lunedì 27 gennaio 2020

Tatiana e Andra testimoni della Shoah

Tatiana e Andra testimoni della Shoah
Il mio nome è Liliana Bucci, ma tutti mi chiamano Tatiana.
Sono nata a Fiume il 19 settembre 1937 e sono una delle pochissime bambine sopravvissute al campo di sterminio di Auschwitz.
Io sono Alessandra Bucci, ma da sempre tutti mi chiamano Andra.
Sono nata a Fiume il 1° luglio 1939, e anch'io, come mia sorella Tati, sono una delle pochissime bambine sopravvissute al campo di sterminio di Auschwitz.

Due bambine, le sorelle Bucci, travolte dalle pagine più terribili del Novecento: oggi hanno 81 e 79 anni e hanno iniziato il loro percorso da testimoni quasi per caso, con un'intervista alla BBC e, col passare del tempo, la loro voce è diventata familiare a chi organizza viaggi della Memoria.
Grazie all'impegno della Fondazione Museo della Shoah di Roma, è stato possibile rispondere alla volontà di Tatiana e Andra di raccogliere finalmente le loro memorie in questo libro Noi, bambine ad Auschwitz e hanno deciso che parte dei diritti d'autore saranno devoluti al costituendo Museo della Shoah di Roma.
Dedichiamo questo libro a tutti i bambini di Auschwitz, ai pochi che, come noi, sono sopravvissuti e ai tanti che non ce l’hanno fatta.


La storia delle sorelle Bucci
La storia di Tatiana e Andra è terribile, ma davvero incredibile: due bambine che si salvano, dopo essere state trasportate fino alla più grande fabbrica di morte pensata e costruita dall'uomo, è un dato straordinario e per molti versi sorprendente. Perché la storia di Tatiana e Andra continua ed è una storia di successi e felicità, di madri e nonne che hanno attraversato i decenni del dopoguerra costruendo famiglie, speranze, possibilità.

La famiglia Perlow
Tatiana e Andra vivevano con la famiglia a Fiume (città italiana dal 1924). La famiglia materna delle due sorelle - la famiglia Perlow, ebreo-russa - era migrata in varie parti d'Europa per scampare alla minaccia dei pogrom dell'Est e si era stabilita infine a Fiume. Nella città dalmata la madre, Mira Perlow incontrò e poi sposò Nino Buchic italianizzato in Giovanni Bucci, cuoco, in navigazione per lunghi periodi. Un padre spesso assente, ma costantemente presente perché ricordato ogni sera con il bacio della sua fotografia prima di andare a dormire, un rituale fortemente voluto da Mira.
La storia di Tatiana e Andra non solo è la storia di una famiglia ebrea, che ha attraversato tre imperi - quello zarista, l'asburgico e il regime mussoliniano -, ma anche una storia al femminile dove spiccano la nonna Rosa, sopravvissuta ai pogrom e poi subito selezionata per la camera a gas, e la mamma Mira, che ha cresciuto le figlie da sola mentre il marito solcava gli oceani cucinando pasti per marinai e ufficiali.

28 marzo 1944
La sera del 28 marzo 1944 una pattuglia tedesca arrestò nella loro casa tutta la famiglia Perlow: mamma Mira, nonna Rosa, zia Sonia e zio Jossi, zia Gisella e il cuginetto Sergio. Il padre, figlio di famiglia cattolica rimase prigioniero in Sudafrica fino alla fine della guerra.
Tatiana e Andra ricordano ancora di quella fatidica sera la tavola apparecchiata in attesa di una cena mai consumata.
4 aprile 1944
Dopo una breve sosta nella Risiera di San Sabba a Trieste, il convoglio arrivò il 4 aprile 1944 ad Auschwitz-Birkenau. Tatiana aveva 6 anni, Andra 4 e il cugino Sergio 7 quando furono internati in un Kinderblock, il blocco dei bambini destinati alle più atroci sperimentazioni mediche.
Tatiana e Andra erano davvero affezionate al cugino Sergio, era come se fosse loro fratello.
Internato con loro nel Kinderbloch, non è più tornato. Una mattina di novembre fu strappato via con un tranello cinico delle SS: un capolavoro di crudeltà e perfidia. Il piccolo Sergio non aveva avuto esitazioni: di fronte all'inganno dei nazisti, alla parola mamma, fece un passo avanti, felice, di poter tornare tra le braccia di chi lo aveva messo al mondo. Tatiana e Andra erano state avvertite da una blockova di rimanere zitte e immobili e avevano cercato di dirlo anche a Sergio.
«Siamo state tutelate e protette da una blockova. Non ricordiamo nulla di lei, né il nome né il volto, neppure i suoi tratti somatici».
Insieme ad altri 19 piccoli compagni di prigionia, Sergio finì i suoi giorni nella cantina di una scuola alla periferia di Amburgo il 20 aprile 1945, a pochi giorni dalla resa incondizionata della Germania. I giovani corpi erano stati devastati dalle sperimentazioni, i cadaveri appesi a un gancio.
Nel racconto di Tatiana e Andra c'è il rimpianto sconsolato di non essere riuscite a impedire quella mossa fatale, di non essere riuscite a proteggerlo, di evitare che se ne andasse senza poter tornare. L'uccisione di un bambino innocente diventa parte integrante del racconto a due voci - dei "salvati" - che vorrebbe includerne una che è stata "sommersa".

27 gennaio 1945 - settembre 1946
Dopo nove mesi di inferno apparve un soldato con una divisa diversa e una stella rossa sul berretto e porse, sorridendo, una fetta di salame del panino che stava mangiando. Era il 27 gennaio 1945, la liberazione. Ma il loro perigrinare non terminò quel giorno. Ritenute orfane (la mamma era stata precedentemente trasferita in un campo all'interno del Reich) furono portate in un orfanotrofio a Praga e poi trasferite a Lingfield in Inghilterra, un luogo di "recupero" diretto da Anna Freud.
«A Lingfiled abbiamo ricominciato a vivere. Lì ci siamo finalmente riappropriate della nostra infanzia fino ad allora perduta e rubata.»

Finalmente a casa
Il ricongiungimento non fu semplice e immediato. L'Europa del 1946 era nel caos, ma mamma e papà, dopo mesi e mesi di ricerche, riuscirono a rintracciare le sorelle a Lingfield. Dopo un lungo viaggio in treno arrivarono a Roma nel dicembre del 1946. Ad attenderle la mamma e una folla di persone: un'intera comunità che vedeva nell'arrivo delle due sorelle Bucci un segno di speranza o quanto meno la possibilità di avere notizie dei propri cari deportati da Roma tra l'ottobre 1943 e il giugno 1944. Più di 2.000 persone di cui non si sapeva più nulla.

Non siamo solo sopravvissute
Non siamo solo sopravvissute. Abbiamo vissuto: siamo state in grado di costruirci una vita, una bella vita. Questo per noi è importantissimo, perché è un messaggio di speranza.
Andra e Tatiana Bucci

La Stella di Andra e Tati
La storia di Andra e Tatiana Bucci è diventata un cartone animato grazie alla collaborazione fra MIUR, RAI e Larcadarte.
https://www.librimondadori.it/approfondimenti/noi-bambine-ad-auschwitz-le-sorelle-bucci/?fbclid=IwAR3k3FNTZUkfAgD09WMEeGLvqgRjmgN1RKBv3yAO1sG2Jbzo4Pirpi1O4Mw


giovedì 23 gennaio 2020

"La violenza sulle donne è come la mafia" di Di Rosa Polito

La giudice Di Nicola: "Contesti identici di omertà e negazione. Necessario liberarsi dai pregiudizi".
Roma - "Il femminicidio ha la stessa valenza culturale, sociale e criminale della mafia. Si deve pretendere dallo Stato lo sforzo dimostrato nel combattere il fenomeno mafioso perché il femminicidio, inteso in senso ampio, arriva ad ammazzare, nel disinteresse assoluto, più della mafia, uccide la vita e la dignità di intere generazioni, rendendole succubi e incapaci di reagire". Paola Di Nicola, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, si dice convinta, conversando con l'Agi, delle forti analogie tra i due fenomeni, ma denuncia la mancanza di quel "salto di qualità" che deve compiere il Paese per debellare i reati di violenza contro le donne. "Se venisse ammazzato ogni giorno un testimone di giustizia, un pentito, lo Stato alzerebbe immediatamente la guardia, come è doveroso che sia, mentre un giorno sì e uno no viene uccisa una donna e il fenomeno appare normale, è accettato, metabolizzato, ci appartiene, è ineluttabile", prosegue la gip impegnata da anni nel contrasto alla violenza di genere e autrice del libro "La Giudice - Una donna in magistratura".

Contesto di omertà e rifiuto identico a quello mafioso
Riguardo al fenomeno, "non c'è ancora una coscienza culturale, sociale e politica. La donna vittima di violenze si trova in un contesto di omertà, rifiuto, negazione identico a quello di mafia, ma è sostanzialmente sola". Per scoprire davvero gli autori dei femminicidi, ma anche di tutti i reati contro le donne, per Paola Di Nicola "si devono leggere gli episodi in un'ottica complessiva e con una visione di genere, altrimenti il fenomeno criminale resterà impunito e diventerà tanto diffuso quanto inattaccabile. Come per la mafia, esistono, infatti, i reati-spia, cioè quelli che costituiscono un univoco indicatore di una violenza più pericolosa e più insidiosa, di una quasi certa escalation. Sono le lesioni, i maltrattamenti nelle famiglie e nei contesti lavorativi, le molestie, l'omesso versamento dell'assegno di mantenimento come ricatto economico e come assenza di riconoscimento della figura genitoriale dell'altro, gli insulti sessisti.

