venerdì 29 marzo 2019

Intervista a Paola Di Nicola, magistrata. “Il revenge porn è una forma di violenza gravissima, sempre più diffusa e spesso taciuta, specie nei confronti di chi è più giovane. C’è un vuoto normativo da colmare perché oggi le procure possono fare ben poco. Ma ho fiducia che alla fine sarà trovata una posizione condivisa” DI LAURA MONTANARI

"Vedere un Parlamento che si divide sulla violenza contro le donne fa davvero male al Paese". Paola Di Nicola è una giudice di Roma, ha scritto di recente un libro pubblicato da HarperCollins dal titolo "La mia parola contro la sua" sugli stereotipi di genere contenuti nelle sentenze.

Cosa pensa di quello che è accaduto alla Camera sul revenge porn?
"Le aspettative su questa norma erano altissime perché c'è un vuoto di tutela su una delle più gravi forme di violenza psicologica nei confronti delle donne. Alcune, non dimentichiamolo, hanno pagato anche con la vita. Il revenge porn è una violenza psicologica, sottile e crudele perché oggi l'identità delle persone e in particolare delle donne giovani si esprime proprio sui social: il veder pubblicate dall'ex o da un "amico" le proprie immagini online è una forma di ricatto che spesso azzittisce le donne".

Paola Di Nicola, giudice a Roma, ha pubblicato un libro (“La mia parola contro la sua”), basato sullo studio di duecento sentenze riguardanti casi di violenza sulle donne

Ritiene quindi che ci sia urgenza di affrontare questo tema...
"Di questa norma c'è un enorme bisogno perché i giudici non possono fare quasi nulla o comunque troppo poco. Sarebbe uno strumento in mano alla magistratura rispetto a un fenomeno diffusissimo e spesso taciuto. I casi di cui veniamo a conoscenza sono quelli in cui si arriva alla pubblicazione finale, ma prima ci sono le minacce, prima c'è il ricatto. Siamo davanti a nuove e gravi forme di violenza: ci dovrebbe essere una adeguata e trasversale risposta da parte della politica".

La Lega propone la castrazione chimica: cosa ne pensa?
"Ritengo che il tema della violenza contro le donne e in particolare della violenza sessuale abbia le sue radici nella modalità culturale con la quale si percepisce il corpo di una donna. Oggi il corpo delle donne è esibito nella pubblicità, nella televisione, in tanti altri luoghi come un trofeo, è come una preda da catturare. La questione della sessualità maschile invece è ritenuta una sessualità che si deve sfogare, che non deve essere inibita. Io penso che la castrazione chimica non farebbe che replicare questo atteggiamento".

In che senso?
"Il tema è quello della sopraffazione culturale rispetto al corpo delle donne: se noi non partiamo da qua, potremmo fare milioni di castrazioni chimiche ma la violenza si ripeterà quotidianamente e non avrà soluzione: dobbiamo metterci in testa che il tema è culturale non fisico".

Siamo davanti a una emergenza a cui la politica per schermaglie di partito non riesce a fare fronte?
"Non è un'emergenza, la violenza contro le donne è una questione strutturale. Richiede una organica rivisitazione di tutte le norme del codice di procedura penale: serve un codice anti violenza. Si dovrebbe elaborare un sistema che vede la collaborazione di tutte le forze politiche che si mettono intorno a un tavolo. Bisogna avere uno sguardo ampio, realizzare un insieme di norme che riguardano le donne e le violenze che subiscono in tutti i contesti della società. Dobbiamo fare un'operazione legislativa e culturale di presa in carico del fenomeno non come emergenziale, non con singoli spot. Bisogna guardare al problema nella sua complessità: dall'esame delle norme che riguardano l'accesso lavoro, la differente retribuzione, il sessismo nelle aziende, la mancanza della presenza delle donne in ambiti professionali di vario tipo, tutta la materia sanitaria...".

Quindi di cosa abbiamo bisogno?
"Di un codice unitario: abbiamo un codice antimafia, un codice per la tutela dell'ambiente, uno della strada... avremo bisogno di un codice contro la violenza sulle donne".

C'è una regressione nel paese sui diritti delle donne?
"Nel Paese è cresciuta molto la consapevolezza che esiste questo problema. Il fatto che oggi le donne abbiano una maggiore consapevolezza, autonomia, una maggiore indipendenza anche economica, uno spessore nello studio e nelle professioni genera una reazione più violenta da parte di chi teme di perdere la propria rendita di posizioni. Parliamo del disegno di legge Pillon che è una delle maggiori regressioni dal punto di vista legislativo, sarebbe gravissimo che venisse approvato per come è oggi perché determinerebbe un enorme salto indietro".

Cosa pensa che succederà prossimamente in Parlamento sul codice rosso?
"Ho fiducia che si troverà una posizione condivisa. Ma ripeto, c'è la necessità di un codice organico sulla violenza contro le donne frutto di una volontà politica trasversale unitaria per dare ai giudici gli strumenti per intervenire. Ricordiamo che oggi il 93 per cento delle donne non denuncia la violenza che subisce...".
https://www.facebook.com/scioperodelledonne/posts/2104240979693000?__tn__=K-R

mercoledì 27 marzo 2019

Corteo Verona Transfemminista_Non Una Di Meno Sabato 30 marzo 2019 dalle ore 14:30 alle 18:30 in Piazza XXV Aprile, Verona

Under our eye/Sotto il nostro occhio

Nella famiglia patriarcale eteronormata si produce e riproduce un modello sociale gerarchico e sessista: è il luogo dove si verificano la maggior parte delle violenze di genere ed è il dispositivo che riproduce la divisione sessuale del lavoro e dell’oppressione. Inoltre, la famiglia è uno strumento ideologico utilizzato per scopi razzisti, quando è utilizzato per sostenere la riproduzione dell’identità nazionale dalla pelle bianca. Per questo ribadiamo che la libertà di autodeterminazione delle donne e di tutte le soggettività LGBT*QI+ non può prescindere dalla libertà di movimento delle e dei migranti. La violenza dei confini si esprime sui territori e sui corpi delle persone che li attraversano.

Questa idea di famiglia sarà il cuore del Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, WCF) che si svolgerà a Verona il 29, 30 e 31 marzo 2019 e per questo le femministe e le transfemministe di Non Una Di Meno insieme ad altri movimenti italiani e internazionali occuperanno con rabbia, determinazione e favolosità la città. Il congresso sarà co-organizzato dall’amministrazione locale e patrocinato dalla “Presidenza del consiglio dei ministri – ministero per la famiglia e la disabilità”, e dalla Regione Veneto. Vi prenderanno parte il ministro dell’Interno Matteo Salvini, il ministro per la famiglia e la disabilità Lorenzo Fontana, il ministro dell’istruzione Marco Bussetti, il senatore della Lega Simone Pillon. In questi nomi noi riconosciamo i principali promotori della violenza eteropatriarcale e razzista e della sua istituzionalizzazione. A loro, e a tutti quelli che con loro si riuniranno in nome dell’oppressione e dello sfruttamento, noi opporremo la forza di un movimento transnazionale di liberazione.

A dispetto della retorica sui valori e la vita umana, gli attacchi all’aborto e l’apologia della famiglia portata avanti da questi signori del patriarcato sono legati all’organizzazione complessiva della società fatta di violenza e oppressione. Dietro la rivendicazione ideologica della nazione bianca si nasconde un razzismo istituzionale che riproduce continuamente lavoro migrante da sfruttare all’interno dei confini che dichiarano di voler difendere. Dietro l’appello alla famiglia naturale c’è la violenza: l’eterosessualità obbligatoria contro la libertà sessuale delle donne e delle soggettività LGBT*QI+ che rifiutano di riconoscersi nelle identità prescritte e nei ruoli sociali imposti. Ci opponiamo ad ogni tentativo di subordinare le donne al ruolo di cura all’interno della famiglia e alla maternità come destino. Anche il mondo della scuola e della formazione risente di questi attacchi catto-fascisti a causa dell’allarmismo fomentato, anche a livello istituzionale, dalle narrazioni che descrivono i bambini come vittime di una presunta “ideologia gender”, traducendosi in forti limitazioni, se non vere e proprie censure, alla circolazione di saperi che criticano la riproduzione di gerarchie di genere e riconoscono la libertà delle differenze. Sappiamo che il Congresso Mondiale delle Famiglie è una delle difese scomposte di fronte alla potente sollevazione globale delle donne che sta facendo saltare un ordine basato su coercizioni, sfruttamento e gerarchie.

Arriveremo a Verona forti dello sciopero femminista che cresce e si espande: l’8 marzo in centinaia di migliaia abbiamo occupato le piazze e le strade del mondo, incrociando le braccia e disertando i luoghi dello sfruttamento e della violenza patriarcale, per prendere parola contro il razzismo e l’oppressione, per urlare la nostra libertà dalle imposizioni di genere e dalla famiglia eteropatriarcale come istituzione oppressiva. Il femminismo e il transfemminismo che abbiamo messo in campo vanno oltre le identità e le loro codificazioni, transitano negli spazi e nella società per creare nuove forme di lotta, procedono per relazioni più che per individuazioni e attraversano ogni aspetto di una mobilitazione che è globale. Lo sciopero femminista ha svelato il nesso tra violenza etero-patriarcale, razzismo e sfruttamento: portando in piazza la nostra libertà e la nostra forza collettiva l’8 marzo abbiamo spezzato quel nesso. Non Una di Meno è un movimento femminista e transfemminista perché partendo dalla messa in discussione delle relazioni di potere, delle gerarchie e dalla lotta contro la violenza maschile sulle donne e di/del genere ha saputo colpire ogni aspetto della violenza sistemica. Con la nostra lotta abbiamo mostrato che sessismo, sfruttamento, razzismo, colonialismo, fondamentalismo politico e religioso, omo-lesbo-transfobia e fascismo sono legati e si sostengono l’uno con l’altro.

Il femminismo e il transfemminismo di questo movimento partono dalla libertà e dall’autodeterminazione di ciascuna soggettività per costruire processi collettivi di lotta e di liberazione che investono la riproduzione della società.

In questo momento sono sotto attacco tutti i diritti conquistati dalle lotte delle donne: il divorzio, l’aborto e la riforma del diritto di famiglia. A questa ondata reazionaria, rispondiamo con la forza delle rivendicazioni del nostro Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e tutte le forme di violenza di genere.

Siamo la marea femminista, transfemminista, antirazzista e antifascista che inonderà Verona aprendo spazi di liberazione a partire dalla forza globale del nostro sciopero femminista.

STATO DI AGITAZIONE PERMANENTE: GIÙ LE MANI DAI NOSTRI CORPI E DAI NOSTRI DESIDERI



Under our eye

Affermando la forza di un movimento globale, Non una di meno rivendica:

* Che la scuola e l’università diventino i luoghi primari di contrasto alle violenze di genere: fuori le associazioni no gender e spazio all’educazione alle differenze, sessuale e di genere!

* Che sia avviata una formazione continua di figure professionali coinvolte nel percorso di fuoriuscita dalla violenza delle donne, come insegnanti, avvocati e avvocate, magistrati e magistrate, educatori ed educatrici di chi lavora nei media e nelle industrie culturali, per combattere narrazioni tossiche e promuovere una cultura nuova.

* Che la formazione prosegua nel mondo del lavoro contro molestie, violenza e discriminazione di genere, con l’obiettivo di fornire strumenti di difesa e autodifesa adeguati ed efficaci.

* Consideriamo la salute come benessere psichico, fisico, sessuale e sociale e come espressione della libertà di autodeterminazione. Siamo contro la patologizzazione delle persone trans e la riassegnazione sessuale coatta per le persone intersessuali.

* Sappiamo che l’obiezione di coscienza nel servizio sanitario nazionale lede il diritto all’autodeterminazione delle donne, vogliamo il pieno accesso a tutte le tecniche abortive per tutte le donne che ne fanno richiesta.

*Rivendichiamo la garanzia della libertà di scelta e che la violenza ostetrica venga riconosciuta come una delle forme di violenza contro le donne che riguarda la salute riproduttiva e sessuale.

