mercoledì 18 maggio 2016

LETTERA APERTA AL SINDACO DI CORSICO


LETTERA APERTA

AL SINDACO DI CORSICO

SIG. FILIPPO ERRANTE

Signor Sindaco,

ci corre “l'obbligo di precisazione” dopo le dichiarazioni seguite alle  manifestazioni di dissenso che  un gruppo di associazioni fra cui la nostra hanno rivolto ad alcune sue azioni di politica amministrativa. Tralasciando tutte le caratteristiche, alcune delle quali rasentano l'insulto, con cui Lei connota le associazione che protestano, vogliamo soffermarci sulla sua versione dei fatti secondo cui la protesta è legata alla perdita di privilegi che Lei non intende ripristinare. Ma facciamo parlare i fatti.

Dalla Giunta Ferrucci la nostra associazione ha avuto non una sede, ma la possibilità di utilizzare uno spazio al Centro Foscolo una sera la settimana, nello stesso giorno in cui veniva utilizzato da un'altra associazione per contenere le spese invernali di riscaldamento e con il diritto di uso da parte dell'Amministrazione in caso di necessità.

Abbiamo poi avuto la possibilità di fare delle iniziative rivolte alle cittadine ed ai cittadini su temi sensibili per un'associazione di donne, fra i tanti la conciliazione famiglia-lavoro, la violenza agita dagli uomini, il ruolo delle donne nella storia.

Diritti e opportunità li consideriamo noi, non privilegi.

Abbiamo richiesto alla sua Giunta il rinnovo di utilizzo dello spazio al Foscolo, che non ci è stato concesso. I passaggi intercorsi sono documentati sul nostro blog. Fino ad oggi non abbiamo avuto alcuna risposta ufficiale dopo la nostra motivata impossibilità di accettare lo spazio offerto all'interno del Parco Cabassina

Rinnoviamo, comunque, il nostro bisogno di utilizzare uno fra i tanti spazi liberi comunali, una sera a settimana, in un luogo più consono alla nostra identità e finalità della nostra associazione e dichiariamo la nostra disponibilità a pagare un equo canone.

Signor Sindaco con il suo governo abbiamo perso diritti, non privilegi. Diritti di riconoscimento, di esistenza e di cittadinanza.

Vogliamo sottoporre alla sua attenzione una seconda questione.

Avendo avuto notizie di possibili difficoltà a finanziare  “La stanza dello scirocco” e ricordando il suo impegno pubblico a mantenere  stabile e permanente il Centro antiviolenza in occasione del 25 novembre, abbiamo ripetutamente cercato di metterci in contatto con Lei, con assessori ed assessore, con il funzionario responsabile per capire come stessero realmente le cose (anche questo iter è documentato sul nostro blog), dichiarando la nostra disponibilità a collaborare qualora fosse stato necessario. Silenzio. Abbiamo anche cercato di fare RETE e manifestato davanti al Municipio alla ricerca di interlocuzione. Nulla, ancora silenzio assordante. Ci siamo mosse autonomamente. Abbiamo dialogato con funzionarie delle regione Lombardia, con esperte con cui siamo in relazione, con associazioni e amministrazioni disponibili ad ascoltarci. Abbiamo studiato protocolli e progetti e siamo riuscite a far parte della rete antiviolenza del Distretto con lo spirito di servizio alla causa delle donne che subiscono violenza. Ci dispiace di non aver avuto dialogo e sostegno dalla amministrazione comunale di cui siamo cittadine.

Abbiamo raccontato e documentato alcuni fra i “fatti” che ci hanno indotte a protestare.

Restiamo sempre disponibili ad un incontro nella concezione attiva e partecipata della cittadinanza, a meno che anche questo non sia considerato un privilegio.

Porgiamo i nostri saluti.
 
ventunesimodonna
 

Corsico, 16 maggio 2016

 

 

Al posto delle principesse, le vite di 100 donne straordinarie: il libro di favole fa il boom su Kickstarter Carlotta Balena


Un libro di favole moderno, pieno di storie di donne realmente vissute che hanno cambiato il mondo. E’ il progetto lanciato su Kickstarter dalla startup Timbuktu Labs, che ha già raccolto il triplo dell’obiettivo iniziale
Le favole di oggi non raccontano storie di principesse e cavalli bianchi. Le bambine di oggi hanno bisogno di puntare su qualcosa di più di una scarpetta di cristallo che risolve la vita. Non è mancanza di fantasia, è innovazione. Perfino la Disney ha sentito la necessità di aggiornare il suo immaginario rompendo lo schema del principe e principessa con la sorellanza di Frozen: e, nemmeno a dirlo, è stato un successo. Le favole di oggi sono storie vere: l’esempio non lo dà la morale alla fine del libro, ma l’esperienza di una persona in carne e ossa o vissuta nel passato. Questo è l’obiettivo del progetto della startup Timbuktu Labs: si chiama “Good Night Stories for Rebel Girls”, in italiano “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, ed è una collezione di 100 storie illustrate da 100 artiste che celebrano altrettante donne straordinarie. Per finanziarsi, il libro ha lanciato una campagna di Kickstarter lo scorso 27 aprile ed  in pochi giorni ha superato ampiamente l’obiettivo iniziale di 40 mila dollari.

Donne che hanno cambiato il mondo
“Good Night Stories for Rebel Girls” è il libro di favole dei giorni nostri. Alle bambine racconta donne vere: che hanno fatto qualcosa di grande, o che nella loro vita hanno dovuto superare molti ostacoli, dovuti al lavoro che fanno, al colore della loro pelle o semplicemente al fatto stesso di essere nate donne. I profili spaziano: pittrici, scienziate, danzatrici, astronaute, del passato o del presente, da tutto il mondo. Frida Kahlo, Elisabetta I, Serena WIlliams: hanno in comune una vita fuori dal comune, un ruolo importante nella storia del loro settore.