Il 70% delle vittime aveva denunciato l'aggressore
Un dato significativo è che il 70% delle donne vittime dei femminicidi aveva già denunciato il proprio aggressore: questo perché troppe volte gli accadimenti vengono valutati in modo isolato, parcellizzato. Come le estorsioni in un contesto mafioso anche i maltrattamenti vanno letti in maniera non episodica e parziale". Capacità culturale e "lenti di genere" - sostiene Paola Di Nicola - devono entrare nelle aule di giustizia perché persino lì "spesso si respira il pregiudizio di genere, che è radicato in tutti i protagonisti del processo, uomini e donne, e che si riproduce anche in alcune sentenze di assoluzione degli autori di lesioni, stalking, maltrattamenti". Secondo i dati Istat, sono circa 3 milioni 466 mila le donne che hanno subito stalking nella loro vita.
"In alcune sentenze di assoluzione - spiega la gip del Tribunale di Roma - si ritiene che la donna abbia denunciato le violenze strumentalmente e, quindi, non sia credibile, salvo poi scoprire che nessuno ha offerto alcuna prova sulla strumentalità della denuncia. Nei procedimenti relativi ai reati di violenza contro le donne la valutazione di credibilità della vittima è molto spesso più ficcante, intrusiva, specifica, approfondita, accertamento che non si ritrova in nessun altro tipo di delitto. Perché c'è lo stereotipo che la donna mente, che utilizza il processo per propri fini.

Nelle sentenze motivazioni che non convincono
Una donna vittima di violenze viene di frequente sottoposta nel processo a domande di accusa e difesa estenuanti nelle quali le si chiede di sviscerare i particolari più intimi della propria vita e del proprio modo di essere, approccio impensabile nei confronti, per esempio, della vittima di una rapina". Ma lo prevede la legge? "Assolutamente no - risponde la giudice - ci sono anche pronunce della Cassazione che reputano sufficiente la denuncia della vittima per condannare per lesioni, stalking, maltrattamenti.
E invece molte sentenze assolvono con motivazioni che non convincono: perché manca ad esempio la certificazione medica che dimostra le lesioni oppure perché mancano testimoni. Tutti passaggi sconfessati dal fatto che gran parte dei reati che si consumano in contesti familiari non hanno testimoni - avvengono in camera da letto, in casa quando non è presente altra gente - e che la quasi totalità delle donne vittime di violenza domestica non si fa refertare le lesioni subite per paura. Talvolta in qualche sentenza si arriva addirittura a definire i lividi delle vittime come atti di autolesionismo".
Per Paola Di Nicola, "questo è dovuto al fatto che il pregiudizio di genere appartiene a chiunque e gli stessi magistrati non ne sono estranei perché la magistratura fa parte della realtà sociale e culturale di un Paese. Anche se - riconosce - si sta creando una cultura giudiziaria sempre più avveduta e impegnata a sradicare questo tipo di pregiudizio. In questi anni la magistratura ha fatto coraggiosi e innovativi passi in avanti in questo ambito, a partire dalle Procure, pur nella consapevolezza che dentro e fuori le aule di giustizia la strada sia ancora lunga". Prima del momento conclusivo del processo c'è, infatti, tutta la fase in cui gli episodi di violenza sono in pieno svolgimento e viene richiesto l'intervento delle forze dell'ordine, dalle quali ancora oggi, non di rado, c'è "una sottovalutazione delle situazioni: ci sono casi di maltrattamenti che vengono liquidati nei verbali come 'lite coniugale'. Si trascurano poi elementi significativi come lo stato in cui era l'abitazione con piatti e bicchieri rotti per terra, mobili distrutti, coltelli lanciati o il perdurare dell'atteggiamento aggressivo dell'uomo anche alla presenza di polizia o carabinieri".

Necessario liberarsi dai pregiudizi culturali
Per la gip del Tribunale di Roma, questo è lo stesso pregiudizio culturale che porta i vicini di casa a non segnalare episodi di violenze con la giustificazione di non voler entrare nella privacy di altre famiglie. Quegli stessi vicini di casa che farebbero esattamente il contrario davanti a un furto o a una rapina."Purtroppo prima vittima dello stesso pregiudizio, dello stesso stereotipo - continua la sua analisi - è anche la donna che subisce violenza e il suo comportamento gioca un ruolo decisivo: prima denuncia lesioni, stalking o danneggiamenti, ma poi ritira la querela - e qui gli inquirenti possono fare ben poco - per non essere accusata di aver distrutto la famiglia o nella speranza illusoria di poter recuperare un rapporto. E anche quando si giunge faticosamente al processo, è la stessa vittima che entra in un'aula di giustizia temendo, spesso a ragione, di non essere creduta, convinta di aver violato la 'regola' comune secondo la quale le donne devono tacere quello che subiscono, di essere andata contro e oltre il proprio ruolo e il proprio modello". Su questi sentimenti della donna fa leva "con astuzia l'imputato, soprattutto quando ci sono figli.
Questo atteggiamento, assieme all'assenza della consapevolezza di commettere un reato, accomuna tutti gli autori delle violenze, di diverse classi sociali, strati professionali, contesti culturali, religiosi, da nord a sud. I carnefici, inoltre, colpiscono le donne, non solo perché a un certo punto si è alzato il livello dello scontro, ma proprio perché appartenenti al genere femminile di cui non tollerano autonomia e capacità". Come si fa a uscire da questa infernale spirale? "Soltanto acquisendo la consapevolezza del pregiudizio - conclude Paola Di Nicola - è possibile liberarsene per costruire una nuova identità capace di scuotere l'immobilismo che ci rende tutti complici di una strage silenziosa ma quotidiana".

Per approfondire:
"La giudice: una donna in magistratura"
Giornata contro la violenza sulle donne - Onu
Non una di meno
https://www.agi.it/cronaca/violenza_su_donne_e_femminicidi_sono_come_la_mafia-1272280/news/2016-11-24/?fbclid=IwAR26k1Pni33G7IFQdi2xG9dm6a2yKWqIWTplIQ2i28gg39L6gRdvAi3lbb0


mercoledì 22 gennaio 2020

"Il sessismo incide sulla violenza contro le donne, la Rai non deve esprimere questa cultura" By Luciana Matarese

Sul caso Amadeus-Cally al festival di Sanremo parla la magistrata Paola Di Nicola: "La presunta libertà artistica è una grande ipocrisia, l’ennesimo alibi per perpetuare modelli che alimentano la violenza"
“La Rai dovrebbe fare il massimo per non esprimere una certa cultura, basata su modelli che perpetuano la violenza contro le donne”. E poi: “Altrimenti è inutile fare leggi contro la violenza sulle donne”. E ancora: “La vita di una donna vale certamente più di una canzone”. Si parla del caso Sanremo e Paola Di Nicola, magistrata, attualmente all’ufficio Gip del Tribunale di Roma, richiama la convenzione di Istanbul, il documento del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Per lei, da anni impegnata nella lotta agli stereotipi che ancora gravano sulle donne, le frasi pronunciate da Amadeus nella conferenza stampa di presentazione della settantesima edizione del Festival della canzone italiana e la partecipazione alla gara del cantante, Junior Cally, che ha sollevato un’ondata di indignazione e proteste bipartisan per i suoi testi controversi, trasmettono un modello culturale in cui le donne sono ancora una volta rappresentate attraverso stereotipi. “Quello che è successo è in linea con le obiezioni mosse di recente dal Consiglio d’Europa al nostro Paese”, scandisce la magistrata.

In che senso, scusi?

“Qualche giorno fa, il 13 gennaio per la precisione, il Consiglio d’Europa ha consegnato il suo monitoraggio sull’applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Tra i principali rilievi mossi figura proprio l’atteggiamento stereotipato e di pregiudizio verso le donne da parte dei mass media e dei luoghi in cui esse sono rappresentate. La violenza contro le donne nasce e si alimenta in una cultura basata sull’immagine del genere femminile ridotta a puro corpo”.

Nel presentare le donne che lo affiancheranno a Sanremo, Amadeus, conduttore e direttore artistico della kermesse, ha sottolineato: “Sono tutte molte belle”.

“Il Festival di Sanremo è un luogo simbolo del Paese, seguito da milioni di telespettatori. Se riproponiamo anche in questa sede, così forte dal punto di vista simbolico, l’immagine delle donne che sono solo bellezza e non hanno altre capacità derivanti dai loro meriti, non facciamo che potenziare quel modello che è il brodo di coltura della violenza di genere. E allora diventa inutile fare leggi contro la violenza se poi milioni di persone si trovano ad assistere ad una rappresentazione della donna che è puro corpo, da omaggiare, toccare, violare. Per questo bisogna cogliere il monito del Consiglio d’Europa”.

Cioè?

“Secondo il Consiglio d’Europa siamo in ritardo rispetto alla diffusione di un corretto modello di rappresentazione culturale della donna. Per questo ha inteso incoraggiare le autorità italiane ad assumere misure attive e durevoli per promuovere dei cambiamenti nei comportamenti sociali e culturali sessisti degli uomini fondati sul concetto di inferiorità delle donne al fine di eliminare il sessismo e gli stereotipi di genere. Mi piace sempre ricordare che le cause della violenza sono soprattutto gli stereotipi sulle donne”.

Torniamo a Sanremo. Amadeus si è difeso respingendo le accuse di sessismo, mosse alle sue dichiarazioni.

