lunedì 19 ottobre 2020

Così ci fanno dimenticare che l'aborto è un diritto DI CHIARA MANETTI

Da settimane riceviamo storie di donne maltrattate, isolate, insultate. Lasciate in una stanza d'ospedale a rimuginare sulle proprie scelte. A soffrire le pene dell'inferno, senza anestesia, perché sentano il dolore fino in fondo. Con la campagna #innomeditutte abbiamo raccolto centinaia di esperienze. Eccone alcune

Nessuno pensava che potessero essere così tante. Ostacolate e discriminate, le donne lasciate sole e senza assistenza ad affrontare un aborto sono centinaia. E si tratta solo di quelle che ci hanno contattato, ma chissà quante altre ne esistono che rimangono in silenzio, per vergogna o per paura.

Grazie alla campagna lanciata sul sito dell’Espresso #innomeditutte, nata dopo il racconto di un’interruzione volontaria di gravidanza trasformata in tortura, abbiamo accumulato esperienze provenienti da tutta Italia. Ne riportiamo alcune. Per tutte coloro che hanno scelto di interrompere una gravidanza perché una legge di Stato lo permette. Per le madri che scelgono di non volere un altro figlio. Per i mariti che vengono tagliati fuori da un percorso che si dovrebbe affrontare in due. Per chi viene trattato come se l’aborto non fosse un diritto.

Capita quando hai 18 anni e una dottoressa cerca di convincerti a non farlo: «I tuoi genitori non potrebbero prendersi cura di lui?». Capita quando senti lo sguardo degli infermieri posarsi sulle più insignificanti zone scoperte della tua pelle, sotto quel camice verde annodato malamente. «Prima vanno a divertirsi e poi...». Speri di aver capito male. Capita anche quando, fino ai minuti prima del raschiamento, continuano a suggerirti di “ripensarci”. Senza preoccuparsi delle tue motivazioni, perché non possono esistere ragioni valide per abortire. Non per il 69 per cento dei ginecologi e neanche per il 30 per cento degli anestesisti o il 42 per cento del personale non medico in Italia. Questi dati risalgono al 2018 e sono i più recenti che abbiamo a disposizione.

Alcune delle storie raccolte sono attuali, altre risalgono a decine di anni fa. Ad esempio T. da Perugia parla del suo aborto nel 1987: «Ma vedo che nulla è cambiato in chi dovrebbe mettere un po’ di umanità e solidarietà nel proprio lavoro, soprattutto tra donne». Ricorda una stanza gelida, insieme ad altre venti come lei. Ricorda un farmaco, forse un tranquillante, ma nessuna spiegazione a riguardo. Sul lettino, prima che si addormentasse, «sentivo medici e infermiere parlare della festa a cui avevano partecipato il giorno prima. Nessuno che mi abbia tranquillizzata, neanche un misero gesto di comprensione. Ma da quanto ho letto, il 2020 è ancora peggio».

«Siamo tornati indietro di anni», lamenta un medico psichiatra che negli anni ‘80, subito dopo la 194, prescriveva molti certificati per le Ivg. Una storia, quella di M., risale a quel periodo: è il 1989 quando l’ecografia alla 22esima settimana mostra un’ernia diaframmatica. «Trafila identica a quella raccontata nella storia pubblicata sul vostro giornale - e sono passati trent’anni. Primo step, istituto di Igiene mentale dove un assistente sociale suggerisce addirittura il ricovero di almeno un giorno». M. aspetta quasi una settimana prima di recarsi in ospedale: «Mi sentivo un pacco esplosivo che cercavano di passarsi di mano pur di non essere coinvolti». Una mattina la ricoverano in una camera con partorienti e neonati e lì inizia la terapia abortiva. I dolori sono lancinanti, ma le negano un calmante. Quando le contrazioni durano ormai da 23 ore, i medici si rifiutano di intervenire perché bisogna lasciare che tutto accada. «Tra le mie gambe sento il sangue e un piccolo esserino che lentamente si muove. Mio marito ha la prontezza di prendermi in braccio ed inizia a correre verso la sala parto». Di colpo medici, ostetriche e infermieri risorgono. Dopo aver preteso di essere sedata durante l’aborto, M. finalmente si addormenta. «Appena ho potuto ho preso la mia dignità e ho lasciato quell’ospedale che ormai per me era un incubo».

Come racconta anche D., «ci sono posti in cui ti fanno sentire colpevole. Non c’è giorno che non pensi a ciò che ho fatto, anche se sono passati 15 anni». Scrive da Roma, città in cui oggi i medici non obiettori sono solo cinque e cinque è anche il numero di ospedali in cui viene effettuato l’aborto terapeutico. I dati  più recenti sulle Ivg effettuate nella capitale risalgono al 2018, il Comune li ha pubblicati a maggio: sono più di seimila, mentre in tutta Italia superano quota 76mila. Si tratta del 67,5 per cento in meno rispetto al 1982, quando si registrò il più alto numero di Ivg nel Paese.

La storia di L. inizia proprio nel 2018, a Roma. È alla 24esima settimana quando scopre una rara patologia. «Devi abortire immediatamente, perché tuo figlio sarà un vegetale», le dice il suo ginecologo, ma aggiunge che non può aiutarla. Dovrà rivolgersi altrove, «forse all’estero». Presa dal panico, scopre in autonomia che c’è un reparto per la 194 all’ospedale San Camillo. Lì abortisce, al sesto mese. Sentendo il pianto disperato di suo marito, rigorosamente fuori ad aspettare che tutto finisca. La storia di L. ha un risvolto ancora più drammatico: dall’autopsia risulta un errore nella diagnosi del ginecologo: il bambino poteva nascere sano. La diagnosi chiara e definitiva lei e suo marito la aspettano da due anni. Colpa anche del Covid-19, che ha rallentato ulteriormente le cose.

