venerdì 27 febbraio 2015

Cecilia, avvocato di strada per restituire i diritti ai senza fissa dimora di Letizia Rittatore Vonwiller

Cecilia Capossela, 34 anni, un figlio di pochi mesi, Lorenzo, dal 2004 fa la volontaria nello studio legale più grande d’Italia. L’organizzazione «Avvocato di strada», nata a Bologna alla fine del 2000 e con sedi in tutta Italia, grazie all’impegno del fondatore e presidente Antonio Mumolo, offre assistenza legale gratuita a persone senza fissa dimora.
In che cosa consiste questa attività? «Trascorro due ore in un dormitorio di Bologna: dalle otto alle dieci di sera, quando i senzatetto rientrano per la cena dalla giornata alla ricerca di lavoro o altro, e aspetto che si facciano avanti con le loro richieste», spiega Cecilia che, nata a Benevento, vive dal 1998 a Bologna, dove si è laureata in giurisprudenza, si è sposata, e lavora come avvocato in uno studio privato di diritto civile.
Gli homeless sono persone che, non avendo una residenza, non sono riconosciuti dallo Stato e pertanto sono privati dei loro diritti fondamentali, come la sanità e la tutela legale. «La prima cosa da capire è se tutto quello che mi viene raccontato è vero o è frutto di fantasia. Controllo poi tutta la documentazione, quando presente – c’è chi arriva con lettere della banca di 10 anni prima, missive al presidente della Repubblica mai inviate, vecchissime carte d’identità. Faccio loro delle domande per capire di cosa hanno effettivamente bisogno. Importante è anche scoprire il loro servizio sociale di riferimento, come Sert (Servizi per le Tossicodipendenze), in modo tale da avere un referente con cui confrontarsi o a cui chiedere altra documentazione. A volte capita anche di avere di fronte dei mitomani o qualcuno che ha semplicemente bisogno di parlare o che è convinto di avere dei diritti che si rivelano infondati. La maggior parte però ha bisogno davvero di essere seguita per ottenere quello che chiede o che gli spetta. A differenza di come avviene negli sportelli, cui gli utenti si recano volontariamente, nel dormitorio è come se andassi a casa loro. A volte capita di incontrare senzatetto che sanno di aver bisogno di te, ma che sono arroganti: buttano le carte per terra, ti guardano storto, sono diffidenti soprattutto con le donne o ti rinfacciano di non fare abbastanza. La sfida, in questo caso, è smussare le asprezze e conquistare la fiducia».
Il primo passo nella tutela di queste persone è l’ottenimento della residenza, senza la quale lo Stato italiano non riconosce alcun tipo di diritto, tanto meno la tutela legale.
«Avvocato di strada ha dovuto affrontare una causa pilota contro il Comune di Bologna, per la tutela del diritto alla residenza che aveva negato a una persona senza fissa dimora» racconta Cecilia. «L’azione giudiziaria si è conclusa con il riconoscimento di tale diritto e con la condanna del Comune di Bologna al pagamento delle spese legali. A seguito della pronuncia del giudice, le persone senza fissa dimora, in tutto il territorio nazionale, oggi possono richiedere e ottenere la residenza anagrafica presso i dormitori, i centri di accoglienza, le associazioni, una panchina, basta che indichino l’ubicazione (piazza o via) e la fascia oraria in cui è possibile trovarli. Il risultato è ancora più importante se si pensa che l’iscrizione nei registri anagrafici è il presupposto imprescindibile per beneficiare dell’assistenza sanitaria nazionale, per esercitare il diritto di voto, per iscriversi alle liste di collocamento, per aprire la partita IVA e, in generale, per godere di diritti. Questa è stata una battaglia vinta dalla nostra associazione».
Le problematiche affrontate in diritto civile sono molteplici: ci sono padri separati che non riescono a mantenere la famiglia, perché magari hanno perso il lavoro, e sono costretti a vivere in strada, e che hanno però diritto a chiedere alcune modifiche delle condizioni della separazione; genitori non accuditi dai figli che hanno invece diritto al mantenimento; questioni di eredità; risarcimenti da infortuni sul lavoro; trattamenti economici inadeguati; assegnazione della casa comunale».

Ma la triade maternità-lavoro-volontariato è possibile? «Certo!», risponde Cecilia che nel periodo della gravidanza ha continuato a prestare servizio nel dormitorio. «Ora con la nascita e l’allattamento è più difficile, ma ho intenzione di ricominciare presto perché è un’attività che mi stimola. Vedo realtà che in uno studio legale tradizionale non affronterei mai, mi sforzo per trovare escamotage, risolvere questioni complesse», conclude. «E poi è bello quando riesci a vincere, a far applicare la giustizia e magari conquistare anche un equo risarcimento danni, com’è accaduto a una persona che aveva avuto un incidente su un mezzo pubblico. A seguito dell’azione legale ha avuto un risarcimento in denaro dei danni fisici subiti. Così è ripartita. A volte basta anche poco per ritornare alla vita».

giovedì 26 febbraio 2015

Coding: non è un lavoro per donne. Ne siamo certi? di stefania Medetti

Spesso ci arrivano per un cambio di carriera, ma sono ancora poche, se non pochissime, le esperte di linguaggi di programmazione. L’ostacolo, rivelano le star del settore, non è la conoscenza, ma la cultura dominante
Coding: non è un lavoro per donne. Ne siamo certi? Programmatore, sostantivo maschile singolare. Secondo una ricerca americana indipendente, le donne che si occupano di software a tempo pieno sono solo il 15% dei dipendenti di aziende tecnologiche. Nel mobile, i numeri sono ancora più esigui. Stando a “Q3 2012 Mobile Developer Report” dell’americana Appcelerator, le “coder” non superano il 4%. Insomma, per quanto le donne rappresentino oltre il 50% della forza lavoro negli Stati Uniti e quasi la metà dei “breadwinner”, una carriera nella galassia (ben pagata e coccolata) dell’informatica resta ancora un privilegio maschile. La matematica, in realtà, è solo una parte della storia: “È vero che le ragazze fra gli undici e i quattordici anni tendono a gettare la spugna quando il programma di matematica inizia a diventare difficile, ma in gioco c’è anche e soprattutto una questione di mentalità”, commenta dal suo studio in California Lynn Langit, data architect e technical trainer. Tendenzialmente, infatti, i maschi ricevono un’educazione che li stimola ad accettare gli insuccessi e a rimettersi in gioco. “Le ragazze, invece, sono educate a essere perfette e la ricerca di perfezione, molte volte, si trasforma in un ostacolo” (guarda il video che mostra come l'educazione crea discriminazioni di genere). Risultato, come la storia di Langit dimostra, le donne arrivano al coding di rimbalzo. “Ho iniziato a studiare il linguaggio di programmazione a 38 anni. All’epoca, lavoravo come manager di una catena di retail, ma ero immobilizzata a letto per una gravidanza a rischio e qualcuno mi aveva detto che il coding mi avrebbe permesso di decidere i miei tempi di lavoro e guadagnare bene”.
arriere contro ogni previsione
Cresciuta in un piccolo paese del North Dakota, Langit è stata la prima persona della sua famiglia a iscriversi all’università, da cui è uscita con una laurea in lingue. “Inaspettamente, è stato proprio questo titolo di studio ad avvicinarmi alla programmazione, perché ho pensato ai codici come a una nuova lingua da apprendere”. Da qui, il primo mito da sfatare: si può programmare anche senza conoscere la matematica. “La matematica ci rende programmatori migliori, ma la si può imparare a qualsiasi età”, assicura Langit che ha seguito 500 ore di lezione su Kahn Academy per colmare le lacune dei suoi studi. Anche Lise Bettany, una fra i developer mobile più conosciuti (ha firmato l’applicazione iOS Camera+), è approdata alla programmazione con una carriera avviata alle spalle: “Ho cominciato a lavorare come fotografa e modella, quindi avevo poca esperienza e molto da dimostrare, ma ero molto determinata a fare in modo di non essere ricordata solo per la mia faccia”. Bettany ha imparato tutto il possibile sulle app e si è occupata di ogni livello del processo di sviluppo per Camera+. “Ci sono voluti anni, però, per essere accettata nella comunità degli sviluppatori. Molte persone credono che, poiché sono una donna, sono responsabile solo per il marketing e la promozione”. Anche in Italia, conferma da Roma Francesca Corsini, 35 anni, programmatrice iOs: “Le donne non arrivano mai alla programmazione per scelta. Nel mio caso, per esempio, sono laureata in ingegneria meccanica e, nel 2009, ho accettato uno stage di programmazione che poi è diventato un vero e proprio lavoro”. 
I nemici della professione
Come Bettany ha avuto modo di sperimentare, il mondo del coding non accoglie le donne a braccia aperte. “Ci sono molti uomini e molto machismo”, sintetizza Corsini e Langit rincara la dose: “Per farcela, devi essere molto consapevole delle tue competenze. Nel mio caso, avendo superato la soglia dei cinquant’anni, devo anche fare i conti con lo stigma dell’età, in un mondo dominato da giovani”. Cosa ci vuole, dunque, per emergere? “Nel mobile, una grande idea ti porta fino a un certo punto. Le persone che hanno successo sono quelle che riescono ad aggregare i talenti migliori nel design, nel coding, UI e UX e producono qualcosa di cui la gente si innamora”, risponde Bettany. Da questo scenario di donne che ce la fanno, il nostro Paese è distante anni luce: “Le donne sono poche, pochissime”, conferma Davide Mauri, data architect e fondatore SolidQ. “È un problema culturale, forse anche di predisposizione naturale, ma fino a che non formiamo queste professionalità partendo dal basso, non lo sapremo mai”. 
In generale, il percorso più in salita resta quello nell’industria dei videogame, dove la cultura è pericolosamente e apertamente maschilista. Lo sa bene Brianna Wu, ex giornalista, sviluppatrice di videogame e co-fondatrice dello studio indipendente Giant Spacekat e autrice di “Revolution60”, un videogame per smartphone con protagoniste esclusivamente femminili. Pochi mesi fa, Wu è stata oggetto di minacce, stalking e doxxing (da “Dropping docs”, ovvero il rilascio di informazioni personali in rete da terze persone a scopo intimidatorio, ndr) da parte della comunità di sviluppatori di videogame: “C’è una fortissima corrente sessista che combatte le donne a colpi di minacce, bullismo e anonimato e il cui obiettivo è farle uscire dal giro”, ha raccontato a Msnbc Wu che, a differenza di altre colleghe, non ha nessuna intenzione di mettere le sue competenze di programmatore a disposizione di un altro mercato. “Bisogna cambiare la cultura, allargare la porta d’accesso alla programmazione, permettere a più persone che non siano solo ventenni immaturi di lavorare in questo settore”, conclude Langit che, ancora una volta, è passata all’azione con una library gratuita per insegnare linguaggi di programmazione agli studenti delle medie e ai loro professori in tutto il mondo.