“Il sessismo nel nostro Paese, sia quello benevolo che quello malevolo, è ancora più pericoloso che altrove perché non è riconosciuto, in quanto appartiene alla nostra cultura. È grave non esserne consapevoli perché vuol dire che non si conosce qual è il ruolo delle donne nella società. Sarebbe opportuno, in linea con quanto evidenziato dal Consiglio d’Europa e con una corretta applicazione della Convenzione di Istanbul, che manifestazioni come il Festival di Sanremo fossero presentate da donne e uomini che conoscano i pregiudizi di genere e quanto questi incidano nella diffusione della violenza contro le donne”. 

Cosa dovrebbe fare la Rai, secondo lei? 

“Se non si prendono contromisure, l’Italia rischia di violare la Convenzione di Istanbul, che è una legge dello Stato e impone agli Stati di non consentire la trasmissione di messaggi fuorvianti e modelli stereotipati contro le donne. Come Stato italiano abbiamo l’obbligo di una rappresentazione delle donne sui mass media non stereotipata. Se lo si fa, sia pure inconsapevolmente, si genera e si naturalizza la violenza. Se poi ci metti pure il cantante il quadro è completo”.

Ecco, nelle ultime ore è esploso, tra molte polemiche, il caso della partecipazione alla gara del dj Junior Cally. Per il presidente della Rai, Foa, una “scelta eticamente inaccettabile”. Lei che ne pensa?

“Penso che la Rai abbia tutti gli strumenti per assumere la posizione più corretta tenendo ben presente che la violenza contro le donne va contrastata a partire dai modelli e quindi un cantante che racconta un femminicidio non per condannarlo non può costituire un modello. Il Festival è seguito da minorenni, persone in formazione: una canzone rischia di diventare patrimonio culturale della nazione, dunque, attraverso le sue strofe potrebbe trasmettere la naturalità di un crimine. Non possiamo consentirlo in un Paese in cui ogni 72 ore viene uccisa una donna - in quanto donna e in quanto esercita una qualsiasi forma di libertà - e che ha approvato il Codice rosso. Le leggi non sono sufficienti, per fermare i femminicidi serve soprattutto altro”.

 Cosa serve soprattutto?

“È indispensabile un lavoro di trasmissione culturale di modelli adeguati. Politica, associazioni, magistratura e forze di polizia il loro lo fanno, perché non deve farlo la Rai? Da magistrata io posso celebrare mille processi, ma anche una sola canzone può annullare tutto il lavoro che ho fatto. Perché le canzoni hanno una capacità di trasmissione di modelli di cui non si è in grado di comprendere fino in fondo l’impatto. E comunque la Rai, che è servizio pubblico, è obbligata a rispettare una legge dello Stato”.

Junior Cally dovrebbe essere espulso dalla gara?

“Non è mestiere mio dire cosa dovrebbero fare altri. Io, come in questo caso, sollecito ad assumere i comportamenti più adeguati al caso”.

 Non c’entra la libertà artistica?

“No, no e no. La presunta libertà artistica è una grande ipocrisia, l’ennesimo alibi per perpetuare modelli che alimentano la violenza. La vita di una donna vale più di una canzone, su questo non c’è dubbio. E quindi se devo scegliere tra una canzone e la vita di una donna devo scegliere quest’ultima. La violenza contro le donne nasce dai modelli trasmessi in tutti i contesti. E non c’è alibi che tenga”.


https://www.huffingtonpost.it/entry/il-sessismo-incide-sulla-violenza-contro-le-donne-la-rai-non-deve-esprimere-questa-cultura_it_5e25fbb7c5b673621f7a496b?fbclid=IwAR2AhJSJh9KDHr_T3DmvVRMic1pNmRQnrpLMIDNA6CR979rFPDIpqHvfjeE



lunedì 20 gennaio 2020

Sanremo 2020, contro il sessismo, chiediamo un #passoindietro.

Conferenza Nazionale Donne Pd ha lanciato questa petizione e l'ha diretta a:

Alla commissione di Vigilanza sulla Rai -All’amministratore delegato Fabrizio Salini -Al cda Rai
Sanremo 2020, contro il sessismo, chiediamo un #passoindietro.
Siamo fortemente preoccupate ed indignate per alcune scelte redazionali dell’edizione 2020 del festival di Sanremo:
1) la scelta di alcune donne ospiti basata, principalmente sulla bellezza fisica e, per alcune di loro, sul “merito” che hanno di occupare un ruolo di secondo piano rispetto al loro compagno famoso.
2) la scelta di un cantante rapper, Junior Cally, che ha nel suo repertorio canzoni con testi che incitano alla violenza sulle donne e le insultano sessualmente.
Riteniamo siano scelte indegne di un servizio pubblico di un paese civile.
Le nostre rimostranze non sono strumentalizzate a fini politici ,come taluni sostengono, ma vogliono rimarcare l’importanza che il servizio pubblico, quale la Rai, deve avere nel tutelare e sostenere la già faticosa presa di coscienza del nostro paese riguardante la dignità e parità di genere e la lotta contro la violenza sulle donne.
Consideriamo vergognoso che partecipi a Sanremo Junior Cally, un rapper per ragazzini/e che ha nel suo repertorio canzoni contenenti frasi come queste:

«Lei si chiama Gioia, beve poi ingoia.
Balla mezza nuda, dopo te la da.
Si chiama Gioia, perché fa la tr*ia, sì, per la gioia di mamma e papà».

«Questa non sa cosa dice. Porca tro*a, quanto ca**o chiacchera? L'ho ammazzata, le ho strappato la borsa. C'ho rivestito la maschera».

«state buoni, a queste donne alzo minigonne»;
«me la chi*vo di brutto mentre legge Nietzche»;
«ci scopi*mo Giusy Ferreri [la cantante ndr]»;
«lo sai che fotti*mo Greta Menchi [una influencer, ndr];
«lo sai voglio fott*re con la Canalis [la conduttrice ndr]»;
«queste put**ne con le Lelly Kelly non sanno che fott*no con Junior Cally»

Riteniamo che la RAI debba svolgere un ruolo fondamentale nel contrasto alla violenza Contro le donne così come nel valorizzarne la dignità e non subalternità. Pertanto, oltre ad escludere personaggi portatori di messaggi sessisti e violenti, chiediamo che venga ripensato il ruolo femminile che deve essere di conduzione o co_conduzione, con pari dignità, non quindi di mero orpello decorativo o peggio ancora di visibilità legata al marito/compagno.

Conferenza Donne Democratiche :
Lombardia,Veneto,Emilia Romagna,Friuli Venezia Giulia,Toscana,Trentino Alto Adige, Calabria,Basilicata, Brescia,Trieste, Cuneo

Giovani Democratici Brescia, Giovani Democratici Trieste

seguono firme sul sito
https://www.change.org/p/alla-commissione-di-vigilanza-sulla-rai-all-amministrazione-delegato-fabrizio-salini-al-cda-rai-sanremo-2020-contro-il-sessismo-chiediamo-un-passoindietro?recruiter=false&utm_source=share_petition&utm_campaign=psf_combo_share_initial&utm_medium=whatsapp&recruited_by_id=ea1680c0-3b05-11ea-ba0b-437a33c86c2d&share_bandit_exp=initial-20125223-it-IT&share_bandit_var=v1&utm_content=washarecopy_20125223_it-IT%3Av1&use_react=false

giovedì 16 gennaio 2020

Come le donne in Italia sono ancora discriminate di Alessandra Minello

L’Italia è penultima in Europa per partecipazione femminile al mercato del lavoro. Peggio di noi fa solo la Grecia. Solo una donna su due in età lavorativa è attiva. Il 73% delle dimissioni volontarie rassegnate nel 2017 sono state di lavoratrici madri. Solo il 28% delle posizioni dirigenziali nelle aziende private italiane è ricoperto da donne. Nelle coppie con figli e in cui entrambi i partner lavorano, le donne dedicano in media il 22% del proprio tempo al lavoro familiare, mentre per gli uomini la percentuale scende al 9%. Il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni è stata vittima di violenza

Potrebbe sembrare assurdo che nel 2020 si debba ancora parlare di discriminazioni quando si tratta di donne. Basta invece una qualsiasi proposta legislativa che avvantaggi le donne, come ad esempio la riduzione dell’iva agli assorbenti, o che, peggio, tocchi i vantaggi ormai acquisiti maschili – guai a parlare di quote! – per assistere ad una levata di scudi.

E quando si levano gli scudi, i toni non sono mai pacati. Lo sanno bene le donne che combattono in prima linea per i diritti femminili, vittime sacrificali dell’odio online. Le Mappe dell’Intolleranza, di Vox Osservatorio Italiano sui Diritti, lo sostengono da anni: le donne sono le principali vittime di tweet di odio. 326 mila dei 537mila tweet negativi del 2017-2018 sono contro le donne. Contro i migranti sono stati 73mila.

Ma quali sono gli ambiti in cui le donne sono discriminate nel nostro paese? Impossibile fare un elenco esaustivo, possiamo comunque evidenziare alcuni punti cruciali.

Partiamo dal lavoro, uno dei tasti più dolenti. L’Italia è penultima in Europa per partecipazione femminile al mercato del lavoro. Peggio di noi fa solo la Grecia. Solo una donna su due in età lavorativa è attiva.

Il punto però non è solo l’accesso al mercato del lavoro, quanto la carriera tipica che compiono le donne. Le donne lasciano il lavoro all’arrivo di un figlio, cosa che non succede agli uomini. A dirlo sono i dati sulle carriere intermittenti e quelli dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Il 73% delle dimissioni volontarie rassegnate nel 2017 sono state di lavoratrici madri, che principalmente dichiarano l’incompatibilità tra carriera lavorativa e lavoro di cura della prole.

