta di anticoncezionali e non di farmaci abortivi, non l’esserne sprovvisti, perché è dovere del farmacista procurarsi il medicinale richiesto nel più breve tempo possibile.

Per continuare ad abusare della buona fede delle donne ignare di questi diritti, non c’è più ricetta! Se non quella del rispetto della legalità.

Per informare le donne e invitare i farmacisti al rispetto delle regole, il gruppo di donne di #ObiettiamoLaSanzione partirà con un tweetbombing venerdì 8 aprile dalle 14 alle 16 indirizzato ad Andrea Mandelli, presidente della Fofi (Federazione degli Ordini dei Farmacisti), con i tweet:

#ObiettiamoLaSanzione invita i farmacisti al rispetto delle regole su #contraccezionedemergenza @mandelli_andrea

#ObiettiamoLaSanzione ricorda ai farmacisti che non serve ricetta per #contraccezionedemergenza @mandelli_andrea

#ObiettiamoLaSanzione informa le donne maggiorenni che non serve ricetta per #contraccezionedemergenza

a cui allegare la vignetta di Anarkikka pubblicata qui sopra.
http://pasionaria.it/pillola-del-giorno-dopo-senza-ricetta-i-farmacisti-rispettino-le-regole/

giovedì 7 aprile 2016

Orfani bianchi, il costo drammatico delle badanti Famiglie distrutte, bambini suicidi. Del calvario in patria delle nostre badanti non sappiamo nulla di Lidia Baratta