martedì 24 febbraio 2015

Odile Decq «Un architetto donna? Sarai brava a disegnare cucine. Ho progettato musei» di Caterina Ruggi D’Aragona


«Quando comunicai a mio padre la mia intenzione di studiare architettura invitò a cena un amico architetto (uomo), che mi disse: “Una architetto donna? Buona idea. Potrà essere brava a disegnare cucine, perché le donne sono più pratiche”». Invece Odile Decq ha progettato banche (la Popolaire de l’Ouest a Rennes, il suo primo incarico importante, nel 1990, che le portò molti premi e pubblicazioni), musei (il Macro di Roma e il Frac di Rennes), ristoranti (quello dell’Opera Garnier di Parigi), padiglioni fieristici (a Lione)…. Versatilità che le è valsa il titolo di «Designer dell’anno», conferitole nel 2013 da Maison&Object, e il premio «Prix Femme Architecte» come migliore donna architetto di Francia. Una vera archistar.
Come è riuscita a vincere le resistenze paterne e quelle di chi non credeva che potesse diventare una progettista? «Se tuo padre ti dice “Non è un mestiere per donne” nasce subito la sfida». Che Odile Decq ha vinto. «Non sono sicura di esserci riuscita. Certo, so di essere diventata un’architetta, ma è un processo in continua evoluzione», dice con occhi sbarazzini cerchiati di nero, incastonati in una psichedelica acconciatura di capelli neri (il suo colore preferito).
Un’evoluzione ancora lenta, che pochi passi in avanti ha portato nell’inclusione femminile, anche in una professione che vanta da tempo illustri nomi di donne. «Quando cominciai c’era una donna ogni dieci architetti registrati in Francia. Erano i primi anni Ottanta. Oggi sono ragazze più della metà degli studenti di architettura, una percentuale che in Francia come negli altri Paesi scende sotto al 30 per cento di donne tra chi esercita la professione e non arriva al 10 per cento dei titolari di studi». Ecco perché Odile Decq crede molto nell’arcVision Prize – Women and Architecture, il premio internazionale riservato alle architette promosso dal gruppo Italcementi che quest’anno, per la terza edizione, collabora con WE-Women for Expo.
«Vogliamo che le donne diventino autrici dei loro lavori, responsabili dei loro progetti – sintetizza l’architetta – acquistando più fiducia in se stesse. C’è bisogno di visibilità anche per le progettiste affermate, per questo è importante che a promuovere questo riconoscimento, l’unico a livello internazionale, sia un grande gruppo industriale». La portoghese Ines Lobo, premiata l’anno scorso, ha ricevuto l’incarico di rifare il look alla piazza della stazione di Bergamo.
Ma si vede se a progettare un edificio è stata una donna? «Ho sempre pensato di no, nella convinzione che ogni architetto, maschio o uomo che sia, è diverso dall’altro. Ora ho cambiato idea: le donne pensano fin dall’inizio alla vivibilità, mentre gli uomini di solito guardano subito alla forma. Ma diranno che mi sbaglio». Diranno che Odile sbaglia anche quando dice che il problema non è delle donne, ma degli uomini. «Che hanno paura quando sentono di avere di fronte una donna forte». Parità ancora lontana?
Il valore aggiunto di quella «visione femminile capace di coniugare tecnologia e ambiente, materiali e forma, stile ed efficienza nella rigenerazione delle città e del territorio», evidenziata da Carlo Pesenti, Consigliere delegato di Pesenti Group, sarà messo in primo piano dal riconoscimento nato come costola della rivista arcVision. «Un impegno coerente con il nostro impegno allo sviluppo industriale non solo tecnologico, ma anche culturale e sociale», sottolinea Pesenti.
“Non premieremo l’opera più bella, né l’architetta più bella. Premieremo – spiega il direttore scientifico di arcVision Prize Stefano Casciani – la carriera di una progettista, un lavoro molto duro, difficile, in cui l’estetica rappresenta un piccolissimo coefficiente». Prima regola: le candidate devono presentare tra i progetti almeno un’opera realizzata. «Rendering bellissimi, soprattutto in Italia, spesso restano soltanto rendering», commenta Casciani.
A valutare l’impatto sociale dei progetti è una giuria di dieci donne. Cinque le architette: Odile Decq, appunto; Yvonne Farrell, cofondatrice dello studio di Dublino Grafton Architects; Louisa Hutton, socia fondatrice e direttrice di Suer
bruch Hutton e visiting professor alla scuola di design di Harvard; Martha Thorne, direttrice esecutiva del premio Pritzker per l’Architettura e vicepresidente della Scuola di Architettura e Design IE di Madrid; Benedetta Tagliabue, l’unica italiana, ma attiva a Barcellona. E cinque professioniste nei settori più vari: l’imprenditrice Shaikha Al Maskari; Vera Baboun, sindaco di Betlemme; l’attrice indiana Suhasini Mani Ratnam; Samia Nkrumah, prima donna a presiedere un partito politico nel Ghana; e, ultima arrivata, Daria Bignardi, tra le Ambasciatrici di We – Women for Expo.
Venerdì 6 marzo a Bergamo la proclamazione della vincitrice arcVision Prize – Women and Architecture, che riceverà un compenso di 50mila euro e l’opportunità di un workshop nell’i.lab, il centro di ricerca e innovazione di Italcementi Group a Bergamo.

lunedì 23 febbraio 2015

Ragazze oltre gli stereotipi, l'informatica non è solo per maschi di Barbara Sgarzi

