lunedì 30 gennaio 2017

Storiche a congresso. «Il gender? Non è ideologia ma ricerca» Adulterio, lavoro, rotocalchi, prostituzione, religione: dal 2 al 4 febbraio le studiose discutono le questioni di genere. Ma ci saranno anche i colleghi maschi di ANTONIO CARIOTI

Si parlerà di adulterio nell’Alto Medioevo e di rotocalchi femminili. Di sessualità sotto la legge islamica e di «politiche dell’allattamento». Di geografia della prostituzione e del ruolo delle donne nelle Chiese. È davvero variegato il menu predisposto dalla Società italiana delle storiche (Sis), presieduta da Simona Feci, per il suo VII Congresso, che si tiene a Pisa dal 2 al 4 febbraio.
Sorta nel 1989, la Sis oggi ha circa 250 socie, tutte per statuto di sesso femminile, ma ai suoi incontri partecipano anche studiosi maschi. Raduna specialiste delle più varie epoche e branche disciplinari: c’è chi si applica al Medioevo e chi all’Africa, chi coltiva la storia economica e chi quella del diritto. Ma tutte hanno un interesse specifico non solo per le vicende delle donne, ma anche per la «storia di genere». Un’espressione, quest’ultima, che richiama le polemiche sulla cosiddetta «teoria del gender», bestia nera di una parte del mondo cattolico e condannata anche dal Papa.

D’altronde il titolo del Congresso di Pisa è «Genere e storia. Nuove prospettive di ricerca». Un indirizzo ideologico? «Neanche per sogno — replica Ida Fazio, docente dell’Università di Palermo e componente del direttivo della Sis —. Gli studi di genere, inaugurati nella storiografia dall’americana Joan Wallach Scott, non sono affatto il prodotto di una teoria per cui ciascuno potrebbe mutare o manipolare a piacimento la sua appartenenza sessuale. Il punto è che i ruoli maschili e femminili non sono predeterminati in modo rigido dalla biologia, ma vengono costruiti socialmente e culturalmente nelle diverse epoche, attraverso meccanismi che vanno esaminati sul piano storico».
È un filone di ricerca, prosegue Ida Fazio, che s’incrocia con la storia delle donne: «Gli studi di genere riguardano le rappresentazioni dei due sessi e le relazioni sociali prodotte dagli assetti patriarcali del passato: ci spiegano come gli uomini vedevano se stessi e le loro mogli, figlie, serve o amanti. Invece la storia delle donne mira a ricostruire il ruolo effettivo che giocava allora la componente femminile, al di là degli stereotipi dominanti e delle stesse leggi. Si scopre così che le donne gestivano attività economiche e commerciali, scavalcando i divieti e facendo concorrenza sottobanco alle corporazioni maschili dei mestieri. Oppure che esponenti femminili dell’aristocrazia erano attive in campo diplomatico: venivano mandate avanti a sondare il terreno dei negoziati, tanto poi quello che dicevano poteva essere smentito, dato che erano donne».
All’approfondimento di queste tematiche è dedicata la rivista della Sis edita da Viella, «Genesis», che è stata inclusa tra quelle di fascia A, cui è riconosciuta una particolare autorevolezza scientifica. Tuttavia i rapporti con l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) risentono di un intralcio formale. «Possono essere interlocutrici ufficiali dell’Anvur — spiega Ida Fazio — solo le associazioni che riuniscono almeno il 45 per cento dei docenti e dei ricercatori strutturati in un raggruppamento disciplinare, tipo storia contemporanea o storia moderna. Dato che la Sis è trasversale alle categorie tradizionali, non ha tale requisito e può quindi essere sentita solo a titolo consultivo, benché sia stata la prima associazione di storici creata in Italia».
http://www.corriere.it/cultura/17_gennaio_29/societa-italiana-delle-storiche-sis-pisa-48e20f46-e64c-11e6-84c1-08780d9999f1.shtml

venerdì 27 gennaio 2017

Nel giorno della memoria ricordiamo una donna importante per la città di Milano, vittima dell'odio razziale. Aurelia Josz Firenze 1869 - Auschwitz 1944 di Maria Luciana Buseghin

«La Signorina è piccola, magra e pallida, vestita molto semplicemente» così scriveva il 1 marzo 1906 Alice Hallgarten Franchetti di Aurelia Josz, da lei particolarmente amata: si erano conosciute a Milano nel gennaio 1904, tutte e due appassionate promotrici della cultura e dell’emancipazione femminile[1].
Aurelia era figlia dell’ungherese Lodovico Josz e di Emilia Finzi. Compiuti gli studi di lettere lasciò Firenze per Milano dove dal 1906 al 1920 fu titolare della cattedra di storia e geografia nella Scuola Normale “Gaetana Agnesi” (su Gaetana Agnesi vedi voce). Ideò nuove metodologie didattiche per catturare l’attenzione delle allieve, utilizzando il teatro e realizzando con materiali cartacei, insieme a loro, un “museo” geografico e antropogeografico: sul suo innovativo metodo e la sua pratica educativa scrisse due manuali scolastici che riscossero un notevole successo[2].
Nel 1902 fondò la prima Scuola pratica femminile di agricoltura nell’orfanotrofio della Stella a Milano che verrà trasferita in una sede autonoma a Niguarda nel 1905 e che nel maggio 1909 Ada Negri presenterà con un memorabile discorso in occasione della «inaugurazione dei nuovi locali della scuola ingrandita e abbellita» come scrisse la stessa Josz che ne fu organizzatrice e direttrice a titolo gratuito fino al 1931, in parte sostenuta finanziariamente dalla “Società Umanitaria”, associazione milanese di ispirazione socialista fondata nel 1893. Particolare attenzione rivolse alle orfane interne al convitto ma la scuola ebbe anche allieve esterne, tra cui le figlie dei piccoli proprietari terrieri, spesso destinate a rimanere chiuse tra le mura di casa o a esercitare l’insegnamento, magari senza una vera vocazione. Convinta della necessità di una visione moderna dell’agricoltura, la Josz chiamò a insegnare i più importanti agronomi italiani e istituì molti corsi, tra cui bachicoltura e apicoltura, di particolare successo; nel 1921 fu la volta del primo Corso magistrale agrario per maestre rurali.
Nel 1905 compì un viaggio in Svizzera, Inghilterra, Francia e Belgio per verificare lo stato dell’educazione agraria femminile, su cui tenne al “III congresso dell’Educazione femminile” di Milano nel settembre 1906 una relazione in cui, tra l’altro, Aurelia apprezza particolarmente «le scuole pratiche agricole del Belgio» che si propone «di imitare nella prima scuola pratica agricola femminile italiana, la scuola milanese di Niguarda […] ove con un biennio di vita collegiale spesa tra lo studio e il lavoro pratico nel campo sperimentale, nel giardino, nel caseificio, nella bigatteria, nel pollaio, lavoro fortificatore dei muscoli e dei nervi, le fanciulle si preparano al disimpegno di tutti gli uffici di massaia»[3].
Il valore del lavoro agricolo e di un ritorno alla terra era un tema d’attualità nella cultura assediata dalla rivoluzione industriale, ma anche un tema dell’ebraismo sionista: Aurelia aderì al Gruppo sionistico milanese di Bettino Levi, in qualche modo sincretizzando la sua fede sionista con quella nella cultura, nell’impegno e nel progresso, così come fecero tante altre ebree italiane dell’epoca, indipendentemente dalla loro osservanza religiosa, che ebbero caro anche un altro tema sostenuto dalla Josz: quello della pace[4].
Nella prima metà degli anni Trenta impiantò, in soli sei mesi, un’altra scuola agraria a Sant’Alessio in provincia di Roma. Il governo fascista, che le aveva dato l’incarico, inaugurò la scuola come fosse la prima del genere, escludendo la Josz e affidando il nuovo istituto ad un’altra direttrice più gradita; inoltre tolse i finanziamenti statali alla scuola di Niguarda e l’incarico di direttrice ad Aurelia che aveva rifiutato la tessera del partito fascista[5]. Nel 1931 la Josz lasciò anche l’insegnamento di storia e geografia alla Scuola statale e si trasferì dalla sorella Valeria ad Alassio dove si dedicò a scrivere due saggi di critica letteraria, mentre sull’opera cui aveva dedicato la sua vita scrisse La donna e lo spirito rurale: storia di un’idea e di un’opera[6].
Rifiutatasi di espatriare dopo le leggi razziali del 1938, il 15 aprile 1944 venne arrestata ad Alassio (Imperia); condotta nelle carceri di Marassi (Genova) e da lì deportata prima al campo di concentramento di Fossoli, poi al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove giunse, dopo un viaggio nei vagoni piombati, il 30 giugno 1944. Venne uccisa, durante le selezioni iniziali, il giorno dopo il suo arrivo.

NOTE

1. Buseghin 2013, p.47; Aurelia Josz, Fiammella francescana, «Nuova Antologia», serie V, vol. CLXIV, fasc. 990, 16 marzo 1913, pp. 278-285.
2. La storia di Roma conforme ai programmi governativi delle scuole complementari e tecniche, II edizione, Casa Tip. Editrice Ditta Giacomo Agnelli, 1899, 16 pp.; La storia d’Italia nel Medio evo, conforme ai programmi governativi delle scuole complementari e tecniche, Milano, Casa Tip. Edit. Giacomo Agnelli, 1899, 167 pp.; Lo studio della topografia nelle scuole primarie e secondarie, Venezia, Ferrari, 1908, 7 pp.
3. Josz 1907, p. 14.
4. Educazione morale e Sionnismo, «L’Idea Sionnista», IV, 11 (novembre 1904) e in L’ebraismo e la pace in «Giovine Europa», II, 5, 18 maggio 1914: cfr. Miniati 2008, pp. 130-132.
5. La Scuola agraria di Niguarda fu trasferita a Cimiano, dove rimase attiva dal 1933 al 1945, anno in cui la sede fu devastata da un gruppo partigiano; riaperta nel 1956 nella Cascina Frutteto al Parco di Monza, è tutt’ora in funzione.
6. Matteo Maria Boiardo 1434-1494, Scrittori italiani con notizie storiche e analisi estetiche, edito da G.B. Paravia & C., Torino, 1936, 125 pp.; Severino Boezio nel dramma della romanità: visione della storia, Treves, Milano, 1937, 202 pp. La donna e lo spirito rurale: storia di un’idea e di un’opera [la scuola pratica agricola femminile di Niguarda-Milano, il corso magistrale agrario per le maestre rurali], Milano, A. Vallardi, 1932, 135 pp. Altri testi della Josz: La donna nell’agricoltura. Conferenza tenuta al Circolo Gaetana Agnesi. Società femminile di cultura, 19 maggio 1900, Stab. Tip. Ditta Giacomo Agnelli, 1900, 19 pp.; Le scuole agrarie femminili all’estero: note ed impressioni di viaggio, Milano, 1905, 38 pp.; Relazione e programma della scuola pratica agricola femminile in Niguarda (Milano) nel suo 8 anno di vita, Milano, Tip. Agraria, 1910, 21 pp.