Si svegliano una mattina. E le loro mamme non ci sono più. Partite. La maggior parte verso l’Italia. A fare le badanti, a prendersi cura dei nostri vecchi e dei nostri figli. Mentre i loro vecchi e i loro figli restano da soli, in Romania, Moldavia, Ucraina, Polonia o Russia. Da un lato l’Italia che invecchia ogni giorno di più, dove le famiglie – tantomeno lo Stato – non si occupano più della famiglia. Dall’altra i Paesi dell’estremo Est dell’Europa, dove invece le famiglie si sgretolano per risolvere i problemi delle nostre.
I figli a distanza crescono con i padri, le nonne, le zie, i vicini di casa o addirittura da soli in istituti per minori. “Orfani bianchi”, li chiamano: secondo l’Unicef sono almeno 350mila in Romania, 100mila in Moldavia. E spesso la separazione dalla madre è troppo dolorosa, l’attesa troppo lunga da sopportare. Nei casi meno drammatici, questi bambini finiscono per essere depressi, sviluppano dipendenza dalle droghe o dall’alcol, o prendono la strada dell’illegalità. Nei casi più drammatici si tolgono la vita, anche a dieci, undici, dodici anni. «Un gesto estremo», spiega Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione donne romene in Italia, «credendo che sia l’unico modo per far tornare le mamme a casa». Quanti siano i suicidi tra gli orfani bianchi non si sa con precisione. Non esiste alcuna statistica, né il governo romeno si occupa del fenomeno (basti pensare che in Romania un ministero per i Romeni nel mondo esiste pure, ma non ha neanche un’anagrafe degli emigrati e ora ha chiesto alla Chiesa ortodossa di aiutarlo nel censimento). «Io ho contato almeno 40 suicidi di bambini negli ultimi anni», racconta Silvia, «poi mi sono fermata, non ce la facevo ad andare avanti».
Le badanti in Italia sono più di un milione e seicentomila (dati Censis): più di quattro quinti sono donne, e oltre il 77% è straniero, in maggioranza romene, seguite da ucraine, filippine, moldave, marocchine, peruviane, polacche e russe. Donne che lasciano tutto, figli compresi, per garantire alle famiglie a distanza una vita migliore. I mariti perdono il lavoro, e loro partono. È il mercato dell’assistenza familiare che le cerca. Le vediamo guidare sotto braccio i nostri vecchi, accompagnarli negli ultimi anni della loro vita, occuparsi di quello di cui non vogliamo (o possiamo) più occuparci. Ma di quello che si sono lasciate alle spalle, delle famiglie che hanno salutato a migliaia di chilometri di distanza per prendersi cura delle nostre sappiamo poco o nulla.
«Diaspora romena», la chiama Silvia Dumitrache, che a Bucarest faceva la redattrice in una rivista culturale. «È un fenomeno che ha a che fare con l’emigrazione economica, ma anche con l’emancipazione della donna romena», spiega. «In Romania, soprattutto nel Nord del Paese, molti uomini hanno problemi di alcolismo e finiscono per diventare violenti. Così le donne fuggono in Italia a lavorare, magari svengono per stanchezza, ma non sotto le botte dei mariti. Chi paga le spese di queste situazioni sono i bambini che restano con le nonne o con le zie, ma senza le mamme». Secondo Unicef, il numero dei minori lasciati a casa (left behind) in Romania sarebbe pari al 7% della popolazione romena tra gli 0 e i 18 anni. Più della metà (52%) vive nelle zone rurali, dove è più frequente che siano le madri a partire, contrariamente alle grandi città dove più spesso è il padre ad allontanarsi; e più della metà ha meno di dieci anni.