* Siamo contrarie alle logiche securitarie nei presidi sanitari: riteniamo inadeguati e dannosi interventi di stampo esclusivamente assistenziale, emergenziale e repressivo, che non tengono conto dell’analisi femminista della violenza come fenomeno strutturale e vogliamo équipe con operatrici esperte.

*Rivendichiamo un welfare universale, garantito. Vogliamo la creazione di consultori che siano spazi laici, politici, culturali e sociali oltre che socio-sanitari. Ne promuoviamo il potenziamento e la riqualificazione attraverso l’assunzione di personale stabile e multidisciplinare.

*Incoraggiamo l’apertura di nuove e sempre più numerose consultorie femministe e transfemministe, intese come spazi di sperimentazione (e di vita), auto-inchiesta, mutualismo e ridefinizione del welfare.

*Rivendichiamo un salario minimo europeo, un reddito di autodeterminazione incondizionato e universale come strumenti di liberazione dalla violenza eteropatriarcale dentro e fuori i luoghi di lavoro.

*Contro il regime dei confini e il sistema istituzionale di accoglienza, rivendichiamo la libertà di movimento e un permesso di soggiorno europeo senza condizioni svincolato dalla famiglia, dallo studio, dal lavoro e dal reddito.

*Vogliamo la cittadinanza per tutti e tutte, lo ius soli per le bambine e i bambini che nascono in Italia o che qui sono cresciute pur non essendovi nati.

*Critichiamo il sistema istituzionale dell’accoglienza e rifiutiamo la logica emergenziale applicata alle migrazioni.

*Siamo contro la strumentalizzazione della violenza di genere in chiave razzista, securitaria e nazionalista.

*Vogliamo spazi politici condivisi femministi e transfemministi.

*Sappiamo che le violenze sui territori colpiscono anche noi e ci opponiamo alla “violenza ambientale” che si attua contro il benessere dei nostri corpi e gli ecosistemi in cui viviamo, costantemente minacciati da pratiche di sfruttamento.
https://nonunadimeno.wordpress.com/2019/03/17/verona-citta-transfemminista/

martedì 26 marzo 2019

Cosa c'è dietro la proposta di legge anti-aborto della Lega Il tentativo del partito di Matteo Salvini è chiaro: riconoscere giuridicamente l'embrione significa equipararlo ad una persona e, dunque, equiparare l'interruzione di gravidanza all'omicidio. di CRISTINA OBBER

Non bastava il ddl Pillon nel suo tentativo di limitare i nostri diritti. Come anticipato su Il Messaggero, la Lega ha infatti presentato alla Camera una proposta di legge, sottoscritta per altro da una cinquantina di parlamentari, «in cui non si chiede di rimuovere la 194, ma di riconoscere 'soggettività giuridica al concepito' al fine dell'adozione, e di mettere in relazione già al momento della gravidanza famiglia del concepito con quella che potrebbe adottarlo». Una mossa, che secondo il partito di Matteo Salvini, permetterebbe di diminuire il numero degli aborti in Italia. In realtà le cose però non stanno proprio così perché si tratta di un ulteriore (l'ennesimo) tentativo di vietare l'interruzione di gravidanza non potendolo fare direttamente. esattamente come fa il disegno di legge 950/2018 proposto da Maurizio Gasparri che richiede la modifica dell’articolo 1 del Codice civile che diventerebbe «Ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento. I diritti patrimoniali che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita». Riconoscere giuridicamente l'embrione significa di fatto equipararlo ad una persona e, dunque, equiparare l'aborto, come conseguenza diretta, all'omicidio, un reato che prevede il carcere. Queste proposte hanno quindi l'obiettivo di vietare l'interruzione di gravidanza e condannare alla prigione le donne che decidono di far valere quello che è un loro diritto, come accade già in altri Paesi, anche nella vicinissima Repubblica di San Marino.
«Si tratta di un ulteriore tentativo di vietare l'aborto non potendolo fare direttamente».
Si tratta di disegni di legge in linea con gli obiettivi del senatore Simone Pillon che intervistato da La Stampa ha dichiarato di voler impedire l'aborto. E anche in linea con quanto pensano i relatori del Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families) in programma a Verona dal 29 al 31 marzo. Evento contro il quale la società civile è pronta a scendere in piazza per contestare un integralismo religioso sempre più determinato nel togliere alle donne quelli che sono diritti irrinunciabili. E la presenza di suoi esponenti nel nostro governo ci mette come non mai in pericolo. Esponenti tanto interessati agli embrioni che però non sono mai in piazza in difesa di quegli embrioni che sono diventati bambini e bambine e che sono vittime di violenza e abusi sessuali in famiglia o dei preti pedofili. Vorremmo che Luigi Di Maio e il Movimento 5 Stelle si pronunciassero chiaramente su queste posizioni e su queste proposte contro di noi, contro la nostra libertà di scegliere.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/punti-di-vista/2019/03/25/lega-aborto-proposta-di-legge/27936/?fbclid=IwAR10GNYpeFRj_PrZUs0kdfCzS3s7N95cvo5p4CvaeThbU5jj4pEuIztKlGU

lunedì 25 marzo 2019

L’avvocata della Sacra Rota contro il Congresso di Verona: “Altro che Cattolicesimo, manipolano il Vangelo” Annalisa Ramundo

Il Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, Wcf), previsto a Verona dal 29 al 31 marzo, costituirà “un momento di riunione per dimostrare che si è formato un potere forte a livello internazionale, che fa riferimento a movimenti di destra sessisti, omofobi, razzisti e antifemministi. Movimenti che legano il White nationalism americano ad analoghi russi, che partendo dalle idee di Anatoly Antonov, Viktor Medkov e Allan Carlson, grazie all’attività di Brian Brown, Alexey Komov, Ivan Shevchenko, non escluso colui che ha permesso l’alleanza Lega-5S ed il raggiungimento del loro patto di Governo – Steve Bannon – si sta storicizzando in Italia una realtà politica ed in un Governo nazionale”. Il tema della famiglia, quindi, sarebbe solo “un pretesto per arrivare alla creazione di un partito o un movimento esplicito di massa popolare a livello internazionale”. A parlare alla Dire del discusso e imminente Congresso Mondiale delle Famiglie non è un’attivista dei movimenti femministi, ma Michela Nacca, avvocata della Sacra Rota.

Il Wcf sarebbe, secondo Nacca, “un’occasione per contarsi partendo dall’Italia dove, in questa fase storica, è in atto un esperimento sociale per riaffermare un movimento che sembra avere molti punti in comune con la destra fascista, il cui fulcro è tornare indietro rispetto ai diritti delle donne. Una vera Controriforma, che nella sua grammatica principale prevede anche l’omofobia ed il razzismo quale tappa fondamentale per la sua autoaffermazione”.

Il tema della famiglia, quindi, sarebbe solo “un pretesto per arrivare alla creazione di un partito o di un movimento esplicito di massa popolare, a livello internazionale”. “Ciò che deve far riflettere- continua l’avvocata- è l’assenza delle autorità ecclesiastiche cattoliche, nonostante il Congresso si richiami al tema della famiglia, caro alla Chiesa. Ma, soprattutto, nonostante gli organizzatori esplicitamente sostengano di essere animati da principi e valori cattolici”. Autorità ecclesiastiche che gli organizzatori del Wcf “hanno sicuramente tentato di coinvolgere, senza evidentemente riuscirci. Ritengo che noi cattolici non possiamo condividere la visione di famiglia che emergerà da questo Congresso- sottolinea Nacca- L’appoggio di un tale movimento da parte di autorità ecclesiastiche cattoliche non solo sarebbe incoerente, ma potrebbe dividere i cattolici, anziché unirli”.

L’avvocata si dice critica della discussa kermesse del XIII Wcf (e dei temi preannunciati), in cui, oltre ad alcuni esponenti del governo ungherese di Orban, tra i relatori elencati sul sito ci sono i ministri dell’Interno e della Famiglia italiani, Matteo Salvini e Lorenzo Fontana, il sindaco di Verona, Federico Sboarina, il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, il senatore Simone Pillon. Uno “stuolo di leghisti che, sostenuti da autorità cristiano-ortodosse – probabilmente strumentalizzate al pari di ciò che si vorrebbe fare con la Chiesa di Roma – si sono schierati apertamente su una visione distorta della società e della famiglia: ossia un’ottica affatto evangelica, preoccupata più di stigmatizzare negativamente la diversità che a difendere la famiglia, più attenta a condannare l’aborto, che a difendere la maternità e l’infanzia”.

Si tratta di “un Congresso che, soprattutto, vuole ripristinare un modello sociale chiuso, arretrato– insiste l’avvocata- in cui la donna è senza diritti, senza responsabilità professionali, sociali, accademiche o politiche, senza una vita e degli interessi al di fuori di quelli privati familiari ed alla quale verrebbe riconosciuto esclusivamente un ruolo secondario e funzionale, sussidiario ad una tipologia di uomo dominante, sordo e cieco ai diritti essenziali altrui, misogino ed omofobo, dunque maltrattante. L’unico ruolo ammesso per la donna sarebbe quello procreativo”.

Una visione che “peraltro nega anche la stessa essenza piena ed autentica della maternità, che non termina certo con l’atto procreativo. E, infatti, il senatore Pillon nel suo ddl 735, l’espressione più aderente alla retorica familiare patriarcale del Wcf, ha previsto che, in caso di separazione, i figli vadano divisi dalla mamma fin dai primi mesi di vita”.

L’avvocata rotale fa notare che, fra i temi indicati dal Congresso, quello legato alla donna è solo uno ed ha un titolo significativo: ‘La donna nella storia’. “Come se la donna non avesse un futuro, o come se il futuro della donna debba solo rifarsi al passato, cristallizzandolo in una visione antica e atemporale. Si tratta di una visione femminile ‘bloccata’ tipica di una mentalità patriarcale, che non è affatto espressione della Chiesa Cattolica”.

“Ciò che mi lascia perplessa- chiarisce- è che in un evento in cui si voglia parlare di famiglia, da parte di relatori che si dicono di ispirazione cattolica, venga sottaciuto non solo l’autentico insegnamento cattolico, che vede nel rapporto coniugale una donazione reciproca basata su un rapporto coniugale paritario, che dunque non può negare i diritti essenziali della donna, ma si eviti anche di parlare della violenza maschile sulle donne: non c’è alcun tema ad essa dedicato, nonostante i numeri sul femminicidio e sulla violenza domestica in Italia ed all’estero siano gravi ed evidenti, innegabili. Una seria disamina sulla famiglia, in termini costruttivi, oggi non può più prescindere da questa tematica, che va affrontata, risolta e non più negata”.

Per la Chiesa cattolica la violenza domestica, spiega Nacca, può rientrare anche tra i “motivi di nullità del vincolo nuziale”, sulla base di precisi canoni (“per simulazione totale o parziale del consenso” o “per incapacitas del maltrattante di capire il vero senso del matrimonio”, nei casi di abuso di alcol o droghe). Parole ripetute dall’avvocata anche il 15 gennaio scorso in audizione alla Commissione Giustizia in Senato che, riferisce, hanno suscitato “la aperta e rumoreggiante protesta delle associazioni di padri separati presenti in aula e le critiche del senatore Pillon”. “Voler introdurre uno Stato di tipo etico, al pari dell’Isis, non è lo scopo, né interesse della Chiesa Cattolica, ma di questi movimenti che, manipolando e travisando il Vangelo e il Magistero pontificio pensano di poter travisare noi cattolici, comprese le donne, imponendo una visione del tutto distorta della società, caratterizzata da privilegi e privilegiati, reintroducendo distinzioni di sesso, razza, cultura, censo, età e potere. Una società estranea alle persone- conclude l’avvocata- disprezzante la dignità ed i diritti altrui: in specie quelli del diverso, dell’estraneo, del debole”.
http://www.dire.it/20-03-2019/310951-avvocata-della-sacra-rota-contro-congresso-verona-altro-che-cattolicesimo-manipolano-vangelo/?fbclid=IwAR3xTplXs_38bZKznf0slA2cRx0mdq2T5EfwQPcsgJhTjKuUVGRb-3wSztU

sabato 23 marzo 2019

«Ha detto basta, non ha urlato» Accusata di calunnia per aver denunciato lo stupro di Elisa Sola

«Quando ho sentito che lo assolvevano, è come avere subito violenza una seconda volta. Sono stata a casa cinque giorni a piangere. Mi sono sentita vuota. Adesso la cosa che mi fa più male è non essere stata capita da quelle giudici». Non trattiene le lacrime Laura, la giovane donna che lavora alla Croce rossa che deve fare i conti con le motivazioni di una sentenza che definisce “inverosimili” le sue accuse di stupro nei confronti di un ex collega perché, per fermarlo, gli avrebbe detto “solo basta”, senza “gridare” o “tradire emotività”. Dopo aver ascoltato il dispositivo della corte, Laura era svenuta. Fuori dall’aula. L’avevano soccorsa i colleghi venuti a darle supporto e l’ex moglie dell’imputato, in fase di divorzio, che l’aveva abbracciata prima che crollasse a terra. Oggi Laura è seduta nello studio della sua legale, Virginia Iorio, che sfogliando le carte non si trattiene: «Questa è una sentenza d’altri tempi. Questo processo non può prescindere dal profilo psicologico della vittima. Si è dato per scontato che tutti abbiamo le stesse reazioni in situazioni simili. Ha dell’incredibile».