Le donne che rimangono nel mercato del lavoro, oltre ad essere vittima del gap salariale, e guadagnare meno degli uomini a parità di mansioni, vivono una condizione di segregazione sia orizzontale, sia verticale. Orizzontale perché lavorano prevalentemente in ambiti meno prestigiosi e meno retribuiti (e se non lo sono, lo diventano, pensiamo all’insegnamento). Verticale perché è raro trovare donne nelle posizioni apicali. Solo il 28% delle posizioni dirigenziali nelle aziende private italiane è ricoperto da donne. Ed è abbastanza intuitivo che non essere nelle posizioni apicali significa non poter dare un’impronta al mercato del lavoro che tenga conto dei bisogni delle donne, in particolare in ambito di conciliazione.

La conciliazione è infatti ancora oggi il punto cruciale nella vita di molte donne: siamo ancora ben distanti dalla parità di genere nella distribuzione dei ruoli di cura. Basta pensare che nelle coppie con figli e in cui entrambi i partner lavorano, le donne dedicano in media il 22% del proprio tempo al lavoro familiare, mentre per gli uomini la percentuale scende al 9%.

Ma quindi basterebbe risolvere il problema del mercato del lavoro e della divisione dei compiti per avere nel nostro paese pari opportunità?

È chiaramente una domanda retorica. Le differenze di genere si evidenziano infatti anche in molti altri ambiti: a partire dall’istruzione per arrivare alla violenza. Nell’istruzione le ragazze sono segregate in alcuni ambiti di studio e sia le loro performance sia le loro scelte sono limitate dagli stereotipi di genere che le vogliono meno brave dei maschi nelle discipline matematiche.

La violenza contro le donne è un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, sia che si tratti di violenza fisica, di cui i pochi dati a disposizione ci dicono sono state vittima il 31,5% delle donne italiani tra i 16 e i 70 anni, sia che si tratti di violenza psicologica, o tornando da dove abbiamo iniziato, di violenza online.

Come promuovere la parità di genere?

Le donne sono quindi ancora oggi un passo indietro. La parità di opportunità non si è verificata, in un contesto sociale, quello italiano, che su molti fronti è ancora ben lontano dal concepire i ruoli del maschile e del femminile come bilanciati.

Lavoro, famiglia, istruzione, violenza, e recentemente anche nuove tecnologie, sono tutti ambiti in cui vanno intraprese azioni positive per la parità. Queste azioni devono andare in una duplice direzione: da una parte servono riforme strutturali, dall’altra un grande cambiamento culturale.

Per le riforme strutturali, il pensiero va subito, ad esempio, agli incentivi alla fruizione del congedo parentale da parte degli uomini, all’allungamento del periodo di paternità obbligatorio, ma anche all’incremento dei servizi di cura ai bambini sin dall’infanzia a prezzi accessibili, che favoriscano la conciliazione lavoro-famiglia.

Azioni volte a promuovere la partecipazione femminile al mercato del lavoro sono cruciali, così come tutte quelle che tolgono gli svantaggi femminili nell’ascesa al potere. Nella valutazione della carriera di una donna che ambisce a posizioni apicali, ad esempio, sarebbe importante tenere conto di possibili rallentamenti durante i periodi di maternità che non incidono sul suo valore, ma possono darle uno svantaggio nell’accumulazione di capitale umano.

Dal punto di vista culturale, le pari opportunità vanno insegnate come un valore sin dalla prima infanzia. La letteratura scientifica ha più volte confermato che le principali differenze di genere sono prettamente sociali.

Insegnare alle bambine e ai bambini, e alle loro famiglie, che il genere non deve essere discriminante nella scelta del loro percorso educativo, ma anche più in generale che il double standard, ovvero un giudizio negativo nei confronti di un comportamento solo se a compierlo è uno dei due generi, è solo un retaggio culturale, sono delle priorità.

Chi si affaccia oggi e si affaccerà nel prossimo futuro nelle relazioni, che siano personali o mediate, online, dovrebbe avere ben chiaro il concetto di parità, ma anche quello di rispetto. Agire sulla cultura della parità dei e delle più giovani non può che avere un risvolto positivo per tutte e tutti.

*Alessandra Minello ha realizzato questo articolo per Fondazione Arché nell'ambito della collaborazione della fondazione con il blog collettivo Le Nius nato dalla volontà di proporre approfondimenti su temi protagonisti del dibattito pubblico.
http://www.vita.it/it/article/2020/01/13/come-le-donne-in-italia-sono-ancora-discriminate/153775/?fbclid=IwAR2k8eHf1AL3jv_52jSN0ao8OC-LHC2JmU3-Id70lFY4qxy0j56y9tu_0mo



mercoledì 15 gennaio 2020

Italia: troppe resistenze alla parità uomo-donna

È stato pubblicato il primo rapporto sull’Italia di GREVIO, l’organo di monitoraggio europeo previsto dalla Convenzione di Istanbul sulle violenze cItalia: troppe resistenze alla parità uomo-donna
Pubblicato il primo monitoraggio GREVIO (UE) sull'Italia. "Emerge una tendenza a reinterpretare e riorientare la nozione di parità di genere in termini di politiche per la famiglia e la maternità."

È stato pubblicato il primo rapporto sull’Italia di GREVIO, l’organo di monitoraggio europeo previsto dalla Convenzione di Istanbul sulle violenze contro le donne. La delegazione internazionale aveva richiesto un incontro anche con GiULiA (che si è svolto a marzo 2019, a Roma), per discutere il ruolo dei media, ed in particolare le misure prese dalle autorità per incoraggiare i media ad essere parte attiva nella prevenzione e nella lotta contro queste violenze. Incontri si sono svolti anche con le delegazioni della Cpo Fnsi e Cpo Usigrai.
Ecco il rapporto di monitoraggio:

Lotta alla violenza nei confronti delle donne in Italia:
il GREVIO chiede l’adozione di maggiori misure di prevenzione

Strasburgo, 13.01.2020 – Nel suo primo rapporto pubblicato oggi sull’attuazione, da parte dell’Italia, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come “Convenzione di Istanbul”, il Gruppo di esperti (GREVIO) esprime soddisfazione per l’adozione di una serie di riforme legislative che hanno consentito l’introduzione di misure concrete per porre fine alla violenza sulle donne.

Alcuni di tali interventi legislativi hanno rappresentato sensibili passi avanti, quali la normativa del 2009 contro lo stalking, o la Legge n. 119/2013, che ha sancito l’obbligo delle autorità di sostenere e promuovere, in particolare attraverso l'assegnazione di mezzi finanziari, una vasta rete di servizi di assistenza alle vittime. Altri due testi sono stati ritenuti particolarmente innovativi: il Decreto legislativo n. 80/2015, le cui disposizioni prevedono un congedo speciale retribuito per le lavoratrici vittime di violenza di genere, e la Legge n. 4/2018, che contiene numerose misure a tutela degli orfani di una vittima di crimine domestico.

Nel riconoscere i progressi compiuti per promuovere i diritti delle donne in Italia, il rapporto sottolinea che la causa dell’uguaglianza di genere incontra ancora resistenze nel paese e che sta emergendo una tendenza a reinterpretare e riorientare la nozione di parità di genere in termini di politiche per la famiglia e la maternità.

Nel campo della protezione e dell’assistenza alle vittime, il rapporto ritiene che le autorità nazionali dovrebbero in priorità stanziare finanziamenti adeguati ed elaborare soluzioni che permettano di fornire una risposta coordinata e interistituzionale alla violenza, basate sul forte coinvolgimento delle autorità locali e sulla partecipazione di tutti gli attori interessati, in particolare le ONG femminili che offrono strutture di accoglienza per le vittime.
Occorre ugualmente adottare con urgenza altre misure complementari, ispirate a un approccio fondato sui diritti umani, per colmare le lacune nei servizi di supporto specializzati per le vittime di violenza sessuale, istituendo centri di accoglienza per le vittime di stupro o di violenza sessuale.

Numerose riforme legislative, tra cui la recente Legge n. 69 del 19 luglio 2019 (c.d. Codice rosso) hanno contribuito a porre in essere un solido quadro legislativo conforme alle disposizioni della Convenzione, che prevede vie di ricorso in materia civile e penale per le vittime di violenza. Il rapporto rileva tuttavia un certo numero di lacune legislative, come, ad esempio, l’assenza di mezzi di ricorso civili efficaci nei confronti delle autorità statali che abbiano mancato al loro dovere di adottare le necessarie misure di prevenzione o di protezione nell’ambito delle loro competenze.

Un altro settore che richiede un esame urgente da parte delle autorità è quello riguardante la determinazione dei diritti di custodia e di visita dei figli. Il rapporto constata che sono raramente utilizzate le disposizioni previste dalla legge che consentirebbero, nei casi di violenza familiare, di fare prevalere il principio dell’interesse superiore del bambino rispetto a quello della genitorialità condivisa.
Il GREVIO esprime preoccupazione per la tendenza del sistema attuale ad esporre a una vittimizzazione secondaria le madri che cercano di proteggere i figli denunciando la violenza.