La separazione dalla madre è troppo dolorosa, così i bambini decidono di togliersi la vita
Il fenomeno non è nuovo in Romania, dove durante la dittatura comunista esistevano i cosiddetti «bambini con la chiave al collo», chiamati così perché passavano il loro tempo davanti alle porte delle loro case con la chiave appesa al collo, in attesa che i genitori rientrassero dopo una giornata di lavoro. Quella generazione, spiegano gli esperti, è la stessa che oggi emigra lasciando i figli a casa pensando che «così come è stato per loro in passato, il compito del genitore sia quello di sostenere i figli da un punto di vista materiale proprio perché sono stati abituati a una distanza emotiva e a volte anche fisica dei genitori». Ma Silvia Dumitrache ha anche un’altra spiegazione: «Ceausescu emanò un decreto in cui impedì l’aborto», racconta, «nacquero i cosiddetti decrezei, bimbi non voluti cresciuti con poco affetto, non abituati a una genitorialità presente. Per questo rimangono molti bambini da soli in Romania e in altri Paesi no, per questo molti bambini si tolgono la vita in Romania e in altri Paesi no. C’è questa sofferenza accumulata. È come una malattia. Resta da chiedersi che genitori saranno a loro volta questi “orfani bianchi”».
Solo in Italia i romeni sono più di un milione (di cui oltre la metà donne), circa quattro milioni in tutta Europa. Silvia è una di loro, stabilitasi nel nostro Paese, a Milano, undici anni fa per curare suo figlio. Finché una sera del 2010 in tv vede una documentario, Home Alone. A Romanian Tragedy, che racconta la storia di tre bambini suicidi in Romania dopo la partenza delle madri per l’Italia. Tre bambini che un giorno, dopo la scuola, si sono impiccati.
«Davanti a quelle immagini ho capito che dovevo fare qualcosa», racconta Silvia, «così prima ho creato un gruppo su Facebook per cercare di attirare l’attenzione dello Stato su questi eventi disastrosi, poi grazie alle conoscenze che avevo in Romania è partito il progetto “Mamma ti vuole bene”, in romeno “Te iubeste, mama!”». Tramite la rete delle biblioteche nazionali romene, molti paesi e città romene si sono popolate di postazioni Internet da dove i bambini rimasti soli possono collegarsi gratuitamente via Skype per parlare, e guardarsi, con le mamme a distanza. Silvia è appena tornata dalla Romania, dove ha fatto il giro di alcune delle biblioteche che hanno aderito al progetto. Un gruppo di bambini le ha dato dei disegni da consegnare alle madri in Italia. Uno di loro non sa neanche dove sia la mamma. Quando ne parla Silvia non riesce a non commuoversi. In uno dei disegni c’è scritto: «Mamma ti voglio bene. Ero sconvolto quando mi hai lasciato da solo». E ancora: «Cara mamma, mi manchi molto da quando te ne sei andata»; «è difficile senza di te, ti prego di tornare».