L’attesa sembra essere una costante in tutte queste storie. Uno dei tanti fili rossi che le collegano tra loro. Quella di C. è avvenuta in una sala parto, ancora una volta a Roma. La lasciano da sola con un pulsante da premere «quando è successo». Sì, ma cosa? «Lo scoprirai», le rispondono le infermiere. Poi “succede” e C. spinge il bottone. «Non sai che il giorno dopo ti sentirai stranamente felice, ma saranno solo gli ormoni che rispondono ad un finto parto. Io con l’arrivo del latte sono caduta nel baratro. Un anno di analisi e l’amore di mio marito non mi hanno fatto affondare, ma è stata solo fortuna».

Una di queste storie ci viene raccontata proprio da un marito. Da Piacenza. È il 2006 quando lui e la sua compagna optano per un aborto farmacologico: «Non ti dicono che ti ritrovi su una tazza del water a fare uscire un piccolo feto. E tiri l’acqua, poi. Io ero lì accanto per tutto il tempo a tenerle la mano. E quando sai che la legge 194 prevede l’assistenza psicologica capisci che i diritti e l’aiuto previsti sono rimasti sulla carta. Zero informazione, nessun supporto. Nessuna umanità si incontra in questi drammi di donne, di uomini e di relazione».

Da Firenze invece arrivano le scuse di un’ostetrica «per non aver fatto abbastanza come professionista. Starò sempre a fianco delle donne e continuerò a lottare perché tutte abbiano un trattamento dignitoso e rispettoso». Ma una non sembra abbastanza per ricucire i danni di tutti i medici obiettori.

Un’altra ostetrica ci racconta dei turni estenuanti e dei weekend che non esistono più: solo lei e altri quattro nella sua struttura sono non-obiettori. «Abbiamo una cardiologa che non referta gli ECG e anestesisti che si appigliano al fatto che l’epidurale non sia garantita». Ma molte cose funzionano: la somministrazione della RU486 e la spiegazione dettagliata di ciò che potrebbe avvenire dopo, a casa. Come il parto sul water, che con le adeguate istruzioni si potrebbe evitare. Se solo a Piacenza le avessero date.

«Capita che le donne ringrazino prima di essere dimesse» spiega l’ostetrica. Si sentono fortunate ad aver trovato un posto dove sono seguite passo passo. Si tratta di un loro diritto, ma glielo fanno dimenticare. «Gli obiettori sono un’anomalia che dovrebbe sparire», aggiunge. Un’anomalia troppo diffusa

https://espresso.repubblica.it/attualita/2020/10/08/news/storie-di-un-umiliazione-continua-1.354240?fbclid=IwAR3OL0QUyTe7phzmG7F2I1EAQLHEkfFZL6TBDPNK6gewLt1QMbkGmfIUp9Q

venerdì 16 ottobre 2020

Covid19 e Recovery Funds È il tempo di una diversa responsabilità delle donne per il Paese Giovanna Badalassi e Marilù Chiofalo *

Grazie alla crisi Covid, ci stiamo provando, in Italia, a ragionare di futuro, anche se il dibattito pubblico troppo spesso si ferma a proposte “ordinarie”, come sull’uso dei Recovery Funds per le politiche ritenute per le donne e concentrate su welfare, asili nido, genitorialità e occupazione femminile. Temi storici e fondamentali, con un tratto cruciale: da sempre sono lasciati quasi solo alle donne e le donne si occupano più spesso solo di loro. È questo un approccio che funziona nel tempo cronologico drammatico e straordinariamente opportuno che ci è dato da vivere?

Quando nel 1948 si trattò di utilizzare i soldi del Piano Marshall, tutto venne deciso da una classe dirigente quasi esclusivamente maschile. Non avrebbe potuto essere diversamente: le donne avevano votato per la prima volta nella storia solo due anni prima e tutto, dell’emancipazione femminile, doveva ancora succedere. Oggi, più di 70 anni dopo, il peso delle donne nella società e nell’economia italiana è cresciuto in modo considerevole: le occupate sono aumentate dai 6,3 milioni del 1959 ai 9,8 milioni del 2019, producono PIL, pagano tasse, posseggono il 48,4% delle abitazioni, sono il 57,7% delle persone laureate e il 36% di chi siede in Parlamento (il 5% nel 1948) e, soprattutto, sono quasi il 52% dell’elettorato.

Eppure le donne, quando si propongono nel dibattito pubblico, sono ancora percepite come una minoranza che chiede soprattutto protezione, riconoscimento e soluzione di propri problemi apparentemente solo loro. È una contraddizione che si spiega certamente con i millenni di non-cittadinanza alle spalle, in cui le donne hanno gestito soprattutto l’economia della propria casa e troppo poco quella pubblica, comunque amministrando un mondo a loro estraneo, di cui sono al più ospiti. In questa prospettiva millenaria, il secolo che il World Economic Forum stima debba ancora passare per la piena parità, appare poca cosa.

PERCHÉ LE DONNE NON SONO MINORANZA NÈ «SOGGETTI FRAGILI»

Ci chiediamo, però, se davvero le donne possano continuare a fermarsi ai soli temi ritenuti più “femminili”, al più insistendo sulla loro importanza per tutto il sistema. O se non debbano piuttosto costruire una casa da fondazioni nuove fiammanti, sulle quali innalzare i pilastri dell’occupabilità femminile, educazione, sostenibilità ambientale, mobilità, connettività digitale, e qualità urbana, come infrastrutture materiali e immateriali indispensabili per un Paese accogliente, bello, sicuro.

Le donne rappresentano infatti un’esperienza e un vissuto collettivo indispensabili per la visione di futuro, per il loro peso sociale ed economico e per quella familiarità con la cura – nel significato più ampio - che infatti le ha viste protagoniste durante l’emergenza.

Se grandi sono ancora ostacoli e discriminazioni,è il momento che le donne assumano una diversa postura collettiva nei confronti del Paese, esprimendo appieno il loro diritto-dovere di cittadinanza e ponendosi come forza emergente che mette talenti e professionalità nella pratica del benessere generale, con un’autonoma visione da proporre, condividere e negoziare.

Protagonista di questo cambiamento deve essere anche l’attuale classe dirigente femminile, chiamata ad un considerevole salto di qualità per superare posizioni ancillari e di rendita, costruire una propria indipendenza politica ed elettorale, includere nuove competenze, diverse generazioni e nuovi punti di vista, e la capacità di stare ad un più alto livello di conflitto, inevitabile in ogni cambiamento.