In materia di diritto di asilo, il rapporto sottolinea che l’assenza di procedure efficaci di valutazione delle vulnerabilità, che non consente quindi di individuare correttamente le vittime, può condurre all’espulsione o al rimpatrio, in violazione dell’obbligo di non respingimento. Le recenti politiche miranti a porre fine ai salvataggi in mare e a rafforzare la dissuasione dei potenziali candidati all’emigrazione clandestina, associate alla chiusura dei porti italiani per le navi che trasportano migranti soccorsi in mare, aumentano ulteriormente il rischio di respingimento.
Il GREVIO esorta pertanto le autorità a onorare l’obbligo assunto relativo al principio di non respingimento e i diritti umani delle vittime soccorse in mare.

Il GREVIO invita infine l’Italia ad adottare in via prioritaria le misure seguenti:
 garantire l’applicazione delle disposizioni legali relative al reato di maltrattamenti in famiglia, tenendo presente lo specifico carattere di genere della violenza domestica perpetrata contro le donne;

 garantire che le politiche e i provvedimenti affrontino ugualmente la prevenzione, la protezione, le indagini e le sanzioni, conformemente all’obbligo di dovuta diligenza enunciato all’Articolo 5 della Convenzione di Istanbul;   adottare misure supplementari per garantire che le politiche di lotta contro la violenza nei confronti delle donne siano globali e integrate, e siano attuate e monitorate mediante un coordinamento efficace tra le autorità nazionali, regionali e locali;

 prevedere risorse finanziarie e umane adeguate per le misure e le politiche, accrescendo la trasparenza e la responsabilità nell’uso dei fondi pubblici, e sviluppando soluzioni di finanziamento appropriate a lungo termine/pluriennali per fornire servizi specializzati destinati alle donne;

 rafforzare il sostegno alle organizzazioni femminili indipendenti che operano a favore delle donne e il loro riconoscimento, e consolidare il quadro istituzionale nazionale e locale per la consultazione e la cooperazione con le organizzazioni femminili;

 fornire una solida base istituzionale agli organismi incaricati di garantire l’attuazione e il coordinamento delle misure e politiche di lotta contro la violenza nei confronti delle donne e proseguire gli sforzi miranti a consentire un monitoraggio e una valutazione efficaci delle politiche;

°rafforzare le attività di prevenzione nel campo della sensibilizzazione, dell’educazione, della formazione dei professionisti, dei programmi rivolti agli autori di violenze e nel settore dell’occupazione, proseguendo l’attuazione di misure proattive e durevoli, destinate a promuovere i cambiamenti dei comportamenti sessisti nel contesto sociale e culturale, basati sull’idea dell’inferiorità delle donne;

 migliorare l’accesso delle vittime a servizi di assistenza generale idoneamenti distribuiti su tutto il territorio, dotati di risorse sufficienti e forniti da personale qualificato.
https://giulia.globalist.it/documenti/2020/01/13/italia-troppe-resistenze-alla-parita-uomo-donna-2051558.html?fbclid=IwAR0HMuq9XBck-8G8oGxeBQif_4rzs-K7H2WNsNfJFqyCPEqYBInUy6fKdbM








martedì 14 gennaio 2020

Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano COMUNICATO STAMPA

Pubblicato il report sull'applicazione della CONVENZIONE DI ISTANBUL:
anche GREVIO critica la richiesta del codice fiscale da parte di Regione Lombardia.

Il 13 gennaio è stato pubblicato il primo rapporto sull’attuazione, da parte dell’Italia, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio conosciuta come Convenzione di Istanbul.

Il gruppo di esperte (GREVIO) che hanno lavorato per verificare lo stato di applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia ha espresso una forte riserva sulla modalità di raccolta dati messa in atto da alcune amministrazioni (autorità) italiane, quando richiedono il codice fiscale (p. 77). Raccomanda quindi che i dati siano raccolti in modo disaggregato e che si rispettino le metodologie di intervento con le donne basate sul rispetto della privacy e dell'anonimato (V. Punto E, Lett. F, pag. 92, delle raccomandazioni, incluse nel rapporto ufficiale, pubblicato il 13.1.2020).

“Questo conferma ciò che CADMI ha sempre detto, richiamando Regione Lombardia al rispetto della metodologia dell'accoglienza, che implica l'ascolto e il sostegno delle donne, nel rispetto assoluto dell'anonimato. Invitiamo Regione Lombardia ad adeguarsi alle raccomandazioni internazionali, eliminando l'obbligatorietà dell'inserimento del codice fiscale nella raccolta dati del sistema O.R.A. “ afferma Manuela Ulivi, Avvocata e Presidente della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano.

➡ RAPPORTO GREVIO >> https://rm.coe.int/grevio-report-italy-first-bas…/168099724e

➡ CHI E' GREVIO >> https://www.coe.int/en/web/istanbul-convention/grevio

lunedì 13 gennaio 2020

Ecco perché Agatha Christie è un'icona femminista

È stata una madre single e ha sposato un uomo di 14 anni più giovane di lei. Nei suoi romanzi, poi, ha inserito investigatrici più brillanti dei loro colleghi maschi.
Isuoi romanzi hanno venduto (pare) più copie della Bibbia, ma in tempi recenti c’è chi ha avuto il coraggio di criticarla per aver inserito nelle sue opere stereotipi di genere, piuttosto stantii se letti con occhi ‘moderni’. La verità, però, non potrebbe essere più diversa: Agatha Christie, scomparsa il 12 gennaio del 1976, non è solo la scrittrice di gialli più famosa di sempre, ma anche un’icona femminista, per quello che ha fatto nel corso della sua vita e per le donne che ha reso protagoniste di romanzi e racconti, spesso più sveglie degli uomini.

UNA VITA DA ROMANZO (MA NON GIALLO)
Nata a Torquay il 15 settembre del 1890, dunque verso la fine dell’epoca vittoriana, Agatha Mary Clarissa Miller (questo il nome completo da nubile) crebbe in una ricca famiglia dell'alta borghesia, ma dopo essersi sposata con l’ufficiale dell’esercito Archibald Christie, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale non esitò ad unirsi al Voluntary Aid Detachment, aiutando come infermiera i soldati feriti in un ospedale della sua città. Durante il conflitto scrisse il suo primo romanzo, Poirot a Styles Court, pubblicato poi nel 1920, quando aveva già dato alla luce la sua unica figlia Rosalind Margaret. Che per un certo periodo ‘lasciò’ alla madre e alla sorella, per girare attorno al mondo col marito (che lavorava nella promozione dell'Esposizione dell'Impero Britannico): la coppia visitò mete esotiche come Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda e Hawaii, dove furono i primi britannici a surfare in piedi. Quando Archie si innamorò di un’altra donna e i due divorziarono, Agatha Christie diventò una madre single, dal grande successo nel suo lavoro, quello di scrittrice. Rimase da sola poco, tutto sommato: nel 1930, durante un viaggio sull’Orient Express, conobbe Max Malloran, archeologo di quasi 14 anni più giovane di lei. Ebbe un toyboy, insomma, quando nessuno ce l’aveva. Se lo sposò, però, nello stesso anno: il loro fu un matrimonio felice, che durò fino alla morte della ‘Regina del Giallo’, nel 1976. Questa la vita non banale di una donna che, nata in epoca vittoriana, di vittoriano ebbe davvero poco. E che per niente somigliava alla sua eroina più famosa, la compassata Miss Marple.

Fino ad Agatha Christie, nei romanzi gialli le donne potevano fare al massimo le segretarie. Lei non creò solo Hercule Poirot, ma anche una serie di investigatrici brillanti, fuori dagli schemi, piene di risorse. Oltre alla già citata Miss Marple, dai capelli grigi ma sveglia come nessun altro, c’è innanzitutto Ariadne Oliver: questo personaggio, comparso per la prima volta in un racconto incluso poi nella raccolta Parker Pyne indaga del 1934, è una signora inglese di una certa età, ma in piena forma e molto attiva, scrittrice di romanzi gialli, tutti di grande successo. Vi ricorda qualcuno? Dalla doppelganger dell’autrice, che in Fermate il boia del 1952 a un certo punto accusa gli uomini di essere investigatori poco perspicaci, a Lady Eileen ‘Bundle’ Brent: apparsa in due romanzi, è una it girl dei ruggenti Anni 20 talmente veloce alla guida della sua auto da spaventare i passeggeri maschi. Ma anche capace di risolvere casi di omicidio prima di loro. E poi non va dimenticata Prudence Cowley, la metà più brillante del duo investigativo formato insieme al marito Thomas Beresford. Se parliamo dei romanzi di Agatha Chrristie c’è un altro aspetto interessante da considerare: nei suoi lavori, le donne non sono solo le investigatrici che risolvono i casi, ma anche coloro che li scatenano, in quanto assassine senza scrupoli. Non un bel modo di dipingere le donne, forse, ma di sicuro poco scontato. «La vostra idea della donna è di una persona che alla vista di un topo salta sulla sedia e comincia a urlare. È così preistorica», disse una volta la Regina del Giallo. E noi, che la consideriamo un’icona femminista, non potremmo essere più d’accordo.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/ritratti/2020/01/12/agatha-christie-femminista/29625/?fbclid=IwAR10Vc6hVtPQfCIFypgV8cp4bfILkDPX87Wk1hyjR4j18TUP6X0vAE-bSNw

domenica 12 gennaio 2020

La laurea dopo 150 anni. Che bella vittoria per le sette scienziate di EdimburgoLa laurea dopo 150 anni. Che bella vittoria per le sette scienziate di Edimburgo,di GABRIELLA GREISON

Si iscrissero alla facoltà di Medicina ma furono avversate dalla società maschilista. Pochi mesi fa il riconoscimento nel Regno Unito

SONO sette donne, sette scienziate del Regno Unito. Sophia Jex-Blake, Matilda Chaplin, Isabel Thorne, Emily Bovell, Edith Pechey, Helen Evans, Mary Anderson Marshall. La loro storia non ci è molto familiare, come spesso accade per questi racconti di discriminati della scienza che vengono da molto lontano. Ma in questa vicenda c’è un epilogo interessante, è così bello che vale la pena partire dalla fine. Il post scriptum è stato scritto nei giorni nostri. Questa estate il Regno Unito ha attribuito sette lauree postume alle sette donne, che avevano avuto la loro immatricolazione all’università 150 anni fa, ma che la società maschilista aveva combattuto. Le prime sette donne che hanno frequentato la facoltà di medicina nella regione, ora hanno il loro certificato di laurea, grazie alla richiesta che hanno fatto alcuni studenti.