Fonti, risorse bibliografiche, siti
Buseghin Maria Luciana, Cara Marietta... Lettere di Alice Hallgarten Franchetti (1901- 1911), Tela Umbra, Città di Castello, 2002, 573 pp.

Buseghin Maria Luciana, Alice Hallgarten Franchetti, un modello di donna e di imprenditrice nell'Italia tra '800 e '900, Pliniana Editrice, Selci Lama, 2013, 128 pp./ in particolare: Aurelia Josz, pp.47-50.

D'Annunzio Paola, Aurelia Josz (1869-1944): Un'opera di pionerato a favore dell'istruzione agraria femminile, in «Storia in Lombardia», n. 2, 1999, pp. 61-96.

Josz Aurelia, L'istruzione agraria femminile, «Vita Femminile Italiana», a. I, fasc. I, gennaio 1907, pp. 6-15: p.14.

Miniati Monica, Le “emancipate”. Le donne ebree in Italia nel XIX e XX secolo, prefazione di Mario Toscano, Viella, Roma, 2008 [ed. orig. francese 2003], 300 pp.

Vita Josz Valeria, Le origini della prima scuola agraria femminile italiana nel pensiero di Aurelia Josz, Nervi, Tip. Ongarelli, 1957, 23 pp.

Il sito web della Scuola Agraria Del Parco di Monza
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/aurelia-josz/

giovedì 26 gennaio 2017

Il sesso (negato) a settant’anni Dacia Maraini

Può una donna di settant’anni innamorarsi e pensare di essere ricambiata?

Innamorarsi certo, molte donne si innamorano anche oltre i settant’anni.

È l’essere ricambiate che diventa problematico.

Non per ragioni naturali. Gli esseri umani sono dotati di una sessualità che, in modi diversi, rimane viva fino alla morte.

I problemi sono solo culturali. È l’idea della sessualità che interferisce sulle nostre scelte, non la sessualità in sé. Sono i modelli che si trasmettono a creare la possibilità dell’innamoramento.

Un uomo con i capelli bianchi non esce dal concetto di seduzione, mentre una donna dai capelli bianchi crea ansia. Un uomo con le rughe sul viso si considera ancora attraente e seducente anche a ottant’anni, mentre una donna con le rughe sul viso respinge e repelle.

Quindi la sessualità dipende dalle rughe e dal colore dei capelli?

Certamente no. Ma diciamo che il modello seduttivo è talmente rigorosamente diviso fra maschile e femminile da creare dei tabù profondi che sono ancora in vigore nonostante l’emancipazione e le libertà conquistate dalle donne. Si tratta di uno dei privilegi più ardui da abbattere.

Parlo del privilegio sessuale che, legato indissolubilmente al potere, tiene ancora divisi i generi. La facoltà di conquistare e incantare sessualmente l’altro è considerata ancora il più prezioso dei poteri. Ed è il segno che, nonostante tutto, siamo ancora in pieno dentro una cultura patriarcale in cui la forza dell’eros è identificata con la forza della conquista, del possesso, del prevalere sull’altro.

Secondo questa logica, del tutto storica, l’uomo è attivo e la donna passiva. L’uomo ha una sessualità visibile, la donna invisibile, perciò inesistente. Il corpo maschile decide e agisce, il corpo femminile aspetta e riceve passivamente.

Anche la lingua italiana è basata su questo dualismo: si dice «possedere» per l’atto sessuale, ma è un verbo che si coniuga sempre al maschile.

Non esiste una donna che «possiede» nell’atto sessuale. Si dice «prendere» (la prendo, l’ho presa), ma sempre al maschile.

E ancora oggi l’omosessualità maschile è vista con disprezzo perché uno dei due si fa donna e quindi si fa possedere, penetrare dall’altro. Non a caso la parola più offensiva del linguaggio sessuale è «inculare»: «ti inculo», «la incula», «vaffanculo», ecc.

Il desiderio maschile è considerato essenziale per la continuazione della specie. Se non c’è l’erezione, non ci sarà seme e se non c’è seme non c’è riproduzione. Senza l’attività dello spermatozoo, l’uovo non viene fecondato. E quindi mentre il desiderio maschile viene valutato e incoraggiato, il desiderio femminile viene scoraggiato e represso.

Il desiderio femminile non conta niente per la riproduzione della specie.

Su questo principio l’uomo si è arrogato il privilegio di scegliere, sedurre, prendere, concepire.

Il suo seme gode di una sacralità che l’apparato genitale femminile non ha.

La sessualità femminile non si vede e quindi non conta.

L’uomo, per scegliere, ha bisogno di eccitarsi e per eccitarsi, la sua immaginazione deve essere stimolata su stereotipi espressivi quali la giovinezza, l’inesperienza, la bellezza innocente, la modestia, la seduzione silenziosa, l’esibizione di un corpo intatto e da forgiare.

Nella tradizione americana per esempio, il modo più comune per chiamare la donna amata è «baby». Il maschio cerca un corpo adulto, che nel possesso diventa bambino, un corpo da formare, proteggere, manipolare a proprio piacere. Per questo il possesso (ti amo e quindi sei mia) è ancora una delle principali forme di diritto familiare non scritto.

Ci sono uomini, anche preparati e colti, che identificano la propria virilità col principio del possesso e, quando questo principio viene messo in discussione da una compagna di vita poco docile o semplicemente vogliosa di qualche autonomia, entrano in crisi e si possono trasformare anche in assassini. Di qui la diffusione purtroppo dolorosa e in aumento del femminicidio.

Reazione storica alla emancipazione femminile.

Chi non vuole cambiare e rinunciare ai propri privilegi sessuali preferisce uccidere e morire piuttosto che abdicare all’idea del possesso della «propria donna». La sessualità androcentrica è nella cultura patriarcale una sessualità di invasione, di conquista, di occupazione.

Introdurre il seme dentro il ventre di una donna è ancora considerata una prerogativa maschile da difendere a ogni costo.

Ecco perché una donna di settant’anni, se vuole mantenere la sua dignità, se non vuole essere umiliata, deve sublimare il proprio desiderio di amore e di sesso e trasformarlo in sentimento di amicizia affettuosa, di tenerezza.

Per lo sguardo desiderante maschile un corpo femminile usurato dagli anni si trasforma immediatamente in una mamma, anzi una nonna, da venerare magari, ma certo non da desiderare.

Il maschio adulto può provare tenerezza filiale verso quel corpo sciupato, verso quel viso segnato, ma non può provare desiderio perché l’immaginazione è fatta di cultura e, come ho detto, il corpo ambìto, secondo i modelli più usurati ma ancora tanto vitali, deve essere più vicino all’infanzia che alla maturità.Il sesso (negato)
a settant’anni

Dacia Maraini

https://www.facebook.com/groups/249783391777356/permalink/1221274141294938/


mercoledì 25 gennaio 2017

Tu Non Sei Una Pari. Mi dispiace. ~ Dina Leygerman,

C'e' un post che sta facendo il giro dei social media, in risposta alla Marcia delle Donne di Sabato 21 Gennaio, 2017. Inizia con "Io non sono una "disgrazia per le donne" perche' non sostengo la marcia delle donne. Non mi sento una "cittadina di seconda classe" perche' sono donna..."
Questa e' la mia risposta a quel post.

Ringrazia

Ringrazia. Ringrazia le donne che ti hanno dato una voce. Ringrazia le donne che sono state arrestate e imprigionate e picchiate e gassate per farti avere una voce. Ringrazia le donne che si sono rifiutate di arrendersi, le donne che hanno combattuto senza sosta per darti una voce. Ringrazia le donne che hanno interrotto le proprie vite, che -buon per te- non avevano "cose migliori da fare" che marciare e protestare e manifestare per la tua voce. Per non farti sentire come una "cittadina di seconda classe." Per farti sentire una "pari."

Ringrazia Susan B. Anthony e Alice Paul per il tuo diritto al voto.

Ringrazia Elizabeth Stanton per il tuo diritto al lavoro.

Ringrazia Maud Wood Park per la tua cura prenatale e la tua identita' al di fuori di tuo marito.

Ringrazia Rose Schneiderman per le tue condizioni di lavoro umane.

Ringrazia Eleanor Roosevelt e Molly Dewson per la tua possibilita' di lavorare in politica e modificare le norme.

Ringrazia Margaret Sanger per i tuoi anticoncezionali legali.

Ringrazia Carol Downer per i tuoi pari diritti riproduttivi.

Ringrazia Sarah Muller per la tua pari educazione.

Ringrazia Ruth Bader Ginsburg, Shannon Turner, Gloria Steinem, Zelda Kingoff Nordlinger, Rosa Parks, Angela Davis, Malika Saada Saar, Wagatwe Wanjuki, Ida B. Wells, Malala Yousafzai.

Ringrazia tua madre, tua nonna, la sua bisnonna che non aveva la meta' dei diritti che hai tu adesso.