Sono appena il 15% le studentesse italiane iscritte a corsi di informatica. La programmazione non era materia per donne, ma qualcuno cerca ora di fare la differenza. E l'Italia è seconda al mondo per numero di eventi di formazione organizzati, rivolti soprattutto a più piccoli. Poca teoria e molta pratica, meglio se in gruppo
GENDER GAP INFORMATICO
«Lavoro da tre anni come programmatrice e sì, qualche battutina sessista c’è sempre. Ma non mi scoraggio: so che è solo questione di tempo. E di vincere sul campo, mostrando le mie competenze», ammette Stefania Gabrielli, 31 anni, marchigiana trasferita a Bologna per studiare informatica. Per realizzare quello che era un sogno fin da bambina, ha lavorato un anno per raccogliere i soldi che servivano all’iscrizione universitaria.
Non si scappa: se già in professioni dove lo squilibrio di genere è minore le donne sono costrette a dimostrare qualcosa in più dei colleghi uomini, nel campo dell’informatica è praticamente un obbligo. Lo riassume bene Marta Mulas, sociologa che ha trasformato la sua tesi di laurea nell’ebook Maschiacci. La costruzione del genere nel lavoro informatico. «Ho intervistato molte donne informatiche tra Milano, Bologna e Cagliari e sono emersi elementi comuni. La diffidenza sulle loro capacità tecniche, che le porta a lavorare di più, stare in ufficio più a lungo. E la necessità di giustificare una scelta così particolare: molte mi hanno detto che fin da piccole erano appassionate di giochi e passatempi maschili, quasi ad ammettere di essere un po’ “strane”», racconta l’autrice.
PER CAMBIARE, PARTIAMO DAI BAMBINI
Una situazione che si può riequilibrare solo con un maggior numero di donne nel settore. Perché la realtà sta cambiando, ma lentamente: secondo i dati di Almalaurea, le studentesse iscritte a corsi di laurea del gruppo disciplinare scientifico sono il 34,8% ma la percentuale crolla per la laurea specifica in scienze tecnologiche e informatiche: 15,2%. Solo 29 laureate su 1.000 ottengono un diploma universitario di primo livello nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (contro 95 uomini su 1.000) e solo 4 su 1.000 lavorano effettivamente nel settore. Non parliamo di fare carriera: il 19,2% degli addetti del settore ICT ha un capo donna, contro il 45,2% in altri settori (dati dalla ricerca della Commissione Europea Women active in the ICT sector, 2013).
Forse anche per questo molte programmatrici, tra cui la stessa Gabrielli, sono mentor di realtà come CoderDojo, l’associazione che insegna ai bambini a programmare fin dai 7 anni. Spiega Barbara Laura Alaimo, co-fondatrice di CoderDojo Milano, pedagogista e madre di tre figli: «Per scelta, i nostri eventi sono aperti a maschi e femmine; pensiamo si possa entrare nel coding senza differenze di genere. Ma i dati ci dicono che fino agli 11 anni le bambine sono il 30% dei partecipanti. Dopo, il rapporto diventa di 1 a 5. Sarà interessante vedere se, negli anni, le ragazze aumenteranno, segno di un’evoluzione nella società. Per quello che vediamo, il blocco è sempre dei genitori, che pensano ai corsi di programmazione come a cose “da maschi”. Le bambine in aula sono molto interessate e prontissime ad assorbire la logica del pensiero computazionale, che è utile in molte discipline, non solo per programmare».
LA COSA PIÙ IMPORTANTE? CREARE DEI MODELLI POSITIVI
Non si tratta di far diventare tutti programmatori, certo, ma di far capire alla ragazze che una carriera in quel campo è possibile. Di avere un effetto di apertura e aspirazione come quello creato da Samantha Cristoforetti con la sua impresa spaziale, fatte le debite differenze. «Posto che il codice dovrebbe essere ormai visto come una lingua straniera, da inserire nei programmi ministeriali, il focus qui è più la creazione di un role model. Bisogna spezzare lo stereotipo che vede le ragazze indirizzate ancora e sempre verso studi umanistici. Ogni azione che le diriga verso le discipline STEM (acronimo inglese per science, technology, engineering, and mathematics) può essere utile», aggiunge Francesca Maria Montemagno, co-fondatrice di Pari o Dispare e nel coordinamento di Wister la rete al femminile che fa parte degli Stati generali dell’innovazione. E usa la parola magica: empowerment, trasferimento di competenze da donna a donna.
Quello che sta facendo Mariana Santos, visual storyteller e ricercatrice del Knight Center for Journalists, con le sue Chicas Poderosas. Un movimento per avvicinare le giornaliste dell’America Latina alla tecnologia e dare loro strumenti innovativi per esprimersi. Con un fiore sempre tra i capelli, gli abitini iperfemminili e una grinta inesauribile, è l’esempio vivente di come si possano conciliare competenze tradizionalmente maschili con il piacere di essere una ragazza.
NIENTE TEORIA, MA LEARNING BY DOING
Ma come si insegna a programmare tentando allo stesso tempo di abbattere il gender gap dell’ambiente informatico? «La lezione frontale non aiuta, la teoria neppure. Il mentor deve essere a fianco dell’allievo e a programmare si impara solo facendo, soprattutto in gruppo, confrontandosi, cercando gli errori, riprovando», riassume Barbara Laura Alaimo, che all’argomento ha dedicato un post molto letto e molto condiviso, Le 7 regole d’oro del mentor.
«Si insegna in modo semplice e divertente, proponendo modelli reali e tangibili e raccontando, con esempi e immagini, che l’informatica è già dentro le nostre vite, tutti i giorni», aggiunge Giorgia Di Tommaso, 24 anni, laureanda in informatica alla Sapienza e coach per la fondazione Mondo Digitale che a ottobre ha promosso una settimana di coding nelle scuole con la collaborazione della statunitense Girls Who Code. Girls Who Code vuole arrivare alla parità di genere nel settore informatico entro il 2020, formando un milione di ragazze, e per la settimana di full immersion romana ha inviato due insegnanti. «L’entusiasmo e il carisma di Elizabeth Caudle e Ashley Gavin, le due coach americane, ha contagiato tutte e il fatto che fossero così giovani (27 e 26 anni) e già così competenti ha fatto scattare l’identificazione. Le ragazze hanno capito immediatamente che c’è un modo diverso di vivere la tecnologia, non solo l’utilizzo passivo», aggiunge Di Tommaso. E lo hanno fatto in modo molto personale: «Ho seguito anche sessioni di formazione miste», aggiunge Cecilia Stajano, coordinatrice per Mondo Digitale «e ho notato che i maschi si sentono più sicuri, sentono il coding come il loro campo, ma forse per questo procedono per schemi fissi. Le ragazze, magari perché hanno meno aspettative, si buttano di più, propongono soluzioni creative. Perché tutti i giovani, com’è giusto, vogliono essere protagonisti. Con il coding possono dire la loro, diventare parte di un processo e di un risultato. Si tratta di un percorso di autoconsapevolezza; direi quasi che c'è qualcosa di filosofico.»
D’altronde, il codice è poesia, come recita il mantra di Wordpress e come teorizzò nel lontano 2002 Richard Gabriel, ingegnere informatico e ricercatore prima a Sun Mycrosistme e poi in Ibm, oltre che poeta. Nel manifesto di Paul Graham, programmatore, si legge che i coder si considerano artisti al pari di pittori e architetti. E nell’ultimo libro dello scrittore di origini indiane Vikram Chandra Geek Sublime, The Beauty of Code, the Code of Beauty si parla di codice tra linguistica, arte e storia. Siamo ancora convinti che un’attività del genere vada sbrigativamente etichettata come “da maschi”, evocando stereotipi di nerd occhialuti?.
UN’ORA DI CODICE PER CAMBIARE IL MONDO