Una favola diversa
Timbuktu Labs è una startup con base a Los Angeles che produce contenuti e servizi per bambini con una particolare attenzione alle bambine. Ve ne avevamo già parlato per l’e-book sulla vita di Margherita Hack e per il progetto di riqualificazione urbana dei parchi giochi. “Nel nostro percorso da imprenditrici abbiamo spesso desiderato di essere cresciute circondate da più modelli femminili in ruoli di leadership” spiega Elena Favilli, amministratore delegato di Timbuktu Labs. “Ci sproniamo costantemente a farci avanti e compriamo libri sul superamento degli stereotipi di genere…ma questo genere di letture arriva troppo tardi. Essere esposte quanto prima a una narrazione diversa della femminilità è fondamentale”.

100 illustrazioni
L’idea del libro di favole che mostra un esempio di “eroina” diverso dal solito, strutturato su vite vere e persone esistite mira a ispirare le bambine, e a spingerle ad esplorare le loro potenzialità. Questo, secondo le due fondatrici di Timbuktu Labs è il senso di una “favola moderna”.  “Lavoriamo nel mondo dei media per bambini da 5 anni e vediamo ogni giorno in prima persona quanto i libri per bambini propongano storie ancora imbevute di stereotipi di genere – spiega Francesca Cavallo, co-fondatrice e direttrice creativa di Timbuktu – I genitori non hanno molta scelta, ma molti di loro sono preoccupati e vogliono far crescere i propri bambini a contatto con storie che propongano modelli femminili moderni. È per loro che stiamo creando questo libro”. Ciascuna storia sarà illustrata da una illustratrice diversa proveniente da ogni angolo del mondo: l’idea del progetto è anche mostrare il lavoro di queste artiste. Chi preordina il libro su Kickstarter potrà riceverlo in tempo per Natale 2016.
http://ischool.startupitalia.eu/education/54064-20160504-favole-100-donne

venerdì 13 maggio 2016

La mamma è il primo e l’ultimo tabù di Lea Melandri

Si dà il caso che il 10 maggio, festa della mamma, fosse anche il giorno natale della donna che mi ha messo al mondo e amato tanto da farmi studiare, nonostante la condizione economica della famiglia non lo permettesse.

Ma il dono più grande e inaspettato da chi aveva conosciuto il destino femminile come dedizione e obbedienza al comando altrui, amore e maltrattamenti, era racchiuso in una frase impensabile in quell’epoca, in quella cultura contadina: “Stai libera!”.

Che cosa significasse come scelte di vita devo averlo intuito e incorporato tanto da muovere i piedi, appena ho potuto, fuori dal cortile di casa, in fuga verso la città.

Solo più tardi, dopo aver incontrato il femminismo, avrei capito “per virtù di analisi” – sono le parole di Sibilla Aleramo – la dolorosa ambiguità che tiene annodate nell’esistenza femminile la donna e la madre, la forza e la debolezza, l’esaltazione immaginativa e l’insignificanza storica a cui l’ha consegnata la cultura del sesso dominante.

In tutti gli anni che sono vissuta lontano, fino alla sua morte, non ho mai capito se il richiamo che mi faceva perché ricordassi il 10 maggio fosse per il compleanno di una persona generosa che amavo o per la “festa” che ipocritamente, retoricamente, si fa alle “mamme”, perché restino tali, perché continuino a “vivere in funzione degli uomini” (Rousseau), consolarli, sostenerli, avere cura di bambini, malati, anziani e adulti in perfetta salute.

La madre è il primo e l’ultimo tabù, monumento intoccabile della potenza originaria che l’uomo ha conosciuto inerme, in totale dipendenza, e poi sottomesso con le armi che – come scrive Jules Michelet – gli ha dato un “privilegio naturale”, “rafforzato dalla storia con le sue istituzioni e con le sue leggi”. È solo per “magnanimità” che il progresso “civile” l’avrebbe poi accolta nel corso dei secoli come fonte di sussistenza e di rinnovamento morale.

Che altro sono oggi il “Valore D”, i “talenti femminili” – capacità di ascolto e di mediazione, sensibilità e attitudine alla cura –, se non le tradizionali doti attribuite per “natura” al materno?

Che la donna non dovesse mai aver bisogno di affermare la sua individualità, che fosse destinata a “vivere per gli altri”, “amare e partorire”, e che questo sacrificio di sé facesse di lei una “religione”, era stato il massimo tributo che pensatori del secolo precedente, come Michelet, Bachofen, Mantegazza, avevano creduto di fare alla “differenza” femminile.

La donna madre è la donna completa: la donna giovane, bella, ricca non è né può essere felice se in lei non palpita la maternità. La donna che non è madre è l’eunuco del proprio sesso, e l’intricato meccanismo della nostra società civile fabbrica purtroppo ogni giorno a mille di queste mutilate.

Con la messa a tema di un conflitto ancora più provocatorio – La donna clitoridea e la donna vaginale, di Carla Lonzi – all’inizio degli anni settanta comincia la stagione di un femminismo radicale che avrebbe terremotato ruoli tradizionali, certezze identitarie, equilibri tra natura e storia, famiglia e società, individuo e collettivo, sopravvissuti a cambiamenti secolari.