Occorre dunque che le individualità femminili già eccellenti in ogni settore economico e sociale si elevino a una dimensione pubblica condivisa: senza questo passaggio le pur valorose esperte inserite “in quota di genere” non possono né potranno avere potere di rappresentanza né negoziazione.

È questo il tempo di una sfida irrinunciabile per il futuro del Paese: un orizzonte radicalmente diverso, che forse avrebbe avuto bisogno di un più lungo tempo di navigazione, ma che l’urgenza della crisi ci dà l’opportunità di mirare.

* Giovanna Badalassi, ricercatrice in valutazione di impatto socioeconomico delle politiche pubbliche, e co-fondatrice di Ladynomics, e Marilù Chiofalo, docente di fisica, Università di Pisa, ed esperta di politiche di genere

15 ottobre 2020 (modifica il 15 ottobre 2020 | 01:28)

https://27esimaora.corriere.it/20_ottobre_15/covid19-recovery-funds-tempo-una-diversa-responsabilita-donne-il-paese-e13d9b84-0e66-11eb-9df8-9ad18fda6e17.shtml?fbclid=IwAR0jVezC_rRLgO-FVdgfWRPdAoBUy7WkRM61i3vVgl7teBxVQ


martedì 13 ottobre 2020

Terre des Hommes: «la nostra sfida, proteggere le bambine» di CRISTINA LACAVA

La pandemia e la crisi hanno peggiorato la condizione delle più piccole in tutto il mondo: è quanto emerge dall’ultimo dossier di Terre des Hommes, che iO Donna presenta in anteprima in occasione della Giornata Internazionale delle bambine (11 ottobre). Per difendere il loro futuro, servono progetti mirati di prevenzione e sostegno. Anche in Italia, dove prendono il via un corso di empowerment e un nuovo consultorio per le ragazze

Più disuguaglianze, matrimoni precoci e abusi, meno accesso all’istruzione. I dati che emergono dall’ultimo dossier “indifesa-La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo” di Terre des Hommes non lasciano dubbi: nell’anno del coronavirus, per le più piccole le cose vanno male. La chiusura delle scuole ha messo a dura prova il diritto all’istruzione: l’Unesco ha stimato che già a fine marzo in tutto il mondo 743 milioni di bambine e ragazze non potevano andare a scuola per il lockdown. Di queste. però, 11 milioni non ritorneranno in classe. E non solo nel 2020; mai più.

Il dossier, che verrà presentato l’8 ottobre alla presenza di Elena Bonetti, ministra per le Pari opportunità e la Famiglia (ci sarà Danda Santini, direttrice di iO Donna), anticipando la Giornata Internazionale delle Bambine (11 ottobre), è uno spaccato sui diritti negati e su quanto resta da fare verso la parità di genere, anche in Italia. Soprattutto nell’anno del virus. «Si calcola che nel mondo 15 milioni di ragazze abbiano subito una violenza a sfondo sessuale. Ebbene, nel periodo più acuto della pandemia sono aumentate del 30 per cento le telefonate ai numeri d’emergenza, in tutti i Paesi», dice Federica Giannotta, responsabile dei progetti Italia di Terre des Hommes. «Da noi, tra aprile e maggio c’è stata un’impennata dell’80 per cento. Tra chi chiamava, il 30 per cento lo faceva per la prima volta».

Il virus ha rallentato invece i viaggi nei Paesi dove le bambine vengono sottoposte alla mutilazione genitale: «Secondo i dati dell’università di Milano Bicocca, in Italia ci sono 87mila donne che hanno subito questa violenza nei Paesi d’origine», continua Giannotta. «Il lockdown ha rallentato la pratica, ma siamo convinti che con la fine delle restrizioni si sia ricominciato. Eppure, il 91 per cento delle donne che ha subito l’infibulazione dice che non la farà mai alle proprie figlie».

Tra i progetti italiani di Terre des Hommes, abbiamo scelto di raccontarne quattro: i primi due sono già avviati con successo, gli ultimi sono in partenza, e per aiutarli è stato attivato il numero solidale 45591 (attivo fino al 18 ottobre), sempre nell’ambito della campagna “indifesa” che sarà anche sui social con gli hashtag #indifesa e #iogiocoallapari. Il 9 ottobre ci sarà un evento in streaming con 500 studenti delle superiori e il 27 ottobre, alla Fondazione Feltrinelli di Milano, a “Stand up for Girls! 2020” si discuterà di parità di genere con una serie di short talks (ci sarà anche Renata Ferri di iO Donna). Info terredeshommes.it o indifesa.org.

Le web radio con lo sguardo sul mondo

Hanno passione, una gran voglia di lottare contro gli stereotipi e le discriminazioni. Credono in una parola che sembra un po’ datata (e suscita tanta nostalgia nei genitori): partecipazione. Sono i giovani delle 12 web radio del “network indifesa”, un circuito che dedica una parte della programmazione contro il sessismo, il bullismo, per la parità di genere (networkindifesa.org). Alcune sono nate a scuola, come USB (Unica Speciale by Borsi), dell’istituto comprensivo Borsi di Milano. Ma c’è anche Radio Siani, che ha lo studio a Ercolano e coinvolge studenti liceali e universitari, e Radio Sonora, che dà voce ai ragazzi dei Comuni della Bassa Romagna. «L’idea era dare spazio ai giovani che vogliono farsi sentire», dice Manuela D’Andrea, coordinatrice del progetto. «Li abbiamo messi in rete, abbiamo fornito un manuale che li aiuta a realizzare i contenuti. Noi portiamo i nostri temi, loro li adattano con la freschezza e il linguaggio dell’età. Ci siamo accorti che sono molto interessati a cosa succede nel mondo. Li ha colpiti la terribile storia di Zohra, la schiava pakistana di 8 anni torturata e uccisa dai suoi padroni perché aveva liberato due pappagalli. I ragazzi di oggi hanno lo sguardo sul mondo, sono curiosi, attenti, impegnati».