domenica 22 febbraio 2015

Diventare ingegnere un gioco da ragazze di Tiziana Catarci e Annunziata D Orazio

La mancanza di ragazze nelle facoltà tecnico-scientifiche ha un costo economico e sociale molto alto, questo è ormai un dato di fatto di cui sono consapevoli anche i governi. Alla Sapienza alcune donne hanno cercato di capire cosa c'è che non va e cosa si può fare per cambiare
La scarsa presenza femminile negli ambiti scientifico-tecnologici è un problema presente in tutte le nazioni occidentali, tanto da indurre i governi di USA ed Europei a promuovere azioni specifiche. José Barroso affermava, da presidente della Commissione Ue, che ci sono circa 900.000 posti di lavoro vacanti in ICT in Europa e che con una percentuale femminile in ICT pari a quella maschile, il PIL europeo registrerebbe un incremento di circa 9 miliardi l’anno.
In Italia le donne ottengono risultati scolastici migliori dei maschi in tutte le materie – matematica compresa – ma sono solo il 23% degli iscritti nei corsi di laurea in ingegneria e il 38% nei corsi di area scientifica. Di questa fanno parte le ingegnerie, il corso di laurea in fisica e il corso di laurea in informatica.
Con riferimento in particolare ai dati relativi all'Università Sapienza di Roma, in linea con il dato nazionale, i corsi di laurea con la minor presenza femminile risultano quello in informatica e quello in ingegneria meccanica; risultano al di sotto della percentuale delle ingegnerie i corsi in ingegneria elettronica, informatica e automatica, elettrotecnica, della sicurezza, energetica, aerospaziale. Il massimo di presenza femminile si registra nell’ingegneria clinica, nell’ingegneria gestionale e nell’ingegneria per l'ambiente e il territorio.
Gli stereotipi di genere, infatti, e ancor prima il patrimonio profondo culturale ed emotivo acquisito in ambito familiare, definendo ciò che le persone sono e dovrebbero essere, condizionano sottilmente scelte e comportamenti, indirizzando le ragazze verso professioni “femminili”, convincendole della loro inferiorità in campo matematico e scientifico, e facendo percepire l’ingegneria, le scienze e la matematica come maschili.
Le ragazze sono una minoranza tra i diplomati che si presentano ai test di accesso alle facoltà scientifico-tecnologiche ed inoltre molte ragazze che ottengono buoni risultati nei test di ingegneria alla fine optano per altre facoltà, anche a causa dell’auto-svalutazione per cui sottostimano la propria performance successiva. Nella tabella sottostante sono riportati alcuni dati sulle/gli studenti dell'Università Sapienza che, pur promosse/i ai test di accesso, non si immatricolano al corrispondente corso di laurea. L’interpretazione dei dati non è agevole, perché molti studenti alla fine non si immatricolano in Sapienza, e dunque non si ha notizia delle loro scelte successive, e perché non sono note le motivazioni di ciascuna/o; si nota comunque (anche per i casi non riportati) che il dato femminile è sempre maggiore.
Infine ragazzi e ragazze perseguono fini universitari in parte differenti. I ragazzi si orientano verso facoltà con maggiori probabilità di occupazione e ritorno economico, le ragazze verso una professione che le gratificherà. Tale frattura lungo l’asse strumentale-lavorativo/progettuale-professionale fa sì che ragazze e ragazzi si indirizzino verso facoltà ritenute più idonee all’uno o all’altro obiettivo. Tuttavia, analizzando le motivazioni dei ragazzi e delle ragazze che scelgono le stesse facoltà si nota che queste coincidono; gli obiettivi e le aspettative che conducono alla scelta, anche per le facoltà a forte concentrazione di genere, non variano al variare del genere degli intervistati. Perciò tale concentrazione si ha perché, mediamente, maschi e femmine da un lato descrivono le facoltà in modo simile e dall’altro cercano nel proprio percorso cose differenti.
L’attribuire alle stesse facoltà, a forte concentrazione di genere, stesse caratteristiche è d’altronde effetto delle rappresentazioni (che daranno vita ai processi immaginativi e di identificazione per la scelta delle diverse facoltà) che di esse fanno le agenzie formative e che nascono da aspettative e attività ludiche del genere preponderante. Perciò nell’immaginario collettivo l’ingegneria meccanica è limitata a motori e Formula 1, l’informatica a videogiochi o hacker, l’ingegneria civile all’immagine di ponti imponenti e cantieri in deserti ostili; l’ambito di tali discipline è ovviamente molto più vasto, ma i richiami, che emotivamente risuonano e che per questo sono anche utilizzati nella “pubblicità” che le facoltà fanno di se stesse, si indirizzano ai giochi e alle fantasie del gruppo maggioritario, che conferma se stesso e informa di sé il luogo della formazione. Le ragazze affollano i corsi di laurea in ingegneria che al momento della loro comparsa, e in alcuni casi ancora oggi, si sono potuti considerare non tanto più “femminili”, in confronto ai tradizionali ambiti saturi di “maschilità”, quanto inediti, e perciò ancora non ascrivibili irreversibilmente a un genere: a suo tempo l’elettronica, poi l’ambiente e il territorio, oggi la biomedica.
In aggiunta, è ormai noto che successo e attrattiva sono connessi in modo opposto per uomini e donne. Se un uomo ha successo piace a tutte/i, se ha successo una donna a tutte/i piace meno; perciò il successo professionale deriva per gli uomini dal rinforzo positivo che ottengono a ogni passo, mentre le donne sono spesso considerate in modo sfavorevole (anche riconoscendo i loro risultati). Le ragazze, in assenza di rinforzi positivi legati non solo alla competenza ma anche alla loro “piacevolezza” in termini di relazione con gli altri, non osano scegliere facoltà connotate anche dal successo che è possibile ottenere nel mondo grazie ad esse.
In Sapienza, singole facoltà o corsi di laurea hanno intrapreso iniziative per incrementare la presenza femminile. Nell’ambito del progetto NERD (Non È Roba per Donne?) sono stati proposti seminari divulgativi alle scuole superiori, per mostrare alle studenti la natura creativa dell’informatica. Il progetto “La Nuvola Rosa”, ha realizzato molti corsi gratuiti per le ragazze delle scuole superiori sull'importanza delle competenze scientifiche per il loro futuro lavorativo e sugli stereotipi che non consentono una piena realizzazione professionale. Alle studenti con i migliori risultati nei test di accesso a corsi della classe industriale con bassa presenza femminile sono state erogate borse di studio. Giornate di celebrazione sono state dedicate ad alcune madri della scienza come Rita Levi Montalcini e Ada Lovelace. Queste e altre iniziative hanno tentato di favorire l’incontro con modelli femminili di successo, di contrastare alcuni stereotipi come l’hacker e il nerd nei quali le ragazze non si identificano e di mostrare come alcune aziende comincino a considerare strategica una significativa presenza femminile. Esse si sono perciò focalizzate sull’orientamento delle ragazze che durante gli ultimi anni di scuola si pongono il problema della scelta della facoltà.
Andrebbero implementate anche azioni che intervengano precocemente e a livelli più profondi, che implichino la collaborazione con le insegnanti di matematica e fisica, per portare a consapevolezza le/gli studenti degli stereotipi di genere, mostrare che il bagaglio di capacità tecnico-scientifiche è patrimonio anche delle ragazze, evidenziare attitudini in cui esse eccellono, come il problem solving, svelare la dinamica di auto-svalutazione alla base dei meccanismi di rinuncia. Poiché sentirsi adeguati a un compito (e desiderare di realizzarlo) è legato all’ambiente in cui ci formiamo (che ci trasmette gli stereotipi), è importante mostrare che le aspettative nei confronti di ciascuna non sono univoche e che una parte di mondo che le circonda (le ingegnere, le ricercatrici, le insegnanti e le docenti universitarie, le professioniste) autorizza le ragazze a orientarsi verso ambiti “maschili” e può garantire loro i rinforzi positivi legati sia alla competenza che alla loro “gradevolezza” per gli altri.
Di tali stereotipi di genere vanno rese/i consapevoli le/i docenti dell’ateneo, con seminari di formazione che svelino quanta parte attiva tutte/i abbiamo nella loro trasmissione.
Il primo passo è raggiungere il consenso sull’importanza del monitoraggio in ottica di genere, consenso ancora lontano dall’essere maggioritario. Interrogarsi sulle scelte delle ragazze, su esiti e modalità dei percorsi formativi, valutati anche per la diversa efficacia nei riguardi dei due generi, è una pratica ancora tutta da costruire.




venerdì 20 febbraio 2015

Sessismo nelle scienze? Gli uomini non lo vedono di Rossana Caviglioli

Una ragazza che sceglie di studiare matematica, astrofisica o geologia ha davanti a sé un surplus di ostacoli solo perché è donna. Il vero problema è però che la maggioranza dei colleghi si rifiuta di riconoscerl
Meno opportunità di lavoro, salari più bassi dei colleghi, un'alta probabilità di essere vittime di molestie. La vita delle donne che scelgono di svolgere lavori considerati “maschili” come l'ingegnere, l'informatica o la statistica è piena di ostacoli. Il divario non sembra diminuire, nonostante le numerose iniziative che vengono portate avanti soprattutto negli Usa, come il sistema di tutorato per le studentesse universitarie o le prime linee di giocattoli per bambine ispirati alle scienziate famose.
Tre ricercatrici dello Skidmore College, nello stato di New York, hanno deciso di scoprire perché la parità di genere nelle professioni scientifiche procede così a rilento. Sono giunte alla conclusione che gli uomini non si rendono conto – o non vogliono rendersi conto - che esiste un problema. E ritengono inutili, quando non dannose, le misure di compensazione proposte. Lo studio, pubblicato sulla rivista Psychology of Women Quarterly ha preso in esame le risposte dei lettori ad alcuni articoli pubblicati su New York Times, Discover Magazine e IFL Science. Si tratta di un totale di 1335 commenti, di utenti di entrambi i sessi, a pezzi che hanno come argomento la discriminazione nei confronti delle studentesse e delle lavoratrici del settore scientifico.
Le ricercatrici hanno constatato che anche di fronte a dati statistici difficili da smentire, gli uomini tendono a ignorare o addirittura giustificare il gap, accusando le donne di minore forza di volontà o di essere poco affidabili. Nel 67% dei commenti esaminati si ammetteva effettivamente l'esistenza di un problema. Peccato che il 70% di questi fosse scritto da donne. Un altro 10% di tutte le risposte, in grande maggioranza pubblicate da utenti maschi, negava il sessismo e il 22% (per più dell'80% provenienti da uomini) riconosceva la disparità ma la giustificava, adducendo motivi biologici o accusando le donne di farsi la guerra fra loro. Tutti i commenti che esprimevano gratitudine per aver sollevato la questione venivano da donne, mentre quelli che chiedevano un cambio di rotta (circa il 10%) erano ugualmente divisi tra i due sessi.
Il punto di forza dello studio, secondo le relatrici, è che analizzare i post su internet consente di prendere in considerazione anche opinioni “di pancia” che difficilmente verrebbero espresse in presenza delle colleghe, come quelle di chi invita le donne a «sperimentare in cucina» o che pensa siano «inaffidabili a causa delle mestruazioni». E che quindi fornisce una visione più realistica della situazione nelle aule e negli uffici. I risultati dimostrano anche che raramente leggendo i risultati di raccolte statistiche o di esperimenti scientifici si è disposti a cambiare la propria opinione. Lo ha fatto solo lo 0,5% del campione, distribuito tra uomini e donne, che ha scritto commenti come: «Accidenti! Ero convinto che ormai il gender gap fosse un problema superato!». Poco, ma pur sempre un inizio.