Evidentemente, separare la sessualità dalla procreazione, legittimare l’aborto, scrollarsi di dosso le tante illibertà di cui hanno sofferto le donne, a partire dalla cancellazione di esistenza propria, non è bastato a scalfire il carattere fondativo dell’identità femminile, che ancora viene attribuito all’essere madre. C’è ancora una comprensibile resistenza delle donne ad abbandonare un potere – sostitutivo di altri a loro negati – che viene dal rendersi indispensabili, necessarie a uomini che non hanno mai smesso di affidarsi alle loro cure come figli, mettendo a rischio la loro maschera virile.

Ma c’è anche chi, forte di una sia pur controversa libertà ereditata dalla generazione di donne che l’ha preceduta, scrive:

Perché dovrei essere madre per forza? Per il solo fatto di essere donna? C’è un gusto selvaggio nel dire no. C’è piacere nel dire: che le mie mani restino libere da vincoli. Ho troppo da dare al mondo per dare a uno soltanto. Ho bisogno di stare con me stessa, ora e qui su questo mondo. Non voglio essere due solo perché si deve. Pare che, quando l’occupazione principale di una donna non sia quella di madre ma di cittadina, c’è sempre qualcuno che si preoccupa di metterla a posto. (Eleonora Cirant, Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte, Franco Angeli 2012)

Tra i molti modi per “rimettere le donne al loro posto” ci sono le mimose dell’8 marzo, i cuoricini di cioccolata del 10 maggio e i penosi attestati di solidarietà del 25 novembre alle vittime della violenza maschile.

La mamma è il primo e l’ultimo tabù di Lea Melandri

giovedì 12 maggio 2016

La regione più "mamma friendly"? Il Trentino. Ultima, la Calabria

Antonella De Gregorio, Corriere della Sera 10 maggio 2016

Disparità di genere, molti carichi familiari e poco lavoro tra le principali sfide per le "mamme equilibriste" italiane. Da Save the Children una mappa regionale (Rapporto "Le equilibriste") della maternità.

C’è una regione davvero «mamma friendly», in Italia: il Trentino Alto Adige. E aree dove esercitare il compito più bello del mondo è una fatica quotidiana. Una mappa a due colori: regioni del nord che mostrano in generale condizioni più favorevoli alla maternità (Val d’Aosta, Emilia, Lombardia, Toscana), e il sud che agli «equilibrismi» delle donne mettono decisamente i bastoni tra le ruote. La classifica esce dal Mothers’ Index italiano di Save the Children, che ha preso in esame tre dimensioni: cura familiare, lavoro e servizi pubblici per l’infanzia.

L’indice, sviluppato sulla base dell’analogo indice mondiale dell’Organizzazione, incrocia in modo ragionato sette indicatori: tasso di fecondità, asimmetria nel lavoro familiare, tasso di occupazione femminile e mancata partecipazione al mercato del lavoro, l’indice di presa in carico degli asili nido e dei servizi per la prima infanzia e la frequenza della scuola dell’infanzia.

Dalla Val d’Aosta alla Calabria
Lo squilibrio territoriale si conferma entrando nel dettaglio dell’analisi: per cura familiare, per esempio, l’Emilia Romagna è al primo posto, all’ultimo si trova la Calabria. Per accesso delle donne al mondo del lavoro, il Trentino Alto Adige è la regione più virtuosa, la Campania quella meno. Per quanto riguarda l’offerta di servizi pubblici per l’infanzia, la Valle d’Aosta è al primo posto e la Basilicata all’ultimo.

Equilibriste
Appiattite in un dato medio, le mamme italiane (otto milioni tra i 25 e 64 anni che convivono con figli under 15 o under 25 ma ancora dipendenti economicamente da loro) sono un po’ avanti negli anni (31 e mezzo alla nascita dei figli); molto raramente sono teenagers (meno di 2.000 i figli nati da madri minorenni). Tutte, indistintamente, condividono una condizione di svantaggio sociale, professionale ed economico, costrette a equilibrismi complicati, tra la scelta di maternità e il carico delle cure familiari. Il peso sulle loro spalle è reso ancor più gravoso dalla carenza di servizi di sostegno sul territorio. E un mercato del lavoro che le penalizza a priori in quanto donne diventa un problema ancora più grande quando arrivano i figli.

Disparità di genere
Dal rapporto «Le equilibriste», presentato da Save the Children alla vigilia della Festa della Mamma 2016 esce «una lettura della realtà del nostro Paese dal punto di vista delle mamme», ha dichiarato Raffaela Milano, Direttore Programmi Italia-Europa di Save the Children. «Ne viene fuori uno spaccato dove le disparità di genere hanno ancora un impatto negativo decisivo sulla vita delle mamme. 

Donne che si ritrovano a svolgere, anche loro malgrado, un ruolo predominante nell’assicurare il benessere di bambini, adulti e anziani, senza alcuna retribuzione, ma pagando, al contrario, e in prima persona, un prezzo molto elevato nel mancato sviluppo personale e professionale».

Il lavoro
Restano fuori dal mondo del lavoro metà delle donne tra i 25 e i 64 anni, mentre solo una su tre in Europa trova le porte del lavoro chiuse (32,1%). L’accesso al lavoro si riduce ulteriormente se aumenta il numero dei figli: tra i 25 e i 49 anni lavora il 58,6% di mamme con 1 figlio, il 54,2% con 2 e il 40,7% con 3 o più figli. Un dato fortemente sbilanciato rispetto agli uomini: occupati rispettivamente all’81,7%, 86,2% e 81,6%. 