«Vorrei mettere dieci donne in una stanza – spiega la legale - davanti a un trauma. Tutte e dieci reagiranno in modo diverso. Mi viene il sangue agli occhi: creare uno stereotipo di comportamento come quello che ha fatto questa sentenza. È come dire, noi siamo abituate a una tipologia e da lì non ci stacchiamo». Laura piange. Non riesce a parlare anche se si capisce che vorrebbe dire molte cose. A un tratto ammette: «Ora non denuncerei più. Chi me l’ha fatto fare. Lui c’era in aula, quel giorno in cui ho dovuto raccontare tutto. Quelle sei ore non passavano più». Ed è stato un successo, per l’avvocato Iorio, portare Laura davanti a un collegio. «Perché quando è arrivata da me la prima volta era come adesso – spiega – non riusciva a parlare e piangeva. Con grande sforzo ha avviato un percorso con una psicologa e ha tirato fuori delle cose. Ignorare il pregresso e la valenza del suo carico emozionale mi fa restare allibita».

«Laura sta affrontando con la psicoterapeuta la rimozione dei traumi del suo passato», aggiunge Iorio. «E allora io dico – precisa – è ovvio che alcuni dettagli li ricorda male, ma c’è una totale carenza di pathos in questa sentenza. Qui siamo di fronte a una donna che non aveva il coraggio di dire nulla, che lo ha trovato e che adesso si ritrova indagata per calunnia». Quest’ultima parola fa ripiombare la crocerossina in un fiume di lacrime. Ma la legale la guarda negli occhi e le dice: «Ascoltami, nessuno mi potrà mai fermare, se non la revoca del tuo mandato. Il pm sta scrivendo l’appello, andiamo avanti fino in Cassazione. Io combatterò fino alla fine, puoi starne certa». Laura pensa al fatto che non è da sola: i colleghi della Croce rossa hanno assistito a ogni udienza del procedimento. «Sono la mia famiglia», e le scappa un sorriso. Al processo d’appello poi, se si farà, Laura non dovrà più deporre. Glielo ricorda l’avvocato, per tranquillizzarla. Si tratta soltanto di aspettare. Resta una grande amarezza, comunque andrà a finire. Virginia Iorio riflette a voce alta: «E poi ci meravigliamo perché le donne tacciono di fronte alle violenze?». Laura ricorda l’otto marzo appena passato: «In questi giorni ho visto tanti cartelloni delle donne che subiscono violenze. Mi è venuta in mente la cosa dei 90 giorni. Ma tu non puoi quantificare un tempo. Magari io ci metto tanto a trovare il coraggio di denunciare, di dire, per quello che mi è successo».
https://27esimaora.corriere.it/17_marzo_23/ha-detto-basta-non-ha-urlato-accusata-calunnia-aver-denunciato-stupro-sviene-la-sentenza-accanto-lei-moglie-dell-imputato-30ec215c-0f8b-11e7-94ba-5a39820e37a4.shtml?cmpid=SF020103COR&f

venerdì 22 marzo 2019

«Il marito l’avrebbe uccisa lo stesso». Tolto il risarcimento ai figli di Marianna Manduca di Giusi Fasano

È la resa. È lo Stato che alza bandiera bianca e in una sentenza scrive, in sostanza, che l’omicidio di Marianna Manduca non poteva essere evitato. È lo Stato che ammette l’inammissibile, e cioè che qualunque cosa il sistema Giustizia avesse fatto per intercettare le esigenze di lei, lui — suo marito — l’avrebbe comunque uccisa. Una specie di vittima predestinata, Marianna. E, dodici anni dopo la sua morte, oggi diventano più vittime di quanto lo siano mai stati anche i suoi tre figli, ancora tutti minorenni. A loro il verdetto di primo grado aveva concesso un risarcimento perché la magistratura non aveva fatto abbastanza per proteggere la mamma. A loro adesso la sentenza d’appello chiede di restituire tutto. È lo Stato (formalmente la presidenza del Consiglio) che chiede i soldi indietro a tre orfani.

12 denunce
Marianna, 32 anni, vita e famiglia a Palagonia, in provincia di Catania, fu uccisa a coltellate il 3 ottobre del 2007 da suo marito, Saverio Nolfo, poi condannato a 21 anni di carcere. Lei aveva firmato 12 denunce contro di lui: d’accordo. Nelle ultime aveva spiegato che lui si era presentato con un coltello e che le minacce di sempre erano diventate tangibili: va bene. Era un uomo pericoloso e le aveva promesso di ammazzarla: certo. Ma «ritiene la Corte» che a nulla sarebbe valso sequestrargli il coltello con cui l’ha uccisa «dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità di un’arma simile». Nemmeno «l’interrogatorio dell’uomo avrebbe impedito l’omicidio della giovane donna», scrivono i giudici. Tutt’al più lui avrebbe capito «di essere attenzionato dagli inquirenti». Men che meno avrebbe avuto effetto una perquisizione a casa sua per scovare il coltello mostrato a lei minacciosamente.
In pratica, «ritiene la Corte», che «l’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato».

La sentenza d’appello
Ventuno pagine di sentenza per descrivere il senso di totale impotenza della magistratura (in quel caso la Procura di Caltagirone) davanti alle suppliche di aiuto di Marianna. E per smentire la decisione di primo grado che invece aveva parlato di «grave violazione di legge con negligenza inescusabile» nel «non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati» e nel «non adottare nessuna misura per neutralizzare la pericolosità di Saverio Nolfo». Il giudizio d’appello, invece, sostiene che la Procura fece il possibile date le leggi del momento (ancora non c’era la legge sullo stalking). Dice che — è vero — non eseguì la perquisizione e quindi non sequestrò il coltello, ma le due non-azioni, appunto, non sarebbero bastate a sc ongiurare il peggio. Per i maltrattamenti e le minacce di morte era previsto anche allora l’arresto (quello sì che avrebbe scongiurato il delitto) ma i comportamenti di Nolfo non furono interpretati all’epoca, e non lo sono in questa sentenza, come gravi: «Non consentivano l’applicazione della misura cautelare». Nemmeno quando lui accolse Marianna mostrandole un coltello a serramanico con il quale finse di pulirsi le unghie.

Una sentenza sconvolgente
Nessuna responsabilità significa niente risarcimento, «e se la Cassazione non rivedrà il giudizio per i miei figli sarà la rinuncia al futuro che avevano sperato, per esempio all’università» si tormenta Carmelo Calì, il cugino di Marianna che, già padre di due figli, subito dopo l’omicidio adottò i suoi tre bambini senza averli mai conosciuti prima. È suo il nome che figura nella causa contro la presidenza del Consiglio. I suoi avvocati, Licia D’Amico e Alfredo Galasso, si dicono «sconcertati» e parlano di una magistratura che «dovrebbe riflettere su questa permanente tendenza all’autoassoluzione». Fa sentire la sua voce anche Mara Carfagna, che definisce la sentenza «sconvolgente» e scrive: «La Corte d’Appello dice agli orfani e a tutti noi che quel femminicidio non poteva essere evitato, denunciare i violenti è vano». Per Marianna andò esattamente così: dodici denunce. Tutto vano.
https://27esimaora.corriere.it/19_marzo_21/orfani-femminicidio-il-marito-l-avrebbe-uccisa-stesso-tolto-risarcimento-figli-marianna-01ef7ba0-4c16-11e9-a6a1-94a4136b05dd.shtml?fbclid=IwAR0YAOaxHrGc-3HG53o2niIE1cyiGv-a0_usTe65ieQfC2taImJn_tb2gjA

giovedì 21 marzo 2019

Una petizione per fermare il Congresso internazionale delle famiglie di Cristina Obber

Non le manda a dire Mauro Bonato, dimessosi da capogruppo Lega Nord a Verona per protestare contro il Congresso mondiale delle famiglie che si prepara a radunare nella città veneta, dal 29 al 31 marzo 2019, molti esponenti del mondo cattolico più integralista (tra cui il russo Dmitri Smirnov, presidente della Commissione patriarcale per la famiglia e la maternità), i ministri Matteo Salvini, Lorenzo Fontana e Marco Bussetti. Appuntamento, che per altro, ha anche ricevuto i patrocini del ministero della Famiglia e le disabilità, della Regione Veneto e della provincia di Verona. Patrocini che hanno imbarazzato il governo, tra annunci di ritiro e smentite (il 20 marzo il ministro Lorenzo Fontana ha smentito la revoca), dopo che il movimento All Out ha lanciato una petizione che ne chiedeva il ritiro e che in pochi giorni ha raccolto più di 100 mila firme. «Fontana e Pillon vogliono riportarci al Medioevo», ha detto Bonato, che teme ripercussioni sul voto alle elezioni europee di maggio 2019, in un'intervista pubblicata sul quotidiano Il Dolomiti. Il due volte parlamentare nella Lega Nord dagli Anni '90 ora ne parla come di «un altro partito»: all'epoca non si intrometteva nelle scelte delle persone, invece oggi «ti dice chi ti devi sposare» e le donne vorrebbe «mandarle a casa a fare la calza» (visione condivisa dal tanto discusso Congresso). Ne ho parlato con Yuri Guaiana, attivista milanese che nel 2017 fu arrestato a Mosca dove si trovava per consegnare al procuratore generale le firme raccolte sempre con All Out contro le torture delle persone omosessuali in Cecenia.

DOMANDA. Iniziamo raccontando cos'è e cosa fa All Out.
RISPOSTA. È un movimento che mobilita migliaia di persone ovunque lavorando a stretto contatto con organizzazioni e attivisti locali, per costruire un mondo in cui nessuno debba sacrificare la propria libertà, parte della propria vita o rinunciare alla propria dignità a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere o di quella della persona che ama.

Come vi muovete?
Utilizziamo tattiche creative, online e offline, per attirare l'attenzione sulle iniziative, dal condividere dei contenuti a fare una donazione per finanziare un’azione, dal partecipare a una protesta di strada a firmare una donazione.

Come nel caso del Congresso mondiale delle famiglie.
Esatto. Appena è stato annunciato, abbiamo iniziato subito a lavorare su una campagna per mostrare chi sono e cosa sostengono alcuni dei relatori invitati. Alcune tra le maggiori associazioni che lavorano per i diritti umani nel mondo lo hanno definito un ‘gruppo d’odio’, ma moltissime persone in Italia non li conoscono e quindi ne sottovalutano il pericolo, le conseguenze che avrà sulle vite di tutte e tutti noi. Ci è sembrato importante dire agli italiani chi è atteso a Verona insieme ai nostri ministri.

Questo oltre alla petizione dunque.
L’idea è nata appunto quando è emerso che la Presidenza del Consiglio (attraverso il Ministero della Famiglia e della Disabilità), la Regione Veneto e la Provincia di Verona, avevano concesso il loro patrocinio che il Comune di Verona compariva tra gli sponsor. Insieme a 25 associazioni italiane ed europee, l'abbiamo lanciata per chiedere a tutte le Istituzioni italiane di non sostenere questa conferenza e di togliere tutti i patrocini.