mercoledì 18 febbraio 2015

Rosarno, la giovane sindacalista che sfida i caporali di Antonello Mangano

In una delle stagioni più difficili per la raccolta degli agrumi in Calabria, centinaia di migranti vivono in capannoni abbandonati. Ma qualcosa si muove. Una giovane donna va nei campi all’alba e spiega ai raccoglitori i propri diritti. Sotto l’occhio dei caporali
Lo scorso 11 dicembre ha organizzato un corteo aperto dallo striscione «lavoratori italiani e immigrati insieme per chiedere diritti». Un percorso breve per unire due luoghi simbolo: la tendopoli e il capannone. Il primo è l’insediamento del ministero dell’Interno. E' ormai al collasso, ci vivono circa mille africani, dieci per tenda. Il secondo è un capannone abbandonato nella zona industriale fantasma. Senza elettricità e bagni, è occupato dai braccianti da qualche settimana. Un edificio senza infissi. Teli neri di plastica impediscono al freddo di entrare. La scala interna non ha ringhiera.
Ma una caduta non è il pericolo più grande. C'è il rischio di incendi, dentro ci sono decine di bombole a gas. Basta una fiammella e cento tende possono diventare torce. Insieme a coperte, cartoni, stivali e valigie.
Da una fontanella i lavoratori prendono l’acqua, ma probabilmente non è potabile. Il rischio sanitario è alto, commentano gli operatori di Emergency. «Ici c’est boutique», hanno scritto gli africani all’ingresso del negozietto che vende di tutto. C’è chi sopravvive con la fede, chi con l’ironia.
Celeste ci introduce nel suo ufficio. Ha ridipinto da sola le pareti della stanza. “Preferisco il giallo vivace, mette allegria”, spiega. Il 12 dicembre circa 150 migranti hanno partecipato a Reggio Calabria allo sciopero generale. «Per la prima volta decine di braccianti non sono andati al lavoro ma a una manifestazione per chiedere i loro diritti». Con lo stesso spirito, fa sindacato di strada. Da queste parti significa prendere un furgone e andare nei campi alle cinque di mattina. In un territorio storicamente dominato dai clan. Poi spiegare ai raccoglitori i propri diritti, sotto l’occhio dei caporali. E dei commercianti che usano i loro servizi, come dimostrano almeno quattro inchieste della magistratura. Il 18 dicembre, per la giornata del migrante, ha inviato Elisabeth Ndaye e Coumba Ndong, sindacalisti senegalesi. Anche questo un modo di globalizzare i diritti. La prossima sfida sarà quella delle vertenze. Far recuperare i soldi dai furbi delle campagne. “Aspetto quello che mi spetta da giorni e ogni volta mi dicono: richiama domani”, ci dice Steven, gambiano, che vive con altri sette compagni in una stanza del capannone.
Boubakar viene invece da Dakar. O, meglio, da Livorno. Faceva l’ambulante e viveva in un normale appartamento. Lo aspettano gli amici alla fine dell’inverno. È vittima di una truffa, quella della sanatoria come colf fittizio. Ma era l’unico modo di avere un permesso di soggiorno. Lo Stato gli sottrae cento euro al mese per un pezzo di carta. Anche lui vive al capannone.
I migranti che arrivano in Calabria possono essere divisi in tre categorie. I “rifugiati”, gli “operai” e i “napoletani”. I primi provengono dall’“emergenza Nord Africa” del 2011. Da anni vivono tra centri d’accoglienza, pratiche burocratiche per l’asilo e lavoro in campagna. Gli operai lavoravano nelle fabbriche del Nord e vivevano in normali appartamenti. Sono stati i primi a pagare la crisi e a cercare nuove opportunità in agricoltura. Infine tutti gli africani che vivono nell’area di Castel Volturno (che chiamano genericamente “Napoli”) e si spostano stagionalmente per le raccolte, ma anche per organizzare negozietti e servizi ai margini dei ghetti. Nel complesso, secondo i dati di Emergency, due migranti su tre hanno il permesso di soggiorno e dunque sono perfettamente regolari.
Appena arrivati, Rosarno sembra un paese come tanti. Invece è uno dei luoghi dell’economia globale. Collegato con il Brasile, la Russia e l’Africa. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti sono gli attori di un gioco che rischia di saltare.
La prima questione è l’embargo russo seguito alla guerra in Ucraina. A Rosarno si producono due tipi di agrumi. Clementine per i supermercati e arancia bionda da spremitura, quella che va a finire nelle aranciate industriali.
I mercati dell’Est, da qualche anno, sono uno sbocco importante per il prodotto locale da banco. La chiusura del mercato russo è stato un primo colpo. A questo si sono aggiunte le particolare condizioni climatiche. Un inverno stranamente caldo. I produttori sono esasperati, il Comune ha chiesto lo stato di calamità. Nel frattempo sono più di duemila i braccianti africani arrivati per la raccolta, molti dei quali qui per la prima volta. A loro si sommano bulgari e rumeni, in genere residenti sul territorio.
“Coca Cola è partner di Expo”, dice Coldiretti. “Usi le arance di Rosarno e le paghi a prezzi equi”. “Quattro anni fa l’amministratore delegato della multinazionale aveva incontrato l’allora ministro dell’Agricoltura Mario Catania”, dice all’Espresso Pietro Molinaro di Coldiretti. “Si era impegnato a potenziare l’attività in Calabria e a remunerare la filiera. Non ha fatto né l’uno né l’altro”.

Come funziona la catena in tutta Italia? Il produttore agricolo raccoglie le arance e le conferisce agli spremitori che, a loro volta, vendono il succo concentrato alle tre multinazionali monopoliste. I segretari della Cgil locale Celeste Logiacco e Nino Costantino evidenziano che il calcolo economico non può ignorare i diritti di chi lavora. Coldiretti si è detta d’accordo e ha coniato lo slogan “Coltiviamo gli stessi interessi”, che unisce italiani e migranti. “Con meno di 15 centesimi la filiera non è remunerativa”, evidenziano i produttori. E chiedono alle grandi aziende il rispetto della legge. Che prevede un minimo di frutta nelle bibite del 20%. Come se non bastasse, nel porto di Gioia Tauro, spesso arriva illegalmente succo brasiliano. Lo usano per “tagliare” quello locale.

martedì 17 febbraio 2015

Omosessualità e scuola: caro Bagnasco, io, lesbica, Le chiedo scusa se esisto di Rosaria Iardino