Anche quando lavora, 1 mamma su 3 si ritrova a fare ricorso al part-time, percentuale che cresce con il numero dei figli. L’8,7% delle mamme che lavora o ha lavorato, poi, ha sperimentato un licenziamento forzato in caso di gravidanza, e la percentuale delle dimissioni in bianco sale ulteriormente se si tratta delle donne più giovani.

Ma «se tutti assomigliassimo di più a una mamma, il mondo sarebbe un posto migliore», è la conclusione del rapporto di Save the Children, che in occasione della Festa della mamma 2016 lancia in Rete anche un video per fare gli auguri a tutte le mamme, che - come loro - «farebbero di tutto per salvare i bambini».

lunedì 9 maggio 2016

«Ci salviamo con l’ironia Io, l’imperfetta della fiction, testimone della normalità» di Stefania Ulivi

A partire da oggi, 8 maggio, festa della mamma, le 24 puntate della prima stagione di La Mamma (im)perfetta tornano visibili sul sito del Corriere
mamma-imperfetta-player

CLICCA SULL’IMMAGINE PER VEDERLE

«Abbiamo aperto una porta, fino a quel momento nell’immaginario narrativo della fiction le madri tendevano a stare sullo sfondo o emergevano come figure beatificate. Se avevano difetti, erano delle assassine. Aver fatto diventare la normalità, con tutte le sue imperfezioni, il cuore del racconto ha rappresentato una grande novità. Qualcosa di molto contemporaneo».

Tre anni fa, proprio in questi giorni Lucia Mascino si affacciava dal sito del Corriere della Sera in qualità di protagonista di un esperimento inedito, Una mamma imperfetta. «Mi chiamo Chiara Guerrieri, ho 39 anni, vivo a Roma, ho un marito, due figli, un lavoro che mi piace, una casa». Un racconto seriale, pensato per il web e quindi per la tv, della quotidianità di una donna come tante, divisa tra lavoro, figli, marito, incombenze varie, pasticci, sogni di evasione. Una serie declinata in episodi di otto minuti, scritta e diretta da Ivan Cotroneo (anche ispirandosi ai temi del blog La 27 ora), prodotta da Indigo Film e 21 in collaborazione con il Corriere della Sera e Raifiction (la due stagioni sono passate in diversi momenti su Raidue e Raitre).

A partire da oggi, 8 maggio, festa della mamma, le 24 puntate della prima stagione tornano visibili sul sito del Corriere. Ritroviamo Chiara Guerrieri e le sue sorelle in prima linea sul fronte della difficile arte della conciliazione: Claudia (Vanessa Compagnucci), Marta (Alessia Barela) e Irene (Anna Ferzetti). Intorno i figli, i mariti, i colleghi d’ufficio, le madri campionesse in tutto, modelli ineguagliabili e pericolosi.

E un pugno di guest-star che si lasciò trascinare volentieri, da Claudia Gerini, a Riccardo Scamarcio, a Pier Francesco Favino. «Capita spesso che mi fermino per strada, mi chiedono notizia di Chiara e mi raccontano le loro storie — dice Lucia Mascino —. È come se la sentissero vicina. Forse è stato anche il fatto che si raccontasse in prima persona, con ironia ma anche con molto realismo».

Il tutto nel Paese più mammone del pianeta. E ancora troppo poco attento alle problematiche della madri lavoratrici: l’Italia è in 111esima posizione su 145 Paesi nel Global Gender Gap Report2 citato dal «Rapporto Mamme 2016» appena pubblicato da Save The Children, dal titolo molto esplicativo: «Le equilibriste». E dalla sintesi efficace: famiglia (tanta) e lavoro (poco).

«Troppe sono ancora le differenze e le disuguaglianze sociali, economiche e professionali che penalizzano le madri in Italia», sottolinea il rapporto. «Le donne italiane dedicano al lavoro familiare più ore di tutte le altre donne in Europa, tra queste, le madri sono chiaramente le più impegnate. È giusto? È quello che vogliono le donne? Conviene al sistema? È possibile redistribuire il lavoro di cura in un’ottica di maggiore condivisione delle responsabilità genitoriali?». Domande non nuove ma ancora in attesa di riposte.

Una mamma imperfetta ha avuto, tra gli altri meriti, quello di aver contribuito a rinnovare l’immaginario, piuttosto stantio, della maternità. Son tutte imperfette le mamme d’Italia, ormai è un dato acquisito. Rivendicando la libertà di non rispondere a modelli e pretendendo di non essere messe ancora nelle condizioni di dover scegliere tra carriera e famiglia. I padri, certo, sono chiamati a fare la loro parte. Non solo l’8 maggio. Con buona pace di Barack Obama e delle sue belle (e un po’ ipocrite) parole. «Tutti sanno che a casa nostra il lavoro di presidente è solo il terzo per importanza. Questo weekend ho intenzione di prendermi un po’ di tempo per ringraziare Michelle per il modo straordinario in cui svolge il lavoro più importante: fare la mamma».

MAMME D’ITALIA
Sarà pure stata importata dagli Usa in Italia per motivi commerciali, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Resta però il fatto che la festa della mamma, che si celebra oggi, è legata intimamente e sinceramente a una figura. Forse più di qualunque altra celebrazione. Una sorta di ricorrenza laico-civile che si è diffusa gradualmente in ogni parte del pianeta. Perché al di là di differenze culturali, linguistiche e religiose l’influenza sociale delle madri ha una valenza unica. Ed è ricordata un po’ da tutti. Anche sui social network, dove si fa a gara tra chi lascia il pensiero più toccante (Facebook ha lanciato l’omaggio floreale). Immancabili anche le polemiche, come quelle tra i difensori della famiglia «classica» e i sostenitori dei nuovi nuclei non tradizionali. Ma per un giorno al centro della scena ci sarà lei: la mamma.

http://27esimaora.corriere.it/articolo/ci-salviamo-con-lironiaio-limperfetta-della-fictiontestimone-della-normalita/

sabato 7 maggio 2016

martedì 10 maggio proiezione del film "Suffragette" al cinema Cristallo di Cesano Boscone



Come già preannunciato, iniziamo un percorso insieme sui 70 anni del conquistato diritto di voto delle donne.

Prima iniziativa sarà il 10 maggio ore 21 al Cinema Teatro Cristallo (Via mons. Domenico Pogliani 7/A Cesano Boscone (MI) tel. 024580242 ) con la proiezione di Suffragette
La documentarista inglese Sarah Gavron ci racconta come nacquero le suffragette: donne che lottarono per il diritto di voto, non esitando davanti ad atti dimostrativi anche violenti. Film impegnato in costume, con ricostruzione d'epoca, macchina da presa che trasmette intensità, per una storia che il cinema finora non ha raccontato.Regia: Sarah Gavron con  Carey Mulligan, Helena Bonham Carter, Meryl Streep
Ringraziamo il Cinema Cristallo, che ha accolto la richiesta di proiezione avanzata da noi "ventunesimodonna" e dal Circolo Sibilla Aleramo di Cesano Boscone.

Seguirà il 17 giugno una serata, di cui avrete ulteriori informazioni, sulle difficoltà affrontate dalle donne italiane per ottenere il diritto di cittadinanza.

Vi aspettiamo tante e tanti

venerdì 6 maggio 2016

Come può una mamma proteggere un uomo che violenta le figlie? di Michela Marzano

«Poi passa», diceva Marianna alle figlie violentate dal compagno. «Poi passa», diceva questa madre alle bambine, mentre lasciava fare Raimondo Caputo. «Poi passa», diceva la donna che, solo qualche anno prima, aveva perso un figlio di due anni precipitato dalla finestra di casa. Ma cosa passa? L’infanzia? La purezza? Il dolore? La rabbia? Come può una mamma proteggere un uomo che violenta le figlie? Come può far finta di niente e, lasciando correre, chiedere alle bimbe di tacere e di mentire? Come ci può dimenticare che, quando si è piccoli, si dipende in tutto dai propri genitori fidandosi e abbandonandosi al loro buon volere? Dov’è in tutta questa storia, se non l’amore, almeno la pietà?
La terribile vicenda di Fortuna, la bimba di sei anni caduta dall’ottavo piano di un palazzo del Parco Verde di Caivano il 24 giugno del 2014, è tornata in questi giorni in prima pagina su tutti i giornali. Pare che non sia stato affatto un incidente. Pare che a buttarla giù sia stato proprio il compagno di Marianna, quel Raimondo Caputo che tutti chiamavano Titò e che da tempo violentava sia le figlie sia Fortuna. Pare che dopo due anni di silenzio e di bugie, gli investigatori abbiano finalmente cominciato a districarsi all’interno dell’orrore che vivevano le bambine all’interno dell’isolato 3, scala C, del complesso residenziale del Parco Verde. Una delle tante case popolari in mezzo a strade senza negozi e a piazze di spaccio che di verde non hanno mai avuto niente. Un palazzo all’abbandono dove viveva appunto la piccola Fortunata, Chicca per la mamma e per le amiche. Almeno fino a quel maledetto 24 giugno. Prima di dire alla madre che sarebbe andata a giocare da un’amichetta. Prima di essere ritrovata morta nel cortile, buttata giù da Titò solo perché aveva fatto resistenza e non voleva più essere violentata.
«Ma veramente Chicca l’ha uccisa Titò?» aveva detto una bimba del palazzo parlando con un’altra. «Mi uccideva pure a me se andavo con Chicca», aveva detto una figlia alla madre. E la madre? «Oh, che non esce manco un poco di segreto», aveva detto stringendo un patto con la piccolina. Ancora un lasciar correre. Ancora nessun amore. Ma nessuno doveva parlarne a Caivano. E dopo un po’, anche i più piccoli hanno smesso di farlo. Aspettando che passasse. Ma cosa passa? La paura? L’innocenza? L’assenza di amore?
Potrebbe essere la trama di un film d’orrore. E invece è la realtà. Quella che con le fiabe non c’entra proprio niente. Non solo perché non esistono principi azzurri o principesse rosa, ma anche e soprattutto perché di amore non ce n’è affatto. Non c’è ascolto e non c’è protezione. Non c’è cura e non c’è riconoscimento. Non c’è attenzione e non c’è affetto. Ci sono solo violenza e dolore. Tutta quella violenza e tutto quel dolore che non passano. Perché certe cose non passano mai. Soprattutto in assenza di chi si prenda la pena di riparare le ferite e di fare in modo che la fiducia negli adulti possa pian piano risorgere. Almeno fino a quando non è interviene chi, come il pubblico ministero e una psicologa, cominciano rompere il segreto e a nominare le cose in maniera corretta.
Le figlie di Marianna ora vivono in comunità e sono lontane dal Parco Verde. A differenza di Chicca, sono in vita. Ma quale vita si può mai vivere dopo aver attraversato l’inferno? Chissà quanto tempo passerà prima che possano anche loro riconciliarsi con la vita. E capire che l’amore esiste, anche se fino ad ora non l’hanno mai sperimentato.
http://www.vanityfair.it/news/cronache/16/05/04/michela-marzano-omicidio-fortuna-loffredo

giovedì 5 maggio 2016

Suffragette, il coraggio di essere donne di Rita Cavallari

È qui la chiave del film, quando Maud sente che deve uscire dalla situazione di sudditanza in cui vive e deve mettere tutta se stessa nella lotta per la parità, sacrificando la propria vita privata, anche a costo di perdere la famiglia, anche se dovrà affrontare la prigione, anche se resterà sola.

 Scena dal film "Suffragette" di Sarah Gavron (UK, 2015)
Scena dal film “Suffragette” di Sarah Gavron (UK, 2015)
C’è voluta la prima guerra mondiale perché le donne del Regno Unito potessero votare. Nel 1918 fu loro riconosciuto il diritto di voto purché fossero sposate e avessero almeno trent’anni di età, ma dovettero aspettare altri dieci anni perché il voto fosse esteso a tutte. Fu il movimento delle Suffragette a portare avanti questa battaglia, battaglia dura e dolorosa, che costò prezzi altissimi alle donne che vi presero parte e che fino ad ora sono rimaste nell’ombra. Il film che parla di loro, scritto da Abi Morgan e diretto da Sarah Gavron, fa luce sulle loro storie. Sono operaie che vivono nei quartieri più miserabili di Londra e che dopo anni di promesse non mantenute decidono per la disobbedienza civile e le azioni violente, senza indietreggiare di fronte alla repressione della polizia, alla disapprovazione delle famiglie, allo stigma sociale.

Una suffragetta arrestata da due poliziotti a Londra (1914)Una suffragetta arrestata da due poliziotti a Londra (1914)

Cosa credi di fare col tuo voto, urla il marito della protagonista che l’aveva attesa a casa fino a tarda sera mentre lei era ad una manifestazione. Quello che ci fai tu, gli risponde la donna esasperata. È dura la vita nella Londra del 1912. Le donne hanno un orario di lavoro più lungo di quello degli uomini e guadagnano molto di meno. Non hanno accesso all’istruzione e molte sono analfabete, tanto che per ricostruire la loro vita l’autrice ha avuto come unica fonte le relazioni della polizia. Devono sottostare in silenzio ai soprusi e alle violenze dei padroni, perché quello è il prezzo per poter continuare a lavorare. La protagonista, Maud, poco più che bambina ha subìto le violenze del proprietario della lavanderia in cui fa la stiratrice. Come si chiamerà nostra figlia, se ne avremo una, e come sarà la sua vita, chiede una sera al marito. Si chiamerà Margaret come mia madre, risponde lui, e avrà una vita come la tua.

È qui la chiave del film, quando Maud sente che deve uscire dalla situazione di sudditanza in cui vive e deve mettere tutta se stessa nella lotta per la parità, sacrificando la propria vita privata, anche a costo di perdere la famiglia, anche se dovrà affrontare la prigione, anche se resterà sola. Senza paura di fronte alla morte, come Emily Davison, travolta dal cavallo del re Giorgio V mentre mostrava uno striscione di protesta. Al funerale di Emily parteciparono seimila donne e fu in quell’occasione che finalmente i giornali si accorsero del movimento delle Suffragette e parlarono di loro.

Con questo film, per la prima volta, si è cercato di far sentire la loro voce. E solo dopo questo film il Ministero dell’Istruzione in Gran Bretagna ha inserito nel programma scolastico lo studio delle battaglie femminili per il diritto al voto. In Italia abbiamo conquistato il diritto al voto settanta anni fa. Anche per noi è stata necessaria una guerra.
http://www.cheliberta.it/2016/03/08/suffragette-il-coraggio-di-essere-donne/

mercoledì 4 maggio 2016

Luisa Spagnoli, l’imprenditrice che sosteneva le donne

Chi è: Luisa Spagnoli, nata Luisa Sargentini, imprenditrice italiana, nata a Perugia il 30 Ottobre 1877 e morta a Parigi il 21 Settembre 1935.
luisa-spagnoli-ritratto-1024x490
Cosa ha fatto: nacque in una famiglia umile, e a vent’anni incontrò Annibale Spagnoli, con il quale iniziò un sodalizio umano e professionale. Divenne suo marito, e venne spinto da Luisa ad acquistare una drogheria nel centro di Perugia. Nonostante non fosse esperta del ramo dolciario, Luisa iniziò a produrre e vendere confetti. Il suo spirito imprenditoriale e il suo spiccato senso degli affari la guidarono a un’importante collaborazione con Francesco Buitoni (noto imprenditore, figlio del fondatore dell’omonimo pastificio) e insieme fondarono la storica azienda Perugina. Le vicende di Luisa si intrecciarono con quelle societarie: iniziò una relazione con il figlio di Francesco Buitoni, Giovanni, e nel periodo della loro relazione inventarono il famoso cioccolatino “Bacio”. Lei avrebbe voluto chiamarlo “Cazzotto”, ma il suo amante la convinse, per una scelta di marketing, a utilizzare un nome che sarebbe stato più amato dalla gente.  Per stare con Giovanni Buitoni, si espose allo scandalo: esistono fonti contrastanti, alcune delle quali raccontano che lasciò il marito e che dei figli si occupò la cognata, per altre visse la tormentata storia con Buitoni senza mai abbandonare il tetto coniugale. Solo nel 1928 iniziò ad occuparsi di moda, interessandosi alla lana ricavata dai conigli d’angora. Ne avviò un allevamento nella sua villa di Perugia, fondando l’azienda Angora Spagnoli, che produceva capi di maglieria destinati a donne raffinate e si avvalse della collaborazione di donne italiane che erano eccellenti nella filatura a mano.
Dopo la sua scomparsa, il figlio Mario e il nipote Lino portarono avanti il progetto commerciale con la diffusione capillare di negozi a marchio Luisa Spagnoli. L’azienda, che ha il 90% di dipendenti donne, è attualmente guidata da Nicoletta Spagnoli, figlia di Lino.

Perché è “pasionaria”: per la Festa dei Lavoratori e delle Lavoratrici, abbiamo scelto di celebrare una donna che ha spiccato per il successo professionale, in un periodo storico durante il quale pochissime donne potevano emergere come imprenditrici. Ma non solo: Luisa era un’innovatrice anche nella gestione delle lavoratrici e nell‘introduzione di importanti diritti sul lavoro. Alla Perugina, durante il primo conflitto mondiale, vennero reclutate le donne, mentre gli uomini erano impegnati al fronte: vennero introdotte scuole e asili nido (come quello all’interno dello stabilimento di Fontivegge) per conciliare gli impegni delle operaie, alle quali furono dedicati anche particolari corsi di alfabetizzazione tenuti durante l’orario lavorativo. Luisa Spagnoli ha anche introdotto nei suoi stabilimenti il diritto all’allattamento e il congedo retribuito di maternità: per lei le donne non dovevano mai rinunciare alla propria indipendenza. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, ci si aspettava che alla Perugina le donne venissero licenziate per far posto agli uomini tornati dal fronte, ma ciò non accadde per una precisa scelta di continuare a investire sulle lavoratrici. In una recente intervista, la pronipote Nicoletta ha dichiarato:

Le vecchie maestranze l’adoravano, specie quando negli anni Venti progettò il primo asilo aziendale. Poi vennero le case per i dipendenti e negli anni perfino la piscina, tutto qui a Santa Lucia dove è ancora l’headquarter dell’azienda. Faceva beneficenza, regalava i cioccolatini ai poveri, sistemava gli orfani e faceva studiare le ragazze del popolo.
Luisa fu un’imprenditrice brillante e acuta, attenta al benessere e alla valorizzazione umana e professionale delle proprie operaie: una lezione che molti datori e datrici di lavoro, ancora oggi, dovrebbero imparare.

http://pasionaria.it/luisa-spagnoli/

martedì 3 maggio 2016

La Resistenza di Rossana Rossanda (da R.Rossanda, “La ragazza del secolo scorso”, Einaudi 2005)

“Ho avuto spesso paura. Le scelte obbligate sono serie. Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in una avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto, non molto, nulla di impossibile; il più era ripetere gesti e strade ignorando se qualcuno mi osservava, sapendo di contar poco e però sussultando davanti ai proclami di Kesselring, freschi sul muro, che mi informavano come per meno del niente che facevo sarei stata impiccata. Essere impiccata mi faceva orrore, li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate. Non li posso guardare, non ho retto neanche i corpi appesi per i piedi a piazzale Loreto. Non era la morte, alla quale ci si abitua a testa bassa come a qualcosa che c’è sempre stato. E’ che la morte si può guardare finché porta ancora una traccia di chi era vissuto (…)”

“Prendere e portare stampa clandestina, messaggi, armi, medicine, fasce, e cercar soldi -con l’aria di fare un favore a chi te ne dava- non era difficile. Gli appuntamenti erano precisi, nessuno mancava, e se mancava si sapeva che cosa fare, chi avvertire e come. Non ci facevamo domande, ci proteggevamo l’un l’altro. E si tastavano in giro gli umori, le caute disponibilità, di chi magari non aveva saputo a chi rivolgersi, dove dare la testa. Al ritorno da Milano a Como mi aspettava alla stazione Pino Binda, un bel ragazzo biondo: dovevamo parere due innamorati che sottobraccio facessero due passi, qualche volta concedendosi un polveroso tè in piazza; gli passavo e ne ricevevo materiali e notizie. In bicicletta arrivavo a Ponte Chiasso o Argegno sotto la Val di Lanzo o fino a Varese; erano in bicicletta tutti, carichi di valigie o pacchi, la guerra è tutto un trasportare.”

“Era una liberazione, la liberazione. La fine di un’angoscia, la fine di un’epoca, si sarebbe ricominciato tutto, per qualche giorno fui trasportata anche io, anche Mimma –quel tanto che potevo nel silenzio di mio padre, anche lui sollevato, ma c’era tra noi quel gelo. In piazzale Loreto guardai i corpi sospesi per i piedi. Erano come sfatti, qualcuno aveva per pietà legato la gonna della Petacci sopra le ginocchia, i volti erano gonfi e anonimi, come se non fossero vissuti mai, cadaveri non ricomposti.”

“Oggi qualcuno si indigna che più d’una vendetta fosse tratta a guerra finita, in quei giorni e dopo. Come se una guerra che era stata anche fra la stessa gente si chiudesse a una certa ora. Non si chiude niente finché il tempo non passa e oblitera, lasciando lungo la strada chi non sa dimenticare. E noi non tornavamo integri a casa come gli inglesi o i russi o gli americani. Noi avevamo un lungo strascico che sprofondava negli anni di complicità o inerzia.”

lunedì 2 maggio 2016

25 aprile, Elsa l’ex staffetta bambina: “Lottai coi partigiani, ma nessuno ci credeva: mi guardavano come fossi una poco di buono” di Annalisa Dall'Oca

Il racconto di Elsa Pelizzari, nome di battaglia Gloria, volontaria a 14 anni: "Avevo passato molto tempo sulle montagne circondata da uomini e la gente mi umiliò per anni sospettando chissà cosa". Rischiò la vita fino agli ultimi giorni prima della Liberazione. Il 22 aprile 1945 fu catturata dai nazisti. Poi un autista la graziò, salvandola dal campo di sterminio