Il Congresso riguarda una minoranza del mondo cattolico molto integralista, come mai tanta attenzione?
Perché accanto a loro spiccano evangelicali americani e ortodossi russi che non sono affatto minoranze nei loro Paesi d’origine e dispongono anche d’ingenti risorse grazie alle quali sono riusciti ad influenzare in maniera consistente l’approvazioni di leggi in diversi Stati. Io credo che in Italia non ci sia ancora consapevolezza dei rischi che corriamo e che il livello di attenzione non sia ancora sufficientemente alto.

Intanto si è fatto sentire anche il gruppo Donne per la Chiesa che ha contestato il ddl Pillon e parlato di uso strumentale della religione.
È chiaro che alcuni dei relatori presenti al Forum facciano un utilizzo politico della religione che offende la fede di molte persone, cosa che mi hanno confermato tante amiche e tanti amici credenti. Probabilmente l’episcopato cattolico se ne rende conto e preferisce adottare una certa prudenza.

Cosa intendi?
Mi limito ad osservare che, a parte le uscite del segretario di Stato Vaticano, il cardinale Pietro Parolin (che ha dichiarato: «Siamo d’accordo nella sostanza, non nelle modalità», ndr), e della diocesi di Verona (che si astiene dal prendere parte al conflitto politico «su di un tema che, ritiene, non meriti il linguaggio violento e ideologico di questi giorni», ndr) sembra esserci una certa freddezza attorno a questa kermesse. Diversamente da quanto dimostrato da alcune Istituzioni italiane, che dovrebbero rappresentare tutti i cittadini e che, invece, fanno a gara a rilasciare patrocini.

Tu hai scritto il libro Il lungo ‘inverno democratico’ nella Russia di Putin (Diderotiana Editrice) in cui si parla dei legami tra l'ex Paese sovietico e il Congresso mondiale delle famiglie. Cosa pensi di questa alleanza?
Che sia molto pericolosa. La Russia è stata condannata più volte dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Lo sapevi che l’idea di organizzare questo tipo di eventi è nata proprio da loro nel 1995?

Non lo sapevo, ma non mi stupisce. Come sappiamo è atteso anche il presidente russo della Commissione patriarcale.
Sì, e puoi immaginare le sue posizioni sulle donne e la maternità. Ma il relatore che meglio incarna i rapporti tra una certa Italia, una certa Russia e l'evento di Verona è Alexey Komov che, oltre a essere rappresentante regionale del Forum, è stato ospite al congresso della Lega nel 2013 e, in seguito, è stato anche nominato presidente onorario dell’associazione di matrice leghista Lombardia-Russia.

Inquietante. Forse Salvini non ne parla pubblicamente per non perdere voti.
Sì, credo che molti elettori leghisti, se sapessero, alle europee farebbero scelte diverse.

Si è dimesso contestando proprio queste posizione il capogruppo della Lega Nord a Verona.
Mauro Bonato ha preso una posizione pubblica molto coraggiosa. Tra l’altro ha anche riconosciuto l’opportunità della nostra petizione.

Anche Di Maio ha preso le distanze da Salvini sul Congresso, l’ha definito «La destra del sfigati». ‘Sfigati’ non ti sembra riduttivo?
Lo è. Credo, però, che se Di Maio vuole davvero prendere le distanze dovrebbe convincere il governo, di cui è autorevole esponente, a ritirare il patrocinio.

Cosa che, ricordiamo, chiedono anche le 100 mila persone che in pochi giorni hanno firmato la petizione. Cosa ti senti di dire a chi non l'ha ancora fatto.
Che dobbiamo unirci per dire a gran voce che quel Congresso e quella concezione della famiglia non ci rappresentano, che non vogliamo tornare indietro. Una firma è un piccolo sforzo ma importantissimo, per il bene di tutte e di tutti.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/conversazioni/2019/03/20/congresso-mondiale-delle-famiglie-verona-2019-petizione-yuri-guaiana/27878/?fbclid=IwAR0tnW98LjZtz41Z1niFWyVU0XtR_julLKFeRT9IaMpigw5qHmDAq8DZTzE

mercoledì 20 marzo 2019

L'Università di Verona contro il congresso sulla famiglia: «Tesi dei relatori prive di fondamento scientifico» Cristin Cappelletti

L' ateneo ha preso le distanze dall'evento pro-family di fine marzo. Più di un centinaio di professori hanno criticato le posizioni anti-scientifiche dei relatori del congresso. Riccardo Panattoni, Direttore del Dipartimento di Scienze umanistiche, ha parlato a Open delle ragioni dell'iniziativa

Circa 160 docenti dell'Università di Verona hanno deciso di prendere posizione contro il Congresso Mondiale della Famiglia che si terrà nella città veneta il prossimo 29-30-31 marzo. «Come Dipartimento di Scienze Umane, insieme a molti altre e altri docenti, ricercatori e ricercatrici dell’ateneo tutto e di tutte le aree disciplinari, ci facciamo promotori di una presa di posizione critica in merito allo svolgimento del Congresso Mondiale delle Famiglie», si legge nel comunicato. Dopo le dimissioni del capogruppo della Lega dal consiglio comunale di Verona, anche l'università di Verona ha deciso di farsi avanti.
L'ateneo prende di mira diverse posizione esposte da alcuni relatori che parteciperanno all'evento, tra cui l'affermazione del creazionismo, l’idea che la natura abbia assegnato a uomini e donne differenti destini sociali e diverse funzioni psichiche, che identificano automaticamente la donna in un ruolo riproduttivo e di cura o la promozione delle “terapie riparative” per le persone omosessuali al fine di “ritornare” alla condizione armoniosa dell’eterosessualità: «Tali posizioni vengono affermate come fondate scientificamente, ma in realtà la ricerca internazionale non è mai giunta a questo tipo di esiti e li ha anzi smentiti in diverse circostanze».
A sostenere l'iniziativa anche il Rettore dell'Università di Verona Nicola Sartor: «Bene ha fatto il dipartimento di Scienze umane, assieme ad altri docenti, ricercatrici e ricercatori di ateneo, a sottolineare come le tematiche proposte nel convegno e le posizioni degli organizzatori siano, a oggi, prive di fondamento e non validate dalla comunità scientifica internazionale». A raccontare a Open la decisione dell'Università di Verona Riccardo Panattoni, direttore del Dipartimento di Scienze umanistiche.

Da dove nasce questa decisione?
«L'idea è nata all'interno di una discussione del Dipartimento di Scienze umane di cui io sono il direttore. I temi su cui il congresso interviene sono quelli sui cui facciamo ricerca. È nata naturalmente una discussione interna. Da questa discussione abbiamo pensato che fosse necessario fare un documento per prendere le distanze dai presupposti scientifici su cui gli esponenti del congresso si basano per portare avanti le loro affermazioni. Ci sembrava importante fare un gesto dell'università pubblica, un gesto che chiarisca alla propria città e ai cittadini la posizione dell'università.
Ci sembrava opportuno sottolineare le distanze di una comunità internazionale scientifica e ribadire come le prove portate dai relatori a sostegno delle loro tesi siano state ampiamente smentite e siano considerate inapplicabili. Abbiamo fatto un documento e l'abbiamo fatto firmare singolarmente perché l'università è una comunità di singoli docenti che liberamente possono esprimersi. C'è stata una risposta da tutte le aree: medica, scientifica, economica, giuridica»,

Cosa criticate?
«In particolare lo statuto di scientificità che viene portato avanti dal Congresso. Si possono creare delle situazioni e dei momenti incentrati su posizioni religiose, ideologiche, ma non si può prescindere dal presupposto scientifico e lasciare che gli spazi pubblici della città siano dedicati a questi eventi perché sarebbe un inganno verso i cittadini.
Se in questa città c'è un'università, l'università si deve fare garante di segnalare qual è la posizione scientifica effettiva su questi temi, senza entrare in nessuna polemica, nè ideologica e nè politica, sul ruolo che deve avere il sapere: il sapere è depositato nei luoghi dove la ricerca si svolge».

È stata fatta una richiesta di uso di spazi universitari per il congresso?
«Sì. A dicembre l'organizzazione del convegno aveva chiesto all'università di concedere alcune aule, ma il Rettore aveva preso posizione rifiutando di dare questi spazi perché non era un evento che potesse svolgersi dentro le aule universitarie. Non siamo soltanto una cittadella, ma siamo parte della città. Il problema non è soltanto difendere gli spazi interni, abbiamo pensato che fosse importante riaffermare la presenza e l'importanza di un'università che appartiene alla città».

Avete ricevuto l'appoggio anche del Rettore?
«Assolutamente sì. È stato un appoggio molto spontaneo quello del Rettore: è partito dal basso, dalla discussione, e pian piano ha assunto una forma istituzionale attraverso il dipartimento. Si è rafforzato grazie al sostegno di molti docenti fino a che non ha assunto una forma istituzionale.
Come ateneo ci interessava sottolineare la nostra estraneità da quei presupposti e non avallare dibattiti politici che avrebbero indebolito la nostra posizione che ha a che fare con i contenuti, con un risvolto epistemologico ben preciso. Ci auguriamo che chi governa il Paese si rivolga all'università, ai luoghi di ricerca dove esistono i presupposti scientifici per portare avanti un'azione di governo. Volevamo che l'università ritornasse a essere un luogo capace di prendere posizioni critiche».

Sullo stesso tema
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Il giallo del patrocinio della presidenza del Consiglio al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona
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Lo striscione dell'Università di Verona contro il Congresso delle Famiglie: «No a intolleranza e discriminazione»
https://www.open.online/primo-piano/2019/03/18/news/universita_di_verona_contro_il_congresso_sulla_famiglia-173263/?fbclid=IwAR1ojfLS5k1gSDjDtjTDDchuoD00g0uB99yqOahP5jbw7MbPEBS8rlIPNN8

martedì 19 marzo 2019

PROMULGARE LEGGI CONTRO LA SODOMIA. ABROGARE TUTTE LE LEGGI CHE PERMETTONO IL DIVORZIO. ECCO IL PROGRAMMA DEL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE

Il Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona si rifà ad Agenda Europa.

Agenda Europa è una strategia estremista, nata nel 2013, che critica i passi in avanti ottenuti grazie all’approvazione di leggi a favore dei diritti umani. Gli obiettivi del manifesto sono quelli di “Ristabilire l’Ordine Naturale”. Il meeting delle famiglie è infatti un appuntamento organizzato anche dai partecipanti di Agenda Europa.Quanto riportato in questo articolo è stato preso dal documento scritto da Neil Datta, Segretario del Forum Parlamentare Europeo sulla Popolazione lo Sviluppo (European Parliamentary Forum on Population Development EPF), il quale riporta il programma di Agenda Europa. La traduzione è a cura di Cinzia Ballesio, Gabriella Congiu, Enrica Guglielmotti di “Se Non Ora Quando? Comitato di Torino“.

Abbiamo deciso di riassumervi i punti salienti di Agenda Europa. L'agenda si divide in "Leggi da abrogare/temi da proibire", "Leggi da adottare" e "Azioni non legislative".

Leggi da abrogare/temi da proibire:
Abrogare leggi su unioni tra persone dello stesso sesso e civili
Abrogare tutte le leggi che permettono il divorzio
Abrogare tutte le leggi che permettono l’adozione da parte di omosessuali
Vietare la vendita di tutti i contraccettivi farmaceutici
Vietare contratti che includano forniture per aborto, contraccettivi e sterilizzazione
Vietare diagnostiche prenatali
Vietare la Fecondazione in vitro (IVF)

Leggi da adottare:
Leggi contro la sodomia
Leggi che rendano più difficile il divorzio
Favorire il matrimonio (tasse e leggi sociali)
Leggi per proibire la “propaganda omosessuale”
Legalizzare lo studio privato a casa in tutti I paesi
Obiezione di coscienza per medici e farmacisti (affinché il rifiuto della cura sia un diritto legale)
Divieto di aborto nel diritto nazionale ed in quello internazionale
Convenzione internazionale per proibire qualsiasi uso di cellule staminali umane
Convenzione internazionale per proibire l’eutanasia

Azioni non legislative:
Cancellare qualsiasi finanziamento a favore di LGBT e dell’aborto nei Programmi di Assistenza Pubblica
Rivedere i programmi di educazione sessuale in aderenza al manifesto per l’Ordine Naturale
Sostenere risoluzioni contro la maternità surrogata a livello di Parlamento Europeo e Consiglio d’Europa
Enfatizzare gli aspetti di “scelta” della sodomia
Evidenziare il costo delle leggi contro la discriminazione per l’economia nazionale
Criticare le azioni intentate dai sostenitori delle leggi contro la discriminazione (ad esempio ILGA)
Leggi le dichiarazioni dei partecipanti: «Chi sostiene l'aborto è un cannibale»

Ecco il link completo del manifesto: Ristabilire l'Ordine Naturale

https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=7481927899308882462#editor/target=post;postID=7721957177203061060

lunedì 18 marzo 2019

6 MILIONI DI DONNE HANNO SUBITO VIOLENZE DA UN UOMO. MA IN ITALIA FINISCONO IMPUTATE LORO. DI ANTONELLA SERRECCHIA

In Italia il dibattito sulla magistratura varca spesso le soglie dei tribunali per entrare nella pubblica piazza, specialmente quando le sentenze toccano la politica. Tendenzialmente, le posizioni si dividono in due: quando la sentenza di colpevolezza o l’avviso di garanzia raggiungono il politico in cui ci riconosciamo o a cui ci sentiamo vicini, i commenti virano sul garantismo più assoluto – o peggio sul complotto dei togati; quando invece l’imputato è l’esponente della parte avversa, allora questi diventano intoccabili, le sentenze non si possono commentare e il potere giudiziario non può essere messo in discussione. Non scatenano però lo stesso pathos nell’agorà politica le sentenze che con la politica non hanno nulla a che vedere, ma che dicono molto sulla nostra società: le sentenze per stupro.

In Italia le donne che nel corso della propria vita hanno subìto almeno una forma di violenza di genere (fisica o sessuale) si stima siano più di 6 milioni, e quasi 1 milione e 400 sono state vittima di stupro o di tentato stupro. Ma le denunce sono tra il 6 e il 12% del totale e le donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza nel 2017 sono state meno di 50mila; in generale, la percentuale di donne vittime di abuso che chiedono aiuto va dall’1% al 4% circa. Il 30% di loro non ne parla con nessuno.
Come mai? Le spiegazioni sono tante. La principale è che, nella maggior parte dei casi, la persona abusante è un familiare o uno stretto conoscente, e questo rende comprensibilmente molto più complesso per la vittima denunciare. Inoltre, la violenza sessuale è un tipo di violenza particolarmente subdolo, che umilia la vittima a tal punto da indurla a pensare che sia meglio dimenticare piuttosto che rivivere il trauma subìto. Anche perché, spesso, la vittima viene spinta a a pensare che sia stata colpa sua, che sia legato a come si è comportata, come era vestita, dove si trovava e con chi. Questa forma di colpevolizzazione viene talmente introiettata che spesso è la donna stessa a giudicarsi per quello che ha subìto, e quindi si vergogna persino a confidarsi, anche per paura di non essere creduta; sentimenti come questi riguardano il 7% delle donne. La matrice e il peso culturale di queste ragioni diventano tema politico quando l’assenza di credibilità a cui sono condannate le donne si trasforma in una sentenza di tribunale. Perché è anche di questo genere di cose che bisognerebbe discutere quando si parla di magistratura distorta, faziosa e prevenuta: un Paese in cui la donna non si sente sicura a denunciare una violenza perché non ha fiducia nelle forze dell’ordine e nella giustizia, teme di non essere creduta, o peggio ancora sbeffeggiata, è un Paese in cui la legge non è uguale per tutti. E questo è un problema di cui la politica deve occuparsi.

Negli ultimi giorni si è discusso molto delle motivazioni che hanno spinto la Corte di appello di Ancona ad annullare la sentenza di primo grado che aveva condannato due ragazzi per aver violentato una coetanea dopo averla indotta a bere e assumere droghe. Il racconto della giovane, che le giudici hanno definito negli atti “la scaltra peruviana”, è stato ritenuto inattendibile perché “Non è possibile escludere che sia stata proprio lei a organizzare la nottata ‘goliardica’”. Perdipiù, aggiungono le togate, all’imputato “la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo ‘Vikingo’, con allusione a personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare”.
Queste parole possono portare a una serie di lecite supposizioni. La prima è che il ragionamento delle giudici sia stato viziato da un preconcetto su chi potesse essere considerato attendibile e chi no. Fa riflettere come, in un Paese in cui la furbizia è ritenuta virtù, la “scaltrezza” di una donna sia intesa come volontà di raggirare l’uomo per fini personali (quali poi, non è dato sapere). Ma da dove potrebbe nascere il pregiudizio? Non certo dal fatto che è giovane; anche gli imputati lo sono. E nemmeno dal fatto che sia straniera, visto che i ragazzi sono suoi connazionali. Rimane quindi una sola possibilità, il fatto che sia una donna. Anzi, peggio, una donna non sufficientemente avvenente e quindi priva di credibilità nel momento in cui dichiara di aver subìto violenza.
La seconda deduzione che si può fare è che le giudici che hanno firmato tali motivazioni non abbiano ben chiaro che cosa sia la violenza sessuale, ovvero un atto di sopraffazione per stabilire la propria superiorità sulla vittima e umiliarla, che con l’avvenenza o l’attrazione non c’entra assolutamente nulla. L’ennesima riprova di quanto sia ancora necessario parlare di violenza di genere in una società che crede di aver superato tutti i pregiudizi solo perché sulla Carta c’è scritto che siamo tutti uguali.
E non dovrebbe nemmeno essere necessario sottolineare il genere delle giudici: dobbiamo superare una volta per tutte la retorica secondo cui il maschilismo sarebbe una piaga che può colpire esclusivamente un uomo che ha superato i cinquant’anni, che soffre di disfunzione erettile e che non ha altro da fare che starsene tutto il giorno col gomito appoggiato sul bancone di un bar. Il problema è che interessa anche persone giovani, istruite, che magari si dimostrano inclusive sotto altri punti di vista. Persone che dovrebbero, anche grazie alle proprie esperienze di vita e alla possibilità di essersi trovate nelle stesse situazioni, avere la sensibilità e l’acume per riconoscere e analizzare la realtà. E allora può trattarsi dell’operaio e della manager, dell’imprenditore e della sindacalista. Anche le donne possono comportarsi in maniera maschilista e contribuire a rafforzare gli stereotipi di genere.
Se parole simili a quelle scritte dalle giudici di Ancona le avessimo sentite sull’autobus o al bar, ci saremmo fatte l’ennesima risata amara. Il fatto che siano state messe nero su bianco su un provvedimento giudiziario è molto più grave. E infatti la Corte di cassazione ha annullato la sentenza, e il Ministero ha annunciato che farà le dovute verifiche. Bene, si potrebbe dire. Una storia che si avvia verso il lieto fine. E invece no, prima di tutto perché le conseguenze della doppia violenza che ha dovuto subire – dagli stupratori e dalla Corte di appello – la ragazza se le dovrà portare dietro per il resto della vita. In secondo luogo, perché sentenze del genere non sono così rare, e soprattutto non sempre vengono annullate, gli autori sanzionati e l’opinione pubblica risvegliata (seppure solo per qualche ora).
È un problema anche politico se dei giudici scrivono che una quattordicenne era “sessualmente più esperta di quanto ci si può aspettare da una ragazza della sua età” e quindi il patrigno quarantenne che l’ha stuprata ha diritto al riconoscimento dell’attenuante. È un problema anche politico se un tribunale decide che un uomo che violenta una 18enne, dopo che questa è stata indotta a bere da altri, ha commesso un atto meno grave perché non ha partecipato alla fase preparatoria. È un problema anche politico se una donna che ha subìto uno stupro di gruppo da parte di 6 uomini viene trattata durante il processo come fosse lei l’imputata, inquisita per le sue abitudini sessuali e le mutande che è solita portare. È un problema anche politico se un condannato in primo grado e reo confesso di femminicidio si vede riconoscere uno sconto di pena di 14 anni perché “in preda a una tempesta emotiva determinata dalla gelosia”; ed è un problema anche politico perché succede in continuazione: è di ieri la notizia di un uomo che si è visto riconoscere l’attenuante per aver ucciso la compagna in preda alla “delusione”. Di oggi quella che un assassino si è visto dimezzare la pena perché, secondo la giudice che ha espresso la condanna, l’uomo ha agito “sotto la spinta della gelosia ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente”. È un problema anche politico perché sembra che da quel Processo per stupro – il documentario del 1979 che mostrò all’Italia come le vittime di violenza diventassero improvvisamente imputate una volta varcata la soglia del tribunale – non sia passato nemmeno un giorno.
Secondo i dati Istat, nel 2017 in Italia sono stati denunciati 15mila atti di violenza (maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, percosse e violenze sessuali) sia su donne che su uomini: l’81% delle vittime erano donne. Sempre secondo i dati Istat, le condanne per violenza sessuale, maltrattamento in famiglia e stalking sono poco meno di 7mila, ovvero meno della metà. In carcere sono finiti 3.154 uomini per il reato di stupro, 2.294 per maltrattamenti in famiglia, 950 per stalking, 220 per percosse. Quando si tratta di partner o ex partner abusanti, solo il 2% viene condannato. Sono tanti dati, diversi e non assoluti, ma che insieme contribuiscono a dipingere un quadro piuttosto chiaro.
Ora, possiamo continuare a credere che la violenza di genere non esista, che il gender pay gap non esista, che le donne siano “scaltre”, che il femminicidio sia un’invenzione delle “femminazi” così come il bias nella ricerca o nell’istruzione. Possiamo continuare a credere che la nostra società offra pari opportunità a una bambina e a un bambino della stessa classe ed età. Possiamo farlo – e ancora per poco, speriamo – in un bar, in un discorso tra amici, nello spogliatoio. La forma mentis che è stata plasmata dalla cultura patriarcale in molti contesti è diventata più discreta e silenziosa e subdola, mentre si è alzata la voce di chi ha problematizzato la società per come era ed è impostata. Ma non è sparita e non sparirà domani. Quello che non possiamo accettare oggi però è che serpeggi in un’aula di tribunale, dove dovremmo essere e sentirci tutti tutelati allo stesso modo. Altrimenti viene messo in dubbio uno dei principi fondamentali della Democrazia e questo non possiamo permettercelo. Quindi, la prossima volta che si parlerà dei problemi della magistratura, per una volta, mi piacerebbe sentir parlare anche di questo.
https://thevision.com/attualita/6-milioni-donne-violenza/

sabato 16 marzo 2019

Violenza sulle donne: gelosia, delusione, risentimento? Sono aggravanti non attenuanti! Mila Spicola Insegnante, pedagogista e scrittrice

Altra sentenza pericolosissima per i diritti delle donne e per il contrasto alla violenza sulle donne a Genova. Un pubblico ministero aveva chiesto una pena di 30 anni per un uomo che aveva ucciso la compagna: la colpì con diverse coltellate al petto dopo aver scoperto che non aveva mantenuto la promessa di lasciare l'amante.

Il giudice, per questo, ha concesso le attenuanti generiche e lo ha condannato a 16 anni. Nella motivazione della sentenza si legge che l'uomo ha ucciso la propria compagna perché mosso "da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento". Qua non si tratta di mettere in discussione sentenze, ma di attivare una riflessione collettiva di tipo culturale. Va fatto e subito, prima che si torni indietro senza che ce ne rendiamo conto.

In virtù di quale ragionamento la violenza sulle donne debba considerare come attenuanti motivazioni apparentemente emotive, ma che in realtà prendono le mosse profonde da presupposti discriminanti che pensavamo superati?

In virtù di quale ragionamento tali motivazioni discriminanti non sono considerate come aggravanti? In virtù di quale ragionamento ciò non accade per altri tipi di violenza?

Gelosia, delusione, risentimento, emotività sono aggravanti, non attenuanti. E proprio su quelle aggravanti, sul fatto che nascono da convinzioni e mentalità maschiliste, reazionarie, ahimè sembrerebbe diffuse anche nei luoghi della Giustizia, dovremmo concentrarci, sul riconoscerle come tali, sul prevenirle, in sede educativa, per eliminarle, per condannarle, in sede penale, non per assecondarle. Per rafforzare la consapevolezza e la forza degli individui contro la violenza.

E invece, sul piano educativo abbiamo un ministero dell'Istruzione a guida leghista che ha completamente eliminato qualunque progetto o promozione nelle scuole dell'educazione al rispetto delle differenze (ricordo che tale azione risponde a due leggi, il decreto del 2013 approvato a contrasto della violenza sulle donne e la legge 107 che ha introdotto l'educazione al rispetto delle differenze, oltre che, ovviamente all'articolo 3 della Costituzione italiana) e che per prima volta il Miur non ha celebrato l'8 marzo.

E sul piano culturale e collettivo ogni giorno arrivano segnali di passi indietro sui temi della discriminazione di genere, sentiamo di patrocini ufficiali di istituzioni della Repubblica, quali sono i ministeri, di convegni che accettano e promuovono posizioni discriminanti.

Che il clima culturale su questi temi stia cambiando è sotto gli occhi di tutti, che poi si traduca in sentenze quanto meno bizzarre a fronte di delitti gravissimi è poi preoccupante. Ma anche basta con questo Medioevo culturale che avanza sulla pelle delle donne anche nel nostro Paese.

Il rischio fondato è che così facendo si favorisca, piuttosto che contrastarla, la violenza sulle donne e che peggioriamo invece di progredire. Beh, no. Per tornare alla sentenza di Genova, la delusione di un uomo a fronte di un tradimento non può essere un'attenuante per un omicidio. Come non può esserlo la gelosia, il risentimento, il turbamento emotivo. Vale per l'uomo e vale per la donna
https://www.huffingtonpost.it/mila-spicola/violenza-sulle-donne-gelosia-delusione-risentimento-sono-aggravanti-non-attenuanti_a_23691271/?ncid=other_twitter_cooo9wqtham&utm_campaign=share_twitter&fbclid=IwAR1ztRQ16WTkShEK_1nqz3zk5

giovedì 14 marzo 2019

Le tre giudici di Ancona. Terza puntata della serie Parlare bene delle donne di Luisa Muraro

Immagino i commenti desolati, a cominciare da: povera Italia, un’altra brutta figura all’estero! E adesso ci si mettono anche le donne! Con quella sentenza, non c’è dubbio, faremo il giro del mondo.

Parlo ovviamente della sentenza d’appello di Ancona che ha assolto due giovani uomini già condannati in primo grado a tre e cinque anni per violenza sessuale su una loro coetanea. La sentenza d’appello è stata annullata di corsa: vizio di forma, processo da rifare, ecc., subito dopo la lettura delle sue motivazioni. Fra le motivazioni, c’è (c’era, ormai è carta straccia) che la vittima non era abbastanza desiderabile, oltre a essere di origine peruviana. Non mi risulta che nessun giudice di sesso maschile si sia spinto a tanto nel disprezzo della legge e delle donne.

Come noto, la Corte d’appello era formata da tre donne. Nelle loro aberranti motivazioni, io trovo un tocco d’inconfondibile femminilità… Se pensate che in queste mie parole ci sia della misoginia, non lo escludo: esiste una misoginia femminile, l’ho imparato leggendo i Piccoli racconti di misoginia di Patricia Highsmith.

Ma il mio scopo, qui, è di difendere quelle tre. Ovviamente, anch’io sono, come voi, sbalordita dalla loro immaturità psicologica e dalla loro ignoranza del mondo. E, come molti, mi chiedo: ma dove hanno studiato legge? Chi le ha fatte entrare e avanzare nella magistratura? E come hanno potuto trovarsi in tre, tutte tre d’accordo fra loro a ragionare così storto, cioè fuori dal diritto? Bisogna sapere che, nelle motivazioni della sentenza che nega credito alla vittima e assolve gli stupratori, c’è allegata una foto di lei a riprova della sua non desiderabilità da parte maschile, e questa foto sarebbe un elemento di prova che prevale sul certificato medico che ammette la violenza sessuale.

Scrive il grande filosofo Montaigne (e così comincia la mia difesa): le donne che si rifiutano di seguire le regole del vivere che vengono via via fatte valere a questo mondo, non hanno del tutto torto: sono regole fatte dagli uomini senza loro, le donne stesse (sans elles). Il filosofo, che sta riflettendo sui rapporti fra i sessi e sul desiderio sessuale, afferma che c’è giustamente un conflitto e parla esplicitamente di pretese contradditorie degli uomini sulle donne.

Sono passati secoli ma queste notazioni restano vere, specialmente in un paese come l’Italia. È un paese innamorato della bellezza fisica delle persone, forse a causa della tanta bellezza artistica e (per quel che ne resta) paesaggistica. Ma è governato prevalentemente da marpioni che una cosa dicono e un’altra fanno, per cui la sua antica civiltà, che brilla anche nel diritto, si è trasformata in una vischiosa arretratezza patriarcale. Non c’è donna che non sappia, sulla sua pelle, giorno per giorno, anno dopo anno, a nord o a sud, al mare o in montagna, in città o in campagna che cosa vuol dire apparire desiderabile, o viceversa, non desiderabile agli occhi dei maschi, con le conseguenze che ciò ha, a seconda delle circostanze: se sei ricca o povera, sola o in compagnia, in casa o per strada, in discoteca o in chiesa, vestita così o vestita colà, giovane o vecchia, in carriera o sui campi a raccogliere verdure… Il principio di uguaglianza? È scritto nella Costituzione, era sulle bandiere della rivoluzione liberale, è messo in testa alla proclamazione dei diritti umani e sui trattati internazionali. Ciò nonostante, sono due anzi tre secoli che le donne nei paesi sedicenti liberi e democratici combattono per vederlo riconosciuto, questo famoso principio, e ancora non ci siamo.

Per parte mia mi sono stufata del femminismo dell’uguaglianza e, al seguito di Carla Lonzi, dico: pretendo l’uguaglianza ma alla libertà intendo arrivare con la differenza del mio essere donna.

E domando: c’è veramente da scandalizzarsi se le tre di Ancona hanno ragionato non in base al diritto scritto ma in base al principio dettato dalla loro esperienza di donne suppongo graziose che è di piacere (agli uomini)? Io questo non l’ho mai fatto, mia madre mi ha insegnato neanche a pensarci, lo stesso ho insegnato alle mie studentesse, ma riesco, non dico a giustificarle, a capire il moto profondo che le ha portate a far valere, sopra la cultura ufficiale, la legge non scritta di una condizione vissuta quotidianamente a causa della diffusa inciviltà maschile.

Morale della favola: non bastano i trenta e lode, non bastano la parità o i diritti o le manifestazioni, tutto bene ma prima di tutto ci vuole la presa di coscienza che dà occhi, sentimenti e pensieri per giudicare il mondo nell’indipendenza da quello che va bene agli uomini. Si chiama indipendenza simbolica.
http://www.libreriadelledonne.it/le-tre-giudici-di-ancona/?fbclid=IwAR3MFkG7U1K2ZP29DlzYnJAcchI_EZG-CV0WgzJaumAOCrVvYHBOGfhiSKk

martedì 12 marzo 2019

Alla faccia della parità. La mamma stira, non parla di calcio. E nemmeno di porti Da Collovati a Isoardi, da Emma a Strumia, da Prestigiacomo a Di Battista, pattiniamo su un tappeto di sessismo. Breve rassegna di ciò che le donne non possono dire, e di ciò che invece si sentono dire DI SUSANNA TURCO

Alla faccia della parità. La mamma stira, non parla di calcio. E nemmeno di porti
A fare impressione è l’estrema costanza, l’assoluta linearità. La facilità con cui si uniscono i punti. Una roba da scuola elementare, letteralmente. Nel sussidiario per la classe seconda, all’esercizio in cui si deve cancellare il verbo fuori contesto, le opzioni sono tre. La mamma «stira», «cucina» o «tramonta». Il papà «lavora», «legge» o «gracida». Sembra un universo superato, non lo è: siamo oltre solo in teoria, in pratica è persino peggio che niente. Lo dicono le parole, prima di tutto. Le parole che sono potere: perimetrano, descrivono, disegnano la realtà. Quello che viene nominato, è. L’orizzonte implicito nel sussidiario – alla faccia della revisione dei testi scolastici che si fece anni fa per eliminare, appunto, gli anacronismi - non è diverso da quello di Fulvio Collovati, 61 anni, ex calciatore, allorché a Quelli che il calcio ascoltando Wanda Nara, procuratrice e moglie dell’attaccante dell’Inter Mauro Icardi, dice: «Quando sento una donna parlare di calcio mi si rivolta lo stomaco». I bambini di 7 anni si alimentano quindi, via sussidiario, della stessa cultura sputata fuori dall’ex campione del mondo. È preistoria? Ma chiamiamola pure eternità. La mamma non parla di calcio: la mamma stira, cucina o tramonta. Fa anche altro, ormai: ma quello deve farlo, sicuro. Del resto stirava anche Elisa Isoardi, da conduttrice Rai e fidanzata di Matteo Salvini, nella famosa immagine postata su Instagram lo scorso aprile. Stirava, Isoardi, e neanche da madre: e infatti - si è poi scoperto - stirava una camicia sua propria, stirava per sé. Anche se tutti abbiamo dato per scontato, giacché stirava, che stirasse per lui, per Salvini. E già questo la dice lunghissima su dove siamo.

Vagamente storditi dalla risacca della marea del #Metoo, nell’anno di grazia 2019 si sperimenta in Italia la consistenza di un genere di sessismo che non è nuovo per niente, ma adesso risalta ancor peggio: un sessismo ulteriore, quello della parola. Strisciante e inestirpabile, si direbbe. Certamente esorbitante. Dal (ora ex) consigliere leghista di Bolzano Kevin Masocco che ha esclamato: «Venite, c’è una dj da violentare!», fino alla puntata delle Iene nella quale passava come un innocuo scherzo la prova palmare della fobia di Lorenzo Insigne, capitano del Napoli, verso qualsiasi libertà personale di sua moglie (nello specifico colpevole di voler fare un provino). Misura di quanto la questione sia innervata nel profondo, nell’amigdala di cervelli che sono cresciuti e tutt’ora crescono – è cronaca – a colpi di «la mamma cucina, stira o tramonta». Si concentra forse quasi tutto qui, il differenziale tra ciò che ci piacerebbe fosse o ci raccontiamo che sia, e ciò che è davvero, in termini di sessismo e disparità. Nella parola-sciabola, l’insulto, per un verso. Nella parola interdetta, l’argomento off-limits, per l’altro. Tra quello che le donne non possono dire, e quello che invece si sentono dire.

A destra e a sinistra il machismo è trasversale
Figure paterne come quella invocata da Prodi. Grandi conquistatori alla Berlusconi. Leghisti circondati da deputate obbedienti. Partitelli di sinistra intasati dai maschi. E le donne sono le grandi assenti della politica

«Aprite i porti», ha urlato la cantante Emma durante un suo concerto a Eboli. «Faresti bene ad aprire le tue cosce facendoti pagare, ad esempio», ha risposto in un commento su Facebook il consigliere di Amelia Massimiliano Galli. Sospeso dalla Lega per le polemiche, si è ostinato adire che la sua «era una iperbole» e non voleva mica dare a Emma «della mignotta», no no. Lo ha spiegato lui stesso, in una intervista: «Stava in una foto, con le cosce larghe mentre cantava, voleva farsi vedere, no?». Ecco il perché lui le ha risposto così: è lei che l’ha provocato. Per sommo dell’ironia, giusto a chiarire di cosa si parli, la notizia («aprite i porti») è finita sui quotidiani nello stesso giorno in cui Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, esortava: «Aprite i cantieri». Nessuno si è neanche sognato di rispondere a Boccia «faresti bene ad aprire le tue cosce». E non per anatomia, e non per reverenza, ma perché nessuno, mai, attacca un uomo prendendo di mira il suo corpo. Emma, oltre ad essere donna, pretendeva essere presa sul serio. Aprire i porti? Torna in mente Collovati, basta cambiare la materia:«Quando sento una donna parlare di immigrazione mi si rivolta lo stomaco».

In effetti, non solo il calcio pare argomento per soli uomini. Quando Stefania Prestigiacomo ha usato le sue prerogative di parlamentare (di Forza Italia) per andare a verificare - con altri due deputati maschi - le condizioni dei 47 migranti bloccati dai veti di Salvini sulla Sea watch 3, è stata perimetrata dentro i confini della mamma che «stira, cucina o tramonta». Antonio Tajani, praticamente il capo del suo partito dopo Silvio Berlusconi, ha derubricato il gesto come quello di «una madre mossa da forte emotività». Dal quotidiano Libero, Prestigiacomo si è presa direttamente della «nonna». Epiteto evidentemente considerato la naturale prosecuzione di quello riservato ad Emma. Da «apri le cosce» ad «apri nonna» - par di capire - è un attimo, il volgere di qualche anno. In mezzo, per ben che vada, può esserci una Wanda Nara, che Selvaggia Lucarelli ha definito «rivoluzionaria» nella «lotta al patriarcato», ma che per dei lettori del Fatto è solo «castrante» e «narcisista»: «E di un uomo castrato, una donna non se ne fa più nulla e prima o poi lo abbandona. La crisi di gol sul campo che Icardi ha attualmente ne è la prova», è la lettera con cui le ha risposto un Aurelio Scuppa. Ecco, parliamo di cose così. Non eccezioni.

Luciana Littizzetto e quello che le donne non possono dire
Piovono accuse di volgarità sulla comica di "Che tempo che fa". Eppure le stesse battute dette da un uomo non scatenano alcuna indignazione

Un tappeto a sottofondo della vita di tutti, impostazione sulla quale (salvo gli insulti) pattiniamo largamente inconsapevoli. È normale, ad esempio, trovare sui social il video del tipo “Venticinque consigli alla donna che comanda per farsi accettare dagli uomini”. È normale ascoltare, per il femminicidio, l’invocazione per par-condicio del maschicidio (modello: «e allora il Pd?»), in una sorta di malinteso sul termine, che indica non tanto il genere della vittima, quanto il perché sia stata uccisa. È normale ascoltare lamentele sull’ossessione per la correttezza. «La storia del politicamente corretto a tutti i costi porterà la morte di questa nazione», è l’unica frase che oggi è dato leggere sul profilo Facebook di Galli - quello dell’«apri le cosce».

Con queste promesse, la scivolata finale è sempre dietro l’angolo. A ottobre, al Cern lo scienziato Alessandro Strumia ha tentato di dimostrare con slide e formule matematiche che nell’area scientifica le donne sono sotto-rappresentate perché sono meno brave, a causa di una innata differenza legata al genere. A Sanremo, Francesco Renga si è inerpicato a descrivere una minor gradevolezza della voce femminile («una questione fisica») per spiegare il motivo per il quale c’erano in gara solo 6 donne su 24. A Roma, non c’è nessuno che si scomodi neanche a chiarire il perché, nella compagine di governo, ci siano solo 11 donne su 63. E quindi come mai a Palazzo Chigi vada peggio che a Sanremo. Il retroterra culturale, certo, può aiutare. Se di quello leghista s’è detto, per i Cinque stelle si ricorda come Alessandro Di Battista abbia scelto l’epiteto di «puttane» per insultare i giornalisti - un mondo, il giornalismo, nel quale le donne che firmano in prima pagina sono all’incirca quelle che governano a Kabul. Tutti «puttane», comunque.

«Per Di Battista è la parte femminile della stampa quella che si prostituisce. I giornalisti buoni sono veri uomini, gli altri si prostituiscono come fanno le donne» ha notato il blogger Lorenzo Gasparrini. Pur avendo portato in Parlamento una buona quota di donne, anche in M5S il modello resta maschile. E se la titolare della Difesa Elisabetta Trenta, dal palco grillino, rivendica la preferenza a farsi chiamare ministro, il pubblico le fa la ola. «Quando firmo una sentenza “la giudice” spesso devo spiegare il perché», ha raccontato la giudice Paola Di Nicola, in un incontro al liceo Socrate di Roma. Anche declinare il genere dei mestieri viene sminuito considerandolo un vezzo, ridicolo: «Sindaca e assessora fanno ridere soprattutto quelli per cui non è un problema che esistano fioraia e cassiera», spiega Di Nicola. La misura della difficoltà è la vicinanza delle donne al potere, in un mondo che pure ormai le contempla, ma fatica a trovare le parole per dirlo. E non facendo passi avanti, va indietro. Mentre Isoardi, che da fidanzata stirava («un venerdì da leoni»), da ex si selfa in abito da sirena con scollatura vertiginosa ( «Buon sabato sera ragazzi #saturdaynight #siesce», è il suo commento), e anche questo andrà messo da qualche parte.
http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/03/01/news/donnesindaco-o-sindaca-1.332226?fbclid=IwAR1jTXlsMAr-X1ihOEit2scLHkunBZ1BhktcbmYvEzpH2lpQrc0O6uJBO8o

lunedì 11 marzo 2019

Donne per la Chiesa: il DDL Pillon non ha nulla di cattolico

Con questo documento vogliamo espressamente occuparci del DDL 735 (Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità) presentato dal Sen. Pillon al Senato il 1 agosto 2018, che sta sollevando molte discussioni e generalizzate critiche da parte del mondo psicologico-giuridico e del diritto.

Il DDL si compone di 24 articoli e, nell’ottica di chi lo ha elaborato, dovrebbe garantire al figlio minorenne di coppie separate una più corretta applicazione della legge 54/06 sul cosiddetto affidamento condiviso, attraverso una serie di passaggi di una certa rilevanza, sulla scorta di un rigido principio di bigenitorialità.

Lasciamo a operatori più esperti e competenti i profili di critica agli aspetti psicologici, processuali, del diritto e della tutela effettiva delle parti più deboli del rapporto familiare.

In quanto donne e credenti ci interessa sottolineare un altro aspetto che attiene alle premesse culturali della riforma, più che alla regolamentazione che essa propone.

I proponenti (a partire dal senatore Pillon, eletto nelle file della Lega Nord) hanno in più occasioni ribadito le proprie radici culturali come cristiane ed in particolare cattoliche e hanno di conseguenza proposto e reclamizzato la propria azione politica, con ciò esprimendo una visione integralista sia della religione che del suo rapporto con la politica.

Questo fatto ci trova profondamente contrarie e ci induce a intervenire nel dibattito per contrastare con forza un atteggiamento che piega e riduce un pensiero ed una tradizione secolari e complessi alle idee di pochi, a poche idee, a idee che in gran parte appaiono in contrasto con il messaggio rivoluzionario e di misericordia che ci ha fatto innamorare ed iniziare un cammino che chiamiamo fede cristiana.

Prendiamo parola convinte che la nostra autorevolezza e il rispetto che pretendiamo derivino innanzitutto dall’essere donne.

Donne  che vivono  nel mondo, donne con figli e con mariti, donne senza figli e senza mariti, religiose, donne che hanno generato non fisicamente ma  nell’amore e nella dedizione agli altri o al proprio lavoro, donne che sono state sposate e non lo sono più, donne che hanno sposato  uomini che venivano da altri matrimoni o altre storie, donne che si sono a loro volta risposate;  pensiamo che la nostra credibilità  venga non solo da quello che diciamo, ma dal fatto che siamo donne reali, donne che hanno vissuto  sul proprio corpo cosa significa generare un figlio o scegliere di non generarlo,  stare accanto ad un uomo che ti ama e stare accanto ad un uomo che non ti ama più, siamo o abbiamo amiche sposate, single,  divorziate, separate.

Abbiamo l’urgenza e la forza, poi, dell’assertività che viene dall’essere donne di fede.

Fede vissuta, cammini iniziati, interrotti, ripresi, cadute e nuovi inizi, dubbi, domande, critiche, preghiera, ascolto, nessuna certezza ma anche impegno in piccole e grandi realtà parrocchiali e comunitarie, in mille forme di volontariato, nella carità delle piccole cose e delle grandi fatiche silenziose, fede che ci accompagna nella educazione dei nostri figli e nelle Chiese sempre più vuote e nelle Messe in cui vediamo, a dire il vero, molti pochi di quegli uomini che  invece si fanno forti sbandierando “valori cristiani” sulle pubbliche piazze.

Il substrato culturale del decreto parte innanzitutto da una immagine del tutto stereotipata della donna e dalla volontà di confinarla nel ruolo di madre e di moglie.

Noi crediamo, invece, che ogni essere umano sia chiamato ad una sua personalissima realizzazione (che è la tensione verso il divino presente in ognuno di noi) che si compie nell’amore per Dio e per i fratelli e le sorelle, ma che in ciascuno può trovare i modi e le manifestazioni più diverse: porre ostacoli alla vocazione di un essere umano, anche in nome del “valore della famiglia” significa frapporsi tra un’anima e il suo Creatore.

Invochiamo con forza la necessità di liberare il messaggio cristiano dai limiti culturali  del contesto in cui  avvenne la predicazione di Gesù e soprattutto denunciamo, con ancor più forza,  l’utilizzo  della religione come strumento di potere, nel nostro caso di  potere patriarcale che ha buon gioco nell’estrapolare e strumentalizzare alcuni  passi delle scritture per legittimare una condizione di inferiorità femminile che non può riferirsi al messaggio evangelico, ma che si ha estremo interesse a mantenere immutata.

Altro aspetto fondamentale è quello del rapporto tra uomini e donne nel matrimonio. Troppo spesso il profondo e sacro legame che nelle Scritture si auspica esistere tra uomo e donna (Marco 10, 6-9) viene interpretato non come unità, ma come proprietà l’uno dell’altro.

La conseguenza è che valori come la fedeltà e l’indissolubilità vengono a valere a senso unico e lungi dall’essere, come dovrebbero, i segni esteriori dell’amore unitario, diventano unicamente mezzi per l’esercizio di un potere, in un legame matrimoniale che non vede la dignità di un rapporto fra pari, ma egoismo, umiliazione e controllo.

Per quanto riguarda le proposte del decreto riguardo ai figli è evidente l'errore di prospettiva, adultocentrica, del prevedere obbligatori tempi di paritetica spartizione del figlio nel più totale oblio del suo vero interesse. Noi donne credenti sentiamo l’urgenza di manifestare la nostra contrarietà a questa visione che ferisce per la totale mancanza di rispetto per i figli, tramite la sottrazione della loro soggettività e riducendo la loro libertà di esseri che sono già persona in pienezza, ancorché bambini. Se perdiamo di vista questo valore, tradiamo la visione cristiana del rapporto di filiazione, e in generale dell’attenzione verso i più deboli oltre a valori etici che vengono ancora prima e attengono alla dignità e ai diritti della persona umana.

In conclusione se il pensiero cristiano, nella storia, si è reso colpevole di aver tramandato un ideale di femminilità fatto di docilità e passività, asseriamo con forza che non è questo il progetto di Dio sull’uomo e sulla donna, per come Gesù Cristo lo ha proposto nel suo Vangelo. La Chiesa ha troppo spesso scelto di mantenere il silenzio sulla violenza domestica, sull’abuso e sulla sottomissione, per preservare lo status quo, ma oggi che sta uscendo finalmente allo scoperto con una importante azione di verità sulle proprie colpe, non possiamo accettare che la società civile -che si appella ai principi cristiani- vada nella direzione opposta, riproponendo un modello familiare fatto di predominio maschile e subordinazione femminile.
http://www.donneperlachiesa.it/2019/03/08/donne-per-la-chiesa-il-ddl-pillon-non-ha-nulla-di-cattolico/?fbclid=IwAR1i2FLmRmDppddfDdr-W5f-1Ar5C8EDSfjf2hVOCD8BCW6LTOkv3NOi90Q

domenica 10 marzo 2019

Sabato 16 vi aspettiamo al Saloncino La pianta alle 21 per cantare insieme a The GOOD NEWS FEMALE GOSPEL CHOIR il diritto di essere quello che si è.

Un brutto vento cerca di spazzare via diritti acquisiti e di impedire la nascita di nuovi.

Mentre un disegno di legge contro l'omofobia è fermo in Parlamento dal 2013 aumentano gli episodi di discriminazioni, minacce, insulti, botte, violenze.

Ultimo assurdo atto lo "stupro a scopo educativo" da parte del padre della figlia quindicenne lesbica.




sabato 9 marzo 2019

“Se le nostre vite non valgono”: lo sciopero femminista invade l’Italia di redazione 8 marzo 2019

Per il terzo anno consecutivo lo sciopero femminista dell’8 marzo conquista le piazze di tutta Italia. Interruzioni dal lavoro, assemblee, azioni e cortei hanno composto una costellazione di pratiche e intrecciato le lotte dentro e fuori il mondo del lavoro.

Centinaia di città in 50 paesi in tutto il mondo, più di 40 solo in Italia si sono riempite di presidi, cortei, assemblee, azioni di lotta per lo sciopero femminista dell’8 marzo. Un’indefinibile esplosione di iniziative variegate che hanno trovato per un giorno convergenza e linguaggi comuni: vertenze sindacali per il miglioramento delle condizioni di lavoro; rivendicazioni generali per l’autodeterminazione e contro la dipendenza economica; mobilitazioni per il ritiro immediato del Ddl Pillon di riforma della separazione e dell’affido, contro il decreto sicurezza, per il diritto alla salute universale e per l’accesso all’aborto, contro la violenza di genere e i femminicidi. Lo sciopero di quest’anno ha posto al centro la guerra alle donne portata avanti dalla maggioranza di governo ma anche il razzismo istituzionale montante, due dinamiche che stanno diventando ormai tratto comune di molti governi a livello globale.

La giornata di mobilitazione si è chiude con un’invasione delle piazze di moltissime città italiane: più di 50mila persone hanno inondato Roma, 20mila a Milano, 10mila a Bologna. A Torino il corteo della mattina, autorizzato, è stato bloccato dalla polizia ed è ripartito solo per la determinazione delle manifestanti. Migliaia anche a Napoli, Pisa, Alessandria, Firenze, Benevento, Brescia, Salerno, Venezia, Cagliari, Catania, Fano, Genova, Grosseto, L’Aquila, La Spezia, Livorno, Lucca, Macerata, Palermo, Pavia, Pescara, Reggio Emilia, Salerno, Trento, Verona, Treviso, Padova, Lecce, Cosenza e in molte altre città. Nei cortei gli interventi dai camion alternano i motivi dello sciopero con esperienze di vita, rivendicazioni del movimento femminista con attacchi alle politiche sessiste  del governo. La denuncia degli abusi sul corpo delle donne si intreccia a quella della violenza economica, dentro e fuori i posti lavoro. Soprattutto, rimbalza l’emozione di abitare insieme lo spazio pubblico delle città e riconquistare protagonismo politico.

I dati che circolano sull’adesione allo sciopero parlano di una forte crescita rispetto allo scorso anno. In alcuni settori come la scuola, la sanità e i trasporti, l’adesione è stata altissima (fino al 70% in alcune regioni), determinando in alcuni casi la chiusura di molti luoghi di lavoro. Mezzi pubblici fermi o dimezzati nelle principali città. Una forte crescita nonostante l’ostinata e ostentata indifferenza dei sindacati confederali – quando non l’esplicito boicottaggio – e il sostanziale silenzio mediatico. Lo sciopero ha contato sul sostegno dei sindacati di base e indipendenti (come Usb, Cobas e le Clap) e sulla partecipazione di alcune organizzazioni di categoria locali della Cgil: eppure il successo dello sciopero nei posti di lavoro è stato soprattutto l’esito di una campagna di agitazione diffusa, che in modo molecolare in questi mesi ha attraversato il paese suscitando discussioni nei posti di lavoro e mobilitando le lavoratrici ben oltre l’appartenenza alle sigle sindacali.

Oltre i dati sull’adesione la caratteristica saliente e forse più significativa dello sciopero femminista è proprio il fatto di rivolgersi a coloro che non possono scioperare, a quell’invisibile galassia di lavoro di cura e informale, di lavoro gratuito e non riconosciuto che muove silenziosamente l’economia. Quest’anno, la scommessa politica è stata soprattutto quella di investire sulla diffusione delle iniziative e la moltiplicazione e l’apertura alle forme più svariate di partecipazione allo sciopero. Flash mob, cortei studenteschi, pedalate, azioni dimostrative, happening, speakers’ corner e lezioni in piazza. A Milano un’azione di fronte all’Agenzia delle Entrate, esponendo una grande banconota rosa, ha ribadito la necessità del reddito di autodeterminazione. Centrale la questione del reddito anche al presidio davanti al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dove si è tenuto un incontro tra Non Una Di Meno-Roma assieme ad alcune vertenze (Anpal, Istat, Sogesid, Sistri, Sky) e il vice di gabinetto nel Ministero. Al centro dell’incontro, le critiche alle misure economiche del governo e al carattere familistico, condizionato e discriminatorio nei confronti delle persone migranti del reddito di cittadinanza gialloverde.

L’opposizione al Decreto Sicurezza e alle politiche di chiusura dei porti ha attraversato tutte le mobilitazioni, mostrando il legame che esiste tra le forme di discriminazione delle e dei migranti ai confini prodotti, dall’interno, dalle molte facce della precarietà. A Roma, mentre davanti al Viminale un intreccio di nastri ha allestito un confine fittizio rivendicando libertà di circolazione, dal camion le madri dei ragazzi tunisini scomparsi in Italia ha riconosciuto nel corteo femminista uno spazio per far risuonare la loro battaglia.

A Pisa un concentramento mattutino di fronte all’Inail ha chiesto il riconoscimento delle malattie professionali causate dai forti carichi del lavoro ripetitivo. In Emilia Romagna le operatrici e gli operatori del sociale hanno animato uno sciopero regionale.

La giornata dell’8 marzo ha smesso definitivamente di essere quel rituale stanco e svuotato di senso. Quando tre anni fa la nuova ondata dei movimenti femministi ha voluto riappropriarsi della data trasformandola in un appuntamento per uno sciopero globale, sembrava difficile che quella sfida potesse riuscire. Possiamo dire oggi che per il terzo anno consecutivo quella sfida politica è stata vinta.

Ma lo sciopero dell’8 marzo non è solamente un passaggio di qualità per i movimenti delle donne. È anche una sfida lanciata dalla nuova onda femminista alla natura stessa dello sciopero. Con l’8 marzo lo sciopero smette di essere una proprietà esclusiva delle centrali sindacali per diventare una prerogativa – e un’arma – di tutte le sfruttate e gli sfruttati. Un punto di connessione tra il lavoro produttivo e quello riproduttivo, tra quello retribuito e quello gratuito e invisibile.

Mai come in queste giornate di lotta, le differenti dimensioni dello sfruttamento e dell’oppressione hanno trovato tanta visibilità e mostrato i fili spesso nascosti che le lega tutte insieme: per questo lo sciopero femminista è uno sciopero sta facendo saltare le barriere tra l’economico e il politico e i confini che separano le lotte all’interno dei singoli paesi. Da questa scommessa politica non possiamo più tornare indietro, ora che abbiamo visto che un nuovo internazionalismo e una nuova potenza delle lotte è possibile.
https://www.dinamopress.it/news/le-nostre-vite-non-valgono-lo-sciopero-femminista-invade-litalia/?fbclid=IwAR1OIjKVRBIOotpRf8hqLcjo_pUtLuQkJrnmN7RYta7ffN_QVyYIcgxNnT0



venerdì 8 marzo 2019

8 Marzo 2019 Giornata Internazionale della Donna In marcia per il cambiamento del mondo vi aspettiamo oggi alle ore 18 in piazza Duca d'Aosta a Milano sotto il nostro striscione.

Avremmo voluto per questo 8 marzo raccontare le storie delle donne che sono state capaci di rompere il soffitto di cristallo che faceva vedere le stelle, ma impediva al genere femminile di raggiungere il cielo.
Non possiamo ignorare però che in questo momento storico ci sono uomini che tentano di zavorrare le gambe delle donne per impedire loro di saltare e portare a termine la rottura definitiva del soffitto di cristallo che altri uomini in collaborazione con i primi cercano di richiudere.
E' questa la nostra chiave di lettura del Manifesto dal titolo” 8 marzo: Chi offende la dignità delle donne?” di Lega Giovani Salvini Premier di Crotone, ultimo di una serie  di altri atti che attaccano i diritti conquistati dalle donne in Italia e nel mondo.
Il Manifesto è stato scritto e rivendicato da Giancarlo Cerrelli che argomenta bene il pensiero che anima una certa parte di mondo maschile nell'intervista contenuta nel link allegato “Se tocchi donne, gay e migranti è un inferno” e nella parte conclusiva si autodefinisce “avvocato obiettore di coscienza del divorzio” (sic!.. ).
https://video.repubblica.it/politica/8-marzo-volantino-maschilista-segretario-lega-crotone-se-tocchi-donne-gay-e-migranti-e-linferno/328803/329397
Si commenta abbondantemente da sé questo manifesto farneticante e maschilista pieno di rancore verso le donne e le femministe in particolare che racconta quale modello di società, di donna, di famiglia questi uomini desiderano per il nostro paese.
Per fortuna sempre più donne, non solo femministe, conquistano il cielo,  raggiungono le stelle ed aprono varchi ampi e numerosi nel soffitto di cristallo.
Questi uomini che difendono privilegi patriarcali e vogliono riavvolgere la storia non riusciranno a cementare le nostre gambe e non ci riporteranno indietro.
Ci piacciono le parole che Concita De Gregorio rivolge ai giovani uomini che hanno fatto proprie le idee di Cerreti e vogliamo condividerle con voi (cfr. link allegato “Basta docilità. Vogliamo rispetto).
https://video.repubblica.it/politica/8-marzo-identikit-sessita-lega-crotone-concita-de-gregorio-basta-docilita-vogliamo-rispetto/328745/32933
Andremo avanti, continueremo a marciare per difendere i vecchi diritti e indicare quelli di nuova generazione. Conquisteremo il firmamento simbolo di uguaglianza e libertà infinita per le donne e gli uomini del domani che speriamo prossimo.

giovedì 7 marzo 2019

Cento donne medico contro il convegno che le escludeCento donne medico contro il convegno che le esclude

La ministra della Salute Giulia Grillo
La lettera alla ministra della Salute Grillo: "Vuoto imbarazzante, 4 professioniste su 29 interventi"

GINECOLOGHE, embriologhe e biologhe, spesso con cattedre universitarie o dirigenti di struttura: sono oltre 100 le esperte di fertilità che hanno firmato una lettera per chiedere che, quando si parla di salute delle donne, non siano proprio loro ad essere escluse. Il documento, che parla di 'vuoto imbarazzante' è indirizzato al ministro della Salute Giulia Grillo e a tutti i relatori previsti all'incontro 'La scelta di essere mamma', organizzato dalla Fondazione Pma Italia e che si terrà l'8 marzo, presso la sala Isma del Senato.

"Siamo un gruppo di medici e biologi che operano nella cura della infertilità, della salute della donna e della maternità", esordiscono. Il tema dell'incontro, proseguono, "è certamente importante per sottolineare le problematiche associate al basso tasso di natalità in Italia". Rilevano, tuttavia, che "in un evento dove si parla della scelta di 'essere mamma', inserito per di più  nella giornata della donna, ci sia un 'imbarazzante vuoto' femminile". Gli organizzatori hanno previsto, infatti, "solo una donna fra gli 8 relatori e hanno ritenuto di invitare alla tavola rotonda 3 donne e 21 uomini. Tra i relatori, inoltre, non vi è nessuna donna medico o operatrice del settore". Questa scelta, proseguono, "appare quantomeno curiosa dal momento che, nell'ambito delle terapie per l'infertilità, non sono certamente meno rappresentate degli uomini".


In conclusione, scrivono, "riteniamo fuori luogo nei confronti di tutte le donne, a prescindere dalla professione, il modo in cui è stato organizzato l'evento" perché "ancora una volta, sembra che gli uomini siano gli unici in grado di indicare le scelte che dovrebbero maggiormente appartenere alle donne".
https://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2019/02/27/news/cento_medici_donne_contro_il_convegno_che_le_esclude-220290522/?fbclid=IwAR2pbOVY6hzj6MIDKQXvob7q8pk3fy2uSHdf4MywWlwwZ2PBcfQI9z_XOvM