Caro Cardinal Bagnasco le chiedo scusa se la importuno con questa mia lettera. Mi rendo conto che il suo è tempo preziosissimo, fatto di preghiera e notevoli impegni istituzionali. Le chiedo scusa, ma mi consolo pensando che io non esisto e che, in quanto tale, le dovrei arrecare un disturbo impercettibile. Non ci sono in quanto lesbica. E a questa conclusione arrivo interpretando la sue ultime dichiarazioni.
In più, in quanto compagna di un’altra lesbica, può essere che nemmeno lei esista; e sempre stando alla sua santissima prospettiva, Cardinale, la stessa sorte potrebbe riguardare nostra figlia, avuta con la procreazione medicalmente assistita e per l’altra ragazza che vive con noi, avuta dalla mia compagna in un precedente rapporto eterosessuale, nemmeno santificato dal matrimonio.
Che loro non esistano, eccellenza, la ritengo una sua verità ed una considerazione che mi allontana dall’istituto che rappresenta, ovvero quella Conferenza episcopale italiana che da sempre osteggia il progetto “Educare alla diversità a scuola”, un piano da tempo proposto dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali ma mai decollato.
Ora il suo di ostracismo è espresso chiaramente in un video che circola in rete, in cui lei esordisce domandandosi se effettivamente i libri riguardanti questo progetto, che lei identifica considerandolo ispirato “alla teoria del gender”, siano scomparsi dalle scuole italiane. Non dovesse essere così, sventola il pericolo di “instillare preconcetti contro la famiglia e la fede religiosa”, o di “colonizzare le menti dei bambini e dei ragazzi con una visione antropologica distorta”.
Questa antropologia sbagliata sarebbe la mia? Allora faccio bene a considerare le sue affermazioni negazioniste sull’esistere stesso della sottoscritta. Voi però, Eccellenza, esistete. Esistono certi convegni che organizzate e che portano in cattedra “illustri” esponenti della ricerca clinico-universitaria, che mettono addirittura in dubbio la veridicità di categorie quali quella dell’omosessualità. Perché oltre ai sessi maschili e femminili – al di là della biologia – ritenete che non esista altro, e parole che sostanzino terze vie siano inutili, vuote, arrivando al paradosso che vuoto vi risulti pure il termine “eterosessualità”.
Caro Cardinale, convegni che mettono sul piatto simili fandonie hanno ragion d’essere? Ed hanno ragione di parteciparvi, tra gli altri, personaggi accusati di molestie su minori e che avrebbero avuto l’obbligo di vita solitaria e lontana da eventi pubblici? Evidentemente sì, perché tutto si è svolto sotto il plauso di centinaia di astanti ed altrettante urla, quando un giovane cattolico e gay ha provato ha sollevare qualche dubbio sul tema.
Vede Cardinal Bagnasco, nei piani di educazione alla diversità c’era semplicemente il proposito di spiegare agli insegnanti delle nostre scuole, affinché con coscienza di causa ne possano parlare ai propri alunni, che non sono vere le conclusioni di quel convegno; che non è vero che la sottoscritta è solo il frutto della “teoria dei gender” e che la mia famiglia è il semplice surrogato di quella chiamata “naturale”.
Cardinal Bagnasco, “spiegare” a scuola chi io sia, per me è molto importante. Prima di tutto è uno scatto di conoscenza verso il quale non capisco perché abbiate tutta questa diffidenza. In fondo mica siamo la negazione di Dio. E allora evitiamo di lasciare i nostri giovani nell’ignoranza; chiariamogli al meglio ciò di cui è fatta la natura – sia materiale, ma anche spirituale e morale. Diciamogli tutto.
Lo facciamo per loro, ma anche per noi, caro Monsignore. Perché non “spiegarci”, significa non riconoscerci; e chiunque faccia questo, consapevolmente, commento un peccato mortale. Non “spiegarci” rischia appunto di non “farci esistere”: sconosciuti al prossimo, significa essere sconosciuti alla società e finire in un’oscurità senza diritti, fatta di discriminazioni, di violenza e di razzismo.
Questo non può e non deve essere pacifico, perché per troppo tempo ci siamo nascosti e ora è il momento di venire fuori! So che lei, Cardinal Bagnasco, si augura il contrario, ma io spero davvero che i libri dell’istituto Beck, che avrebbero dovuto educare alla diversità, in un modo o nell’altro siano comunque finiti nelle mani dei nostri maestri e professori e che vengano utilizzarli.

Ma lei, caro Cardinale, non si dolga. In fondo, ai suoi occhi, questo è un incubo che non esiste.

lunedì 16 febbraio 2015

Un omicidio brutale, una risposta senza precedenti, così forte da costringere il Primo Ministro Ahmet Davutoglu a correre ai ripari e promettere interventi urgenti, mentre in Turchia c’è chi invoca il ripristino della pena di morte.

La morte di Özgecan Aslan, 20 anni, studentessa universitaria, ha sconvolto il Paese per le modalità e l’efferatezza e dato vita a un’ondata di protesta che ha portato di nuovo in primo piano con forza la condizione delle donne nel Paese. Tutto si è svolto la scorsa settimana. L’ 11 febbraio i genitori della ragazza, che studiava psicologia a Mersin, nel sud-est della Turchia, hanno denunciato la sua scomparsa alla polizia. In poco più di 48 ore, è arrivata la brutale verità. Özgecan si trovava su un minibus che doveva riportarla a casa, quando, una volta fatti scendere tutti gli altri studenti, l’autista del veicolo, aiutato da un complice, ha cambiato il percorso, arrivando in un luogo isolato.
Qui i due hanno cercato di violentarla, ma la ragazza si è difesa, rispondendo con gas urticante al peperoncino. A quel punto, la perversione sessuale si è trasformata in follia omicida e la ragazza è stata prima accoltellata e poi uccisa con una spranga.
Non solo. Uno dei due assassini le ha anche tagliato le dita e bruciato il corpo, in modo tale che non fosse possibile risalire al loro DNA. Una lezione appresa dalle decine di serie televisive su casi di omicidi irrisolti, faide familiari, veri e propri inni alla violenza, che vengono proposte dalle tv turche.
Gli assassini si sono poi presentati dal padre di uno dei due con il corpo carbonizzato, chiedendo di essere aiutati a occultarlo. Erano convinti di averla fatta franca, ma, nella fretta, si sono dimenticati di ripulire il pulmino dalle tracce di sangue, e soprattutto di fare sparire il cappellino che Özgecan
indossava e che è stato riconosciuto dalla famiglia venerdì. Nel fine settimana l’arresto dei tre, che ora rischiano pene severe.
La morte brutale della giovane ha dato come una scossa alle associazioni per i diritti delle donne della Mezzaluna che si sono riversate in piazza. Manifestazioni alle quali hanno partecipato migliaia di persone, per prime le compagne di università della vittima, che l’avevano vista sorridente per l’ultima volta sul pulmino della morte. Scandivano slogan che chiedevano più uguaglianza e rispetto e mostravano cartelli con la foto della vittima e la scritta “dimenticare è come uccidere”.
Centinaia di donne turche hanno sfidato l'imam di Mersin che aveva chiesto loro di stare in disparte durante la cerimonia funebre di Ozgecan Aslan, uccisa a vent'anni durante un tentativo di stupro. Tra le migliaia di persone presenti al funerale, infatti, le donne hanno disubbidito all'imam e partecipato alla preghiera funebre in prima linea, portando a spalla la bara di Aslan.
Quelle donne sono le stesse che adesso puntano il dito contro il governo islamico-moderato guidato dall’Akp, il Partito fondato dal presidente Erdogan e che guida il Paese dal 2002. Oggi in Turchia per protesta, milioni di persone indosseranno qualcosa di nero per ricordare la brutale morte della giovane e una situazione, quella delle donne, sempre più drammatica.
Dati inquietanti del Ministero delle Politiche Sociali, pubblicati negli scorsi giorni, hanno rivelato che 4 donne turche su 10 sono esposte a violenze fisiche o psicologiche. Il 38% delle donne sono state vittima di atti di violenza commessi in famiglia. Il 12% delle donne sposate e il 10% delle donne in gravidanza a violenze sessuali. L’89% non denuncia gli abusi a cui viene sottoposta, un po’ per paura un po’ perché non sa a chi rivolgersi, ed è per questo che secondo le autorità quello che si vede dalle statistiche sia solo la punta di un terribile iceberg.

 Il Premier Ahmet Davutoglu sconvolto dalla notizia della morte di Özgecan e preoccupato per l’influsso che le proteste potrebbero avere sul voto del prossimo giugno, ha promesso provvedimenti severi in tempi rapidi. E nel Paese è tornato in primo piano il dibattito se ripristinare la pena di morte per i reati più gravi, ipotesi sostenuta qualche anno fa anche dall’allora premier Erdogan. L’abolizione definitiva della pena capitale, nel 2004, era stato il lascia passare turco per l’avvio dei negoziati per l’ingresso in Unione Europea.   

domenica 15 febbraio 2015

Lesbica non è un insulto. Stereotipi, pornofantasie e repressione.