Disegno

(Uno dei disegni fatti dai bambini romeni e consegnati a Silvia. È scritto: “Cara mamma, è difficile senza di te. Ti prego di tornare”)

«Non basta il telefono per restare in contatto con le mamme», spiega Silvia, «serve il contatto audiovisivo, per vedere come crescono i propri figli, soprattutto quando le donne non riescono a tornare a casa almeno una volta all’anno. Ma spesso in Romania anche se una scuola possiede un computer connesso alla Rete, i bambini non possono usarlo perché manca il personale di sorveglianza. Nelle zone rurali un computer non è un giocattolo che costa poco. Il mio sogno è dare un portatile a ognuno di questi bambini di modo che possano parlare con le loro mamme». Certo, «non è come essere a casa con il proprio figlio e dargli il bacio della buona notte. Però ci si può confidare, fare i compiti insieme, ci si può guardare negli occhi. E non lo dimentichi, vai a dormire con quell’immagine». Cosa che fa bene ai figli, ma anche alle mamme. «Perché se stanno bene le mamme, stanno bene anche i figli».
Molto dipende da come le mamme vanno via. «Se spieghi a tuo figlio dove vai e per quanto tempo, è come andare dal dentista: il medico ti dice che il dente ti farà male per un certo periodo di tempo, ma c’è una fine. Diverso è quando si parte mentre il bambino dorme perché la mamma di solito per non far male al proprio figlio non glielo dice. Magari glielo dice il giorno dopo la nonna: “La mamma è dovuta partire e fra poco torna”». In Romania, se va bene, restano i padri, i vicini di casa, le altre donne della famiglia, che si occupano della cura dei figli. Se va male, i bambini finiscono negli istituti per minori. «I genitori», spiega Silvia, «nella maggior parte dei casi vanno via senza avvisare le autorità, non lasciando la tutela legale dei bambini a nessuno. Le procedure sono lunghe e chi prende in affido un minore deve avere determinate caratteristiche, sottoporsi a un test psicologico, per questo si evita di farlo. Tante, poi, non dicono che sono venute in Italia a fare le badanti perché si vergognano. Magari in Romania sono ingegneri, insegnanti, hanno una preparazione universitaria. Così partono e basta. Ma se un bambino viene aggredito o se fa uso di alcol e droga, allora interviene l’autorità pubblica e finisce in un istituto. Di recente è stata approvata una legge che multa i genitori che vanno via senza avvisare le autorità, ma l’effetto è che la gente si nasconde di più. Partono senza dire niente neanche ai vicini di casa».
Si prende il pullman alle 5 del mattino, dopo due giorni si arriva in Italia, dove magari qualche altra connazionale ha già trovato una famiglia per te. Il percorso è tanto semplice quanto difficile. Portare con sé i bambini spesso è impossibile. Fare la badante significa vivere nella stessa casa dell’anziano assistito, lavorare senza sosta, trascorrere notti in bianco. È un lavoro logorante. «Vivono in clausura, senza uscire e senza parlare con nessuno», dice Silvia. «In tante sviluppano forme di asma, stanno male, hanno sguardi vuoti e assenti. Non è normale che si faccia una vita del genere. E i bambini percepiscono il malessere delle mamme. Alcuni si suicidano proprio perché pensano che così le mamme tornano a casa e smettono di soffrire». Secondo un’indagine di Acli Colf, il 39,4% delle badanti dice di soffrire di insonnia, e il 33,9% di ansia o depressione. Una su tre, nell’ultimo anno, non è mai andata da un medico a controllare il proprio stato di salute, e tra le under 35 il dato sale al 44,2 per cento.
Il suicidio viene visto dai bambini come l’unico modo per far tornare le mamme a casa
Nel 2005 due psichiatri ucraini, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, hanno coniato un nome, “sindrome italiana”, per identificare la depressione diffusa tra tante donne badanti tornate in patria dall’Italia. Madri poco più che ventenni, piombate senza filtri in case sconosciute a curare anziani malati, spesso in condizioni di isolamento, che al ritorno nel proprio Paese poi fanno fatica a reinserirsi in famiglia, a parlare con i figli per i quali magari si sono trasformate in asettici bancomat dispensatori di soldi e regali. «I figli per colmare la mancanza di affetto chiedono sempre di più, ma anche per i parenti che si prendono cura dei figli». In Romania, racconta Silvia, «ho incontrato una donna che al ritorno dall’Italia non capiva dove si trovava, non riusciva a comunicare con i propri figli. Queste donne si sentono invecchiare insieme agli anziani che curano. Non hanno più 20 anni, ma 70».
La “sindrome italiana” è l’altra faccia della medaglia degli orfani bianchi, l’altra faccia dell’assenza di servizi pubblici che porta le donne italiane (su cui ricade ancora il 70% del tempo della cura della famiglia) che vogliono entrare nel mondo del lavoro a rivolgersi ad altre donne, più povere. Secondo il Censis, la crescita della domanda di servizi di assistenza porterà il numero degli attuali collaboratori domestici a più di 2 milioni entro il 2030. Un boom, scrive Mara Tognetti Bordogna in Donne e percorsi migratori, che ha consentito «alle donne italiane di lavorare fuori casa “conciliando” gli impegni familiari, senza nulla cambiare nella relazione di genere».
Le donne continueranno a partire, «e vengono giudicate male dalla comunità in cui vivono e dalle autorità», dice Silvia Dumitrache. Per i bambini che restano, «la parte dolorosa non è tanto il distacco, quanto l’attesa che non finisce mai. E poi c’è la mancanza di comunicazione, il non poter immaginare cosa fa la mamma nell’altro Paese. Ti senti abbandonato. Per questo i bambini si tolgono la vita. Pochi si accorgono del loro disagio, perché in Romania, soprattutto nelle zone rurali, la figura dell’assistente sociale è assente». La situazione è ancora più grave in Moldavia: qui il numero dei suicidi tra i preadolescenti è altissimo, e il governo ha avviato una campagna di informazione e sostegno per le emigrate e le loro famiglie. Cosa che in Romania ancora non esiste. «Manca la prevenzione, ma anche il supporto delle famiglie a distanza», spiega Silvia. «Sia lo Stato di partenza sia lo Stato di arrivo sono colpevoli di questo disagio. È un fenomeno sottovalutato a livello europeo».
Il 33,9% delle badanti soffre di ansia o depressione. Il 39,4% è insonne. Gli psichiatri la chiamano “sindrome italiana”
E non è un caso che il progetto “La mamma ti vuole bene”, messo in piedi da Silvia con i pochi mezzi a disposizione, non riesca a rompere il muro di gomma dei palazzi romani e a trovare fonti di finanziamento per essere diffuso tra le badanti italiane. «L’Italia è l’unico Paese al mondo con oltre 1,5 milioni di badanti», dice, «ma non ha una politica adeguata. Dal 2008 non è cresciuta la spesa dello Stato nella cura degli anziani, è cresciuta solo la spesa delle famiglie». Molte delle badanti «quando arrivano non conoscono l’italiano e vivono situazioni di disagio, con l’aggiunta della sofferenza dovuta al distacco dalle proprie famiglie e dai propri figli», spiega Silvia. Nel 2011 la giunta comunale di Milano aveva approvato un progetto pilota per uno sportello di accoglienza, ma senza finanziamenti. Ora sta per nascere uno “sportello donna” nella Cascina Cuccagna della città per due ore alla settimana, ma anche qui non ci sono finanziamenti. «Serve un progetto governativo di accoglienza e informazione per affrontare in modo serio questo problema, il volontariato da solo non basta». Un esempio: «Vogliamo far emergere il lavoro nero? Insegniamo a queste donne a usare un conto bancario senza maneggiare solo contanti». Il sito che Silvia aveva creato per fare informazione tra le immigrate straniere, famigliaonline.it, è fermo ad aprile 2013. Motivo: mancano i soldi per pagare qualcuno che curi la parte informatica. «Vorrei che diventasse una piattaforma di comunicazione tra la diaspora romena e la Romania», ripete più volte.
Ma la vita delle donne straniere che curano i nostri anziani, per il momento, resta confinata nelle case di chi le ospita. Le vedi nei parchi delle nostre città di domenica pomeriggio, quando hanno qualche ora di riposo. O in attesa nelle stazioni dei pullman cariche di scatole e valigie. Le poche che riescono a tornare per pochi giorni nei loro Paesi hanno le borse piene di giochi, qualcuna carica sul pullman anche qualche bicicletta. Ma di loro, dei loro figli e delle loro famiglie, soprattutto da quando Paesi come la Romania sono entrati in Europa, non si occupa nessuno. Né lo Stato di partenza, per il quale sono il miglior contribuente: «I soldi che queste donne spediscono ogni mese alle loro famiglie vengono usati senza che però loro facciano spendere niente allo Stato, e non pesano neanche sul tasso di disoccuapazione». Né lo Stato di arrivo, come l’Italia appunto, che pure alle badanti riserva sempre delle quote maggioritarie nei decreti flusso, e che alle badanti ha ormai demandato il lavoro di cura dei suoi anziani.
http://www.linkiesta.it/it/article/2014/09/11/orfani-bianchi-il-costo-drammatico-delle-badanti/22810/

mercoledì 6 aprile 2016

La Gabbia, il Paragone non regge se a parlare di diritti delle donne sono gli uomini di Nadia Somma

Ieri sera a La Gabbia il tema dei diritti delle donne è stato ancora sventolato, per l’ennesima volta, come il vessillo delle democrazie occidentali che rispettano  le donne, a fronte di un Islam che le opprime. Non che le società islamiche non siano oppressive nei confronti delle donne. Lo sono,  eccome, ma si tratta di una questione che attraversa in maniera più o meno profonda, radicata o radicale, paesi e culture, senza confini geografici o culturali. Quanto alle antiche religioni patriarcali, quelle rivelate (il cristianesimo, l’islam e l’ebraismo) è cosa nota che non sono mai state amanti della libertà delle donne, e hanno sempre coltivato una ostile e ostinata misoginia e dettato gli angusti confini nei quali l’altra metà della popolazione doveva (o deve) declinare la propria vita.
Purtroppo Paragone e la redazione de La Gabbia  non si sono accorti  che avevano invitato solo uomini e Karima Molual, l’unica donna,  era  in collegamento, visibile da un schermo con un bizzarro effetto gineceo che ricordava quegli spazi riservati alle donne nelle chiese antiche, perché a celebrare messa c’erano in studio Peter Gomez, Alessandro Sallusti, Alessandro Meluzzi, Saif Eddine Abuabid, Giulietto Chiesa che hanno liquidato con poche battute, un tema che conoscono ben  poco e che a dispetto dell’introduzione (la testimonianza di Amani data in moglie ad un cugino in Siria e vittima di vessazioni e violenze) non era affatto centrale nella trasmissione. Per fortuna.
Solo Lorenzo Marsili, tra gli ospiti che via via hanno partecipato, ha fatto notare che in qualunque emittente europea, non sarebbe stato possibile costruire una trasmissione facendo partecipare solo uomini. In Italia no. Si può parlare anche di diritti delle donne senza dare voce alle donne e poi pretendere di dare lezioni  all’Islam (Quando si dice avere la faccia come…).
I cerchi degli uomini  sono una costante nella  televisione italiana che riproduce stereotipi di genere a raffica (e rappresenta spesso le donne come oggetti sessuali come denunciò Lorella Zanardo)  e crea un forte separatismo tra temi considerati maschili, attinenti al logos,  e femminili, attinenti all’eros.  Per citare un paio di esempi scovati nel recente passato televisivo:  la puntata di Servizio Pubblico del 16 ottobre 2014.  In studio c’erano Paolo Villaggio, Michele Santoro e cinque  “angeli del fango” che avevano ripulito le strade dopo l’alluvione a Genova e  anche se tra chi spalava fango c’erano state molte ragazze, nessuna di loro era stata invitata, nemmeno come residua quota rosa.  Al di fuori di quell’androceo, messa persino fisicamente in disparte, Elisabetta Gualmini, docente di scienza politica all’università di Bologna, relegata al ruolo di  testimone quasi silenziosa e discreta di quel dialogo esclusivamente maschile,  anche se solitamente  tra chi  spala e chi  muore per i disastri ambientali e la cattiva politica ci sono anche le donne.
E ancora  Quello che non ho condotta da Fabio Fazio e Roberto Saviano  il 14 maggio 2012 con una coralità di voci in stragran maggioranza maschili. I cerchi degli uomini, con le  donne a parte e da parte,  saranno ancora un elemento costante nella nostra televisione  ma si eviterebbe il ridicolo  se, una volta tanto, per dare lezioni di rispetto dei diritti delle donne, si invitassero negli studi televisivi anche  le dirette interessate, scegliendo tra  intellettuali femministe che sono abbastanza ferrate  sulla negazione dei diritti di casa nostra. Gli spunti  non mancano: per esempio quello della alta disoccupazione e della povertà delle donne, oppure  il problema della mancata applicazione  della 194  per la quale l’Italia è stata già condannata (e a breve si saprà che lo è stata di nuovo) dal Consiglio d’Europa. Oppure un problema attualissimo: quello dell’ostruzionismo delle farmacie che già rifiutano di dare senza ricetta la pillola dei 5 giorni dopo, o ancora  il tema delle molestie sul lavoro. Potrebbero parlare, per esempio, del libro Toglimi le mani di dosso di Olga Ricci che ha denunciato la sindrome del sultano del direttore di un quotidiano che ama circondarsi di giovani giornaliste per  ricattarle sessualmente, e ha tratteggiato egregiamente, lo spaccato  della società italiana, ricordando che le molestie sul lavoro sono un fenomeno ancora in gran parte sommerso, trasversale agli ambienti di lavoro  e reso ancora più feroce e cattivo dal precariato. Sarebbe davvero un  bello spunto parlare seriamente e non strumentalmente dei diritti delle donne perché si misurerebbe il livello di democrazia del nostro Paese.

Ma in che misura, il giornalismo italiano, è interessato a verificare in  quale democrazia vivono oggi uomini e donne?
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/31/la-gabbia-e-il-paragone-che-non-regge-tra-islam-e-occidente-sui-diritti-delle-donne/2595367/

martedì 5 aprile 2016

Occhio non vede… di Simona Sforza

Ho come l’impressione che in questo strano Paese si preferisca non vedere, non capire, non sapere. Per non farsi troppo male oppure per non guastare il clima di sospensione e di ottimismo artefatto in cui siamo immersi. La mitologia ci piace più della realtà.
Non ci piace avere qualcuno che ci dica che le cose non vanno proprio nel verso favoleggiante che da tempo ci viene somministrato.
Me ne accorgo quando pubblico articoli come questo in cui parlo del Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) a cura dell’Istat, a quanti interessa questo tipo di approfondimento? Quanti si pongono domande e desiderano capire come vanno le cose? Quanto le nostre politiche riescono ad adoperare adeguatamente le analisi che periodicamente vengono pubblicate?
La mia impressione quando parlo di adoperare un’ottica di genere nell’azione politica, di programmazione, di progettazione, di visione sul futuro, di pianificazione degli interventi locali o nazionali, è di profondo smarrimento. “Ah, ma tu sei sempre quella in trincea per i diritti delle donne, ma non puoi occuparti d’altro?”
Forse darò un dispiacere a qualcuno, ma continuerò ad occuparmene, perché penso che lavorando in questo senso ne possa beneficiare l’intero sistema socio-economico.
Diamo fastidio se ci preoccupiamo di occupazione, flessibilità, condivisione, work-life balance cercando di applicare le differenze di genere e di evidenziare le problematiche peculiari di certi temi?
Cosa c’è di normale per esempio nel fatto che nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, secondo i dati Istat, nel 2015, il tasso di occupazione è del 73,9% per le single, mentre per le donne in coppi con figli scivola al 44%, e crolla al 20,1% quando il numero dei figli è pari o superiore a tre?
Dal 16 aprile Linda Laura Sabbadini non sarà più la direttrice del Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali di Istat, che cessa di esistere per grandi lavori di ristrutturazione dell’Istituto.
Davvero pensiamo che cancellando un dipartimento, che interrompendo il prezioso lavoro nel campo delle statistiche sociali e di genere svolto da Sabbadini, si riuscirà a silenziare le voci di coloro che quotidianamente sottolineano che questo non è ancora un Paese per donne, per lavoratrici, paritario? Le discriminazioni ci sono ancora, gli sforzi fatti sinora evidentemente non hanno risolto un granché, perché la realtà è più complessa e delicata delle rappresentazioni iconografiche da twitter. La realtà è quella che emerge dalle statistiche e dai lavori che il dipartimento di Sabbadini ha sinora elaborato. E non ci stiamo alla vulgata secondo cui le donne italiane se la passerebbero meglio rispetto al passato.
Non è evitando di leggere che le discriminazioni, i problemi del lavoro delle donne sono tuttora vivi e laceranti che potremo superarli. La fotografia periodicamente scattata dall’Istat non deve venire a mancare, le buone pratiche non devono andare perdute. Le indagini su salute, sicurezza, benessere, violenza, lavoro, abusi ambientali e povertà non devono smarrire la loro forza, la loro capacità di mettere in luce le distorsioni della realtà. C’è da lavorare per sanare la ferita dell’occupazione femminile, gravata dai compiti di cura che ancora pesano maggiormente sulle donne, dalla mancanza di sostegni reali per un benessere diffuso, a misura anche di donna. Non abbiamo bisogno di una mano di tinteggiatura rosa, ma di vedere i fenomeni delle differenze di genere, delle discriminazioni, delle spaccature della società per come sono realmente.
Non possiamo di punto in bianco arrivare a sotterrare tutto perché non ci piace ciò che si rileva. Non sbuffate ogni volta che vedete un grafico che evidenzia come per noi donne è ancora una vita tutta in salita, in trincea. Non sbuffate dicendo che ormai donne e uomini hanno gli stessi problemi in campo lavorativo. Non sbuffate e reagite quando si vuole mandare in fumo anni di ricerche e di un approccio finalmente corretto e innovativo, di genere agli studi statistici. Dobbiamo preoccuparci se qualcuno vuole sottrarci gli strumenti per capire come stanno andando veramente le cose per noi donne e per l’intera società, per quelle fasce invisibili e poco considerate della popolazione.
Abbiamo cancellato la figura della Ministra delle Pari Opportunità o di una qualche delegata, le politiche di genere sono alla mercé della buona volontà dei/delle singoli/e, si azzerano i fondi alle Consigliere di parità, i diritti delle donne sono sempre più incerti e sotto attacco, arriva la notizia della Sabbadini, mi sembra un quadro tutt’altro che rassicurante. Ci vogliono cancellare? Vogliono passare la gommapane sulle voci delle donne? Lasceremo che questo accada? Mi auguro proprio di no, e auspico che ci sia un moto di azione collettivo, siamo stanche di aspettare e di vederci messe nell’angolo, all’ultima pagina dell’agenda politica. In un Paese civile e che vuole progredire non si sottrae informazione indipendente e critica, ma la si incrementa.
Quanto la situazione deve ancora peggiorare per mobilitarci seriamente tutte insieme?
https://simonasforza.wordpress.com/2016/04/02/occhio-non-vede/

domenica 3 aprile 2016

8 aprile 2016 ore 20.30 Le femministe... queste sconosciute e le tante facce del femminismo

All'interno del gruppo è da tempo emerso il bisogno di dedicare una serata di riflessione sul tema dei femminismi, a partire da noi. Abbiamo pensato di aprirci  all'esterno per allargare il confronto a vissuti, posizioni e conoscenze diverse su questo importante periodo storico non sempre ben raccontato e conosciuto.
 E' gradito un tuo contributo di riflessione e/o di vissuto.
Ti aspettiamo e se lo ritieni opportuno diffondi l'iniziativa

venerdì 1 aprile 2016

Smontare gli «eroi» Le madri anti Isis di Alessandra Muglia

Era venuta a Bruxelles per spiegare come prevenire il terrore e ci si è trovata in mezzo. Edit Schlaffer martedì scorso avrebbe dovuto inaugurare una delle sue Mothers School, luoghi dove le madri vengono aiutate a stroncare sul nascere la radicalizzazione dei figli. Scuole già diffuse dal Pakistan all’Indonesia e di recente approdate nell’Europa dei foreign fighters. Il suo ultimo fronte è proprio Bruxelles: dopo aver iniziato a lavorare in sobborghi difficili come Vilvoorde e Molenbeeck (quello dove sono cresciuti e si sono rifugiati anche Salah e compagni), doveva inaugurare un centro a Forest, altro quartiere crocevia di jihadisti europei. Quella mattina però Edit non è riuscita a raggiungerlo. Stava per uscire dal suo albergo affacciato sulla stazione del metrò di Maelbeek quando ha sentito un botto e si è rintanata nell’ingresso, terrorizzata, tra le urla della gente che correva. Lacrime, panico e la puzza di bruciato nell’aria, come ha raccontato sul New York Times. L’inaugurazione è saltata ma il progetto va avanti.
Il sistema della Mothers School permette di “affrontare il problema all’origine” dice questa sociologa austriaca che ha fondato nel 2002 Women without Borders, ong che punta a rendere le donne protagoniste del cambiamento sociale e culturale e nel 2008 di Save (Sisters Against Violent Extremism), la prima piattaforma femminile di controterrorismo, con una parola d’ordine: coinvolgere la società civile nella rete di sicurezza.
«La lotta al terrore inizia nelle famiglie, nelle case: le madri sono in prima linea» osserva parlando con la Cnn tra le macerie di Maelbeek. Ai suoi incontri le madri vengono addestrate a riconoscere e a gestire i primi segnali di una metamorfosi dei figli che li potrebbe trasformare in estremisti islamici, e a rispondere in modo efficace. Perché non basta dire ai ragazzi di non fare questo o quello. «Bisogna saperli ascoltare, entrare in relazione e intercettare il loro sentimento di esclusione sociale, quello su cui fanno leva i reclutatori». «E poi – dice – le madri devono essere chiare: un certo mito della mascolinità va smontato. Questo mito alimenta i ragazzi che scappano in Siria per arruolarsi, eroi, Uomini con la maiuscola. E le ragazze che li seguono sono alla ricerca dei loro cavalieri dall’armatura splendente».
Questo tipo di iniziative di prevenzione, a medio-lungo termine, in genere dispongono di risicati finanziamenti. Se in Austria le Mothers Schools godono di un contributo pubblico, il massimo che Edit Schlaffer è riuscita ad ottenere da Bruxelles è uno spazio per gli incontri. Molti hanno puntato il dito contro le falle del sistema di sicurezza e di intelligence del Belgio, pochi hanno notato che il Paese è indietro anche sul fronte della prevenzione. «Il problema è la complessità istituzionale del Paese – spiega al Foreign Policy, Rik Coolsaet, esperto di controterrorismo alla Ghent University –. Il controterrorismo è portato avanti a livello a livello nazionale, mentre tutto quello che ha a che fare con posti di lavoro, case, istruzione, è gestito soltanto da autorità regionali. Non si fa prevenzione perché è di competenza dei governi regionali che si sono svegliati solo dopo gli attentati di gennaio 2015». Dopo lo choc di Charlie Hebdo i programmi di prevenzione sono spuntati come funghi in Belgio ma senza essere coordinati tra loro, spesso sotto staffati e sotto finanziati.
Schlaffer va avanti forte di una lunga esperienza sul campo. E di studi: nel 2013 il suo staff ha condotto un’ampia ricerca sul ruolo di madri e comunità su un campione di oltre mille donne in Paesi ad alto tasso di terrorismo (dalla Nigeria al Pakistan). Le madri possono diventare «un esercito senza altre armi che le parole». E con loro, dice Schlaffer, anche i padri, i fratelli, la comunità: «Dobbiamo coinvolgerli e incoraggiarli a formare un rete che salvaguardi gli adolescenti dai reclutatori e dalla loro ideologia di morte».
Quanta intelligence e sorveglianza servirà del resto se non si riesce ad arginare il fenomeno all’origine?
http://27esimaora.corriere.it/articolo/smontare-gli-eroile-madri-anti-isis/