Prevenire i maltrattamenti si può

L’inverno scorso è partito all’ospedale dei bambini Buzzi di Milano il progetto Timmi (sponsorizzato da Esselunga), un ambulatorio con un pediatra e un team di psicologi con il compito di intercettare le situazioni «in cui c’è una fragilità nelle relazioni tra genitori e figli», spiega Federica Giannotta. Si cerca di prevenire prima che sia tardi. «Quando un bambino arriva al Pronto Soccorso, i nostri operatori se notano una situazione delicata cercano di avere un colloquio. Nella maggior parte dei casi basta una chiacchierata per tranquillizzare un papà o una mamma troppo ansiosi o ipercuranti, o al contrario poco reattivi. Qualche volta si va avanti con un accompagnamento alla famiglia. Nei casi più compromessi, si fa una segnalazione ai servizi sociali o al Tribunale dei minori. Ma non vogliamo creare allarmi; al contrario, stemperare le tensioni in famiglia».

Diversa è la Casa di Timmi, che verrà inaugurata a breve a Carugo (Como), in un immobile confiscato alla mafia: ospiterà una comunità di accoglienza di tipo familiare, per 6 bambini tra 0 e 5 anni allontanati dalle famiglie per maltrattamenti, e sarà gestita in collaborazione con l’associazione Comin. «Ci saranno sempre 2/3 educatori e una supervisione legale e psicologica».

Un consultorio aperto al quartiere

Aprirà il 20 ottobre a Parma “Consultami – Spazio indifesa”, un consultorio (finanziato da Bata) che sarà «un cantiere aperto e si adatterà alle richieste del territorio, con l’obiettivo di promuovere benessere e diventare un centro di aggregazione», come spiega Nicole De Simone, responsabile dell’area psicologica. Il consultorio si trova nel quartiere S. Leonardo, «vivace e multietnico, ma con problematicità. Vogliamo intercettare i bisogni prima che ci sia bisogno dell’intervento dei servizi sociali». Anche qui, dunque, l’ottica è la prevenzione. «Siamo aperti alle famiglie, ma soprattutto alle ragazze e ai bambini a rischio maltrattamenti e violenze, anche attraverso le segnalazioni delle scuole. Facciamo assistenza legale e psicologica, in futuro psichiatrica. Organizzeremo anche eventi e laboratori per tutti, saremo un punto di riferimento nel quartiere».

Donne per l’empowerment

Ci vorranno “solo” 100 anni per raggiungere la parità di genere; così secondo l’ultimo Global Gender Gap Report del World Economic Forum uscito nel 2019. Qualche progresso c’è stato, perché nel 2018 se ne prevedevano 108. L’Italia non è messa bene: per partecipazione economica e pari opportunità nel lavoro siamo al 117° posto. 

Come scalare la classifica? 

Puntando sulle ragazze:sono prime negli studi, l’importante è che non si fermino. Terre des Hommes ha organizzato un percorso di empowerment on line destinato a studenti e studentesse delle superiori che andrà avanti tra novembre e maggio 2021. Gli incontri saranno tenuti da donne (tra loro, quelle di Prime Minister, la scuola di politica della quale abbiamo parlato sul numero del 25 maggio) che parleranno di management, violenza di genere, bullismo, educazione finanziaria. «L’obiettivo è stimolare le ragazze a una partecipazione più attiva nella vita economica, politica e sociale del Paese», dice Lucia Abbinante, direttrice dell’Agenzia nazionale giovani, che terrà il primo webinar. «Le donne devono diventare protagoniste di un grande cambiamento, essere dentro i processi decisionali. Dobbiamo spingere le ragazze ad attivarsi». Il focus sarà sulla partecipazione: «Come Agenzia nazionale giovani ci occupiamo di Erasmus Plus e del Corpo europeo di solidarietà. I giovani possono presentare progetti di scambio o di volontariato che, se approvati, finanziamo. Alle ragazze diciamo: provateci! È un’occasione per far sentire la propria voce e insistere sui temi dell’equità di genere, anche entrando a contatto con le istituzioni».

https://www.iodonna.it/attualita/storie-e-reportage/2020/10/03/giornata-internazionale-babine-dossier-terre-des-hommes/?fbclid=IwAR3UUuMhJS_wSHKtRtKXZ-QZ1V8zytFdotgEDs3tc1J8uikgsLEbxPHEKNA

martedì 6 ottobre 2020

IL VIRGINITY TESTING COME ARMA DI CONTROLLO SUI CORPI DELLE DONNE Elisabetta Uboldi CORPI, Numero 82, Stereotipi

 Non esiste una definizione univoca per il termine verginità: la parola deriva dal latino virgo che sta ad indicare una donna giovane non sposata, mentre ai giorni nostri questo vocabolo viene utilizzato per designare una donna che non ha mai avuto un rapporto sessuale per via vaginale.

In molte società le donne vengono considerate di proprietà del proprio padre e successivamente del proprio marito e il loro stato di vergini rappresenta la purezza del loro corpo e il loro valore in quanto donne. L’importanza che la verginità riveste nella società è profondamente legata a stereotipi di genere e al controllo del corpo e della sessualità femminile. Si può quindi affermare che la verginità non è una condizione fisica, ma un costrutto sociale.

Il virginity testing o test di verginità viene praticato in diverse zone del mondo per determinare se una donna ha mai avuto un rapporto sessuale vaginale; ne esistono due tipi: il primo è l’esame approfondito dell’imene, il secondo viene chiamato two-finger test e prevede la valutazione dei muscoli della vagina.

L’imene è una membrana mucosa che ricopre parzialmente l’introito vaginale. Può essere di diverse forme e più o meno elastico, a seconda dell’età della donna e del suo stato ormonale. Nel pensiero comune, si ritiene erroneamente che una donna che non ha mai avuto rapporti sessuali vaginali abbia l’imene intatto, ma dato che esistono molti tipi di imene (puntiforme, settato, cribroso, fimbriato, semilunare, anulare, a tasca, a risvolto di manica) non è possibile dare una definizione anatomicamente corretta di imene integro ed è quindi sbagliato descrivere l’imene in questi termini, anche quando non presenta lesioni.