“Non sembri lesbica, sei così femminile”
“Per me le lesbiche possono fare come vogliono, basta che non ostentino la loro sessualità”
“Ma chi è che fa l’uomo tra voi due?”
“Magari è una fase…”

No, non è una fase. E non è nemmeno una moda.
Nessuna “fa l’uomo”.
Ostentare la sessualità spesso vuol dire anche solo baciarsi in pubblico.
Le lesbiche non hanno tutte i capelli corti, qualcuna si mette anche lo smalto.
Non bisogna per forza scegliere tra maschi mancati o pornofantasie per eterosessuali.
Di rappresentazioni femminili si parla spesso, analizzandone la mercificazione sotto un unico canone estetico, l’imposizione di stigma sociali. Queste rappresentazioni sono pensate e realizzate per lo più per uno sguardo attivo maschile, dunque in una prospettiva di attrazione eterosessuale, dominante nella propaganda sociale, ancor di più in quella mediatica.
Le donne rappresentate, 99 volte su 100 sono donne eterosessuali, o comunque percepite tali solo per il fatto di porle e spogliarle in funzione del piacere e del godimento di uno sguardo maschio.
Una donna lesbica subisce dunque un’ ulteriore marginalizzazione dalle rappresentazioni mediatiche e un’ennesima discriminazione nelle forme di espressione in cui viene ritratta.
Partiamo dal presupposto che per lo più le lesbiche “non esistono” ( e questo è anche il titolo di un riuscito documentario ), cioè sono per lo più invisibili o con una visibilità mediatica minima, sempre superate in ambito omosessuale dall’ apparente dominanza dell’uomo gay così come medium comanda.
Quando poi una donna lesbica si vede rappresentata, si ritrova cuciti addosso stereotipi che riguardano a tratti la sua identità femminile, a volte quella dell’orientamento omosessuale.
Se si uniscono danno vita normalmente al giudizio supremo: la troia anormale.
Quella che osa avere una sessualità fuori dalla “natura” del sesso fatto con la scusa della riproduzione e che in ogni modo sfugge al controllo patriarcale.
Ma partiamo dalle prime banalità.
Ancora oggi, la maggior parte delle persone crede che le lesbiche siano tutte maschiacce, abbiano i capelli corti, modi di fare considerabili “da uomo”, siano grezze, sfacciate, pelose. Tra i modi di fare “maschili” è incluso il bere alcolici, saper guidare, fare carriera. E che siano tutte acide, sagaci, incutendo un po’ di timore ai maschietti, proprio per una sorta di “invasione di campo”.
Tranne quelle dei film porno. Quelle no, non hanno un pelo neanche a cercarlo col microscopio, sono tutte molto femminili, fanno sesso sempre in pose a favore dello sguardo – maschile, certo, anche quello – di chi guarda, perchè in fondo non bastano neanche a se stesse. L’omosessualità femminile non estingue la considerazione delle donne quali oggetti sessuallesbo2i, ma semplicemente le porta su un campo di fantasie maschili differenti, ma che comunque hanno gli uomini come protagonisti attivi.
Le pornolesbiche esistono per eccitare le fantasie altrui. Maschili eterosessuali, ovviamente.
Per scardinare questi e altri stereotipi repressivi dell’identità delle donne lesbiche, un gruppo di donne ha lanciato un progetto fotografico dal nome “Lesbica non è un insulto”. Come racconta Martina Marongiu, una delle ideatrici, questo progetto nasce con l’idea di dare visibilità all’omosessualità femminile partendo proprio dai pregiudizi più diffusi e dimostrando, in alcuni casi, esattamente il contrario tramite le immagini, le foto, con scritte dirette ed esplicative.
Le foto ritraggono quindi corpi di donne lesbiche su cui scritte nere decostruiscono uno a uno i pregiudizi più comuni:
“Non tutte le lesbiche hanno i capelli corti”, “Con lei tocco il cielo con due dita”, “Non cercare chi fa l’uomo”, “Amo le donne non odio gli uomini”, “Sono lesbica e non è una fase”, “Non ostento, esisto”.
Martina ha scelto corpi nudi, esposti, perchè proprio il “corpo gioca un ruolo essenziale nella scoperta della propria omosessualità” e per questo ha voluto renderlo soggetto parlante proprio delle identità che contiene.
Attualmente il progetto è composto da 12 scatti, ma le artiste vorrebbero ampliarlo, anche grazie ai finanziamenti dal basso possibili con il crowfunding lanciato su bewcrowdy, dove si trovano tutte le informazioni circa la filosofia dell’opera e le sue ambizioni.
Una donna lesbica è spaccata a metà tra chi la immagina come un ometta pelosa e dal rutto libero e chi la sogna a realizzare le fantasie sull’ amore tra donne per maschietti.
Una donna lesbica deve lottare prima di tutto per esistere, poi per essere accettata, solo infine per capire i propri desideri, i propri sogni al di là di quello che le strumentalizzazioni le cercano di imporre. Fin qui sembra lo stesso percorso di una qualsiasi donna etero.
Solo che una donna lesbica per molti sarà sempre prima lesbica che donna.
E le sembrerà di doversi definire per sempre prima lesbica che donna, per rivendicare se stessa. La categorizzazione sessuale pesa ancora di più su chi viola “la norma”, che su chi la rispetta e magari si concede qualche trasgressione nel limite dell’emancipazione consentita.
Chiuse in scatole sempre più piccole, con etichette sempre più nette, come se non fosse possibile amare, fare sesso, inseguire i propri desideri fuori da un orientamento fisso e inequivocabile.
Perchè ogni infrazione alla “norma” deve essere catalogata e fissata perchè non sia nociva dell’ordine costituito, perchè sia controllabile e reprimibile.


venerdì 13 febbraio 2015

SABATO 14 FEBBRAIO TUTTE E TUTTI A MILANO IN PIAZZA DUOMO ORE 18

Traduzione di "Break the Chain" la canzone scritta per ONE BILLION RISING

 (Spezza la catena")

Alzo le braccia al cielo
In ginocchio prego
Io non ho più paura
Camminerò attraverso quella porta.
Cammina, balla, sollevati
Cammina, balla, sollevati
Vedo un mondo in cui tutti noi viviamo
Sicuro e libero da ogni oppressione
Non più stupro o incesto, o abuso
Le donne non sono un possesso
Non mi hai mai posseduto, neppure mi conosci
Non sono invisibile,
Sono semplicemente meravigliosa
Sento il mio cuore per la prima volta correre
Mi sento vivo, mi sento così incredibile
Io ballo perché amo
Danzo perché sogno
Danzo perché ne ho avuto abbastanza
Danzo per fermare le urla
Danzo di rompere le regole
Danzo per fermare il dolore
Danzo per sovvertire
E'ora di rompere la catena, oh yeah
Rompere la catena
Sollevati, danza
Sollevati, danza
Nel mezzo di questa follia, noi staremo in piedi
So che c'è un mondo migliore
Prendi le tue sorelle e i tuoi fratelli per mano
Raggiungi ogni donna e ragazza
Questo è il mio corpo, il mio corpo è sacro
Non ci sono più scuse, niente più abusi
Siamo madri, siamo maestre,
Siamo belle, belle creature
Io ballo perché amo
Danzo perché sogno
Danzo perché ne ho avuto abbastanza
Danzo per fermare le urla
Danzo di rompere le regole
Danzo per fermare il dolore
Danzo per sovvertire
E'ora di rompere la catena, oh yeah
Rompere la catena, oh yeah
Rompere la catena
Danza, sollevati
Danza, sollevati
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Danza, sollevati
Danza, sollevati
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Sorella non mi aiuti, sorella non ti sollevi?
Questo è il mio corpo, il mio corpo è sacro
Non ci sono più scuse, niente più abusi
Siamo madri, siamo maestre,
Siamo belle, belle creature
Io ballo perché amo
Danzo perché sogno
Danzo perché ne ho avuto abbastanza
Danzo per fermare le urla
Danzo di rompere le regole
Danzo per fermare il dolore
Danzo per sovvertire
E'ora di rompere la catena, oh yeah
Rompere la catena, oh yeah
Rompere la catena
Io ballo perché amo
Danzo perché sogno
Danzo perché ne ho avuto abbastanza
Danzo per fermare le urla
Danzo di rompere le regole
Danzo per fermare il dolore
Danzo per sovvertire
E'ora di rompere la catena, oh yeah
Rompere la catena, oh yeah
Rompere la catena