Quando nel 1959 una bambina di 13 anni visitò per la prima volta una mostra sui lager nazisti, decise di scrivere una lettera: finalmente qualcuno racconta cos’è successo. E Primo Levi rispose: “Questa è la lettera che noi sopravvissuti aspettavamo. Non possiamo più tacere”.
Rosi Romelli e i partigiani della 54a Brigata Garibaldi (il padre Bigio Romelli impugna la mitragliatrice) - Estate 1944 Val Saviore - Anpi Brescia

 I racconti dei campi di concentramento parevano incredibili. E coloro che parteciparono alla Resistenza non sempre ebbero più fortuna.
Le donne, soprattutto. Elsa Pelizzari, nome di battaglia Gloria, per quasi 10 anni, a guerra finita, fu vittima di occhiate di biasimo e malelingue. “Avevo lottato assieme ai partigiani – racconta a ilfattoquotidiano.it – lassù sulle montagne, circondata da tanti uomini, e quando tornai a casa la gente mi guardava come fossi una poco di buono. Fu l’umiliazione più grande che abbia mai dovuto sopportare”. Dopo la Liberazione Elsa provò anche a trovare lavoro, al cotonificio che aprirono a Roè Volciano, provincia di Brescia. “Mi presero sì, ma come operaia, perché essendo stata partigiana non ero degna di stare in ufficio”.
Elsa viene dalla Valsabbia e oggi nel Bresciano la conoscono tutti come la staffetta bambina. Aveva 14 anni quando cominciò a collaborare con i partigiani, prima portando i loro messaggi, “perché sei piccola, mi dicevano, e nessuno farà caso a te quando attraverserai i posti di blocco”. Iniziò con il gruppo Nico Fiamme Verdi, brigata Perlasca, 12 ragazzi e lei, la più piccola, che allora era soprannominata la Nigrina. Poi lavorò anche con la 122esima Brigata Garibaldi  e con la Matteotti, e successivamente si fece assumere a Salò come segretaria, al sindacato dell’agricoltura. Divenne staffetta a tempo pieno, doveva scovare informazioni utili per la lotta di resistenza. “All’inizio mi davano una paga, ma poi i soldi finirono e io continuai come volontaria. Patimmo la fame, io, mia madre e mia sorella, ma non pensai mai di lasciare“.
La paura c’era, c’era sempre, tra lei e le SS spesso c’era solo la sua bicicletta. “Non era facile per niente, si viveva giorno per giorno con la consapevolezza che si poteva venire catturati, torturati o uccisi come tanti nostri compagni – spiega Elsa – ma è dalla paura che nasce il coraggio e così si andava avanti”. Fino all’ultimo, fino al 22 aprile del 1945, tre giorni prima che il Comando di liberazione nazionale Alta Italia proclamasse l’insurrezione di tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti. A Tormini, porta d’accesso alla Valsabbia, si fermò un’autocolonna tedesca: “Ottanta veicoli, truppe della Wehrmacht e SS, diretti al Brennero – ricorda – il nostro comandante, Nico, ebbe l’ordine di trattare con loro la resa, e lasciargli un salvacondotto fino al Brennero se si fossero arresi, ma sapeva che se avesse mandato un partigiano lo avrebbero ucciso. Quindi mi offrii volontaria per trattare, parlavo un po’ di tedesco perché all’epoca lo insegnavano a scuola. Mi diedero una borsa con del pane e andai a Tormini, all’osteria dove i comandanti stavano bevendo del vin brulè, che era ancora freddo, per parlare con un comandante della Wehrmacht. Lui mi ascoltò, e poi mi disse che doveva accompagnarmi al comando delle SS”.
L’ufficiale SS ascoltò Elsa parlare, ma poi rispose alle condizioni poste dai partigiani sparando una raffica di mitra, che per un soffio non la colpì. “Quindi mi chiusero in una stanza e mi interrogarono per 7 ore. I particolari sono troppo penosi da ricordare – racconta Pelizzari – ma quando finì mi fecero salire su un camion”. Alla guida c’era un uomo dai capelli brizzolati, tedesco, di mezza età. “Gli dissi che somigliava a mio padre, anche se non era vero, e lui mi guardò quasi con compassione. Gli ricordavo sua figlia, che non vedeva da 3 anni. Quando il camion svoltò per la valle spalancò la portiera, e mi gridò Raus!. Mi lasciò scappare. Sapeva che altrimenti mi avrebbero deportata in un campo di sterminio”.
Elsa si salvò, ma quella non fu l’unica volta che si trovò a un passo dalla morte. “Due anni sono lunghi, ne sono capitate tante. Ma non ho rimpianti”. Delusioni sì. “Molte partigiane come me sono state discriminate. Dopo la guerra la mia amica Maria Boschi, nome di battaglia Stella, dovette cercare lavoro in Svizzera perché qui nessuno la assumeva, e io a 18 anni mi vergognavo a uscire di casa per come mi guardavano. Per molto tempo l’Italia ci ha dimenticate. Ma è a questo che servono le giornate come il 25 aprile. La politica oggi dimostra di aver disimparato ciò che ci ha lasciato la Resistenza, ma è ai giovani che dobbiamo guardare. E’ a loro che dico tenete le mani e la faccia pulita, solo così potrete difendere la vostra libertà”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/23/25-aprile-elsa-lex-staffetta-bambina-lottai-coi-partigiani-ma-nessuno-ci-credeva-mi-guardavano-come-fossi-una-poco-di-buono/2663827/