La passione di Sophia
Sophia Jex-Blake era inglese, dell’East Sussex, data di nascita 1840. Aveva la passione per la scienza, le piaceva la medicina, decise di raggiungere gli Stati Uniti. Fece domanda di assunzione ad Harvard nel 1867, al New England Hospital, ma fu respinta. La presenza di donne non è consentita qui da noi, le dissero. Rientrò in Inghilterra, ma a fatica le aprirono le porte, anche solo per fare dei colloqui. Nessuna scuola medica inglese era pronta ad accettare studentesse di sesso femminile. Jex-Blake si ostinò, non si arrese, fino a che la Edinburgh University si convinse ad ammetterla. Ma aver convinto la segreteria o i dirigenti a prendere la sua iscrizione non era abbastanza, il tribunale dell’ateneo le si scagliò contro. Le regole non possono essere certo cambiate per l’interesse di una sola ragazza, le dissero. Il quotidiano The Scotsman fece un passo in direzione opposta, e varò una campagna a suo favore. Giorno dopo giorno pubblicarono articoli che esaltavano la necessità di un cambiamento, e che spinsero altre ragazze a tentare i test di ammissione.
Sei donna? Paghi di più
Nel novembre del 1869 ci riuscirono in sei. Sophia, Matilda, Isabel, Emily, Edith, Helen e Mary non ebbero però vita facile all’interno dell’università: dovettero pagare una retta più alta rispetto agli studenti maschi, e avevano restrizioni e divieti. Il personale universitario presente nella scuola aveva un ordine ben preciso: nessuna autorizzazione poteva permettere ai professori di insegnare alle donne. E così le sette donne si trovarono a fare i conti con le piccole vendette private da parte dei professori intransigenti, che fiorivano in ogni corridoio.

Le sette ragazze trovarono una scappatoia: si procurarono i testi e si prepararono a turno sugli argomenti di esame, autoimpartendosi lezioni, e valutandosi a vicenda. I risultati non tardarono ad arrivare. La loro preparazione era uguale, se non addirittura superiore, a quella dei colleghi maschi, lo dimostrarono i test e gli esami scritti che avevano potuto sostenere. Ma l’invidia, la rabbia, l’ostilità dei maschi divenne sempre più forte. In strada venivano insultate, prese in giro nei corridoi, derise, fino ad arrivare a delle vere e proprie aggressioni, non solo verbali.

Il fango nell'aula del chirurgo
Nel 1870 si verificò l’episodio più grave: una folla si riunì nei pressi dell’aula dove le donne dovevano entrare per una lezione con un chirurgo, e tirò loro addosso spazzatura e fango. Nel 1873 venne presa la decisione che mise fine a questa storia: la suprema corte civile di Scozia stabilì che l’Università di Edimburgo aveva il diritto di non consegnare la laurea alle sette ragazze. L’incubo si era avverato. Ma nel frattempo i giornali parlavano di nuove aperture per le donne, altre capitali mostravano sensibilità e cura per il percorso femminile nella scienza. In tutto, cinque delle sette donne ottennero la laurea in paesi diversi, chi a Berna, chi a Parigi, e tutte esercitarono la professione, in parallelo divennero strenue sostenitrici dei movimenti per la libertà delle donne.

Il finale di questa storia ha del leggendario. Un segnale, un simbolo del cambiamento. Un precedente.

Ps: Adesso aspettiamo che la laurea postuma venga attribuita anche a Mileva Maric, che aveva il sogno di laurearsi in fisica (a prescindere che poi sia diventata moglie di Einstein e madre dei suoi figli, e cosa abbia fatto per lui), ma che la società sessista e maschilista del tempo le ha impedito di realizzare.
https://www.repubblica.it/scienze/2019/09/27/news/la_laurea_dopo_150_anni_che_bella_vittoria_per_le_sette_di_edimburgo-237085987/?fbclid=IwAR2A_sx75ZfOE_PiS8cdDNG0pj6Ga0k_SAD9RcKlLZl5Wbt796WhoT3ybnQ


giovedì 9 gennaio 2020

Campania e Lombardia: trasformare i centri antiviolenza in meri servizi significa lasciare le donne senza adeguato supporto

“Sul tema della libertà delle donne e quindi del superamento della violenza, il 2020 si apre con venti minacciosi. Due le regioni al momento investite direttamente, ma abbiamo ragioni per temere che si tratti di un trend che investirà tutta l’Italia”.

Ad affermarlo è Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, la più grande rete nazionale di centri antiviolenza gestiti da organizzazioni di donne: “Parliamo di ciò che sta accadendo ai centri antiviolenza in Campania e in Lombardia, la cui sopravvivenza viene fortemente minacciata dalle recenti decisioni delle amministrazioni locali”.

In Campania a seguito della chiusura di un Centro antiviolenza le istituzioni si sono adoperate per assegnarne compiti e funzioni  – come se fosse solo un problema di disegno organizzativo – a professioniste Asp.

Surrogare il centro antiviolenza, elemento portante dei processi di cambiamento sociale e culturale sul tema, con le figure ‘professionali’ – psicologhe, assistenti sociali, ecc. –  della vicina struttura socio sanitaria “significa non aver compreso l’origine del fenomeno della violenza maschile alle donne, significa non riconoscere la funzione, il ruolo, la straordinaria capacità ed esperienza delle attiviste dei centri antiviolenza”, afferma Daniela Fevola, consigliera regionale D.i.Re per la Campania.

“Se bastasse una figura tecnicamente e professionalmente ‘adeguata’ e organica alla struttura socio-sanitaria perché circa 23 mila donne nell’ultimo anno si sono rivolte ai centri antiviolenza della rete D.i.Re?”, fa notare Veltri. “Alla base di questi numeri, che corrispondono a quasi la metà di tutte le donne che hanno fatto accesso a un centro antiviolenza secondo ISTAT, c’è sicuramente l’accoglienza che hanno trovato, le risposte che hanno avuto, il valore del percorso che hanno avviato con il supporto delle operatrici”.

La regione Lombardia ha escluso CADMI, Casa di accoglienza per donne maltrattate di Milano, dai finanziamenti regionali perché si rifiuta, come altri centri antiviolenza D.i.Re lombardi, di inserire il codice fiscale delle donne accolte nel sistema ORA, Osservatorio Regionale Antiviolenza. Per questo la gestione del centro antiviolenza di Corsico (MI) dal 1° gennaio è passato da CADMI alla Fondazione dei Padri Somaschi, a seguito di un bando dal quale il centro D.i.Re è stato escluso d’ufficio.

Ma il conflitto politico con la Regione “è più ampio e investe l’intero impianto dei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. La Regione Lombardia, infatti, finanzia solo quei percorsi che prevedono l’intervento della psicologa o dell’avvocata, riducendoli alle mere prestazioni professionali per le quali è richiesto obbligatoriamente il codice fiscale”, denuncia Cristina Carelli, consigliera di D.i.Re per la Lombardia e coordinatrice di CADMI.

“Di fatto la Regione non tiene in alcun conto il progetto individuale che si costruisce nei centri antiviolenza femministi su misura e insieme alla donna accolta, e che può anche non prevedere affatto queste prestazioni perché la donna non ne ha bisogno, deve solo recuperare forza, fiducia, autostima, e avviare una vita in autonomia: quello che accade con il supporto delle operatrici e la relazione tra donne su cui si fonda la nostra metodologia”, prosegue Carelli.

“Fornire il codice fiscale delle donne accolte rappresenta un vero e proprio ricatto istituzionale che fa leva su una condizione di bisogno delle donne”, chiarisce Carelli, “e assomiglia molto alla violenza economica che subiscono le donne da parte dei maltrattanti”.

Inoltre, “poiché per la Regione contano solo i numeri delle donne di cui è stato fornito il codice fiscale, di fatto la Regione Lombardia oscura la preziosa e indispensabile attività dei centri antiviolenza D.i.Re”, denuncia ancora Carelli, “e dei centri femministi per i quali l’anonimato è una condizione imprescindibile, non solo per garantire la sicurezza delle donne accolte, ma anche perché la violenza ci riguarda tutte, non è una vicenda personale per la quale deve essere predisposto un percorso assistenziale”.