Sollevandoci in un miliardo

giovedì 12 febbraio 2015

ONE BILLION RISING REVOLUTION

In 207 nazioni nel mondo e in più di 100 città italiane il 14 febbraio 2015 si ballerà per dire basta
alla violenza contro le donne e le bambine
Torna per il terzo anno consecutivo ONE BILLION RISING
la campagna ideata da Eve Ensler che ha spinto più di un miliardo di persone
a danzare e manifestare contro le violenze subite dalle donne
Le Nazioni Unite stimano che 1 donna su 3 sul pianeta sarà picchiata o stuprata nel corso della vita. Questo significa un miliardo di donne e bambine. Per chiedere di porre fine a questa violenza, la scrittrice statunitense Eve Ensler, fondatrice del movimento V-Day e autrice de I monologhi della vagina, ha ideato la campagna One Billion Rising, dando vita, il 14 febbraio 2013, alla più grande manifestazione di massa nella storia dell’umanità: oltre 10.000 eventi in tutto il mondo, seguiti dai maggiori canali d'informazione (dal New York Times a The Guardian, dalla BBC ad HBO).
Dopo One Billion Rising (2013) e One Billion Rising for Justice (2014), l’appuntamento del 2015 è conONE BILLION RISING REVOLUTION, il 14 febbraio, sempre nel giorno di San Valentino: non fiori e cioccolatini, quindi, ma un vero atto d'amore, gioioso, celebrato dalle donne e dagli uomini che le rispettano, con la volontà di manifestare insieme per chiedere un mondo in cui le donne possano vivere al riparo dalla violenza e dall'abuso.
Nel mondo hanno aderito alla campagna 207 nazioni e in Italia saranno oltre 100 le città coinvolte: da Roma a Milano, da Genova a Bologna, da Lecce a Trieste, insieme a decine di realtà di provincia in tutto il Paese, da nord a sud, animate da una rete di associazioni e militanti che operano durante tutto l’anno sul territorio ma anche da scuole, università, istituzioni culturali. Tra le numerose associazioni nazionali aderenti alla campagna ricordiamo D.I.Re, Amnesty International, Fare Bene Onlus, Differenza Donna, Doppia Difesa Onlus, Arcilesbica, Arci Donna, Rete Se Non Ora Quando, CGIL Nazionale, Maschile Plurale.
DANZA E RIVOLUZIONE
Anche quest’anno al centro della manifestazione ci saranno la musica e la danza e le note dell' innoBreak the Chain, per spezzare le catene della violenza e dimostrare che si può farlo con gioia, in maniera politica ma con il sorriso. La danza è una delle più potenti forze sulla terra e noi abbiamo solo iniziato a sfruttarne il potenziale. La danza è sfida. È gioiosa e rabbiosa. È contagiosa e libera, fuori dal controllo di Stati e corporazioni. Abbiamo appena iniziato a danzare. Quest’anno dobbiamo andare oltre. Dobbiamo andare fino in fondo e arrivare al cambiamento.
Dobbiamo creare la rivoluzione.

Per maggiori informazioni sugli eventi italiani e per aderire alla campagna
http://obritalia.livejournal.com/
www.facebook.com/obritalia

www.onebillionrising.org 

mercoledì 11 febbraio 2015

Sisa, la donna che si finge uomo per non dover chiedere l’elemosina

“Quella della ‘signora Sisa’ è una figura epica. La sua è la storia esemplare di forza e vitalità di una donna egiziana che ‘vale cento uomini’, e che cerca con onestà di guadagnarsi la vita senza chiedere l’elemosina, andando oltre ogni limite imposto dalle tradizioni”. Così la racconta Muhssin Gud su Akhbar El Yom (settimanale egiziano fondato nel 1944).
Sisa ha dedicato tutta la vita alla sua unica figlia, Huda. Rimasta vedova durante il sesto mese di gravidanza, ha rifiutato di risposarsi e da subito, con la piccola ancora nella pancia, si è vista costretta a lavorare per mantenersi, nonostante avesse sei fratelli maschi in famiglia. Ma al tempo, nella comunità dell’Alto Egitto dove è nata, esistevano tradizioni che impedivano alle donne di lavorare: il modo escogitato da Sisa per aggirarle è stato allora di travestirsi da uomo, indossando un gelbab (abito lungo) di lana, una sciarpa e un cappello. Le sue mani delicate non le hanno impedito di fare lavori pesanti da uomo, come costruire mattoni all’interno del cimitero del villaggio, o fare il muratore: “Il lavoro è duro, ma mi dà la dignità”, è ciò che Sisa ripete sempre.
“La sua felicità era poter comprare alla figlia tutto ciò che desiderava – racconta Akhbar El Yom – Sisa ha subito molestie verbali da parte di tanti uomini, ma non ha esitato a reagire prendendoli a testate... ‘Ho rifiutato di chiedere l’elemosina finché non è cresciuta mia figlia, dice: ora che è sposata e ha cinque figli avevo pensato che era arrivato il momento di smettere di lavorare. Ma all’improvviso s’è ammalato mio genero e mi sono trovata a doverci andare di nuovo per aiutare la famiglia’”.
Sisa dice che la sua salute non è più come prima, per questo adesso, ormai traferita al Cairo, lavora come lustrascarpe, “un lavoro leggero giusto per non ridurmi a chiedere l’elemosina alla mia età: ho più di 64 anni”. “Mi sveglio un’ora prima dell’alba – racconta – faccio la preghiera e poi esco con la scatoletta per lustrare le scarpe. Rientro la sera, faccio cena e vado a dormire”. Sisa esce col suo gelbab tradizionale e la sua imama (sciarpa avvolta intorno alla testa) e gira nelle vie: “Nessuno qui conosce il mio segreto – dice – tranne Dio: ho la voce da uomo, l’ho acquisita durante il mio lavoro nel cimitero”.
“Ho fatto lavori difficili – conclude con soddisfazione – per non lasciare mia figlia senzatetto, e ovviamente questo mi ha fatto guadagnare il rispetto di tutti. Cosa mi manca? Vorrei una pensione per mio genero che è invalido e una piccola casa per tutti noi che ora siamo divisi, se fate qualcosa prego per voi. Ma prego per voi lo stesso, anche se non fate niente”. (Traduzione di Zahra Youssofi)

martedì 10 febbraio 2015

LE BAMBINE RAGAZZO DI KABUL di Lorena Cotza

Niima ha dieci anni ma ha già una doppia vita. La mattina indossa un vestito, si copre con l’hijab e va a scuola in uno dei quartieri più poveri di Kabul.
Il pomeriggio scopre il capo e indossa i pantaloni. Nel farlo, ogni volta deve cambiare anche nome e personalità. Sotto il nome di Abdul Mateen, si reca in un negozietto di verdure del suo quartiere e lavora svelta e silenziosa tra gli scaffali.
Per paura che gli altri si accorgano della sua femminilità, cerca di non incrociare mai lo sguardo dei clienti e di non parlare. La sua voce delicata potrebbe tradirla.
Lavora tutto il pomeriggio, portando a casa poco più di un dollaro al giorno. Non è molto, ma è indispensabile per aiutare le otto sorelle e sua madre.
Le bambine come Niima sono chiamate bacha posh. Il termine significa “vestita come un ragazzo” nel dialetto persiano Dari. La pratica è diffusa in alcuni parti dell’Afghanistan e del Pakistan, e ha origini antiche che risalgono all’epoca pre-islamica.
“Le bacha posh sono le ragazze segrete di una società profondamente conservatrice, dove gli uomini hanno in mano quasi tutti i privilegi e dove la madre di una bambina viene guardata con disapprovazione per non aver messo al mondo un figlio maschio”, spiega la scrittrice Jenny Nordberg.
Nel suo libro The Underground Girls of Kabul, pubblicato questo mese, Nordberg presenta i risultati e le testimonianze di cinque anni di ricerca in Afghanistan.
“Secondo gli insegnanti, le ostetriche e i dottori afghani, non è inusuale trovare una bacha posh in ogni scuola o in ogni famiglia allargata,” scrive Nordberg. “Le bacha posh si trovano in famiglie ricche o povere, istruite o analfabete, appartenenti a qualsiasi gruppo etnico dell’Afghanistan.”
L’unico elemento in comune è la necessità delle famiglie di avere un figlio maschio. La maggior parte delle donne afghane – nonostante i progressi raggiunti dopo la caduta dei talebani nel 2001– resta in una condizione di inferiorità rispetto agli uomini. Nascondere la propria identità diventa così una scelta forzata, per poter conformarsi a una società che garantisce diritti, privilegi e libertà soltanto agli uomini.
Ci sono bacha posh divenute tali per poter recarsi a scuola senza essere minacciate dai talebani o per poter accompagnare le sorelle, nelle aree in cui le donne non possono camminare in pubblico senza una presenza maschile al loro fianco.
In altri casi, le famiglie senza figli maschi devono far diventare bacha posh una delle bambine per poter presentarsi di fronte alla comunità come una “famiglia completa”. Questo è particolarmente importante per le madri sole, la cui vita quotidiana senza una presenza maschile può essere pericolosa.
La povertà è un'altra delle motivazioni principali: "La famiglia può aver bisogno di un figlio maschio che si possa muovere liberamente per poter lavorare e sbrigare commissioni”, sostiene la Nordberg. Mentre per le bambine sarebbe immorale lavorare fuori casa per vendere nelle bancarelle, la pratica è accettata per i bambini maschi.
Una tale fluidità nei ruoli di genere potrebbe sembrare paradossale in una società tradizionale come quella afghana. L’anomalia, in realtà, è solo apparente. