giovedì 29 marzo 2018

Cinque anni di lotte e diritti: buon compleanno Ventunesimo donna di Francesca Grillo

Cinque anni di lotte e diritti: buon compleanno Ventunesimo donna
Ventunesimo donna

C’erano tante donne (ma anche tanti uomini), ognuna con la propria storia, a festeggiare il quinto compleanno dell’associazione.
Donne che nel mondo intrecciano lotte, scioperi, diritti. Donne che affrontano le battaglie più dure, quelle che spesso sembrano perse in partenza. Donne in prima linea a manifestare, che tendono la mano ad altre donne. Che fanno rete, che si siedono vicino a chi è in difficoltà e dicono “tranquilla, per quanto può essere dura farcela, noi siamo qui”. La storia di Ventunesimo donna intreccia tante storie, quelle delle attiviste e quelle di chi si trova a passare momenti di paura, spaventata da problemi che sembrano non avere mai una soluzione.

Nata nel 2010
Una storia che inizia nel 2010 con un obiettivo politico: sostenere le candidature di donne alle elezioni. Finito l’impegno politico, le componenti del gruppo hanno deciso di non mettere fine all’ambizione ma, anzi, iniziare un percorso di “sensibilizzazione e di denuncia sul problema della dignità delle donne e sul tema della violenza”, spiegano dal gruppo. Da quel momento, dal 2013, le parole che descrivono l’associazione diventano inclusione, valore, relazione, partecipazione, cooperazione. Diritti.

Soprattutto diritti
Quelli per i quali le socie si battono, quelli che ancora non vengono riconosciuti, tutelati, ma, anzi, troppo spesso affossati. Battaglie contro gli stereotipi sessisti che “ingabbiano le donne in modelli fissi e ne negano il ruolo reale”. Temi sempre tristemente attuali, difficili da combattere, ma che non spaventano le “ventunesime” che continuano con la stessa determinazione e passione a valorizzare il ruolo femminile e a organizzare incontri per parlare, per raccontare il passato di lotte e disegnare, insieme, un futuro al femminile, dove ogni diritto conta.

La festa al Bem Viver



C’erano tante donne (ma anche tanti uomini), ognuna con la propria storia, a festeggiare il quinto compleanno dell’associazione. Una festa (preparata al Bem Viver Cafè) non solo per celebrare, tutte insieme, il grande lavoro svolto in questo primo lustro, ma anche per raccontare, soprattutto alle giovani, cosa significa essere donne. Le ventunesime non si fermano qui.

Dopo il grande successo di One billion rising, il flashmob di San Valentino per dire no alla violenza sulle donne, che ha radunato centinaia di partecipanti (anche uomini), sono tante le iniziative e gli incontri del gruppo che continua instancabile a stare dalla parte delle vittime, a stare vicino a chi viene negato un diritto, di stare di fianco a chi soffre. Di stare dalla parte giusta.

Francesca Grillo
http://giornaledeinavigli.it/attualita/cinque-anni-lotte-diritti-buon-compleanno-ventunesimo-donna/

martedì 20 marzo 2018

Contro il boldrinismo arriva l’angelo del focolare - di Manuela Manera 16/03/2018

 È di ieri un articolo uscito sul quotidiano «La Stampa» dal titolo Le donne della Lega tutte patria e sicurezza: “Basta boldrinismo”.
La giornalista Flavia Perina ci racconta “l’immaginario femminile leghista” perché meglio saperle certe cose, visto che, ci avverte Perina, “nel prossimo Parlamento avrà una sua incidenza: 41 donne elette nei collegi uninominali e almeno 27 (i conteggi non sono ancora completi) nel proporzionale, contro le appena cinque della legislatura precedente”.

Come faranno politica queste donne? Quali battaglie porteranno avanti? Entro quale cornice discorsiva? Riassume così la giornalista: “Le donne per la Lega non sono un genere o un sesso titolare di particolari questioni e di specifici diritti ma heimat, patria, focolare, radice della comunità”. Ci sono due snodi importanti in questa descrizione.

Primo: le donne non sono un genere o un sesso titolare di particolari questioni e di specifici diritti.Questo indica la totale negazione delle differenze di genere e, dal momento che tutti quanti hanno le medesime esigenze, necessità, esperienze, indica anche la negazione di un agire politico e giuridico che tenga in considerazione le specificità.

Secondo: le donne sono heimat, patria, focolare, radice della comunità. Le donne, cioè, non devono agire ma essere, ed essere non in uno spazio pubblico, ma nello spazio privato; non sono persone attive ma – con un linguaggio e una visione che non si discosta dalle politiche fasciste – heimat, patria, focolare, garanti della comunità che si regge sulla loro stessa presenza.

Entrambi questi punti, presentati come capisaldi di una certa visione politica, sono però contraddetti dall’esperienza stessa delle candidate.

Si legge infatti in chiusura d’articolo: “«Ma davvero senza quote tu avresti avuto un capolistato, un collegio, un’opportunità?» - la risposta collettiva è un onesto «no» e qualcuna ride dicendo: «Ma figuriamoci, in lista ci sarebbero solo uomini, come dappertutto, peraltro»”. Dunque, se senza il meccanismo delle “quote rosa” non sarebbero state elette, queste stesse donne che negano di essere “un genere o un sesso titolare di particolari questioni e di specifici diritti” risultano – loro malgrado – essere, eccome, titolari di una particolare questione e di specifici diritti.

Inoltre, entrando nell’agone politico (nello spazio pubblico), di fatto si allontanano da quel focolare (sfera privata) verso cui vorrebbero riportare le altre donne. Loro, lungi dall’essere heimat, hanno sviluppato esperienze politiche nel territorio (“abbiamo alle spalle anni di gavetta”) e hanno agito con determinazione e in modo molto combattivo (“rispetto alle donne degli altri partiti hanno superato una selezione particolarmente dura, di cui sono consapevoli e anche orgogliose”).

Se da un lato emerge – giustamente – la fierezza per aver superato le difficoltà ed essere riuscite a raggiungere obiettivi difficili (“La Lega non è mai stata un partito amico delle donne.Nessuna quota, scarsissima attenzione”), perché, una volta conquistata una posizione di visibilità e autorità, invece di disinnescare i meccanismi discriminatori che tanto hanno ostacolato la realizzazione di sé, vestono invece, e vantandosene, gli abiti e le modalità del sistema oppressore che loro stesse hanno dovuto fronteggiare?

Sono donne che – forse senza rendersene conto – vivono e agiscono in modo profondamente contraddittorio. Da un lato, negano la differenza tra uomini e donne in ambito politico (salvo però usufruire di una politica che, proprio perché tiene conto di quella differenza, ha permesso loro di essere elette); dall’altro, riconoscono una diversità tra i sessi in ambito privato: “noi sappiamo che i ruoli sono distinti, che ci sono cose che le donne fanno meglio e cose più adatte agli uomini”.

“Non esisterà una Lega rosa”, dicono, “Né si lavorerà alle questioni femminili in quanto tali”, perché se “la donna è heimat, patria, focolare, i suoi problemi sono quelli di tutti […]. Le neo-deputate leghiste sembrano ansiose di allinearsi ai colleghi maschi nel raccontare l’Italia che vorrebbero”. L’ultima frase è rivelatrice: sono le neo-deputate che vogliono allinearsi ai colleghi, non il contrario. E, d’altra parte, le “donne della Lega” cosa potrebbero mai chiedere di diverso se (in contraddizione a quanto narrato rispetto alla propria esperienza personale) “tutte negano che l’Italia sia un Paese particolarmente sessista. Tutte spiegano che il talento femminile quando esiste non ha bisogno di aiutini. Tutte giurano che nella Lega non hanno mai avuto problemi di discriminazione”?

Come sottolinea Perina, “il racconto leghista si è qualificato come alternativa assoluta al cosiddetto boldrinismo e lì intende attestarsi”. Il “boldrinismo”: un neologismo costruito sul cognome dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, vittima di campagne d’odio  per la sua lotta verso le discriminazioni. Il termine sta genericamente a indicare, in modo sprezzante, tutte quelle politiche e pratiche che si occupano di pari opportunità e accoglienza. Per rendersi conto della diffusione e dell’uso di questo neologismo, basta fare un salto su twitter, dove si leggeranno messaggi intrisi d’odio lanciati contro tutto ciò che viene percepito come una minaccia nei confronti di una sedicente “identità italiana”. Annoverati tra gli effetti del “boldrinismo”, sono persino i refusi e, all’opposto, il rispetto della grammatica italiana laddove si applicano i femminili per cariche, professioni, ruoli.
E sul linguaggio, tema molto più politico di quanto non appaia, l’intervistata Claudia Maria Terzi afferma: “La battaglia per la declinazione al femminile degli incarichi non ci interessa. […] Mi sono beccata anche i cartelloni di protesta perché mi facevo chiamare assessore. Adesso sarò deputato, punto”. Non stupisce, certo. Le scelte linguistiche, d’altra parte, restituiscono la visione politica che si ha, dicono a quale tipo di società si sta pensando, quali tipi di rapporti soggiacciono a tale società, quale sia il ruolo del femminile – e non solo nella grammatica.
Se la neoeletta vorrà essere chiamata “deputato, punto”, sarà una sua scelta personale, in contrasto persino con le posizioni dell’Accademia della Crusca. Colpisce invece che la giornalista non usi, fuor di virgolettato, un linguaggio corretto e declini al maschile quasi tutte le cariche e professioni (fanno eccezione neodeputate e candidate).

Usare le parole correttamente significa descrivere in modo veritiero la realtà che ci circonda, vuol dire comunicare in modo chiaro e trasparente per evitare fraintendimenti; significa farsi garante di onestà e lealtà, rifuggendo i sotterfugi di espressioni opache e, per questo, ingannatrici. Perché con le parole si può ingannare, confondere, mascherare, ferire. Perché ci sono parole (come nel caso di boldrinismo) che fungono da contenitore in cui riversare odio e distruzione. E allora poi i discorsi iniziano a tessere narrazioni fosche, che sussurrano di angeli del focolare, invasioni, sicurezza, protezione. Nelle giravolte della neolingua fatta di boldrinismo, buonismo, perbenismo, avviene uno scollamento tra parola e vissuto, non ci si rende più conto di quel che significano le parole, si perde la comprensione di quel che accade.

Perché, al di là dell’ “immaginario femminile” su cui si può o meno essere d’accordo, resta un terribile dubbio di fondo: chi dice di combattere il “«finto perbenismo che era tipico della Boldrini, quella falsa vicinanza alle categorie deboli»” è consapevole che ciò contro cui si sta schierando altro non sono che quelle stesse politiche e pratiche antidiscriminatorie che hanno garantito a chi parla di essere eletta in Parlamento?

Manuela Manera, Linguista
L’autrice dell’articolo fa parte del Comitato SeNonOraQuando? Torino
http://www.noidonne.org/articoli/contro-il-boldrinismo-arriva-laangelo-del-focolare-14712.php

lunedì 19 marzo 2018

La mostra "Come eri vestita?" Fuori dagli stereotipi, lo stupro non dipende dall'abito

Una mostra a Milano con i vestiti delle sopravvissute risponde all'odiosa domanda 'Cosa indossava'

La violenza sessuale non può essere evitata cambiando abito: lo rende evidente, più di mille parole, la mostra allestita alla Casa dei diritti di Milano 'Com'eri vestita?' dove i vestiti esposti - un pigiama, una tuta, un jeans e una maglietta - rappresentano simbolicamente quelli indossati durante la violenza e sono accompagnati da brevi racconti delle donne che l'hanno subita. Lo racconta molto bene Gioia Giudici sull'Ansa: "Eravamo al mare, cercavo l'amore, il primo amore, ma tu mi hai giudicato per come ero vestita e ti sei sentito autorizzato": le parole scritte da una sopravvissuta a una violenza, sono la miglior risposta all'immancabile domanda "Cosa indossavi? Com'eri vestita?", che "colpevolizzano chi subisce violenza", come spiega Francesca Scardi, terapeuta e fondatrice della cooperativa Cerchi d'acqua, organizzatrice della mostra.

L'esposizione - aperta fino al prossimo 21 marzo - trae ispirazione dalla poesia "What I was Wearing" di Mary Simmerling, che Mary Wyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas,hanno sviluppato nel 2013 in un'istallazione artistica dal titolo "what were you wearing?", che ha girato i college americani per sfatare gli stereotipi sulla violenza sessuale. In mostra "ci sono alcune storie che arrivano dalle colleghe americane, le parole delle ragazze che subiscono violenza all'interno dei campus, cui noi - racconta Scardi - abbiamo abbinato dei vestiti in base ai loro racconti. Poi abbiamo chiesto alle donne che frequentano i nostri gruppi di auto aiuto se avevano voglia di partecipare a questa mostra, anche perché per loro poteva essere un pezzo importante di un percorso di elaborazione del trauma, e ci hanno mandato brevi frasi in risposta alla domanda 'com'eri vestita?'.

L'idea della mostra - sottolinea - è dire che non è il vestito che genera la violenza, anche perché ci sono jeans e magliette, vestiti da signora, pigiami e purtroppo anche costumini da bambina. Nelle situazioni dove la violenza era avvenuta anni prima, le donne hanno fatto una descrizione del vestito che indossavano e noi lo abbiamo ricostruito, in altre situazioni sono state loro a portare dei vestiti collegati alla loro storia". L'esigenza più forte, rispetto alla mostra americana, è stata quella di raccontare la realtà italiana: "nella maggioranza delle situazioni che vediamo - spiega la terapeuta - le violenze avvengono all'interno della coppia o della famiglia. Come cerchi d'acqua, dal 2000 al 2016 abbiamo seguito oltre 10mila situazioni di violenza, 595 solo nel 2017, con una media di 600 donne all'anno a Milano e provincia". La cooperativa, nata con l'obiettivo di dare uno spazio libero da giudizio, anonimo e gratuito per l'elaborazione del trauma, offre anche consulenze legali, ma "il pezzo più grosso è la psicoterapia, con 7 gruppi di auto aiuto per donne che subiscono maltrattamenti". E' in questo percorso che si è inserita la mostra, che a livello psicologico "riattiva la riflessione e ha un portato positivo, tanto che alcune donne ci hanno detto: 'vi consegniamo i nostri contributi, così ce ne liberiamo'". La speranza, sottintesa, è che anche un progetto come questo - già richiesto in altre città e visitato da diverse scuole - contribuisca ad avviare il cambiamento culturale di cui c'è tanto bisogno perché "le donne sono stufe di sentirsi dire 'ma com'eri vestita?'".
http://www.globalist.it/news/articolo/2018/03/16/come-eri-vestita-fuori-dagli-stereotipi-lo-stupro-non-dipende-dall-abito-2021093.html








domenica 18 marzo 2018

Il gender pay gap spiegato (dai bambini) agli adulti

La differenza di stipendi tra uomini e donne è un dato di fatto. Ma siamo davvero sicuri che sia una cosa 'normale'? Qualcuno pensa di no.
 L'uguaglianza tra uomini e donne, nel 2018, è ancora molto lontana. E non riguarda soltanto la sfera dei diritti: sul fronte 'lavoro' la situazione è più o meno la stessa, cioè spesso, per le stesse posizioni professionali, il divario salariale tra maschi e femmine (cioè il gender pay gap)è enorme. Ed è sempre a favore dei primi. Ma davvero questa differenza è percepita da tutti come 'normale'? Il sindacato norvegese Finansforbundet ha organizzato un esperimento per evidenziare che le donne impiegate nel settore finanziario guadagnano in media il 20% in meno rispetto agli uomini. Ha filmato diverse coppie di bambini, sempre un maschio e una femmina, mentre facevano lo stesso lavoro, cioè raccogliere tutte le palline blu e rosa della stanza e metterle dentro a due diversi contenitori, uno per colore. Alla fine, un'attrice ha dato loro una ricompensa: un bicchiere di vetro con delle caramelle. Indovinate chi ha 'guadagnato' di più?
Sorpresa: i maschietti. Ma non proprio tutti l'hanno presa benissimo. Prendiamo ad esempio la prima coppia: al momento della ricompensa è seguito un lungo silenzio imbarazzante. Nessuno dei due sapeva cosa dire. Passiamo alla seconda. L'attrice dice: «Molly, sai perché hai ricevuto meno caramelle di Thomas? Perché sei una femmina». Thomas sorride imbarazzato, Molly non riesce a capire in un primo momento, poi ribatte: «È una cosa strana. Non ci sono differenze tra ragazzi e ragazze». La stessa domanda e la stessa risposta dell'intervistatrice viene fatta a tutti. C'è anche qualche bambino che non accetta la spiegazione: «È stata brava quanto me: avremmo dovuto ricevere lo stessa quantità di caramelle. È ingiusto». Una bambina, Felicia, prova a fare un ragionamento: «Abbiamo fatto lo stesso lavoro ma abbiamo ricevuto una ricompensa diversa». La conclusione del video è un perfetto lieto fine: i maschi hanno accettato il decurtamento di 'stipendio' per arrivare all'effettiva 'parità salariale' con le colleghe femmine.
http://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2018/03/13/gender-pay-gap-bambini/25450/

sabato 17 marzo 2018

Uma Menos, Cem Mais! “Eu serei porque você era” (Una di meno, cento di più! “Lo sarò perchè lo eri”) Anarkikka

Uma Menos, Cem Mais! “Eu serei porque você era” (Una di meno, cento di più! “Lo sarò perchè lo eri”)       
A Marielle Franco     Anarkikka

Hanno ammazzato Marielle Franco.
Consigliera del partito socialista, attivista femminista, nera, sempre in prima linea per i diritti umani nelle favelas, è stata uccisa. Con una vera e propria esecuzione, è stata freddata con quattro colpi di pistola alla testa.

venerdì 23 marzo festeggiamo il 5°compleanno raccontando l'8 marzo alle giovani


venerdì 16 marzo 2018

Donne e stereotipi di genere: una ricerca svela cosa pensano le italiane. E non è quello che credete di Greta Di Maria

L'uomo deve mantenere la famiglia; la maternità è l'unica esperienza di autorealizzazione di una donna; il successo è più importante per l'uomo... Secondo i dati della ricerca “Gli italiani e la violenza assistita” pubblicata dall’Istituto Ipsos resistono ancora gli stereotipi di genere. Con una sorpresa: anche le donne li sostengono
 Anche le donne contribuiscono ad alimentare gli stereotipi di genere sul mondo femminile. Un risultato che fa riflettere, quello raggiunto dall’Istituto Ipsos per conto di WeWorld Onlus che, nella ricerca “Gli italiani e la violenza assistita” condotta su un campione di 500 uomini e 500 donne intervistati sull’argomento, mette a fuoco la persistenza in Italia sia degli stereotipi di genere sia di chi li sostiene, donne comprese.
 Guardiamo i dati. Alla domanda "È soprattutto l’uomo che deve mantenere la famiglia?" le donne si sono trovate “molto d’accordo” per l’8,30% a fronte del 7,9% degli uomini, mentre solo 1 donna su 4 (il 25,04%) non è per niente d’accordo. Una differenza di soli 10 punti percentuali con gli uomini (il 15,36%). Questa affermazione trova lo stesso peso, per uomini e donne, sia nel nord che nel sud Italia: 8,54% degli intervistati "d’accordo" con questa affermazione abitano nel Nord Est, proprio come l’8,58% che abitano nel Sud e nelle isole. Stessi risultati per chi è "abbastanza d’accordo" (23,10% Nord Est; 21,22% Sud e isole). "È giusto che in casa sia l’uomo a comandare?". A questa domanda solo il 69,21% delle donne ha risposto, in maniera categorica, di no. Mentre la maggior parte del campione maschile si è mantenuta sull’incertezza (33% né si né no) e poco d’accordo (il 22%) che, sommati insieme al 32,42% di uomini che hanno risposto di no, fanno un 85% di uomini che, in ogni caso, esula complessivamente dal "comando".
 Il dato più interessante che emerge dalla ricerca consiste nel 37% degli intervistati di ambo i sessi che reputa il matrimonio il desiderio più importante di ogni donna, mentre il 36% sostiene che la donna deve restare in casa a prendersi cura dei figli. Il 65% degli intervistati invece dichiara che "la donna è capace di sacrificarsi per la famiglia molto più di un uomo", dato confermato dal 40% delle donne che si reputa "molto d'accordo". Il 32% ritiene che la maternità sia la sola esperienza che consente ad una donna di realizzarsi completamente, il 17% che l’istruzione universitaria sia molto più importante per un uomo che per una donna. Mentre per il 62% è molto importante che una donna sia attraente. Infine, se si guarda alla sfera lavorativa il 35% degli intervistati di ambo i sessi, secondo la ricerca Ipsos, ritiene che siano molto più importanti la realizzazione e il successo nel lavoro di un uomo piuttosto che quelli di una donna.
 «Dai dati raccolti dall’indagine di IPSOS» ha dichiarato Marco Chiesara, presidente di WeWorld Onlus, «emerge che gli stereotipi di genere non appartengono solo agli uomini ma anche alle donne. Questo dato trova conferma in ciò che ci riportano le operatrici dei nostri Spazio Donna dove le attività di empowerment femminile vengono messe in campo ogni giorno per combattere gli stereotipi là dove si pensa che non possano esistere: nella mente delle donne stesse. Riuscire a modificare il modo in cui gli uomini vedono le donne e il modo in cui le donne considerano se stesse è un lavoro duro, ma non impossibile. Sicuramente, perché un cambiamento si realizzi, è fondamentale portare avanti il dialogo con le future generazioni, tenendo sempre presente che anche i bambini e i ragazzi sono spesso a loro volta coinvolti in casi di denigrazione del modello femminile, fino alla violenza domestica».
 Ma oltre gli stereotipi di genere, risultano particolarmente allarmanti i dati sui comportamenti discriminatori nei confronti delle donne e ritenuti "accettabili". Per il 19% dei mille italiani che hanno partecipato al test è accettabile scherzare e offendere con battute a sfondo sessuale, per il 17% fare delle esplicite avances fisiche e per l’8% umiliare verbalmente. Inoltre per il 10% degli intervistati è accettabile costringere una donna a cercare un altro lavoro, impedire ad una donna qualsiasi decisione sulla gestione dell’economia della famiglia, controllare le amicizie della donna (8%), rinchiudere una donna in casa e controllare uscite e telefonate (7%), insultare o minacciare (6%) e requisire lo stipendio a una donna (5%).
 «La strada per raggiungere la vera parità di genere parte dal modo in cui le donne considerano se stesse fin da piccole» conclude Chiesara, «cambiare le mentalità è un processo molto lungo e attraverso il nostro lavoro e le nostre campagne ribadiamo tutti i giorni che la violenza si combatte con la prevenzione e che la prevenzione deve passare necessariamente anche da una corretta educazione».
http://d.repubblica.it/life/2018/03/15/news/stereotipi_di_genere_tra_le_donne_la_ricerca_gli_italiani_e_la_violenza_assistita_di_weworld_onlus-3899740/


giovedì 15 marzo 2018

Ordine rilascia primo timbro professionale di “architetta”A Nicoletta Salvi, la prima in Italia a farne richiesta

Ordine rilascia primo timbro professionale di “architetta”Roma, 13 mar.
Nove anni. Tanto è servito a Nicoletta Salvi, “architetta”, per ottenere dall’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia un timbro professionale declinato al femminile.
Dopo le tre sue colleghe di Bergamo che hanno ottenuto il timbro “al femminile” nell’aprile del 2017, anche Salvi ha finalmente ritirato un timbro che riportasse la dicitura che desiderava. Finalmente perchè la sua richiesta, la prima in Italia di essere riconosciuta come donna anche in ambito professionale, risale al 2009, ben nove anni fa. All’epoca il Consiglio Nazionale si espresse con parere negativo perchè “pur essendo da più parti, sia in ambito nazionale sia europeo, sollecitato l’uso non discriminante dei titoli professionali in riferimento alle donne, utilizzando forme al femminile o creandone di nuove ove queste non fossero già disponibili (cfr. il testo dello studio Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana svolto nel 1987 da Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri), allo stato attuale sulla base di quanto previsto all’art.15 comma 3a del DPR 328/2001 non risulta consentita l’indicazione, nei documenti rilasciati dall’Ordine, di un titolo professionale diverso da architetto”.
Salvi in questi nove anni si è data da fare per trovare una soluzione a questo intoppo burocratico e culturale mobilitando l’Accademia della Crusca e persino la presidente della Camera Laura Boldrini. “Per me è un rammarico non essere stata la prima in assoluto in Italia, visto l’impegno e la determinazione che mi hanno mosso in questi anni – spiega -, ma l’importante è che la breccia sia stata aperta e che sempre più architette possano rivendicare la loro esistenza come donne all’interno dell’Ordine professionale”. Il passo successivo all’interno dell’Ordine di Roma, spiega ancora Salvi – sarà quello di avere la possibilità per le neo iscritte di scegliere quale timbro avere: se quello al maschile o quello al femminile.
http://www.askanews.it/cronaca/2018/03/13/roma-ordine-rilascia-primo-timbro-professionale-di-architetta-pn_20180313_00089/

martedì 13 marzo 2018

La ribellione delle donne nella Chiesa di Ilaria De Bonis*

La radicalità e l’imprevedibilità di Non una di meno, la sciopero globale dell’8 marzo, la lotta di #MeToo solo i volti più visibili del movimento delle donne. Ma la rivoluzione più lunga e più profonda, quella delle donne, non smette di sovvertire ogni giorno in molti modi diversi un ordine che permette di protrarre da secoli il dominio di un sesso sull’altro. E si insinua nei pertugi più sottili, anche all’interno della Chiesa Cattolica: dobbiamo abbattere i muri del patriarcato nella Chiesa, dicono le donne di Voices of Faith, dobbiamo ribaltare abitudini e immaginari, perché non esiste ad esempio un ruolo nella Chiesa, per la missionaria che non è suora, non è consacrata laica, e non è neanche mamma o moglie? Già, la rivoluzione più lunga e più profonda…
Una Chiesa patriarcale nemica delle donne (misogina), che non ha mai favorito la parità di genere al suo interno. Anzi, ha perseverato colpevolmente nel non promuoverla, nonostante le aperture del Concilio. Ecco cos’è stata la Chiesa cattolica finora. A denunciarlo, con una potenza cristallina, sono oggi le donne dentro la Chiesa. Non fuori di essa.
Chiamano le cose col proprio nome, mettono il dito nella piaga del perché avvengono. Fanno outing. E nei giorni ne abbiamo avuta l’ulteriore conferma. Durante la conferenza di Voices of faith a Roma, dal titolo Why Women Matter, le relatrici capitanate dalla grintosa Mary McAleese – che nel 1997 diventava ottavo presidente dell’Irlanda del Nord – hanno dato la stura ad una denuncia che sa di rivoluzione.
La sede era quella della Curia generalizia dei gesuiti a Borgo Santo spirito. La presenza di clero locale, per la verità, piuttosto scarsa. Ma pazienza. Quelle voci hanno superato comunque la barriera del suono. Tant’è che la stampa (estera) ne parla copiosamente.
«La Chiesa cattolica da sempre è stata la principale portatrice del virus tossico della misoginia – scandiva McAleese, suscitando sospiri in sala – e non ha mai davvero ricercato l’unica cura possibile, sebbene essa sia tranquillamente disponibile: la parità». Cos’altro aggiungere a questo? In quell’emiciclo la narrazione non arrabbiata ma unanime, su una Chiesa che ha capovolto il messaggio evangelico escludendo da sé una metà del mondo,  risuonava come verità alle orecchie delle altre donne, e arrivava come un cazzotto nello stomaco di tutti gli altri.
Le altre relatrici hanno raccontato esperienze di vita in una Chiesa istituzionale che anche all’estero fa una fatica improba ad accettare il dato di fatto dell’uguaglianza. Alla fine cosa vogliono queste donne? Che il loro Vangelo valga quanto la ‘lettura’ maschile.
Si sono alternate Zuzanna Radzik, teologa polacca, Joana Gomez, direttrice di progetto Jesuit Refugee service in Ciad e due giovani donne indiane, cattoliche, ma non battezzate alla nascita, Nivedita e Gayatri – testimoni di una fede per scelta, avendo vissuto anche la spiritualità induista in famiglia. Per tutte loro la conclusione è la stessa: «vogliamo rimanere cattoliche, cambiando però il nostro status».
Non è solo questione di visibilità, ormai. Che le donne visibili lo sono già. Se non altro perché esistono. È questione di voce. Bisogna che le si ascolti. E si riconoscano loro gli stessi diritti e doveri riconosciuti agli uomini, preti o non preti. Esiste ad esempio un ruolo nella Chiesa, per la missionaria che non è suora, non è consacrata laica, e non è neanche mamma o moglie? Fatica ad attecchire l’accettazione di questa scelta che pare essere di serie B, come molte altre scelte. Lo raccontava la portoghese Joana Gomez, che ha trent’anni o poco più e lavora col Jesuit Refugee service in Ciad. «La chiesa e la società non sono ancora preparate per una missionarietà della donna laica», dice. I laici sono sempre visti come missionari di second’ordine. Figurarsi poi le donne! «Siamo formattati a un’idea di felicità precostituita: studiare, lavorare, sposarci e fare figli. Ma c’è felicità anche nel donarsi al mondo anziché al focolare», dice lei.
Ma come si fa a passare dalla parola ai fatti? Facendo arrivare il messaggio anche al papa ad esempio. Nel dibattito finale la McAleese ha tirato fuori qualche richiesta: «Perché no il diaconato alle donne? Al papa chiederei la parità nella vita pubblica della Chiesa». Sembrano richieste fuori dal mondo, ma cosa sono in fondo? Richieste di parità. Di uguaglianza. Di pari dignità. Che credevamo ottenute per sempre dall’altra parte del mondo, quello aconfessionale.
Così non è nella Chiesa e forse finché così non sarà, sono proprio le donne non credenti a doversi schierare, combattendo a fianco delle credenti nella Chiesa. Qui dentro si può ottenere uguaglianza solo passando per la cruna di quell’ago: il patriarcato. «Dobbiamo abbattere i muri del patriarcato nella Chiesa – incoraggi la McAleese – Perché il vertice gravitazionale della misoginia ha depotenziato la trasmissione del messaggio evangelico». E non c’è nessun papa o nessun cardinale che possa “concedere” dall’alto questi diritti, perché – è quanto hanno ribadito tutte le donne in conferenza, da Nicole Sotelo, giornalista statunitense, a Ssenfula Joanita Warry, attivista ugandese, omosessuale cattolica – questa uguaglianza è data dall’essere fatti della stessa “sostanza” di Dio, uomini e donne senza distinzioni. «I diritti della donna dentro la Chiesa derivano dalla giustizia divina e non da una benevolenza o da una magnanimità papale», dice la McAleese. Averlo dimenticato «ha consegnato la Chiesa ad una chiusa elite maschile», trascinandola nel baratro della non credibilità.
Le ha fatto eco la “guerriera” Ssenfula Joanita, dalla parte degli omosessuali perseguitati in Uganda: «Perché devo rimanere nascosta quando il Vangelo mi chiama a risplendere?». Adesso il punto è: quanto a lungo il Vaticano pensa di poter ignorare queste voci dirompenti? Quanto a lungo pensa che si possa tenere nascosto al mondo che il Re è nudo e che la giustizia  fa comunque il suo corso?
https://comune-info.net/2018/03/la-ribellione-delle-donne-nella-chiesa/

lunedì 12 marzo 2018

Quote rosa in politica, in 70 anni alle donne solo 78 incarichi da ministro su 1.500 di Marco Rogari

Era il 1951 e il governo era quello guidato, per la settima volta, da Alcide De Gasperi, quando la democristiana Angela Maria Guidi Cingolani veniva nominata sottosegretario al ministero dell’Industria e commercio. Si trattava della prima donna nell’epoca repubblicana a ricevere un incarico di Governo. Ma dovettero passare altri 25 anni prima che, nel 1976, alla Dc Tina Anselmi venisse affidato, nel terzo esecutivo Andreotti, il timone del ministero del Lavoro, diventando così la prima ministra ben trent’anni dopo la nascita della Repubblica. Dal 1948 ad oggi il cammino verso la parità negli incarichi di vertice governativi e parlamentari è stato lungo e tutto in salita. Come emerge da uno studio dell’Ufficio valutazione impatto (Uvi) del Senato, in 70 anni nessuna donna ha mai presieduto un Governo e su oltre 1.500 incarichi di ministro in 64 esecutivi con 28 diversi Presidenti del consiglio, le donne ne hanno ottenuti appena 78 (più due interim), 38 dei quali in dicasteri senza portafoglio.
Prime “quote rosa” con i governi di centrosinistra
Tredici esecutivi sono stati composti esclusivamente da uomini. Soltanto a partire dal 1983, con il quinto gabinetto Fanfani, la presenza di ministre è diventata costante. Il maggior numero di ministeri “rosa” si è registrato a partire dal 2006 e il top è stato raggiunto con il secondo governo Prodi e con l’esecutivo Renzi (21 ministre). I dicasteri dell’Economia e delle Infrastrutture e Trasporti non sono però mai stati a guida femminile.
Le donne italiane festeggiano traguardi e inseguono miraggi
Presidenza del Senato, un miraggio
Non molto meglio è andata in Parlamento: la carica di presidente della Camera è stata “rosa” in sole 5 legislature su 17 e, a tutt’oggi, nessuna donna è riuscita a salire sullo scranno più alto di palazzo Madama. A ricoprire per la prima volta l'incarico più importante a Montecitorio nell’ottava legislatura è stata Nilde Iotti, poi confermata nelle due successive legislature. Anche il bilancio delle presidenze delle Commissioni parlamentari parla chiaro: finora sono appena 23 quelle assegnate a senatrici (8) e deputate (15), ma dal '48 ad oggi nessuna donna ha mai guidato le commissioni Bilancio e Finanze, ovvero quelle che si occupano di economia. La prima vicepresidente della Camera (Maria Lisa Cinciari Rodano) è stata eletta nel 1963 mentre al Senato si è dovuto attendere fino al 1972 (con la nomina di Tullia Romagnoli Carettoni). Fino all’ultima legislatura (la diciassettesima) a Montecitorio le vicepresidenze sono state affidate a 8 donne e a Palazzo Madama a 9.
Nella nuova legislatura più spazio alle donne
Nella prima legislatura, nata dopo il voto del 14 aprile 1948, solo il 5% dei seggi (49 parlamentari su 982) fu occupato donne. Da allora sono dovuti trascorrere 30 anni e 7 legislature, come si sottolinea nel dossier dell’Uvi del Senato, per vedere più di 50 donne in Parlamento (nel 1976), mentre quota 100 è stata superata nel 1987 e quota 150 nel 2006. Nella legislatura che si è appena conclusa le donne elette sono state 299 (il 30,1%) con un aumento del 10% rispetto alla sedicesima legislatura. Una percentuale che, secondo il dossier, dovrebbe essere superata anche nella nuova legislatura (la diciottesima). Dei 9.529 candidati che si sono presentati alla tornata elettorale del 4 marzo scorso più del 45% erano donne.
13 Regioni mai guidate da donne, 1086 donne sindaco
Non solo. Su un totale di 272 presidenti delle Regioni, eletti nella storia delle 20 regioni italiane prima del 4 marzo 2018, le donne sono state solo 9 (più 2 facenti
funzione): poco più del 3%. Ne hanno elette 2 ciascuna l’Umbria (entrambe le governatrici sono state confermate per un secondo mandato) e il Friuli-Venezia Giulia, seguite da Abruzzo, Lazio, Lombardia, Piemonte e Trentino-Alto Adige con una. Su 20 regioni, 13 non sono mai state guidate da una donna.
Nei Comuni 1086 donne sindaco
Quanto ai comuni, il dossier del Senato evidenzia come le donne sindaco in carica ad oggi sono 1086, di cui 1004 alla guida di comuni inferiori ai 15.000 abitanti. La percentuale più alta è in Emilia Remogna, la più bassa in Campania e Sicilia. Nel 1946, alla fine delle varie tornate di elezioni comunali, 10 donne ricoprivano la carica di sindaco e circa 2.000 quella di consigliera comunale. Quarant'anni dopo, nel 1986, le prime cittadine erano salite a 145. Tra il 1986 e il 2016 il loro numero è aumentato di oltre 7 volte: da 145 a 1.097. Sono
aumentate anche le assessore, passando da 1.459 nel 1986 a 6.834 del 2016.
Le quote rosa a Strasburgo
Il dossier evidenzia anche che nel Parlamento europeo (eletto a suffragio popolare diretto per la prima volta nel 1979) la percentuale di donne italiane è stata nelle prime cinque legislature meno del 15% della nostra rappresentanza.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-03-08/quote-rosa-politica-70-anni-donne-solo-78-incarichi-ministro-1500-142936.shtml?uuid=AE75zdDE

sabato 10 marzo 2018

Iran, due anni di galera per aver mostrato i capelli di Monica Lanfranco

La sentenza era attesa, ed è arrivata proprio l’8 marzo, una coincidenza fin troppo simbolica: sono due gli anni di carcere comminati dalle autorità iraniane ad una delle attiviste arrestate alla fine del 2017 per aver manifestato senza il velo. Forse è Vida Movahed, la prima ad averlo sventolato in pubblico, e adesso il rischio è che le altre 35 arrestate per lo stesso ‘reato’ la seguano.
L’accusa di “aver incoraggiato la corruzione morale in pubblico”, secondo la sentenza, trova la chiosa perfetta nell’affermazione della massima autorità politica iraniana, Ali Khamenei, affidata a Twitter: “Nella logica islamica il ruolo della donna è inserito in una cornice precisa. Una donna islamica è colei che è guidata dalla fede e dalla castità. Mentre oggi c’è un quadro deviante, un modello di donna che è offerto dall’Occidente. Promuovendo un codice di abbigliamento modesto (l’hijab) – ha continuato l’Ayatollah – l’Islam ha bloccato la tendenza che vuole portare le donne a quello stile di vita deviante. Hijab significa immunità, non restrizione”.
Un’affermazione che dovrebbe far riflettere chi, magari con intenti antirazzisti, si applica a minimizzare la portata simbolica politica dell’uso del velo. Inna Shevchenko e Pauline Hillier, il cui libro Anatomia dell’oppressione presto arriverà in Italia, analizzano il fondamentalismo religioso sottolineando come tutte le religioni rivelate usino il corpo delle donne come indicatore della loro visione relazionale tra i generi, sancendo e istituzionalizzando la disparità di potere proprio attraverso il dress code nello spazio pubblico, a partire dai capelli:
“È la testa delle donne che riceve il primo forte schiaffo. Da sola essa condensa una quantità di regole e morali ingiuste e assurde, dettate unicamente dal cristianesimo, dall’ebraismo e dall’Islam. Per controllare la testa delle donne le religioni non trascurano nessun aspetto: se nei loro occhi brilla l’intelligenza esigono che li abbassino, se nei loro sorrisi si leggono la gioia e la soddisfazione loro le reprimono, se fra i loro capelli soffia il vento della libertà e dell’indipendenza li devono nascondere, se nei loro cervelli si formano pensieri loro li formattano, se la loro bocca esprime la loro opinione loro la imbavagliano e se le loro orecchie registrano il sapere, loro le tappano. La testa delle donne viene passata al setaccio dall’esterno all’interno”.
Ali Ahmad Said Isbir, in arte Adonis, uno dei massimi poeti siriani moderni non è meno categorico nel suo testo Violenza e Islam: “La legge religiosa deve essere estranea a quella civile: mentre le altre donne possono scegliere tra la sottomissione a Dio e la libertà le musulmane non possono. Il velo è un simbolo: il velo sulle donne è un velo sulla ragione, le rende un’astrazione, un mero luogo di piacere.
La giornalista iraniana esule in Europa Masih Alinejad lanciò nel 2014 dalla sua pagina Facebook La mia libertà clandestina invitando le donne musulmane a togliersi il velo e a mandare immagini del loro gesto liberatorio: ne giunsero a migliaia, alcune anche da uomini che le supportano.
Brandito come scelta di libertà contro la dissolutezza dei costumi occidentali, contro l’occidente tout court o come conferma dell’appartenenza identitaria al paese e alla religione d’origine il velo è oggetto di un dibattito per nulla pacifico anche dentro ai movimenti delle donne in Italia e in Europa, spesso dimenticando o sottovalutando che l’ossessione per la necessità di controllo sul corpo femminile, insieme al richiamo alla ‘modestia’, sono tra i segnali iniziali e più nitidi di ogni processo totalitario.
“In Iran a partire dalla fine degli anni 70 le donne (e le ragazze) sono state condannate a morte per essere ‘impropriamente coperte’. In Algeria durante il buio decennio degli anni 90 donne e ragazze sono state sgozzate perché non portavano il velo. In Afghanistan sotto i Talebani le donne venivano uccise se non erano coperta dalla testa ai piedi. In Nigeria decine di ragazze sono state rapite, convertite forzatamente e obbligate al burka – ricorda la sociologa algerina Marieme Helie Lucas dalle pagine di Women Living Under Muslim Laws – Questo non avrebbe nulla a che fare con ‘il diritto di velo’ che attualmente è difeso da belle ragazze sui canali televisivi  dell’Europa occidentale? Domando: si può essere ciechi fino a questo punto? In Europa velarsi sarebbe solo una scelta personale, magari ‘di moda’, mentre nel resto del mondo è imposto alle donne e la disobbedienza o la resistenza sono punite con la morte? In Europa, quindi, si tratterrebbe di indossare ciò si vuole, mentre nel resto del mondo sarebbe una delle tante limitazioni per le donne, come il diritto allo studio, il divieto di accedere ai servizi sanitari quando sono forniti da personale maschile, o la libertà di movimento, diritti fondamentali negati alle donne e alle ragazze? Come si può ignorare che nelle periferie di Parigi o di Marsiglia controllate dai fondamentalisti  alcune giovani sono state uccise perché rifiutavano il velo?”.
Sono molte le voci di donne che hanno dovuto abbandonare i loro paesi a causa delle imposizioni dell’attivismo religioso di estrema destra (tra le quali c’è l’obbligo del velo) che non hanno trovato eco nei media europei, mentre ampio spazio alla normalizzazione del velo, per esempio, è stato offerto da agenzie culturali laiche, come insegna il caso della scelta iconica del Museo Egizio di Torino. Negare il ruolo svolto dal velo nella strategia globale fondamentalista è un modo per assicurare visibilità e far guadagnare terreno al processo di islamizzazione della società.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/09/iran-due-anni-di-galera-per-aver-mostrato-i-capelli/4215221/




giovedì 8 marzo 2018

Alice sbagliata di Lella Costa

O troppo alta, o troppo bassa
Le dici magra, si sente grassa
Son tutte bionde, lei è corvina
Vanno le brune, diventa albina
Troppo educata, piaccion volgari
Troppo scosciata per le comari

Sei troppo colta preparata
Intelligente, qualificata
Il maschio è fragile, non lo umiliare
Se sei più brava non lo ostentare
Sei solo bella ma non sai far niente
Guarda che oggi l’uomo è esigente
L’aspetto fisico più non gli basta
Cita Alberoni e butta la pasta

Troppi labbroni non vanno più
Troppo quel seno, buttalo giù
Bianca la pelle, che sia di luna
Se non ti abbronzi, non sei nessuna
L’estate prossima con il cotone
Tornan di moda i fianchi a pallone
Ma per l’inverno la moda detta
Ci voglion forme da scolaretta
Piedi piccini, occhi cangianti
Seni minuscoli, anzi giganti

Alice assaggia, pilucca, tracanna
Prima è due metri, poi è una spanna
Alice pensa, poi si arrabatta
Niente da fare, è sempre inadatta
Alice morde, rosicchia, divora
Ma non si arrende, ci prova ancora
Alice piange, trangugia, digiuna
È tutte noi, è se stessa, è nessuna.

mercoledì 7 marzo 2018

Troie e mignotte: cari maschi senza argomenti aggiornate i vostri insulti di Claudia Sarritzu

La denuncia della parlamentare dem Alessia Morani è solo l'ultima in ordine di tempo. Ma ogni giorno donne famose e non vengono etichettate con i soliti insulti sessisti.
Mi chiedo spesso perché occupo così tanto tempo della mia vita professionale e privata a parlare di questi argomenti. Del potere del linguaggio sulla vita delle donne.
Poi mi fermo a pensare alla mia esistenza, io che sono una privilegiata, a quanto sia più dura dei miei amici maschi ogni sfida che devo affrontare. La nostra è una salita più ripida fatta con pesi che sono macigni. Le nostre cadute sono più rovinose anche se poi ci rialziamo sempre. Ma noi andiamo in giro ferite, sempre. Siamo spezzate e aggiustate, già da bambine iniziano a farci male.
Sto ancora aspettando che il genere maschile impari a usare argomenti più validi per denigrarci o controbattere pensieri e azioni che non condividono. Che allarghino il proprio misero vocabolario. Perché se le parole sono importanti anche l'uso di parolacce diverse può contribuire a una rivoluzione culturale.
E invece se non la pensiamo come loro siamo troie, puttane, mignotte, sempre e comunque etichettate con insulti sessisti che oggettivizzano sessualmente la nostra persona.
Ci vedono solo come oggetti, appunto, che rientrano nella sfera sessuale. Gli uomini invece vengono insultati con parole che esprimono concetti di incapacità o malafede: coglione, stronzo. Noi no. Noi siamo solo carne da macello per i più bassi istinti.  A noi vengono augurati stupri, agli uomini no, anzi le minacce, dati alla mano sono inferiori per la metà.
E da quando esistono i social quello che prima veniva pensato, ho detto al bar, ora viene scritto senza problemi pubblicamente nascondendosi dietro un account spesso falso.
La Polizia postale purtroppo ha pochi mezzi e risorse per contrastare un fenomeno in spaventosa crescita che è quello del bullismo di genere, un sessismo da social network, che colpisce almeno una volta tutte le donne iscritte. Noi donne ci imbattiamo in situazioni umilianti e dolorose qualsiasi cosa facciamo.
Mi rivolgo ai padri di figlie femmine, forse più portati a una maggiore sensibilità sul tema.
Non vi spaventa un pianeta che non lascia in pace le donne in nessun luogo o situazione. Che tenta sempre di ostacolarle attraverso una fisica e psicologica violenza la nostra vita quotidiana? Siate voi i primi per esempio a cancellare dal vostro repertorio linguistico queste parole insopportabili nel 2018.
Quanto coraggio e forza e fegato ci vuole a essere donne, anche solo per iscriversi sui social?
http://www.globalist.it/politics/articolo/2018/03/03/troie-e-mignotte-cari-maschi-senza-argomenti-aggiornate-i-vostri-insulti-2020405.html

martedì 6 marzo 2018

Nasceva oggi Carla Lonzi (1931, 19), critica d'arte, scrittrice, femminista fondatrice di "Rivolta femminile".

La ricordiamo con il manifesto del 1970 di "Rivolta Femminile"

La donna non va definita in rapporto all'uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. 
L'uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. 
La donna è l'altro rispetto all'uomo. L'uomo è l'altro rispetto alla donna. L'uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli. 
Identificare la donna all'uomo significa annullare l'ultima via di liberazione. 
Liberarsi, per la donna, non vuol dire accettare la stessa vita dell'uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza. 
La donna come soggetto non rifiuta l'uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario. 
Finora il mito della complementarità è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere. 
Le donne sono persuase fin dall'infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona «capace» e «responsabile»: il padre, il marito, il fratello…
L'immagine femminile con cui l'uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione. 
Verginità, castità, fedeltà non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L'onore ne è la conseguente codificazione repressiva. 
Nel matrimonio la donna, priva del suo nome, perde la sua identità significando il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito. 
Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio. 
Ci costringono a rivendicare l'evidenza di un fatto naturale. 

Riconosciamo nel matrimonio l'istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio. 
Il divorzio è un innesto di matrimonio da cui l'istituzione esce rafforzata. 
La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica. 
Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell'essere costretta ad affrontare la maternità come un aut-aut. 
Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell'esclusione. 
La negazione della libertà dell'aborto rientra nel veto globale che viene fatto all'autonomia della donna. Non vogliamo pensare alla maternità tutta la vita e continuare a essere inconsci strumenti del potere patriarcale. 
La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante. 
In una libertà che si sente di affrontare, la donna libera anche il figlio, e il figlio è l'umanità. 
In tutte le forme di convivenza, alimentare, pulire, accudire e ogni momento del vivere quotidiano devono essere gesti reciproci. 
Per educazione e per mimesi l'uomo e la donna sono già nei ruoli nella primissima infanzia. 
Riconosciamo il carattere mistificatorio di tutte le ideologie, perché attraverso le forme ragionate di potere (teologico, morale, filosofico, politico), hanno costretto l'umanità a una condizione in autentica, oppressa e consenziente. 
Dietro ogni ideologia noi intravediamo la gerarchia nei sessi. Noi vogliamo d'ora in poi tra noi e il mondo nessuno schermo. 
Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società.
Unifichiamo le situazioni e gli episodi dell'esperienza storica femminista: in essa la donna si è manifestata interrompendo per la prima volta il monologo della civiltà patriarcale.

Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere. 
Permetteremo ancora quello che di continuo si ripete al termine di ogni rivoluzione popolare quando la donna, che ha combattuto insieme con gli altri, si trova messa da parte con tutti i suoi problemi? 
Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dalla egemonia dell'efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata. 
La guerra è stata sempre l'attività del maschio e il suo modello di comportamento virile. 
La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un'altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?

Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria. 
Dare alto valore ai momenti « improduttivi » è un'estensione di vita proposta dalla donna. 
Chi ha il potere afferma: «Fa parte dell'erotismo amare un essere inferiore ». Mantenere lo status quo è dunque un suo atto di amore. 
Accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme, perché abbiamo smesso di considerare la frigidità un'alternativa onorevole. 
Continuare a regolamentare la vita fra i sessi è una necessità del potere; l'unica scelta soddisfacente è un rapporto libero. Sono un diritto dei bambini e degli adolescenti la curiosità e i giochi sessuali. 
Abbiamo guardato per 4.000 anni: adesso abbiamo visto! 
Alle nostre spalle sta l'apoteosi della millenaria supremazia maschile. Le religioni istituzionalizzate ne sono state il più fermo piedistallo. E il concetto di « genio» ne ha costituito l'irraggiungibile gradino. 
La donna ha avuto l'esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva.

Consideriamo incompleta una storia che si è costituita, sempre, senza considerare la donna soggetto attivo di essa. 
Nulla o male è stato tramandato della presenza della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la verità. 
La civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psicanalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica. 
Chiediamo referenze di millenni di pensiero filosofico che ha teorizzare l'inferiorità della donna. 
Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale sfera privata e pietas. Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce della vita della donna.

Sputiamo su Hegel. 
La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti, tra collettivi di uomini: essa non prevede la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale. 
La lotta di classe come teoria rivoluzionaria sviluppata dalla dialettica servo-padrone, ugualmente esclude la donna. Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato. 
Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l'illusione dell'universalità. 
L'uomo ha sempre parlato a nome del genere umano, ma metà della popolazione terrestre lo accusa ora di aver sublimare una mutilazione. 
La forza dell'uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla. 
Dopo questo atto di coscienza l'uomo sarà distinto dalla donna e dovrà ascoltare da lei tutto quello che la concerne.
Non salterà il mondo se l'uomo non avrà più l'equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione. 
Nella cocente realtà di un universo che non ha mai svelato i suoi segreti, noi togliamo molto del credito dato agli accanimenti della cultura. Vogliamo essere all'altezza di un universo senza risposte. 
Noi cerchiamo l'autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all'organizzazione né al proselitismo.


Roma, luglio 1970.

Documento affisso dalle donne di Rivolta Femminile nelle strade di Roma e di Milano

sabato 3 marzo 2018

Le donne cominciano ad essere vittime quando non hanno ascolto Giulio Cavalli

Tra le favolette che sarebbe il caso di smettere subito di raccontare c’è anche quella che “le donne non denunciano” che, per esperienza personale, mi ricorda le alienanti tavole rotonde in cui qualche prefetto dichiarava l’inesistenza del fenomeno mafioso “perché non ci sono denunce”.

Antonietta Gargiulo, la moglie del carabiniere Luigi Capasso che ieri ha ucciso le due figlie e ha tentato di uccidere la moglie, aveva depositato due esposti in cui raccontava la paura per quel marito “aggressivo e violento” che, come troppo spesso succede, non sopportava l’idea di una separazione da colei che riteneva una sua personale proprietà. Era andata anche dal suo capo, il comandante dei carabinieri di Velletri, per raccontare la difficile situazione. Dicono i comunicati ufficiali che «si è tentata la strada della ricomposizione bonaria», che la donna «temeva che l’uomo potesse perdere il lavoro» e che non erano emersi fatti penalmente rilevanti. Eppure Antonietta aveva anche cambiato la serratura del suo appartamento.

Forse sarebbe il caso di uscire una volta per tutte da questa narrazione medievale per cui la donna deve tornare a casa e cercare di fare pace, come se fossimo davvero in una di quelle fiction sui carabinieri che si vedono in prima serata: le donne cominciano a morire quando hanno la sensazione che le loro denunce non vengano prese sul serio. Al di là della vicenda di Latina (sarà il processo ad accertare le responsabilità, sempre che non ci sia troppa corporazione) sono frequenti i casi in cui le paure delle ex mogli e delle donne vessate sono sottovalutate da istituzioni colpevolmente superficiali. Forse sarebbe il caso di parlarne una volta per tutte.
https://left.it/2018/03/01/le-donne-cominciano-ad-essere-vittime-quando-non-hanno-ascolto/

venerdì 2 marzo 2018

Le donne "devono" votare Non sciupare un diritto pagato caro.

In vista delle elezioni politiche del 4 marzo, rilanciamo da Arcipelago Milano l'articolo di Eva Cantarella

Di fronte al preoccupante fenomeno dell’astensione dal voto ci viene spesso e giustamente ricordato che partecipare alle elezioni è la più grande conquista della democrazia, per ottenere e difendere la quale, nel corso del tempo, tante persone hanno dato la vita. Io credo che queste ragioni valgano doppiamente per noi donne che dopo una plurimillenaria discriminazione ci siamo viste riconoscere questo diritto solo pochi decenni fa, nel 1946. Le nostre nonne - e per quelle più avanti negli anni anche le nostre madri - per molti anni della loro vita non hanno potuto esercitarlo: mia madre, nata nel 1909, ogni volta che andava a votare raccontava della grandissima emozione della sua prima volta, a ormai quasi quarant’anni. E io, per quanto mi riguarda, ogni volta che depongo il voto nell’urna, penso che tra coloro che hanno pagato con la vita il mio diritto ci siano state anche delle donne, purtroppo spesso dimenticate.

Penso in particolare, nel dir questo, a Olympe de Gouges, nata in una piccola città francese da famiglia di modeste condizioni e data in moglie a 14 anni a un uomo che, come lei scrive “non amavo affatto, non era ricco, né di una certa estrazione. Fui sacrificata senza alcuna ragione che potesse bilanciare la ripugnanza che avevo per quest’uomo”. Trasferitasi a Parigi dopo la morte del marito, Olympe si appassionò alla scrittura firmando i testi teatrali, romanzi e scritti vari, libelli rivoluzionari e articoli; agli inizi della rivoluzione abbandonò però quella carriera per impegnarsi nella politica, combattendo le discriminazioni legate non solo alla nascita e al censo, ma anche e soprattutto quelle che oggi chiamiamo di genere.
Nel settembre del 1791 scrisse una “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, che ricalcava la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1989, il cui art. 1 recitava: “uomo, sei capace di essere giusto? E’ una donna che ti pone questa domanda; non le toglierai almeno questo diritto. Dimmi: “Chi ti ha dato il dominio sovrano di opprimere il mio sesso? La tua forza? I tuoi talenti? Osserva il creatore nella sua saggezza; percorri la natura in tutta la sua grandezza, e donami, se osi, l’esempio di questo tirannico dominio. Risali agli animali, consulta gli elementi, studia i vegetali, getta un occhio su tutti i cambiamenti della materia organizzata; e arrenditi all’evidenza; cerca, fruga e distingui, se puoi, i sessi nell’amministrazione della natura. Ovunque coopereranno con un insieme armonioso a questo capolavoro immortale. L’uomo solo si è cucito addosso un principio di questa eccezione, in questo secolo di luce e di sagacia, nell’ignoranza la più crassa, vuole comandare come un despota su un sesso che possiede tutte le facoltà intellettuali; pretende di godere della rivoluzione e di reclamare i propri diritti di uguaglianza.”
Superfluo descrivere le ostilità che simili posizioni le procurarono, alle quali, quando la rivoluzione prese la svolta che avrebbe portato agli anni del Terrore, si aggiunse quella di Marat e di Robespierre, da lei accusati di esserne i responsabili. Arrestata e trasferita da un carcere all’altro venne infine rinchiusa nella tristemente famosa Conciergerie, l’anticamera della morte, giudicata da un tribunale presieduto da un fedelissimo di Robespierre; condannata a morte venne ghigliottinata il 3 novembre 1793. Sulla carretta che la portava al patibolo si dice abbia detto: “Avremo ben il diritto di salire alla tribuna, se abbiamo quello di essere condannate a morte”.
P.S. Nel 2007 Ségolène Royal ha espresso il desiderio che i resti di Olympe fossero trasferiti al Panteon. Il desiderio non è stato soddisfatto.
[Eva Cantarella]
http://giulia.globalist.it/attualita/articolo/2018/02/28/le-donne-devono-votare-2020241.html