Durante il test di verginità l’imene viene esaminato attentamente in cerca di incisure o lacerazioni, che starebbero ad indicare l’avvenuto rapporto sessuale. Da una parte è corretto affermare che qualunque trauma può causare una lesione imenale, mentre dall’altra si è osservato che molto spesso l’imene non va incontro ad alcun tipo di lacerazione, proprio per la sua elasticità, anche dopo anni dall’inizio dell’attività sessuale. Inoltre, si tratta di un tessuto che guarisce in brevissimo tempo e può quindi non mostrare più segni di traumatismi: ad esempio un’ecchimosi imenale può non essere più visibile dopo pochi giorni e la sua presenza non starebbe comunque ad indicare con certezza un avvenuto rapporto sessuale.

Il two-finger test, invece, prevede l’inserimento di due dita in vagina per valutare la lassità delle pareti. La vagina è un canale virtuale e il tono della sua muscolatura è influenzato da diversi dati quali l’età, la conformazione fisica, fattori ormonali e molto altro. Proprio per questo motivo la valutazione del tono muscolare e in generale l’aspetto dei genitali non possono essere considerati in alcun modo indicatori della storia sessuale della donna.

Nonostante le evidenze scientifiche dicano il contrario, in molti Paesi del mondo il test di verginità viene considerato affidabile e praticato quotidianamente. In Afghanistan, Brasile, Egitto, India, Indonesia, Iran, Iraq, Jamaica, Giordania, Libia, Malawi, Marocco, Sudafrica, Sri Lanka, Swaziland, Turchia e Zimbabwe, il virginity test è utilizzato tutt’oggi per decidere se una ragazza può essere ammessa a scuola, se può sposarsi, se può essere assunta per un lavoro o prima di entrare in carcere.

Non bisogna però pensare che tutto questo non ci riguardi da vicino, poiché la richiesta di tali test è diffusa anche in Stati come la Gran Bretagna, il Canada, il Belgio, la Spagna, l’Olanda, la Svezia e gli Stati Uniti. Ha fatto scalpore, l’anno scorso, la dichiarazione del famoso rapper T.I. che ha ammesso di accompagnare periodicamente la figlia dal ginecologo per controllare se sia ancora vergine. Non sono di certo mancate le critiche e le condanne nei confronti del rapper, ma negli Usa molti genitori ricorrono a questo test per le proprie figlie.

Il test di verginità viene considerato una violazione dei diritti umani delle donne e delle bambine, quali il diritto a non subire discriminazioni di genere, il diritto alla vita e all’integrità psico-fisica, il diritto a non subire trattamenti crudeli, inumani e degradanti. Molto spesso viene praticato su minorenni, non sposate, con l’uso della minaccia e della coercizione, per determinare il loro valore sociale e il loro onore.

Questa pratica affonda le radici nella discriminazione, garantisce il perpetuarsi della disuguaglianza di genere e assicura il controllo sui corpi e la sessualità delle donne e delle ragazze.

Il test di verginità è un esame invasivo, doloroso, umiliante e traumatico, associato a diverse conseguenze sia fisiche che psicologiche: in alcuni Paesi è motivo di contagio da malattie a trasmissione sessuale, poiché viene eseguito su diverse donne, nello stesso momento, con l’utilizzo dello stesso paio di guanti.

In alcune società, la donna che fallisce un test di verginità viene isolata, considerata impura, non può essere ammessa a scuola o trovare un lavoro e a volte viene incarcerata o uccisa per ripulire l’onore della famiglia. Le ragazze emarginate sono a loro volta a rischio di subire violenze sessuali, pestaggi o di essere reclutate nel mercato della prostituzione. Ma persino coloro che vengono dichiarate vergini non possono dirsi al sicuro, poiché in alcune aree del mondo si ritiene che avere rapporti sessuali con una donna vergine possa guarire dall’hiv; sono stati registrati addirittura casi di violenze sessuali anche di gruppo ai danni di donne risultate vergini al test.

In Paesi come l’Afghanistan, fallire questa indagine può significare l’essere arrestate, in quanto i rapporti sessuali prematrimoniali sono considerati un crimine morale.

In Iran, il test viene impiegato come deterrente contro le prigioniere politiche per limitare la loro libertà di espressione. Amnesty International ha denunciato pubblicamente che la prigioniera di coscienza Atena Farghadani, condannata a diversi anni di carcere per una vignetta satirica, è stata costretta a subire un test di verginità mentre si trovava in prigione.

Nella sua ultima pubblicazione a riguardo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) mette in luce un altro grave problema legato alla questione: nonostante questa pratica non abbia alcuna validità scientifica e nessuna utilità clinica, viene utilizzata per determinare la veridicità del racconto della vittima nei casi di stupro. In tale contesto, l’utilizzo del test è da considerarsi un ulteriore trauma e una vittimizzazione secondaria della donna e, dato che viene eseguito molto spesso senza il consenso della paziente, diventa esso stesso una forma di violenza sessuale. L’Oms ha più volte ribadito che il test di verginità non deve mai essere considerato un mezzo per stabilire se lo stupro ha avuto luogo, così come non è compito degli operatori sanitari determinare la veridicità del racconto sulla base dell’esame obiettivo e della visita ginecologica. Ciononostante il test viene riconosciuto in molti tribunali e ci si serve del suo esito per screditare la vittima e giungere all’assoluzione dell’imputato.

A livello psicologico, l’essere sottoposte ad un test di verginità può provocare gli stessi disturbi legati alla violenza sessuale. Le donne riferiscono di provare uno stato di ansia, depressione, senso di colpa, vergogna e paura. Alcune arrivano a tentare il suicidio, soprattutto se l’esito del test non è approvato dalla famiglia.

L’Oms e le organizzazioni per i diritti umani sollecitano da anni l’adozione di strategie per eradicare l’utilizzo del virginity test in tutto il mondo, partendo da chi opera nella sanità, passando per i Governi e le autorità statali.

Gli/le operatori/trici sanitari/e devono essere consapevoli che i test di verginità non sono supportati da alcuna evidenza scientifica, non hanno alcuna utilità clinica, non sono attendibili e violano il principio cardine del non nuocere. Medici/che, infermieri/e ed ostetriche devono trattare tutte le pazienti con rispetto e spiegare alle famiglie il motivo per il quale non possono eseguire il test, fornendo alle donne informazioni corrette riguardo il loro corpo, l’anatomia e la fisiologia dei loro organi sessuali.

I Governi devono emanare leggi che vietino tali test e puniscano chi li esegue, soprattutto se si tratta di operatori sanitari. Le autorità hanno il compito di sensibilizzare la cittadinanza sulla non utilità di questi test e istituire campagne di prevenzione, attraverso incontri di educazione alla salute sessuale e riproduttiva, coinvolgendo anche i ragazzi e gli uomini adulti, nel rispetto della cultura e delle tradizioni locali.

Se la comunità intera riconosce l’inutilità e il trauma associato al test, si potrà compiere un enorme passo verso la sua eliminazione.

https://vitaminevaganti.com/2020/10/03/il-virginity-testing-come-arma-di-controllo-sui-corpi-delle-donne/?fbclid=IwAR0-6DP97otiLy93QmUyecQNpxENbiHDEe9BaxqXHuuUEv0CtDqyb-4azHE

lunedì 5 ottobre 2020

«Così noi donne abbiamo bloccato il cimitero per feti: basta colpevolizzare chi abortisce» DI PATRIZIO RUVIGLIONI

A Civitavecchia un'associazione in difesa della 194 si è battuta contro la consegna dei resti abortivi da parte della Asl agli ultra cattolici di Difendere la vita con Maria. Con successo

Anche a Civitavecchia, città di porto provincia di Roma, ci sarebbe dovuto essere uno dei cimiteri per feti  di cui si sta parlando in questi giorni. Si usa il condizionale, però, perché poi si sono messe di mezzo le Donne in difesa della 194, un'associazione locale che dallo scorso dicembre si è battuta contro la consegna dei resti abortivi da parte della Asl (la Roma 4, nel loro caso) a Difendere la vita con Maria. Con successo, perché l'azienda sanitaria ha revocato l'accordo con gli ultra-cattolici e lo spazio per le croci non è mai stato aperto. «Se volete sapere come ci siamo riuscite, abbiamo tanta documentazione», ha scritto ieri su Twitter Anna Luisa Contu, in prima linea insieme alle compagne dell'associazione in questa lotta. La loro, infatti, è una vittoria ancora isolata, ma non deve restare un'eccezione. Anzi: «Il modo in cui abbiamo agito è replicabile in tutta Italia, bisogna lottare», aggiunge lei all'Espresso.

E allora: com'è andata a Civitavecchia?

Nel 2017 Difendere la vita con Maria aveva chiesto alla Asl che gli concedesse i resti abortivi e i feti per seppellirli, e al Comune un'area per disporre le tombe. All'epoca la città era governata dal Movimento 5 Stelle, quindi la richiesta era andata a vuoto. È stata accolta, invece, lo scorso 19 dicembre sotto la nuova giunta Leghista, dopo che l'azienda sanitaria – il giorno prima, il 18 – aveva approvato il protocollo d'intesa con gli attivisti. Di fronte alla notizia, ci siamo subito attivate.

Come vi siete mosse a livello pratico?

Abbiamo protestato sotto la Asl, chiesto incontri, fatto manifestazioni per sensibilizzare; ci siamo unite e – soprattutto – documentate. E a febbraio, prima che il cimitero potesse aprire, abbiamo ottenuto la revoca della cessione di feti e resti abortivi da parte della Azienda sanitaria a Difendere la vita con Maria.

Su quali leggi avete fatto leva?

Ci siamo rifatte – in primis – alla legge 285 del 1990, il “Regolamento nazionale di polizia mortuaria”. Il testo, infatti, prevede che – nel caso in cui una donna non desideri farlo personalmente – il Comune si debba occupare della sepoltura del feto, in forma rigorosamente anonima. Al contrario, se si tratta ancora di resti abortivi, quindi sotto le 20 settimane di vita, è la stessa Azienda sanitaria a provvedere all'incenerimento. Parentesi: l'anonimato è fondamentale; l'articolo 21 della legge 194 prevede che chiunque riveli il nome della donna che abortisce è passibile di denuncia ai sensi dell'articolo 622 del codice penale. Ora: il problema è l'articolo 7 della 285, in cui c'è scritto che la donna o “chi per essa” può seppellire il feto entro 24 ore dalla sua estrazione. Molte associazioni cattoliche, infatti, si pongono proprio “al posto della donna”, spesso fornendo dei pareri legali. Ciò è gravissimo, perché è chiaro che la legge non si riferisce a loro, ma ai parenti o a chi ne fa le veci.

In ogni caso, il punto è che cimiteri del genere proprio non devono esistere. E, questo, secondo la legge 285. In particolare per l'articolo 92 comma 4, in cui c'è scritto che non si possono concedere aree a terzi per sepolture private che “mirino a fare lucro e speculazione”, compresa la speculazione sociale o religiosa; e per l'articolo 100, per cui sono previste aree speciali nei cimiteri per coloro che professano un culto, sì, ma solo se diverso da quello cattolico.

Quindi, con queste basi, l'accordo è stato revocato.

Sì, ed è stata fondamentale l'Asl: ci ha ascoltate da subito, vertici compresi, e non ha potuto che constatare che abbiamo ragione. Nella revoca, ha scritto che perfezionerà il documento, ma ci ha detto che di fatto non concederanno mai i feti o i resti abortivi a Difendere la vita con Maria o altre associazioni.

Resta in ballo il Comune, però.

Che è un pericolo, perché non ci ha neanche mai risposto. E, qualora ratificasse la concessione dell'area a Difendere la vita con Maria, i suoi attivisti potrebbero mettere croci “simboliche”. Noi abbiamo diffidato la giunta affinché ciò non avvenga, ma chissà. Certo, gli ultra-cattolici non avranno comunque a disposizione i feti di Civitavecchia, perché l'accordo con la Roma 4 manca e mancherà. È un primo passo, insomma.

Cosa suggerisce di fare alle donne di tutta Italia?

Di informarsi, studiare, unirsi. E di far leva sulle leggi a cui ci siamo affidate noi. Del resto, i cimiteri per feti aprono per le pressioni delle associazioni cattoliche nelle Asl, per la distrazione dei partiti progressisti, per mancanze interne, dei sindacati di categoria. Chi gli fa propaganda dentro gli ospedali? I medici, gli infermieri, il personale in prima persona; non solo gli attivisti di Difendere la vita con Maria. Ma noi, in ogni caso, siamo nel giusto, e siamo sicure di ciò che diciamo. Se una persona cattolica ritiene che i resti vadano seppelliti, nulla in contrario, ci mancherebbe: può farlo nella tomba di famiglia. Ma la legge non prevede cimiteri collettivi. Che, a livello simbolico, servono solo a colpevolizzare chi abortisce. E sono il tribunale dell'inquisizione perenne per le donne.

https://espresso.repubblica.it/attualita/2020/10/02/news/noi-donne-di-civitavecchia-abbiamo-impedito-il-cimitero-per-feti-la-nostra-battaglia-deve-essere-replicata-1.354116?fbclid=IwAR2lAd6dstgp9ONDDaGQs_GuPHf_qNCHJ17vI1_V5c7Sisl-Pkamm7nNSH4

giovedì 1 ottobre 2020

I CIMITERI DEI FETI UMILIANO LE DONNE. LI HO MAPPATI E NON SONO UN’ECCEZIONE, MA LA NORMALITÀ. DI JENNIFER GUERRA

Il 28 settembre una giovane donna romana ha raccontato su Facebook che sette mesi dopo aver subìto un aborto terapeutico ha scoperto che il feto era stato inumato al cimitero Flaminio senza alcun consenso. Non solo, era stato sepolto con una croce, e sulla croce era stato scritto il nome della donna. Alla domanda se volesse occuparsi lei delle esequie, aveva infatti detto di no, ma di certo non si aspettava che avrebbe trovato una croce con il suo nome in un cimitero di Roma. Il post ha giustamente sollevato grande indignazione, anche se appositi cimiteri di feti sono presenti in moltissime città d’Italia. Dopo la notizia dell’apertura di un “Giardino degli angeli” e dell’istituzione di un “Registro dei bambini mai nati” a Marsala lo scorso agosto, ho provato a tenere traccia delle aree cimiteriali in Italia dedicate all’inumazione dei feti e dei comuni che hanno istituito registri simili: ne ho contati una cinquantina, anche se  è probabile ce ne siano molti di più. L’impressione è infatti che queste aree, costruite all’interno dei cimiteri comunali, non facciano grande notizia perché la legge prevede che i feti possano essere seppelliti (e dopo la ventesima settimana di età intrauterina si tratta di un obbligo) e quindi non c’è niente di strano nel fatto che esistano luoghi dedicati a questo scopo, anzi. Il problema, come nel caso di Roma, è quando ciò avviene senza la consapevolezza dei parenti e, soprattutto, delle donne. In alcuni comuni, come ad esempio a Cagliari, Torri di Quartesolo (in provincia di Vicenza) e Borgosesia, feti e “prodotti del concepimento” vengono seppelliti in ogni caso, anche senza che i genitori vengano informati.

La prima di queste aree cimiteriali, chiamate “Giardini degli angeli”, è stata inaugurata nel 2000 a Novara, sede dell’associazione che spesso si occupa dell’inumazione dei feti, “Difendere la vita con Maria” (Advm), fondata dal sacerdote Maurizio Gagliardini e che oggi conterebbe 3mila aderenti e 60 sedi locali. Non è la sola, anche il movimento religioso “Armata bianca” ha tra le sue missioni quella di seppellire i feti. Advm si ispira al magistero del cardinale colombiano ed ex presidente del Pontificio consiglio della famiglia, Alfonso López Trujillo, scomparso nel 2008, secondo cui tutti i bambini non battezzati (quindi anche i feti) vanno sepolti per essere “spiritualmente raggiunti” dalla Chiesa. Advm agisce nel rispetto della legge, e in particolare del regolamento di polizia mortuaria del 1990, che all’articolo 7 dispone diverse procedure a seconda che si tratti di un “nato morto”, “feto” o “prodotto abortivo”. Con “nato morto” ci si riferisce ai feti che hanno compiuto le 28 settimane di età intrauterina e che sono stati dichiarati tali all’ufficiale di stato civile. In questo caso la sepoltura avviene sempre, come per una persona. Se il feto ha un’età compresa tra le 20 e le 28 settimane di gestazione e non è stato dichiarato “nato morto” all’ufficiale di stato civile, “i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale”, cioè è l’Asl a occuparsi della sepoltura e non serve che i genitori ne facciano richiesta, a meno che non vogliano organizzare loro una cerimonia. Infine, se i feti hanno un’età presunta inferiore alle 20 settimane, la sepoltura è facoltativa e la richiesta deve essere compilata dai parenti entro 24 ore dall’espulsione del feto. In caso non venga fatta alcuna richiesta, i prodotti del concepimento vengono smaltiti direttamente dalla struttura ospedaliera tramite termodistruzione. Ed è proprio qui che si inserisce l’attività di Advm.L’associazione, infatti, stipula una convenzione con la struttura ospedaliera e con l’Asl e interviene per seppellire i feti sotto le 20 settimane di gestazione, qualora i parenti non facciano richiesta. I volontari si recano personalmente nell’ospedale per prelevare i resti, li mettono in scatole decorate con una croce e poi fanno delle cerimonie funebri nelle aree preposte. I costi delle sepolture vengono sostenuti dalle donazioni dei volontari stessi. Se c’è anche un registro, viene apposto un cippo con un numero in modo da poter risalire alla data dell’aborto, e viene assegnato il nome “Celeste”, che è sia maschile che femminile. Si tratta quindi di una sepoltura con una forte connotazione religiosa, non per forza condivisa da una persona che, in ogni caso, non la sceglie in maniera limpida e consapevole.

Molto spesso le donne che interrompono una gravidanza, spontaneamente, volontariamente o per ragioni terapeutiche, non vengono infatti adeguatamente informate del destino del prodotto del concepimento. Nel caso di interruzione di gravidanza, è obbligatorio che la donna firmi un consenso informato che contiene tutte le informazioni riguardanti l’operazione. Non esiste un consenso “standard”, ma se ne possono reperire alcuni in rete, molto simili fra loro se non per qualche variazione. Ne ho letti diversi (Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria, Goretti di Latina, ASP Caltanissetta, Domus Nova di Ravenna, Ospedale di Genova, ASL Matera, Ospedale “Maria delle Grazie” di Bari) e non ho trovato nessun riferimento alla procedura di sepoltura. Potrebbe essere una coincidenza, ma è ragionevole pensare che questa informazione o  venga data solo verbalmente (come successo alla donna di Roma) o non venga data affatto. Possiamo quindi supporre che, anche se lo volessero, nella maggior parte dei casi i parenti nemmeno saprebbero di dover fare richiesta entro 24 ore per seppellire un feto con meno di 20 settimane di età. Lo stesso mi è stato confermato da diverse donne che hanno interrotto la gravidanza: nessuna era stata informata su cosa sarebbe accaduto ai resti.

Diversa, ma non per questo meno grave, è la storia di una donna che ci ha contattati per raccontare quanto le è successo in un ospedale di Milano. “Alla tredicesima settimana ho fatto il test combinato e la dottoressa ha sospettato una malformazione al cuore del feto. Tempo di fare ulteriori accertamenti, sono arrivata alla diciottesima settimana, superando i termini per fare l’Ivg secondo la legge 194”, racconta. “Ho dovuto quindi fare un colloquio psicologico per certificare l’impossibilità di portare avanti la gravidanza e poter fare un aborto terapeutico. Durante il colloquio, la psicologa mi ha presentato l’aborto farmacologico come un trauma che mi avrebbe ‘preparata’ a superare il trauma successivo, cioè la perdita del bambino. Quello che però mi ha davvero sconvolta è che lei mi ha assicurato che avrei potuto dare un nome al feto e benedirlo con dell’acqua santa e, soprattutto, che qualcuno ‘del Comune’ si sarebbe occupato di prelevarlo, cremarlo e portarlo al cimitero di Lambrate. La cosa grave è che mi è stato detto che anche se io non avessi voluto dare un nome e fare questa benedizione, qualcuno l’avrebbe comunque fatto per me. Ed è assurdo che, quando il ginecologo ha deciso che avrei dovuto fare il raschiamento, la psicologa ha cambiato idea, e seppellire il feto non sembrava più così necessario, come se solo il corpo intero meritasse una sepoltura”.

L’istituzione di registri dei bambini mai nati e di cimiteri dei feti si inserisce in una più ampia prospettiva che è quella delle “città a favore della vita”. Le amministrazioni di centrodestra, spesso vicine agli ambienti antiabortisti, propongono queste mozioni per dichiarare pubblicamente il proprio comune “a favore della vita”. Aveva suscitato molte polemiche quella proposta e approvata a Verona nel 2018, ma sono tante le città e i comuni interessati: Genova, Imperia, Roma e Milano (dove sono state respinte), Trento, Alessandria. Ci sono state anche alcune iniziative per rendere obbligatoria la sepoltura dei feti a livello nazionale e regionale. Dal 2018 la Regione Veneto ha introdotto l’obbligo di informare i parenti della possibilità di inumare il feto e, in caso non se ne vogliano occupare, se ne farà carico l’Asl anche al di sotto delle 20 settimane di gestazione. Il deputato di Fratelli d’Italia Luca De Carlo (originario anche lui del Veneto) aveva presentato una proposta di legge in merito a marzo del 2019, perché “per la donna l’aborto volontario è un dramma”. Quello che però emerge è che, nella maggior parte dei casi, questo tipo di iniziative passi sotto silenzio a meno che non ci sia qualcuno a opporsi, come successo a Marsala o a Civitavecchia, dove il comitato “Donne in difesa della legge 194/78” è riuscito a far revocare il protocollo d’intesa tra il comune e “Difendere la vita con Maria”.

Il problema dei cimiteri dei feti non sta nel fatto che esistano. Non c’è niente di male nel voler seppellire un feto e ognuno ha un modo intimo e personale di elaborare un lutto, se lo si vive come tale. Inoltre, bisogna sempre tenere a mente che queste inumazioni non interessano solo chi ha fatto un’interruzione volontaria di gravidanza, ma anche chi l’ha interrotta per ragioni terapeutiche o ha avuto un aborto spontaneo. Il problema sta nel fatto che questo avviene nella totale inconsapevolezza delle persone interessate che, come nel caso della donna di Roma, rischiano di ritrovare il proprio nome appeso su una croce in un cimitero, con una grave violazione della privacy. Se quello che fanno Advm e altre associazioni è legale, quello che dobbiamo chiederci è perché un ospedale divulghi i dati sensibili delle proprie pazienti e perché sia possibile che affidi lo smaltimento di quelli che, per la legge, sono a tutti gli effetti rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo a un’associazione religiosa. Il fatto che, stando alle stesse dichiarazioni del fondatore di Advm, siano stati seppelliti più di 200mila “bambini mai nati” dà un’idea dell’estensione di un fenomeno di cui è difficile però tenere effettivamente traccia, in un Paese dove la vita – e la morte – sono evidentemente ancora un affare del prete e della parrocchia e dei loro rapporti con la politica. Viene da chiedersi quante amministrazioni comunali, al di là del partito di maggioranza, abbiano approvato di buon grado l’istituzione di un “Giardino degli angeli” senza chiedersi quali conseguenze avesse veramente sulla vita delle donne. E quanti direttori di ospedali pubblici, come il Gaslini di Genova che è convenzionato con “Difendere la vita con Maria”, condividano il pensiero del direttore generale Paolo Petralia secondo cui “la vita comincia dal concepimento” e quindi si deve dare “dignità e rispetto a una persona che non c’è più”, dimenticandosi di quelle di chi resta. Essere “a favore della vita” significa innanzitutto essere a favore di quella di chi è vivo, e si risparmierebbe con ogni probabilità di vedere il proprio nome crocifisso.

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