Ai venti contrari che soffiano in questo inizio anno “D.i.Re avanza la propria resistenza perché crede nella forza e nel progetto di libertà delle donne”, conclude la presidente Veltri.
https://www.direcontrolaviolenza.it/campania-e-lombardia-trasformare-i-centri-antiviolenza-in-meri-servizi-significa-lasciare-le-donne-senza-adeguato-supporto/?fbclid=IwAR3fAxeW3H6w5DRbxiwoiIob6pCEtxbtxMQYwWaN_u9qvC6Y4pnIb8GvGcQ

mercoledì 8 gennaio 2020

LE PAROLE CHE VORREI SENTIRE NEL 2020 di Donatella Caione

Ho chiuso il 2019 con un articolo in cui indicavo una frase che non vorrei sentire nel 2020, dunque mi pare giusto cominciare il nuovo anno con una frase che invece nel 2020 mi piacerebbe sentire. In realtà mi piacerebbe sentire sempre più spesso alcune parole: ministra, sindaca, assessora, avvocata, ingegnera, architetta, addetta stampa, procuratrice, direttrice, governatrice, rettrice e tante altre.
Non vorrei invece sentire più espressioni come: “È cacofonico”, “Suona male”, “Ci sono ben altre cose importanti”, “Sono libera/o di usare la parola che preferisco”, “Non dobbiamo cambiare la grammatica”, “Le parole in -o sono neutre” e tante altre.
Dobbiamo continuare a ricordare ancora una volta come le parole possono cambiare la percezione delle persone, sia di chi nomina che di chi è nominato. E quindi come sia importante l’uso delle parole giuste, e in particolare dei femminili giusti.
Abbiamo discusso e discutiamo tanto sul perché sia importante usare il femminile e sul perché le parole cambino la percezione. Ma stavolta proviamo a chiederci perché c’è tanta ostinazione a non volere questo cambiamento. Ecco alcuni motivi che ho individuato.
Perché il linguaggio incide realmente sul potere maschile. Il maschile considerato inclusivo ci ricorda ogni momento che il maschile prevale sul femminile, dopotutto. E alla fin fine si pensa che sia giusto che il maschile prevalga. In Francia si sta combattendo la regola: “Il maschile prevale sul femminile” esistente  dal periodo della Monarchia Assoluta che poi è anche il periodo della nascita della Académie Française fondata nel 1635 dal cardinale Richelieu. Prima non esisteva. Nel 1767 un membro dell’Académie, il grammatico Nicolas Beauzée, spiegò: «Il genere maschile è ritenuto superiore al genere femminile a causa della superiorità del maschio sulla femmina». La frase mostra in maniera evidente come il linguaggio crea e modifica il pensiero.
Perché le parole possono provare un cambiamento reale che non si vuole in quanto non c’è un reale desiderio di Pari Opportunità, si vuole solo dare un contentino. Come dire, che ci sia qualche donna che fa cose che prima le donne non facevano va anche bene ma non vorremo mica che superino gli uomini! Il rischio c’è e spaventa, l’uso del maschile invece rassicura.
Perché tante donne riconoscono l’autorevolezza del maschile e, accettando di essere nominate al maschile, non si rendono conto di accettare anche la sudditanza, ma sentono ad esempio che definirsi avvocato dia più prestigio di avvocata. Ma solo cambiando le parole si cambierà la percezione.
Perché si dice che sono parole cacofoniche, cioè di suono sgradevole. In realtà ogni parola che non siamo abituati a dire/sentire ci suona strana. Non abbiamo fatto una gran fatica ad abituarci a parole tipo selfie, instagrammare, twittare, follower, googlare, taggare e alcune proprio terribili come fotoscioppare o matchare ma si definiscono cacofoniche assessora e architetta
Perché si dice che non bisogna imporle ma aspettare che entrino nell’uso, ma come fanno ad entrare nell’uso se ci si rifiuta di usarle?
Perché la tale donna ha detto di voler essere definita al maschile. Ma ricordiamo che esistono delle regole e che non decidiamo noi quali regole grammaticali applicare e quali no.
Perché il sessismo è sempre più sdoganato e secondo me è anche più sdoganato del razzismo o di altre discriminazioni. Sembra esagerata questa affermazione? Non lo è. Pensiamo ad alcuni ambiti, ad esempio quello della letteratura per l’infanzia che vivo in prima persona. Ebbene ci sono autori e autrici che si battono contro il razzismo, scrivono contro le discriminazioni ma poi facilmente incappano nella frase stereotipata o sessista o nel non nominare e nominarsi mai al femminile che non può essere casuale in chi vive di parole. Insomma, il sessismo è diventato ordinario.
Perché si sta tornando indietro: pochi giorni fa durante un incontro una ragazza ribadiva come siano assurde certe discriminazioni verso le donne nel 2019. Ma è giovane, è nata in questo secolo, non è in grado di capire che i passi avanti nascondono grandi passi indietro: oggi si dicono e pensano cose che mai si sarebbero dette o pensate quando io avevo la sua età. Nel 1999 ci fu una indignazione collettiva contro la sentenza della Cassazione che negò l’esistenza di uno stupro perché la vittima “indossava i jeans”, definiti come “un indumento che non si può sfilare nemmeno in parte senza la fattiva collaborazione di chi lo porta“, oggi il 39,3% della popolazione ritiene che una donna sarebbe in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo volesse. Il 39,3%!!! Non so, magari anche nel 1999 tanti/e pensavano che non fosse stato uno stupro, ma non l’avrebbero detto ad alta voce. Se da una parte le donne sono diventate ministre, astronaute e magistrate dall’altra basta guardarsi intorno per scoprire, ad esempio, l’uso continuo di corpi femminili oggettivizzati per vendere prodotti. Non dobbiamo lasciarci confondere dai passi avanti che nascondono quelli all’indietro.
Perché c’è un comune sentire per cui le parole non siano importanti ma lo è ben altro. In realtà chi pratica il benaltrismo vede solo la cima della piramide ma ci può essere una cima, al cui apice c’è il femminicidio, solo se c’è una base sotto. E in questa base, insieme a stereotipi, sessismo di ogni tipo, oggettivizzazione del corpo femminile c’è anche la negazione della presenza femminile attraverso il linguaggio che l’oscura, la nasconde, la fa sparire. Ma la stessa cosa avviene se immaginiamo una piramide alla cui cima c’è la mancanza di ruoli apicali per le donne o gli stipendi mediamente più bassi. Gli effetti più negativi e che più si vorrebbero contrastare dipendono dalla base, su cui si reggono. Se non modifichiamo abitudini, comportamenti, parole, espressioni che sono alla base non potremo modificare la cima della piramide.
Perché non volgono il loro sguardo alle bambine e ai bambini. È abbastanza inutile fare i progetti Stem per avvicinare bambine e ragazze alle materie scientifiche e poi nominare “direttore” chi dirige il Cern, anche se Fabiola Giannotti è una donna. Più di mille progetti, è il sapere che è donna chi dirige il più importante istituto di ricerca per la fisica delle particelle e ciò incide sulla loro consapevolezza. Non hanno problemi le bambine a usare il femminile, d’altra parte, perché hanno appena studiato la grammatica. Proviamo a guardare come brillano i loro occhi quando entrando in un’aula scolastica si dice: “Buongiorno bambine e bambini!” Come sono felici che chi parla abbia usato una parola in più tutta per loro.
Nonostante le difficoltà e gli arretramenti, non dobbiamo smettere però di usarlo noi il femminile, anche con qualche provocazione. Sono secoli anzi millenni che le donne devono sentirsi incluse nel maschile, proviamo invece a usare provocatoriamente il femminile inclusivo, soprattutto se si parla di temi che riguardano soprattutto le donne, in modo che per una volta gli uomini si sentano inclusi nel femminile e provino cosa vuol dire non essere nominati. Se gli uomini non riescono per una volta a sentirsi parte dell’universo femminile, come speriamo di cambiare un mondo in cui le donne sono sempre state parte dell’universo maschile?
Qualche giorno fa riempendo un form per acquistare un biglietto aereo dovevo scegliere un’opzione fra tre: signore, signorina, signora. E ho provato una irritazione antica. Agli uomini non si chiede di definirsi in base al loro stato civile, io per anni mi sono sentita chiedere “Signora o signorina”? Signorina è un modo edulcorato per dire zitella. Avete mai fatto caso a come suonano diversamente scapolo e zitella? Una volta tanto oggi è positivo aver adottato una parola inglese, single, che quanto meno non connota diversamente uomini e donne.
E se finalmente mi chiamano signora, se non altro per l’età raggiunta, quasi mai mi chiamano dottoressa, anche in una città, come la mia, in cui per abitudine il geometra viene promosso a ingegnere e il maestro a professore!
Dunque le parole sono importanti, importantissime. Scegliendole bene, usando il femminile quando necessario daremo l’esatta percezione di come vogliamo stare al mondo.
https://vitaminevaganti.com/2020/01/04/le-parole-che-vorrei-sentire-nel-2020/?fbclid=IwAR18n8xaVv0z_C6ZdtwEOiCLLIO-U5vFAmivFdDLqGLqhvZPQMQjsBU9n4I

martedì 7 gennaio 2020

Buon 2020 con le femministe che ci piacciono! di Giovanna Badalassi

Le femministe che ci sono piaciute nel 2020
E alla fine ci siamo riuscite!

Sei giorni fa, leggendo la classifica annuale delle 50 donne che più hanno lasciato il segno nel 2019 del Corriere, e notando come questa comprendesse donne di ogni tipo, abbiamo scritto un post nel quale facevamo presente la differenza tra donne di successo e femministe di successo. Da questa riflessione abbiamo lanciato provocatoriamente una richiesta di segnalazione che riguardasse non tanto le donne quanto le femministe che più ci sono piaciute nel 2019,

Lo ammettiamo senza vergogna: abbiamo un po’ sottovalutato una provocazione che è stata invece presa molto sul serio. Abbiamo ricevuto moltissime segnalazioni e creato aspettative ben al di là di quello che era l’obiettivo del post. È emerso (inaspettatamente?) quanto forte sia il bisogno di riconoscimento dell’impegno di tante, non solo in termini di individuazione delle role model, ma soprattutto rispetto all’emersione, alla conoscenza e alla condivisione dell’impegno quotidiano di tante femministe.

Abbiamo deciso di pubblicare i nomi di tutte le femministe che ci sono state segnalate senza fare alcun tipo di selezione. Siamo ben consapevoli che, date le circostanze garibaldine con le quali è nato questo esperimento, non si tratta di segnalazioni di merito assoluto ma solo di merito relativo. Per tale motivo, nella consapevolezza di questi limiti, la lista con oltre 500 nominativi è in ordine rigorosamente alfabetico e rimarrà ancora aperta per alcuni giorni ad altre segnalazioni che vorrete mandarci (o rimandarci, non escludiamo di aver perso qualche segnalazione nel marasma di messaggi, chat e post che abbiamo ricevuto, e ce ne scusiamo).

Leggendo la lista cogliamo diversi spunti di riflessione su cosa significhi essere femminista oggi.

Il dilemma tra l’essere femminista e il fare qualcosa di femminista
Abbiamo bisogno di riflettere ancora molto su cosa voglia dire la parola femminista, perché in questa lista c’è di tutto: attiviste, giornaliste, paladine dei diritti, donne di spettacolo, di cultura, manager, avvocate, politiche ecc.. Femministe storiche assieme a femministe della nuova generazione, donne che si identificano come femministe ma anche donne che non si definiscono come tali ma che hanno fatto qualcosa di femminista, in alcuni casi a propria insaputa. Donne che esprimono il proprio femminismo a livello territoriale, altre che sono attive a livello nazionale se non internazionale.

Si tratta di un’enorme ricchezza ma anche di una grande complessità, di storie, culture, motivazioni e aspirazioni, che certamente ha contribuito alla frammentazione che oggi si osserva nel femminismo italiano, e non solo.

Il femminismo è letto sia come pubblico che privato, sia individuale che collettivo
Nella lista ci sono alcune donne che mai forse definirebbero sé stesse come femministe, che non appartengono a movimenti o gruppi ma che sono state segnalate per il valore delle proprie battaglie, spesso per sé stesse o per i propri familiari. Vi è quindi un riconoscimento del femminismo “privato” all’interno delle famiglie.

Ci sono poi ancora altre donne che non appartengono neanch’esse a gruppi o movimenti ma che hanno fatto qualcosa di femminista a livello pubblico.

In alcuni casi, invece, nonostante avessimo chiesto dei nominativi, ci sono state segnalate associazioni e organizzazioni di vario tipo, che vogliamo comunque citare a latere.

Anche in questo caso, il termine femminista copre quindi uno spettro molto ampio di situazioni che combinano in vario modo la dimensione privata e pubblica con quella individuale e colletiva.

Il femminismo degli anni 20 dovrà riconnettersi con sé stesso
Tante, troppe, sono le donne nella lista per meriti propri e senza appartenenza a movimenti o gruppi. E’ chiaro che la frattura generazionale avvenuta a partire dalla fine degli anni 70 fa sì che molte delle femministe di oggi si siano conquistate il proprio nome e status in modo autonomo e individuale senza un particolare sostegno e supporto da parte di reti di donne. Però, come vediamo dalla situazione delle donne in Italia, queste esperienze preziose non bastano. I tempi sono cambiati infatti non solo rispetto agli anni 70 ma anche rispetto ai decenni successivi, e cambieranno ancora: non si può pensare che il femminismo in Italia continui ad avere lo stesso livello di frammentazione che c’è stato finora. Occorre fare rete, “unire i puntini”, trovare un comune denominatore che unisca tutte e che sappia al contempo preservare la ricchezza di tutte queste differenze.

E’ paradossale che in quanto donne disponiamo in dosi massicce di quella capacità di fare rete e stringere legami e rapporti che non riusciamo ad esprimere altrettanto bene in quanto femministe.

Il femminismo 2020 non potrà/dovrà essere competitivo
Qualcuna nei vari commenti ha scritto che non piacciono le classifiche e non ha senso farle per le femministe. Un’obiezione che ci ha fatto piacere leggere perché è vero, questo esperimento non voleva essere una classifica e come vedete non lo è diventato.

Qualcun’altra ha mostrato una discreta quanto legittima aspirazione di visibilità e riconoscimento.

A noi vanno bene entrambi gli approcci, perché è giusto sia fare squadra, riscoprendo quel senso di sorellanza che dopo gli anni 70 abbiamo un po’ perso per strada, sia premiare chi si impegna, non solo per il giusto riconoscimento ma anche per offrire una fonte di ispirazione ad altre donne.

Di certo occorre trovare un punto di equilibrio, evitando di livellare tutto ma anche di incentivare dinamiche competitive che sono contro spirito del femminismo.

Il femminismo deve salvare solo le donne o tutto il mondo?
Per alcuni nominativi è interessante osservare la sovrapposizione tra il femminismo e l’impegno per la difesa dei diritti umani. Donne che si sono distinte per il proprio impegno contro il razzismo o a favore dei diritti degli stranieri, ad esempio, sono state indicate come femministe, senza essere associate ad uno specifico impegno a favore dei diritti delle donne. Questo ci porta a ragionare su fino a che punto si debba estendere il concetto femminismo, se debba limitarsi a sostenere i diritti delle donne o se si debba assumere la responsabilità di quello che lo circonda. A noi di Ladynomics piace la definizione più ampia di femminismo, che significa prendersi la responsabilità del mondo e della collettività. Quindi una visione più estesa di quella che identifica il femminismo nella tutela e difesa dei sacrosanti diritti delle donne, che non li esclude ma anzi li include e li valorizza. Il femminismo per definizione non può essere infatti autocentrato ma deve avere un’elevata consapevolezza ed una propria identità che si esprime appieno solo se sa pensare ai diritti di tutte e di tutti.

La lista delle femministe per l’anno prossimo e.. ringraziamenti!
Nella interminabile lista dei buon propositi per il 2020 c’è anche quello di ripetere questa esperienza. Lo promettiamo: più organizzata e strutturata, ma l’ondata di partecipazione che c’è stata ci fa pensare che ce ne sia bisogno.

Prima di lasciarvi alla lettura dei nomi, vogliamo ringraziare di cuore tutte le amiche che ci hanno aiutato con le segnalazioni, i gruppi di whattsapp, di facebook, le risposte su twitter o chi ci ha scritto via mail: è stato un impegno corale davvero intenso e gratificante.

Ah. Un’ultima cosa, così per chiudere.
Le femministe sono proprio belle. Tutte, anche quelle che non trovate nella lista per i limiti di questo esperimento, sono belle grazie alle proprie storie personali, emozioni, esperienze. E sono pure ricche. Ricche di ideali, visioni, motivazioni, entusiasmo.

Dobbiamo andarne tutte fiere perché sono, siamo, la parte migliore della nostra società.

Buon 2020 a tutte!

le liste dei nomi al link https://www.ladynomics.it/femministe-piaciute-nel-2019/?fbclid=IwAR1Iwr2aRxEHu1jlkk5fjx37W2UxTOFyphVkPtMCvUoz8SCVBR3tUham9Gk


sabato 4 gennaio 2020

Cadmi costretto a lasciare “La Stanza dello Scirocco” Dal 31 dicembre “La Stanza dello Scirocco” il Centro Antiviolenza del Distretto di Corsico non è più gestito dal Cadmi

Il Centro Antiviolenza, con sede in via Marzabotto voluto dall'Amministrazione Comunale di Corsico e finanziato con un progetto di Regione Lombardia, sin dalla sua nascita è stato organizzato e gestito con grande professionalità dalle operatrici Cadmi (Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano) e con la collaborazione di volontarie dell'associazione Demetra di Trezzano sul  Naviglio.

A causare l'uscita di Cadmi la irremovibile decisione di Regione Lombardia, unica fra le Regioni, di chiedere l'inserimento del codice fiscale delle donne che accedono ai Centri. 

Nonostante le ripetute e motivate richieste di associazioni e partiti politici di rivedere la scelta e contravvenendo a quanto scritto nella Convenzione di Istanbul che raccomanda l'anonimato come protezione delle donne che ai centri si rivolgono.

La non accettazione della richiesta del codice fiscale è un punto fermo di molti storici centri antiviolenza. Dichiarano le operatrici Cadmi “ Oltre a ledere il diritto alla privacy la conoscenza del codice fiscale mette a rischio l'incolumità delle donne che denunciano, dei figli e delle figlie, individuabili e raggiungibili dai coniugi violenti”. 

Questo è l'epilogo di una storia che abbiamo raccontato più volte in questi quattro anni, prima con la soddisfazione di avere sul territorio un CAV (Centro Antiviolenza) di qualità, poi per cercare consenso sul territorio e far rivedere la posizione di Regione Lombardia.  

 Inutilmente...

Perciò il Cadmi è stato escluso dalla partecipazione al bando per la gestione de “La Stanza dello Scirocco” che dal 1 gennaio è gestita dalla Fondazione Padri Somaschi. 

Ringraziamo le operatrici che in questi anni hanno saputo creare relazioni positive sul territorio e con le quali abbiamo avuto ripetutamente l'opportunità di confrontarci anche in situazioni aperte alla città.

Cercheremo di relazionarci con coloro che gestiranno il Centro a cui auguriamo un buon lavoro a cominciare da questa fase di conoscenza della realtà in cui dovranno operare.

Il Cadmi comunica che prosegue l'attività di accoglienza e affiancamento dei progetti delle donne a Milano in Via Piacenza 14 – 02/55015519.