Tu puoi fare le tue scelte, parlare ed essere ascoltata, votare, lavorare, controllare il tuo corpo, difendere te stessa, difendere la tua famiglia, grazie alle donne che hanno marciato. Tu non hai fatto niente per guadagnarti quei diritti. Sei nata con quei diritti. Non hai fatto niente, ma cogli i benefici di donne, donne forti, donne che hanno combattuto la misoginia e resistito alla patriarchia e combattuto per te. E te ne stai sul to piedistallo, un piedistallo che sei fortunata ad avere, a digitare. Una guerriera da tastiera. Una combattente della noncuranza. Una che accetta cio' che le e' stato dato. Una che nega i fatti. Avvolta nella tua illusione di uguaglianza.
Tu non sei una pari. Anche se ti senti d'esserlo. Guadagni ancora meno di un uomo nel suo stesso lavoro. Guadagni meno come amministratrice, come atleta, come attrice, come dottoressa. Guadagni meno nel governo, nell'industria, nella sanita'.
Non hai ancora pieni diritti sul tuo stesso corpo. Gli uomini ancora dibattono sul tuo utero. Sulla tua cura prenatale. Sulle tue scelte.
Devi ancora pagare le tasse per necessita' sanitarie di base.
Devi ancora portare lo spray al pepe quando cammini da sola di notte. Devi ancora dimostrare in tribunale perche' eri ubriaca la notte che sei stata stuprata. Devi ancora giustificare il tuo comportamento quando un uomo si impone su di te.
Non hai ancora permesso di maternita' retribuito (o non retribuito). Devi ancora andare al lavoro anche quando il tuo corpo e' a pezzi. Quando soffri in silenzio da depressione post-parto.
Devi ancora combattere per allattare in pubblico. Devi ancora dimostrare ad altre donne che e' tuo diritto farlo. I tuoi seni ancora offendono.
Sei ancora oggettificata. Sei ancora fischiata. Sei ancora sessualizzata. Ti viene ancora detto che sei troppo magra o troppo grassa. Ti viene ancora detto che sei troppo vecchia o troppo giovane. Vieni elogiata quando "invecchi con grazia." Ti viene ancora detto che gli uomini invecchiano "meglio." Ti viene ancora detto di vestirti come una signora. Vieni ancora giudicata per i tuoi vestiti anziche' per cosa c'e' nella tua testa. La marca di borsa che porti conta ancora piu' della tua laurea universitaria.
Vieni ancora maltrattata da tuo marito, dal tuo ragazzo. Vieni ancora uccisa dai tuoi partner. Vieni ancora molestata, denigrata, disumanizzata.
Alle tue figlie viene ancora detto come sono belle prima che gl venga detto come sono intelligenti. Alle tue figlie viene ancora detto di comportarsi bene anche se "i maschi sono maschi." Alle tue figlie viene ancora detto che i maschi che gli tirano i capelli e le pizzicano lo fanno perche' gli piacciono.
Tu non sei una pari. Le tue figlie non sono pari. Siete ancora sistematicamente oppresse.
L'Estonia concede ai genitori fino a tre anni di permesso, pienamente retribuito per i primi 435 giorni. Gli USA non hanno norme che regolamentino il permesso di maternita'.
Le donne del Singapore si sentono al sicuro a camminare per la strada di notte. Le donne americane no.
Le donne della Nuova Zelanda hanno il divario salariale di genere piu' piccolo al mondo, al 5.6%. Il divario salariale degli USA e' del 20%.
L'Islanda ha il maggior numero di donne in amministrazione, al 44%. Gli USA al 4%.
Gli USA sono al 45° posto quando si tratta di uguaglianza delle donne. Dopo il Rwanda, Cuba, le Filippine, la Giamaica.
Ma lo capisco. Non vuoi ammetterlo. Non vuoi essere una vittima. Credi che il femminismo sia una parolaccia. Credi che non sia elegante combattere per l'uguaglianza. Odi la parola figa. A meno che ovviamente non sia per insultare un uomo che non rispecchia i tuoi standard di virilita'. Hai presente, il tipo di uomo che "permette" alla "sua" donna di fare tutto quello che le pare. Credi che le femministe siano emotive, irrazionali, irragionevoli. Perche' le donne non sono soddisfatte dalle proprie vite, dico bene? Accetta quello che hai e non ti arrabbiare, no?
Lo capisco. Vuoi sentirti in controllo. Non vuoi credere di essere oppressa. Perche' questo vorrebbe dire che sei davvero una "cittadina di seconda classe." Non vuoi sentirti come tale. Lo capisco. Ma non preoccuparti. Io camminero' per te. Io camminero' per tua figlia. E per la figlia di tua figlia. E forse tu vorrai ancora credere che il mondo non e' cambiato. Vorrai credere di aver sempre avuto i diritti che hai oggi. E va bene cosi'. Perche' alle donne che si prendono davvero cura delle altre donne e le sostengono non frega niente di quello che pensi di loro. A loro importa del proprio futuro e di quello delle donne che verranno dopo di loro.
Apri gli occhi. Aprili bene. Perche' io sono qui a dirti, insieme a milioni di altre donne, che tu non sei una pari. La nostra uguaglianza e' un'illusione. Un gioco di prestigio piacevole. Un trucco della mente. Mi dispiace dirtelo, ma tu non sei una pari. E non lo sono neanche le tue figlie.
Ma non preoccuparti. Noi cammineremo per te. Noi combatteremo per te. Noi ci alzeremo per te. E un giorno sarai davvero una pari, anziche' credere di esserlo e basta."
~ Dina Leygerman, 2017
https://medium.com/@dinachka82/about-your-poem-1f26a7585a6f…

domenica 22 gennaio 2017

Trump, la marcia delle donne. Un fiume a Washington

Attrice America Ferrera apre manifestazione a Washington. Hillary, marciamo per i nostri valori.

Sono 2,5 milioni i manifestanti in tutto il mondo che hanno aderito alla marcia delle donne organizzata nelle principali capitali contro l'insediamento di Donald Trump. Lo riferiscono gli organizzatori del Womens March.

Una marea umana a Washington per la 'marcia delle donne', una mobilitazione nata da un'idea lanciata su Facebook e diventata un evento storico con centinaia di migliaia di persone che, nel primo giorno dell'amministrazione Trump, si sono riversate nella capitale per far sentire la propria voce, per dare forma alla protesta contro un presidente che "non ci rappresenta", dicono. E il messaggio e' forte e chiaro nella mobilitazione che ha pochi precedenti, al punto che l'organizzazione dell'evento e' costretta a cambiare i piani all'improvviso per gestire l'enorme partecipazione, oltre ogni aspettativa. E quando la marcia parte cambia anche il tragitto: si va verso la Casa Bianca.

Si parla di oltre 500 mila persone che come un fiume in piena scorrono lungo le principali arterie della citta'. Un'onda rosa che nella protesta adesso sembra inarrestabile. Ma ci sono tutti i colori dell'America in questa massa umana, ci sono tutte le generazioni, ci sono gli uomini scesi in piazza da "alleati" delle donne, ci sono famiglie intere, con bambini piccoli. Ci sono i padri e le figlie. I nonni e i nipoti. C'e' chi ha guidato per dieci ore per essere qui. Chi e' arrivato in treno o in bus. E per tutta la mattinata i vagoni della metropolitana hanno viaggiato pienissimi. Qualcuno ha cominciato a scandire slogan e intonare canti fin da li', nonostante la calca. Alle fermate designate per la manifestazione scendono tutti e alzano subito i cartelli: Black Lives Matter, R-E-S-P-E-C-T, "I diritti delle donne sono diritti umani", "La diversità rende l'America grande ADESSO!". Sono tra le migliaia di messaggi, dai piu' classici ai piu' creativi. E non si contano i pussyhat, i cappellini rosa nati da un'idea di due amiche californiane e diventati simbolo della protesta. Li indossano anche i moltissimi uomini che marciano con le mogli, le figlie, le amiche, le sorelle. Il perche' lo spiega all'ANSA Michael Mcewen del Maryland: "Mi ha portato in piazza oggi il desiderio, da uomo, di essere un alleato delle donne. Non sono qui per guidare questa marcia, non sono io il protagonista, ma sono qui per difendere il rispetto dei diritti di tutti".

Parolacce Madonna in diretta, imbarazzo tv Usa
'Rivoluzione parte da qui, non abbiamo paura' ''E' l'inizio della nostra storia: la rivoluzione parte da qui. Noi non abbiamo paura''. Lo afferma Madonna, intervenendo alla marcia delle donne contro Donald Trump a Washington. Madonna nel suo intervento in diretta tv si lascia andare all'uso di parolacce, imbarazzando i network americani collegati in diretta, che tagliano corto, tolgono il collegamento e interrompono Madonna.


E dal sito della Casa Bianca 'spariscono' sezioni clima, diritti' - Le pagine sui diritti civili, il cambiamento climatico e i diritti Lgbt spariscono dal sito della Casa Bianca di Donald Trump. La sezione sul cambiamento climatico è stata sostituita da An American First Energy Plan, in cui non si parla di clima e si afferma che il presidente "è impegnato a eliminare le politiche non necessarie e dannose come il Climate Action Plan''. La pagina sui diritti civili è stata rimpiazzata dalla sezione Standing Up for Our Law Enforcement Community, in cui i timori su come la polizia agisce vengono sostituiti dalla richiesta di aumentare il numero delle forze dell'ordine. Nel sito le parole 'nero' o 'afro-americano' non compaiono in nessuno dei documenti sulle prossime politiche di Trump, cosi' come non c'e' una sezione dedicata a uno dei temi che ha piu' cavalcato nella campagna elettorale, l'immigrazione.
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2017/01/21/hillary-marciamo-per-nostri-valori_c17ab632-7fa6-4bd9-a3f3-460fa2891260.html
 

sabato 21 gennaio 2017

Washington: le donne in marcia contro Trump di Cristina Piotti

La marcia delle donne americane contro Trump, e contro il pericolo di una nuova cultura sessista, è un evento diventato di portata globale. Anche Hollywood ha deciso di partecipare allo storico evento
Tutto è nato all’indomani della notte elettorale. La Clinton sconfitta, le battute sessiste del futuro presidente, il timore che, sui diritti umani (e sul ruolo delle donne), si facesse un enorme passo indietro.

Una nonna hawaiana (nonché giudice in pensione), Teresa Shook, ha condiviso il suo sdegno su Facebook, invitando altre donne a protestare con lei, marciando per le strade di Honolulu il 21 gennaio, giorno dell’insediamento di Donald Trump quale nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. Quando Teresa è andata a dormire, il suo post era stato condiviso da una quarantina di amiche. Quando si è svegliata, erano diventate 10 mila, e la sua idea si era trasformata in una gigantesca, corale, marcia su Washington, dichiaratamente ispirata a quella storica manifestazione del 1963, quando il reverendo Martin Luther King Jr. pronunciò il suo celebre discorso, I Have a Dream.

Ma nel corso dei mesi, l’evento, ribattezzato semplicemente Women’s March, ha preso una piega prima nazionale, allargandosi a 50 città statunitensi, e poi internazionale, arrivando all’adesione di gruppi organizzati in una ventina di nazioni. Il 21 gennaio, quindi, migliaia di donne in tutto il mondo (solo 100mila si sono registrate per l’appuntamento nella capitale Usa), insieme a molti uomini, scenderanno in piazza per l’uguaglianza di genere, ma anche contro misoginia, razzismo e omofobia. L’appuntamento principale è atteso per le ore 10, tra la Independence Ave. e la Third Street S.W. (luogo ancora da confermare) per terminare di fronte alla Casa Bianca. Le organizzatrici precisano che (ufficialmente) non si tratta di una manifestazione contro Trump. E il portavoce del neoeletto presidente s’affretta a precisare che può contare su uno “straordinario” numero di supporter donne. Ma la verità è che la critica è meno che velata, l’obiettivo stesso della loro presenza alla marcia è chiaro a tutte: denunciare la condotta sessista e le affermazioni lesive del prossimo presidente degli Stati Uniti.

Come in passato, Hollywood si schiera. A poche settimane dal discorso fortemente critico, tenuto da Meryl Streep durante gli Oscar, le donne dello star system appoggiano la marcia. Da Amy Schumer ad America Ferrera, da Julianne Moore a Debra Messing, ecco le star che marceranno contro Trump, a Washington: guarda la gallery.
http://www.iodonna.it/attualita/storie-e-reportage/2017/01/20/marcia-delle-donne-contro-trump/


mercoledì 18 gennaio 2017

Il sessismo linguistico c’è, ma non si vede. Istruzioni per il (dis)uso di Alessia Pizzii

Quando parliamo siamo sessisti senza saperlo, senza volerlo. Questo perché la lingua italiana è dissimmetrica per tradizione e i parlanti non sono stati educati alla differenza.
A ricordarcelo è il quarto tomo della collana “L’Italiano, conoscere e usare una lingua formidabile”, uscita negli ultimi mesi col Venerdì di Repubblica. Si tratta di Sindaca e Sindaco: il linguaggio di genere, a cura di Cecilia Robustelli, docente che collabora con l’Accademia della Crusca (di cui vi invito a leggere il pdf gratuito “Donne, Grammatica e Media”).
Per quanto si voglia credere che la questione sia noiosa, che non ci riguardi, che sia rivolta a quei pochi che capiscono di linguistica, il sessismo nella lingua italiana non solo è una realtà, ma è una realtà latente.
Il dibattito, a differenza di quanto si pensi, non è affatto attuale: abbiamo almeno 20 anni di scontri alle spalle. Chiedetelo ad Alma Sabatini, autrice  de Il sessimo nella lingua italiana, un lavoro pubblicato nel 1987 e patrocinato dalla Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna. Il programma del governo Craxi lo presentò raccogliendo i frutti della militanza femminista degli anni Settanta, ma trovò parecchie resistenze negli anni successivi. Ve lo dimostra il fatto che solo ora la faccenda sta assumendo una certa rilevanza.
La tradizione è dura a morire!
Il libricino di Robustelli (e non “della Robustelli”…proseguite con la lettura!) è molto articolato come potete intuire da queste premesse, sia quando racconta la storia, sia quando si addentra in analisi più squisitamente linguistiche. In alcuni casi è complesso da seguire, ma chiunque, sfogliandolo, può comprendere il messaggio che conserva tra le sue ricche pagine.
Si tratta di un garbato invito (in perfetto stile “Crusca”) a riflettere sul proprio linguaggio quotidiano per superare gli usi obsoleti ereditati da una tradizione in cui le donne non sono protagoniste quanto gli uomini a livello sociale e politico.
Proprio per questo motivo vorrei raccontare cosa è successo quando ho iniziato a riportare agli altri quello che leggevo nel libro, a volte semplicemente pourparler, altre per provocare, ma sempre con molta attenzione alle reazioni dei miei interlocutori.

Caso 1: Obiezione, Avvocato!
Parlando del mestiere di scrivere durante un caffè con un amico avvocato sostengo che sia un dovere professionale stare al passo con i tempi in fatto di lessico perché sono proprio i media a influire sul parlato.
La questione di genere esce fuori perché il mio amico è un appassionato di diritti dell’uomo.
Zac!
Ecco il primo errore: si dice diritti della persona!
Lui sorride e mi ricorda che una sua professoressa non faceva altro che ricordare agli studenti quanto la lingua italiana fosse sessista in questo caso… vi basti ricordare anche espressioni quali paternità dell’opera e fratellanza.
Tali espressioni fanno parte del cosiddetto “maschile non marcato”, cioè un uso neutro del genere maschile da applicare anche a esseri femminili. Peccato che il neutro sia un genere rimasto ai greci e ai latini.  Fateci caso quando parlate: riuscireste a evitarlo?
Passiamo poi agli atti. Il mio amico mi rivela che spesso, con grande imbarazzo, lui e i suoi colleghi non sanno come uniformare i testi di fronte alla differenza di genere: trovano scritto “La Rosselletti” (femmina) e “Rosselletti” (maschio).
La comune usanza di mettere l’articolo al femminile esclusivamente di fronte al cognome di una donna fa parte di un uso dissimetrico della lingua e sarebbe da evitare. Per eludere il problema gli avvocati decidono di inserire Signora e Signora, oppure nome e cognome.
Il mio amico aggiunge:
ma tu che scrivi per lavoro non hai paura di risultare “sbagliata” quando scrivi Raggi al posto di La Raggi? O la Poeta al posto di Poetessa?
Più che paura di sembrare ignorante, ho paura che i lettori giungano a conclusioni affrettate senza essere sfiorati dal dubbio che qualcosa debba essere cambiato nel nostro linguaggio. Proprio dal dubbio può nascere una soluzione!
Per concludere, scateno un grande interesse quando dico al mio amico che governante al femminile significa donna delle pulizie e al maschile significa reggente del potere e che dunque c’è una differenza nel significato di alcune parole, a seconda del genere.

Ci avete mai pensato?

Caso 2: la dichiaro Signora Dottore!
Il Presidente della Commissione (anno 2014) mi dichiarò “Signora Dottore” in Filologia Classica, lasciando perplessa me e tutti gli ascoltatori in sede di laurea.
Che confusione!
Il suffisso di Dottoressa viene spesso considerato sessista (anche da Sabatini) perché derivazione di un uso ironico originario della commedia greca; oltre a trattarsi di una desinenza irregolare (visto che dottora, pur non piacendo come termine,  sarebbe il corrispondente naturale di dottore, come sindaco/a, avvocato/a) era malvisto perché significava “donna saccente“. Le due forme sono in lotta dall’Ottocento, tanto che le donne alla fine si facevano chiamare “dottore”.
L’avreste mai detto che dottora era già attestato due secoli fa o l’avreste considerato spiacevole da sentire come sindaca?
Con gli anni il tono sprezzante della desinenza -essa si è smorzato e ha perso anche il significato di “moglie di”. Ad esempio la presidentessa per molto tempo è stata “la moglie del presidente”.

Caso 3: Signorine alla Cassa
Più divertente il caso in cui una mia amica mi chiede scherzando perché viene chiamata signorina dal cassiere del Supermercato.
Le suscito qualche perplessità quando le dico che signorina è inadatto: un suo coetaneo sarebbe stato chiamato signore perché signorino viene utilizzato solo ironicamente.
Da quel momento lo dice a tutti (cassieri, cassiere e non!)

Caso 4: Quando il nome “stona”
La lotta più dura è stata quella con soprano. Curando un articolo di un collaboratore mi suonava strana la scritta il soprano marchigiano Luciana Rossi.
Dall’alba dei tempi si dice il soprano anche per le donne. Del resto il nome è maschile.
La soprano marchigiana Luciana Rossi può comunque essere un’alternativa, nonostante l’uso tradizionale.

Gli antichi insegnano…
Ho fatto mio il motto di Robustelli: Ciò che non si dice non esiste! proprio per spiegare a tutte le persone con cui mi relaziono che alcune parole risultano “brutte” e cacofoniche solo perché non siamo abituati a sentirle.
Se la lingua italiana non basta come esempio pensate che la prima voce letteraria femminile dell’antichità non aveva un nome per descrivere la sua professione. Saffo, per l’Antologia Palatina, era la “decima musa” dopo nove poeti lirici.
La perifrasi non è stata utilizzata con fine galante ma perché la parola poeta declinata al femminile (ποιήτρια) proprio non esisteva.
Sarà attestata per la prima volta (e senza ironia) nelle epigrafi di età ellenistica, cioè molti secoli dopo, quando le donne iniziano ad avere uno spazio pubblico, una mobilità differente e possono vagare come performers per cantare le loro poesie. (Rimando a Le poetesse “virili” dell’antichità.)
Anche gli antichi greci, insomma, sono stati confusi per un bel po’ quando hanno iniziato a vedere che le donne gli rubavano la scena!

Morale della favola?
Si percepisce un forte imbarazzo, una terribile incertezza nel parlato, ma anche una specie di ribrezzo nei confronti di parole che invece presentano uscite naturali.
Nonostante le usanze tradizionali, noi parlanti del presente siamo qui proprio per cambiare questo meccanismo cristallizzato, che fa sembrare strane parole semplicissime declinate al femminile. Primo su tutti Sindaca ( Habemus Sindaco, Sindaca o Sindachessa?) di cui vi lascio una precedente riflessione.
Insomma, come ricorda Robustelli possiamo accettare neologismi come disposofobia e non ministra?

A tal proposito un recente intervento di Sgarbi contro la Presidente (e non presidenta!) Boldrini ha fatto giustamente scattare l’Accademia della Crusca su Twitter.

Per questo motivo resto fermamente convinta del fatto che il libretto di Cecilia Robustelli dovrebbe essere diffuso nelle scuole per sensibilizzare i giovanissimi all’ascolto della diversità linguistica.
Non si tratta di un cambiamento immediato né imposto, ma proprio perché la lingua è in qualche modo estrinsecazione della realtà ci aspettiamo un’evoluzione in positivo per il linguaggio di genere.

Non tappatevi le orecchie perché credete sia femminismo fine a se stesso, una lotta contro non si sa quale mulino a vento.
La lingua rende l’essere umano una creatura speciale e i suoi strumenti, le parole, sono importanti.
Usiamole con cura. Senza paura, senza vergogna e con più consapevolezza!
http://www.culturamente.it/societa/sessismo-linguistico-cecilia-robustelli-linguaggio-di-genere-accademia-della-crusca/



sabato 14 gennaio 2017

Oceania, la svolta femminista delle fiabe di Maria Grazia Colombari

Addio alla principessa che aspetta con ansia che arrivi il principe azzurro a sposarla trasformandola in regina amata e moglie premurosa. Le nuove eroine dei cartoni sono giovani donne che non aspettano di essere salvate, non ricercano l’amore; ma preferiscono imbarcarsi in coraggiose avventure e conoscere il mondo. Oceania è il cartone simbolo di questo cambio di rotta. La giovane protagonista del film d’animazione è Vaiana (nella versione americana il nome è Moana, mentre in Italia si è ritenuto opportuno cambiarlo in Vaiana in modo da lasciare almeno l’assonanza): un’adolescente, femminista convinta, che si imbarca nella coraggiosa missione di salvare il proprio popolo da antiche maledizioni. Ci riuscirà dando dimostrazione della forza del genere femminile considerato universalmente il sesso debole, nei cartoni animati sinonimo di fragilità.
Già in passato, per la verità, alcuni cartoni animati avevano introdotto una figura femminile tutt’altro che fragile; ma sempre come personaggio di secondo piano rispetto all’eroe principale rigorosamente maschile. Kiara, nel Re Leone, pur essendo di sangue blu, non vuol diventare regina, vuole vedere il mondo e cavarsela da sola in tutte le situazioni così come Pocahontas, una fanciulla emancipata ed indipendente, abituata a vivere da sola perché il padre, che è il capo del villaggio, è spesso costretto ad assentarsi per lunghi periodi. Pocahontas si ribella quando il papà vuole darla in sposa al più forte guerriero del villaggio. E vince lei: sposerà l’uomo di cui si è innamorata e che non appartiene alla sua gente. In Zootropolis si affrontano altri temi importanti quali la discriminazione sociale e di genere. Una apparente aria di armonia nasconde invece un’atmosfera di forte razzismo.
Non dobbiamo però condannare i classici film di animazione, come i bellissimi Cenerentola e Biancaneve, perché sono figli di un periodo storico in cui il dibattito sui temi relativi alla parità di genere e sulla necessità di porre fine agli stereotipi non erano così sviluppati come in questo momento. Le fiabe erano organizzate cinematograficamente per stupire e far sognare grandi e piccini più che per trasmettere una morale. I tempi, oggi, sono cambiati e il problema della disparità femminile è sentito in molte parti del mondo. Per aiutare le generazioni future a vivere in un mondo più giusto, libero da preconcetti, è necessario insegnare ai bimbi la parità. E quale miglior mezzo se non narrarla attraverso i cartoni animati?
http://27esimaora.corriere.it/17_gennaio_03/oceania-svolta-femminista-fiabe-d8077e7a-d1ea-11e6-84db-e13450de3838.shtml


venerdì 13 gennaio 2017

Esplora il significato del termine: Come sfondare il tetto di cristallo? Dopo Hillary Clinton serve un piano B di Maria Luisa Agnese

La sensazione è che, insieme a Hillary Clinton, abbia perso l’intero movimento femminista. Maria Serena Natale ha avviato su questo Blog una discussione che potrebbe dare il tono a molte delle nostre riflessioni nei prossimi mesi. Il 2017, che avrebbe potuto essere l’anno del trionfo delle aspirazioni delle donne con una donna insediata alla Casa Bianca, e altre due ai vertici europei come Angela Merkel e Theresa May, si apre invece con una vistosa inversione di marcia. E anche se la sconfitta di Clinton ha motivazioni fortemente politiche e umorali, non si può archiviare tanto facilmente quello che il suo fallimento significa per tutte le donne. «Il femminismo ha perso, si è tornate indietro alla velocità del suono. Che fare ora?» si interroga sul New Tork Times Susan Chira, giornalista di alto rango e lungo corso del giornale, e si augura insieme alla scrittrice femminista Erica Jong che gli spiriti che si sono liberati nelle ultime elezioni americane ed europee non aprano la strada a una nuova misoginia. Con le donne che assorbono i pregiudizi degli uomini, quasi senza accorgersene. E che il tetto che andava sfondato non si chiuda irreparabilmente sulle nostre teste.
«Perché la mancanza di rispetto chiama mancanza di rispetto» e gocciola piano piano come un veleno nelle teste di tutti, come ha ricordato l’attrice Meryl Streep ai Golden Globe. E proprio per questo è importante capire che fare, cercando prima di tutto di non farsi ricacciare indietro nella logica del separatismo e del suffragettismo, di non mettere a rischio la nuova identità pragmatica e inclusiva che il movimento aveva tentato di assumere negli ultimi anni. Vigilare e combattere ma non farsi cambiare, difendendo i propri valori sembra essere la chiamata per questi prossimi anni.
La storia del movimento delle donne è fatta di tanti stop and go, ma se c’è una cosa che ha imparato negli ultimi anni, faticosamente, è che dove le donne sbagliano è spesso nei toni, e riguardo a questo forse non si è ancora riflettuto abbastanza su quelli troppo assertivi, quasi superciliosi, di Hillary Clinton. Meglio, molto meglio, pensare di non avere mai la vittoria in tasca, di procedere sulla propria strada ma senza troppe ostentazioni da prime della classe, perseguendo quella politica pragmatica che le donne hanno coltivato nei secoli nelle loro case, a volte con dolorosa resilienza, e che come strumento di supporto può aiutare ancora.
E pragmatismo oggi vuol dire tenere la barra fissa su alcuni temi che negli ultimi anni sono stati cruciali - parità di salario, aborto, salute, vigilanza sul sexual harrassment e la violenza - e che hanno dato un’eco potente al loro impegno. Bene dunque tenere alta la guardia anche con proteste e marce a cominciare da quella prevista a Washington il 21 gennaio, ma sempre tenendo presente che la nuova strada, quella dell’inclusione e dell’allargamento senza inutili contrapposizioni, non va abbandonata ma allargata. Cercando di includere portare con sé tutte le donne: le lavoratrici e non solo quelle della classe già dirigente e privilegiata; le donne che non lavorano e forse non lavoreranno mai, le ragazze che non vogliono sentir parlare di femminismo convinte che la battaglia sia già vinta. Convincerle che il femminismo è anche affar loro, non solo una battaglia di lusso, e soprattutto convincere sempre più uomini che la battaglia è anche la loro, e che più donne nel mercato nel lavoro non ruberanno lavoro e non azzopperanno le famiglie, ma al contrario allargheranno quel mercato e con una politica di condivisione formeranno famiglie migliori. Ci sono i dati a dimostrarlo.
Christine Lagarde la signora del Fmi, donna capace di ispirare le altre in quanto pragmatica e assertiva («everything is better with butter», ogni cosa vien meglio con un po’ di burro è il suo motto, rubato alla nonna) ha di recente provato con una ricerca condotta dal suo fondo che sono proprio le donne l’unica grande riserva di energia che non ha ancora sviluppato il suo potenziale: secondo lo studio Fmi sarebbe infatti del 15 per cento la percentuale di ricchezza persa a causa delle discriminazione di genere, anche nei Paesi avanzati. Fondamentale in tutto ciò la capacità di comunicarlo, le parole per dirlo. Che devono essere semplici ma non scontate. Che arrivino a parlare a tutte le donne e a tutti gli uomini sui temi fondanti della loro vita, perché il Pil da solo, si sa, non dà la felicità.
Forse qualcosa da imparare c’è da un gesuita di gran talento per la sintesi mediatica 2.0, arrivato a rivitalizzare la Chiesa senza toni trionfalisti. E allora cerchiamo come lui invita a fare, di non chiuderci, non giudicare, ma aprirci agli altri alle loro speranze, ai loro bisogni, alle loro fragilità. Recuperando i nostri valori e poi condividendoli con l’altro, uomo o donna che sia. Un femminismo in uscita, dunque e mai arroccato, dolce e potente come Francesco.
È lo scarto che già si nota nel passaggio tra due modelli femminili, come quelli di Hillary Clinton e Michelle Obama, due donne divise da meno di una generazione, nate agli estremi della stagione dei baby boomer, una nel 1947, l’altra nel 1964, brillantissime entrambe ma lontane anni luce nell’attitudine verso gli altri. Nel suo ultimo discorso parlando con un gruppo di insegnanti e ringraziandole per quel che fanno per le nuove generazioni, Michelle Obama si è saputa commuovere: «Siate determinate» ha detto «usate la vostra istruzione per essere autorevoli». Ed è significativo che sempre Michelle, una delle donne che più hanno ispirato negli ultimi tempi, in senso lato, le donne in tutto il mondo – e che lascia il suo posto di First Lady con il consenso di due americani su tre - abbia ridato vita, con i suoi modi e il suo comportamento a una parola del repertorio più tradizionale femminile, la grazia, e l’abbia imposta come cifra di stile della presidenza sua e di suo marito. La grazia, controverso e discusso cardine dell’educazione delle fanciulle, riproposta da una donna di colore intelligente, calda e molto brillante. Vorrà dire qualcosa.Come sfondare il tetto di cristallo?
http://27esimaora.corriere.it/17_gennaio_10/come-sfondare-tetto-cristallo-hillary-clinton-serve-piano-b-94871266-d72e-11e6-94ea-40cbfa45096b.shtml

giovedì 12 gennaio 2017

Perché è necessario uno sciopero delle donne? di Saura Effe

In Argentina, lo scorso 19 ottobre, le donne hanno conquistato strade e piazze dopo l’ennesimo episodio sintomatico di una cultura machista, sessista e patriarcale: lo stupro e la successiva brutale uccisione della sedicenne Luisa Pèrez.
Sabrina Cartabia, una delle organizzatrici della manifestazione aveva all’epoca dichiarato: “Con questo corteo diciamo ‘ora basta!’ Non torneremo ad essere sottomesse e non tollereremo più nessuna delle forme di violenza con cui fino ad oggi abbiamo dovuto aver a che fare”.
Un messaggio potente, forte e chiaro, che come sappiamo ha fatto il giro del mondo – giungendo lo scorso 26 novembre anche in Italia e prendendo forma nella manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne Non Una Di Meno, il cui nome, appunto, è stato ispirato dalla campagna argentina Ni Una Menos. A Roma, quel giorno, si sono contate 200.000 presenze, presenze che si sono ritrovate assieme, unite di nuovo nella stessa lotta nonostante le differenti sensibilità ed esperienze femministe.

Il corteo Non Una Di Meno è stato un’esperienza corale, una esplosione di contenuti politici ma soprattutto è stato un corteo che ha rappresentato l’inizio di un ambizioso percorso. Non Una Di Meno, infatti, aspira alla creazione di un piano nazionale contro la violenza di genere; un piano però non costruito a tavolino dalle istituzioni o dalle alte cariche dello stato che ben poco sanno di violenza di genere – e che spesso parlano la lingua dell’oppressore – ma un piano che parta dal basso, dal vissuto diretto delle donne e dei soggetti oppressi, dall’esperienza dei centri antiviolenza radicati sui territori, dalle condizioni materiali e dalle necessità primarie da soddisfare per poter costruire concretamente percorsi di uscita dalla violenza.
Per raggiungere questo scopo, tuttavia, è necessario organizzarsi e senz’altro tenere alta l’attenzione sulla tematica. Il prossimo passo promosso dalla rete Non Una Di Meno consiste in un secondo appuntamento a Bologna, il 4 e il 5 febbraio, assemblea nazionale che vorrebbe iniziare la stesura di questo piano contro la violenza. Ma non finisce qui: Non Una Di Meno punta, al contempo, verso uno sciopero delle donne, l’8 marzo 2017, un momento in cui legare la tematica della violenza di genere a quella lavorativa, economica, produttiva. Seguendo l’esempio dettato dalle altre femministe europee e non, la rete propone uno sciopero dai ruoli imposti per genere, uno sciopero da tutti quei lavori, mestieri e professioni che si compiono in quanto donne. Una seconda manifestazione con cui legare la questione della violenza di genere al mondo economico e lavorativo.

Il 3 ottobre scorso, in Polonia, le donne sono scese in piazza scioperando dai loro luoghi di lavoro e di studio contro l’incombente possibilità che il governo legittimasse una nuova legge sulla riproduzione – vietando, in pratica, l’aborto. Le donne, attraverso reti collettive, associazioni e diverse realtà hanno organizzato uno sciopero che ha permesso loro non solo di manifestare il proprio dissenso e la propria voglia di autodeterminazione ma anche di sottolineare quanto il loro ruolo lavorativo fosse rilevante, ingranaggio assolutamente necessario nella macchina capitalistica.

“Se le nostre vite non valgono, noi non produciamo”, questo lo slogan che, ancora una volta, ha avuto eco in tutto il mondo e da cui, Non Una Di Meno cerca ancora d’ispirarsi.
Uno sciopero delle donne, in Italia ha lo scopo non solo di sottolineare le condizioni pietose in cui verte il mondo del lavoro - Jobsact: precariato e voucher a tutto spiano - ma anche come queste leggi e meccanismi hanno acuito l’oppressione di genere. Con lo sdoganamento del lavoro a tempo strettamente determinato, trimestrale, precario e saltuario, la condizione delle donne si fa ancora più critica.
Le donne, che già prima del Jobsact percepivano circa il 30% dello stipendio in meno dei colleghi uomini – seppur a parità di mansione – si vedono ulteriormente sospinte verso la povertà grazie alla nuova riforma; ed essendo sempre più povere, per loro, uscire da eventuali situazioni di violenza e di abuso diventa ancora più complesso. La necessità di un reddito proprio, di aver accesso alle proprie finanze in modo indipendente da figure altre, la necessità di una abitazione diversa da quella del compagno, di avere un qualche sostentamento che permetta loro di fuggire e, in seguito, di mantenere i propri figli e figlie – sono orizzonti irraggiungibili in mancanza di un impiego stabile.
La mancanza di lavoro al di fuori della casa, porta le donne, inoltre a correre un ennesimo rischio: quello di essere impiegate a tempo pieno, invece, entro le mura domestiche, sopperendo a tutte quelle mancanze statali che dovrebbero essere soddisfatte attraverso un welfare. L’inaccessibilità alle professioni non solo relega le donne all’interno della casa ma rinforza, incoraggia e reitera gli stereotipi legati al genere, che vedono quel lavoro di cura della famiglia come qualcosa di naturale, di scontato, per cui le donne sarebbero ‘geneticamente’ portate.
Se parliamo, inoltre, di intersezionalità, noteremo automaticamente che questa condizione, già di per sé grave, peggiora ulteriormente in dipendenza dalle variabili etniche e di classe.

Fermando tutto, costringendo la produzione capitalistica ad un giorno d’arresto, vogliamo non solo riprenderci lo spazio - le strade, le piazze, e tutti i luoghi a noi preclusi -, non solo riprenderci il tempo - una giornata tutta, per intero -, ma soprattutto mostrare la forza e le conseguenze di quell’azione. Per un giorno le donne tutte non faranno ciò che ci si aspetta da loro, saranno assenti dai loro luoghi di lavoro e di studio, qualunque essi siano.
Così come è stato per lo sciopero dei migranti ‘Una Giornata Senza Di Noi’ del 2010, torna la formula dello sciopero: per rendere visibili persone invisibili pensiamo ad una serie di modalità di protesta, che vanno dall'astensione dal lavoro, allo sciopero bianco, allo sciopero degli acquisti all'adesione simbolica.
Il grande ostacolo consiste nel rendere possibile a tutte l’accesso alla manifestazione - perché non tutte hanno la possibilità di potersi assentare dal lavoro. Fortunatamente, lo sciopero delle donne è ancora tutto da costruire e sono diverse le ipotesi messe in campo.
Vogliamo redigere un tariffario delle prestazioni di genere che ci vengono richieste in quanto donne.
Vogliamo organizzare una notte bianca - aspettando lo sciopero dell’otto marzo - di donne etero, lesbiche, bisessuali, trans, femministe, così come si sta organizzando in Francia, a Marsiglia, dove si rivendicherà uno spazio, quello pubblico, che è normalmente - o forse esclusivamente - territorio degli uomini.
Vogliamo proclamare uno sciopero con le donne come protagoniste ma sostenuto da tutt* coloro che hanno supportato il percorso Non Una Di Meno e da tutt* coloro che si battono contro ogni tipo di oppressione di genere.
Vogliamo trovare soluzioni collettive come è avvenuto in Polonia in cui le normali attività compiute dalle donne e rientranti nel cosiddetto ‘lavoro di cura e di riproduzione’ sono state compiute da mariti, compagni, padri, fidanzati, fratelli, nonni.
Vogliamo venirci incontro perché tutte possano partecipare alla manifestazione attraverso pratiche di mutuo soccorso.

Tutto è ancora da scrivere, conservando quella coralità d’azione e di pensiero che ha già caratterizzato il nostro 26 novembre. L’8 marzo, rispondiamo ad una chiamata internazionale che ad oggi, già coinvolge ventiquattro paesi cercando di fare la nostra parte, rimanendo fedeli alle nostre intenzioni: essere libere, tutte, nessuna esclusa, non una di meno.
Pretendiamo molto, a partire da un otto marzo lontano dalla narrazione mainstream e istituzionale, che non veda le donne come figure da esaltare per un giorno soltanto – e da rinchiudere di nuovo il giorno successivo. Pretendiamo di essere protagoniste, di essere noi a dettare le nostre condizioni. Vogliamo riprenderci quella data, modificarne il contenuto e l’immaginario simbolico, vogliamo che sia non solo una giornata di lotta ma di conquista, per le donne e per tutte le soggettività oppresse.

Riferimenti:

https://www.theguardian.com/world/2016/oct/21/we-live-in-constant-fear-a...

http://www.independent.co.uk/news/world/europe/france-woman-strike-pay-g...

http://www.bbc.com/news/world-europe-37540139

http://nytlive.nytimes.com/womenintheworld/2016/10/25/women-in-iceland-p...

da:
http://www.communianet.org/gender/perch%C3%A9-%C3%A8-necessario-uno-sciopero-delle-donne

mercoledì 11 gennaio 2017

Le 20 artiste che hanno cambiato la storia dell’arte

Evolvendosi nel tempo, il ruolo della donna è diventato sempre più preminente, ma soprattutto è l’Arte stessa ed essere mutata negli ultimi anni…

MILANO – In principio fu Artemisia Gentileschi, pittrice italiana di scuola caravaggesca vissuta durante la prima metà del XVII, che aprì la strada alla nuova ideologia che non solo gli uomini potevano ricoprire il ruolo di artisti. Evolvendosi nel tempo, il ruolo della donna è diventato sempre più preminente, ma soprattutto è l’Arte stessa ed essere mutata negli ultimi anni. La scena artistica attuale è molto ricca di proposte ed esempi che scaturiscono dalle sue interpreti, ma vediamo nel dettaglio quali sono le pittrici, fotografe e performer contemporanee più famose e conosciute.

LE PROTAGONISTE NELLA STORIA – Tra i primi riferimenti ad artisti donne, Plinio il Vecchio ci riporta alcuni nomi di pittrici greche: Timarete, Kalypso, Aristarete, Iaia e Olympas. Probabilmente la componente femminile nel mondo dell’arte è stata sempre presente; esse forse sono sempre esistite da quando esiste l’arte, ma fino al XVI secolo il loro contributo, la loro effettiva presenza documentata nella storia rimane poco visibile, forse quasi nulla.
C’è da sottolineare che nel Medioevo, gli artisti, sia uomini che donne, raramente erano menzionati personalmente. Essi erano considerati degli “artigiani” e raramente firmavano le loro opere. In altri settori le donne però venivano nominate: come membri delle corporazioni miniaturistiche, illustratrici di libri o ricamatrici. La maggior parte di esse però erano normalmente suore o aristocratiche. Però dal Rinascimento all’Impressionismo le cose cominciano davvero a cambiare: le donne artiste veramente grandi, quelle insomma che possono essere considerate a tutti gli effetti vere professioniste dell’arte, si sottraggono all’invisibilità: Artemisia Gentileschi, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, la simpatica olandese Judith Leyster, Rosalba Carriera, Elizabeth Vigée Lebrun, Angelika Kauffmann, Mary Cassatt e Berthe Morisot.

Di seguito vi proponiamo le 20 artiste più note, dalla modernità ad oggi.

1. ARTEMISIA GENTILESCHI – Figlia d’arte, suo padre era il noto pittore Orazio, Artemisia è senz’altro la più amata e conosciuta. Nata 8 luglio 1593, il suo stile è da inserirsi nella scuola caravaggesca. Vissuta durante la prima metà del XVII secolo, riprese dal padre Orazio il limpido rigore disegnativo, innestandovi una forte accentuazione drammatica ripresa dalle opere del Caravaggio, caricata di effetti teatrali; stilema che contribuì alla diffusione del caravaggismo a Napoli, città in cui si era trasferita dal 1630. Negli anni settanta del secolo scorso Artemisia, a partire dalla notorietà assunta dal processo per stupro da essa intentato, diventò un simbolo del femminismo internazionale, con numerose associazioni e circoli ad essa intitolate. Contribuirono all’affermazione di tale immagine la sua figura di donna impegnata a perseguire la propria indipendenza e la propria affermazione artistica contro le molteplici difficoltà e pregiudizi incontrati nella sua vita travagliata.

2. SOFONISBA ANGUISSOLA – La cremonese Sofonisba, nata dalla nobile famiglia piacentina degli Anguissola, fu una delle prime esponenti femminili della pittura europea. Anche se la sua celebrità non fu pari a quella di altre pittrici salite in seguito alla ribalta dell’arte come Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera o Angelika Kauffman, Sofonisba rappresentò la pittura italiana rinascimentale al femminile.

3. ROSALBA CARRIERA – La veneziana Rosalba è stata una pittrice e ritrattista, tra le più note del Settecento. Cominciò la sua carriera artistica dipingendo le tabacchiere con quelle figure di damine graziose che divennero poi la sua fortuna trasposte nelle miniature su avorio. Fu la prima che utilizzò l’avorio nelle miniature dandogli quella lucentezza caratteristica delle sue opere. Fu inoltre la prima a non seguire le regole accademiche che volevano la miniatura dover essere realizzata con tratti e punti brevi e ben amalgamati: lei invece vi trasportò il tratto veloce caratteristico della pittura veneziana.

4. ANGELIKA KAUFFMAN – Maria Anna Catharina Angelika Kauffmann, nata a Coira il 30 ottobre 1741, è stata una pittrice svizzera, specializzata nella ritrattistica e nei soggetti storici. Nutriva passione anche per le altre arti come la musica e il canto. Il padre pittore la iniziò alle belle arti, anche accompagnandola, ai fini di una più completa formazione, nel corso di viaggi in Italia, dove il suo talento si mise in mostra. In seguito si recò anche a Londra; fu l’unica donna fra i fondatori della Royal Academy of Arts.

5. BERTHE MORISOT – Berthe Marie Pauline Morisot, nata Bourges nel gennaio 1841, è stata una pittrice impressionista francese. Nella sua vita, Berthe Morisot, come le altre artiste del periodo, dovette lottare contro chi trovava disdicevole per una donna la professione di pittrice. I pregiudizi del tempo, oltre a darle difficoltà a dipingere all’aperto o in luoghi pubblici, la resero indifferente ed estranea alle questioni sociali che agitavano la vita parigina in quei decenni; Berthe fu quindi portata a dipingere interni e scene domestiche, con donne eleganti della media e alta borghesia ritratte in casa o in giardino, in varie ore della giornata. Non fu mai però un’artista superficiale: un dato costante della sua arte è infatti l’analisi interiore dei personaggi, probabilmente influenzata in questo dall’amicizia con molti letterati, in particolare Stéphane Mallarmé.

6. TAMARA DE LEMPIKA – L’autoritratto nella Bugatti Verde” del 1929, esemplifica alla perfezione l’arte e la personalità della pittrice. È forse l’opera più famosa della Lempicka, diventata poi immagine simbolo di un’epoca, emblema della donna indipendente che si afferma. La pittrice, nata a Varsavia nel 1898, si ritrae in caschetto e guanti di daino al volante di un’auto sportiva.

7. FRIDA KAHLO – Probabilmente Frida, nata in Messico nel 1907, è l’artista tra le più amate e conosciute al mondo, un grande esempio di forza e di creatività. Il rapporto ossessivo con il suo corpo martoriato, a causa di un terribile incidente del 1925, caratterizza uno degli aspetti fondamentali della sua arte: crea visioni del corpo femminile non più distorto da uno sguardo maschile. Allo stesso tempo coglie l’occasione di difendere il suo popolo attraverso la sua arte facendovi confluire il folclore messicano.

8. GINA PANE – Nata nel 1939, Gina Pane è stata un’artista francese, nata in Francia e vissuta in Italia. Dalla formazione accademica di Gina Pane deriva l’interesse per il corpo e la sua fisicità, fino al limite della sofferenza imposta allo stesso corpo. Figura di primo piano della body art degli anni settanta, realizzò una serie di performance, minuziosamente preparate e documentate, in cui ogni gesto, spesso legato alla dimensione dolorosa del corpo, viene compiuto con un’apparenza rituale. Così l’artista descrisse il suo lavoro: ”Vivere il proprio corpo vuol dire allo stesso modo scoprire sia la propria debolezza, sia la tragica ed impietosa schiavitù delle proprie manchevolezze, della propria usura e della propria precarietà. Inoltre, questo significa prendere coscienza dei propri fantasmi che non sono nient’altro che il riflesso dei miti creati dalla società… il corpo (la sua gestualita) è una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro”.

9. REBECCA HORN – Nata nel 1944, è una scultrice e regista tedesca, famosa soprattutto per le sue estensioni corporali, opere che consistono in prolungamenti di parti del corpo, la più famosa delle quali è ritenuta essere Einhorn (Unicorno), un vestito dotato di un lungo corno che si proietta in alto partendo dalla testa, e Pencil Mask (Maschera di matite), una maschera con diverse matite che ne fuoriescono.

10. BARBARA KRUGER – Nata nel 1945, è una fotografa statunitense. I lavori di Kruger sono diretti ed evocano una risposta immediata. Spesso si avvale di immagini di donne recuperate da pubblicità su riviste o giornali, a cui aggiunge brevi testi che ne sovvertono il senso. L’uso delle immagini in bianco e nero, il font e la scelta dei colori hanno creato uno stile originale e facilmente riconoscibile. Lo scopo dei messaggi di Barbara Kruger è quello di farci riflettere su temi politici e sociali e sui luoghi comuni della società moderna.

11. MARINA ABRAMOVIC – È nata a Belgrado nel 1946. Nel 1976 iniziano la relazione e la collaborazione con un altro artista, Ulay, nato peraltro nel suo stesso giorno. Dopo dodici anni di relazione, hanno deciso di interrompere il loro rapporto con una camminata lungo la Grande Muraglia Cinese. Punta d’avanguardia della performance e della body art fin dai primi anni ’70, Marina Abramovic ha segnato in maniera profonda e innovativa l’arte degli ultimi trent’anni. Le scelte tematiche vanno dalla rappresentazione della sessualità e della femminilità, dalla dimensione intima e quotidiana, all’interpretazione etica e sociale della realtà contemporanea. Fin dagli esordi ha scelto il proprio corpo come oggetto della sua arte, indagando i confini estremi della resistenza fisica e psicologica.

12. JENNY HOLZER – Nata nel 1950, è un’ artista statunitense. Il suo campo di intervento è costituito dal posizionamento di brevi testi nello spazio urbano attraverso l’utilizzo di vari supporti (cartaceo, LED luminosi, pietre incise, video). Complessivamente si tratta di un’operazione di defamiliarizzazione del paesaggio mediatico più consueto che mima e ribalta i dispositivi pubblicitari. I testi, tipograficamente privi di ogni accento calligrafico, sono costituiti in prevalenza da brevi enunciati relativi alla quotidianeità, al potere, alla giustizia ai rapporti umani e, con maggiore insistenza negli anni più recenti, alla morte e alla guerra. Il punto di vista, soprattutto nei primi lavori, è spesso contraddittorio o ambiguo, mentre nelle ultime ricerche si registra spesso una maggiore componente drammatica.

13. SOPHIE CALLE – Nata a Parigi nel 1953, Sophie è tra le più apprezzate artiste del XX secolo. Dopo un’adolescenza impegnata nella politica, nel 1973 decide di partire e girare il mondo. Nel 1978 fa rientro nella sua città, dove si dedicherà alla fotografia, passione nata durante il suo lungo viaggio. Al ritorno però la sua vita è cambiata, lei stessa racconta di come si trovò senza amici, lavoro e niente da fare. Fu forse proprio questa condizione emotiva e sociale a portarla ad osservare le persone che la circondavano, con una curiosità morbosa che divenne quasi ossessione. Alla fine degli anni ’70 inizia a stendere i suoi primi Journaux intimes tra le cui pagine si susseguono riflessioni corredate da immagini. Tra questi, registra le sue prime ‘filatures parisiennes’ in cui segue degli sconosciuti per strada fino a perderli di vista, per dimenticarsene completamente qualche istante dopo.

14. NAN GOLDIN – Nasce nel 1953, è una fotografa statunitense contemporanea. Nan Goldin osserva la parte trasgressiva e nascosta della vita della città con un approccio intimo e personale. I ricordi privati divengono opere d’arte solo dopo la decisione di esporli. Ritrae amici e conoscenti, ma anche se stessa. Il suo stile diventa un’icona della sua generazione.

15. CINDY SHERMAN – Nata nel 1954 è una artista, fotografa e regista statunitense ed è conosciuta per i suoi autoritratti concettuali. Sherman produce serie di opere, fotografando se stessa in una varietà di costumi. In serie recenti, datate 2003, si presenta come clown. Sebbene la Sherman non consideri il proprio lavoro femminista, molte delle sue serie di fotografie, come ‘Centerfolds,’ (1981), richiamano l’attenzione sullo stereotipo della donna come  – Un’altra artista molto importante, seppur ebbe una brevissima produzione, fu Francesca Woodman, fotografa statunitense, nata nel 1958 e scoappare nella cinematografia, nella televisione e sui giornali.

 16. FRANCESCA WOODMAN – Un’altra artista molto importante, seppur ebbe una brevissima produzione, fu Francesca Woodman, fotografa statunitense, nata nel 1958 e scmparsa prematuramente nel 1981. Concentrò la sua attenzione sul suo corpo e su ciò che lo circondava, fino ad ottenere quasi un’astrazione, come nell’opera in cui si “mimetizza” sollevando le braccia, con il bosco retrostante. Per realizzare le sue fotografie, generalmente usava tempi di esposizione molto lunghi, che le permettevano così di partecipare attivamente alla creazione dello scatto fotografico.

17. VANESSA BEECROFT – Nata nel 1969, è una artista italiana. È considerata una delle artiste più innovative e accreditate nel panorama contemporaneo internazionale. La scelta espressiva della Beecroft matura fin da giovanissima è stata quella di pensare e realizzare performance, utilizzando il corpo di giovani donne più o scacchiera invisibile, con opportuni commenti musicali o con lo studiato variare delle luci.

18. SAM TAYLOR WOOD – Nata nel 1967, è un’ artista e regista britannica. Nota artista concettuale che lavora nel campo della fotografia e del cinema, identificandosi come membro del movimento Young British Artists.

19. ELISABETTA ALBERTI – Artista trentina che ha messo in scena nell’ultimo decennio una nutrita serie di immagini insolite, realizzandole tutte attraverso stampe fotografiche (in bn e grande formato) su tela, in seguito arricchite di alcune dosate campiture cromatiche in acrilico e sopratutto addizionate di discreti (ma spiazzanti)interventi ‘decorativi’ ricamati.

20. KETTY LA ROCCA – Nasce a La Spezia nel 1938, è stata una delle più importanti artiste italiane a misurarsi con la Body art. La sua ricerca si alimenta di una profonda riflessione sull’universo della comunicazione. Le sue prime opere sono riconducibili all’interno della poetica della poesia visiva portata avanti negli anni ’60 dal Gruppo 70 a Firenze. Successivamente l’artista si confrontò pionieristicamente con le tecniche espressive più avanzate della sua epoca, quali il videotape, l’installazione e la performance. Si concentrò infine sul linguaggio del corpo e sul gesto arrivando a servirsi delle radiografie del suo cranio e della sua stessa grafia. La sua ricerca ultima, vicina all’arte concettuale, approdò alle Riduzioni in cui le immagini vengono ricondotte, per graduale trasfigurazione, a segni astratti.
http://libreriamo.it/arte/le-20-artiste-che-hanno-cambiato-la-storia-dellarte/








martedì 10 gennaio 2017

Dalla cenere nascono nuovi mattoni, «Ecco come faremo rinascere Gaza»di Ilaria Liberatore

Dall’idea di due ragazze palestinesi laureate in ingegneria nasce GreenCake, la fabbrica dei mattoni di cenere: più leggeri, resistenti, economici ed ecocompatibili
Ricostruire una città dalle sue macerie, letteralmente. L’idea è venuta a Majd Al-Masharawy e Rawan Abddllaht, due giovani ingegnere civili laureate all’Università islamica di Gaza. Con la loro azienda, GreenCake, producono mattoni a base di cenere e macerie, ecocompatibili, super resistenti e più economici dei mattoni tradizionali. La loro idea, ora oggetto di una campagna di crowdfunding su IndieGogo, ha attirato la curiosità del Mit di Boston e di investitori giapponesi.

Da problema a soluzione
Ridurre tempi e costi è indispensabile in un luogo, come la Striscia di Gaza, che non solo deve affrontare le conseguenze di tre guerre e di un assedio che dura da 10 anni, ma anche subire blocchi e controlli imposti da Israele per controllare Hamas, nel timore che il gruppo militante costruisca tunnel o importi armi. Allo stesso tempo, la domanda di mattoni nella Striscia di Gaza è arrivata a raggiungere le 40 mila unità giornaliere, considerando che, in seguito agli scontri con Israele più di 9 mila case sono state distrutte e oltre 5 mila sono state danneggiate irrimediabilmente, oltre alle 4 mila che hanno riportato danni gravi e 120 mila danni generici (dati Onu 2015). Ma i fondi stanziati per la ricostruzione sono bastati per appena 200 case. In queste condizioni l’importazione di materiali dall’estero è lenta, costosa e «soprattutto umiliante», spiega Majd. Da qui l’idea di realizzare mattoni a partire proprio dall’unico materiale in abbondanza che si trova a Gaza: macerie e ceneri.

Resistenza ed economicità
Trovare la miscela giusta per realizzare mattoni di buona qualità non è stato semplice, e ha richiesto «sei mesi – racconta Majd -. Abbiamo provato diverse combinazioni, ma non riuscivamo a ottenere niente di utilizzabile. C’è stato un momento in cui abbiamo davvero pensato di non farcela». La svolta è arrivata quando i due ingegneri hanno pensato di usare la cenere («nella Striscia di Gaza se ne producono più di 7 tonnellate a settimana, con danni enormi per l’ambiente») come riempimento per i mattoni, al posto della sabbia. Grazie a questo ingrediente i mattoni di GreenCake pesano la metà rispetto a quelli tradizionali, sono più resistenti (in particolare al fuoco), più economici (di circa la metà) e anche innocui per l’ambiente.

Boston-Tokyo andata e ritorno
Il primo contatto con il mondo degli investitori è arrivato grazie all’incubatore per startup Mobaderoon III: «Ci ha permesso di conoscere meglio il mondo dell’imprenditoria, e di stabilire i contatti necessari per realizzare il primo prototipo di GreenCake», racconta Majd. Subito dopo i due ingegneri si sono piazzati tra i 70 finalisti del concorso del MIT di Boston dedicato alle migliori startup arabe (su più di 5 mila partecipanti). Purtroppo però, «a causa della situazione politica e delle frontiere», non sono potuti partire per gli Stati Uniti. Majd e Rawan hanno infine partecipato, nell’agosto 2016, al concorso Japan Gaza Innovation Challenge, aggiudicandosi il primo posto. «È stata un’esperienza illuminante che ci ha ridato la speranza», commenta Majd, che nel marzo 2017 partirà per Tokyo.

Il futuro
Nel settembre 2016 a Gaza è stata realizzata la prima costruzione con mattoni GreenCake. Ora Majd e Rawan vogliono migliorare ulteriormente il loro prodotto, promuoverlo e comprare i macchinari per produrre i mattoni più velocemente e soddisfare così le richieste dei loro concittadini. Per questo hanno lanciato una campagna di crowdfunding su Indiegogo, con l’obiettivo di raggiungere 55 mila dollari.

 Che facciamo, le aiutiamo?
http://corriereinnovazione.corriere.it/2017/01/03/dalla-cenere-nascono-nuovi-mattoni-e079f842-d205-11e6-84db-e13450de3838.shtml

mercoledì 4 gennaio 2017

Le 100 donne del 2016 secondo il Corriere

Pioniere, creative, influencer, rivoluzionarie, resilienti, anticonformiste.
Ecco le nostre 100 donne del 2016 (+1).
Un mosaico di vite straordinarie, raccontate per voi da 43 giornaliste del Corriere a questo link

http://www.corriere.it/eventi-importanti-2016/donne-anno-2016/index.shtml

martedì 3 gennaio 2017

Che tu possa essere libera come l’aria e coraggiosa come il vento.


Che tu possa essere libera, ovunque sceglierai di andare. All’università, in discoteca, a Bogotà. Che tu possa camminare a testa alta, qualsiasi persona sceglierai di amare. Un uomo, una donna, solo ed esclusivamente te stessa.

Ti auguro la spensieratezza dei 20 anni e la crisi dei 30, poiché entrambe ti aiuteranno a capire quello che vuoi dalla vita. (O forse no, ma va bene lo stesso.) Ti auguro un amore che ti faccia piangere, a patto che in futuro ti insegni a scegliere solo amori che ti facciano sorridere. Ti auguro un’amica fidata, un insegnante che creda in te, una famiglia disposta a combattere al tuo fianco. (O di essere talmente forte, da farcela anche da sola.)

Che tu possa sentirti bella, esattamente come desideri. In  blue jeans, in minigonna o con il chador. In un corpo – bianco, nero, giallo, arcobaleno – che ti faccia sentire a casa, senza dare (troppa) importanza ai canoni della tivù.

Che tu possa decidere cosa fare del tuo futuro: se studiare, lavorare, sposarti o avere figli. (O tutte insieme.) Che nessuno possa importi un amore, una professione, un orologio per la tua fertilità.

Che tu possa fare l’amore senza sentirti sporca o fuori posto. Che tu possa fare l’amore sempre e solo se e quando tu ne abbia voglia.

Ti auguro la tenacia di un panzer e la delicatezza di un fiore. Ti auguro animo puro e solidarietà verso le altre donne.  Una mano pronta a tendersi, un cervello che vada per la sua strada, un cuore lontano dalla mediocrità.

Che tu possa imparare a fregartene dei giudizi, qualsiasi bocca li pronunci. Perché sei nata con il diritto di essere la donna che sei. Perché come ha scritto qualcuno “quello che sei, dove vai, ciò che vuoi, lo sai soltanto tu“. Che le ferite collezionate non ti facciano male al punto di ucciderti, ma che ti diano la forza per ricominciare. Che tu possa rinascere dal dolore, dal vuoto, dall’oblio.

Ti auguro di essere libera come l’aria, coraggiosa come il vento, impavida come un’onda nell’oceano.

Ti auguro di non tradirti, accontentarti, arrenderti o annegarti. Mai.

Ti auguro un sogno, un pugno di (bei) libri ed il diritto all’infanzia, alla salute e alla vita.

Che tu possa essere più forte di ogni violenza ed orrore.

http://www.noncontofinoadieci.com/libera-come-aria/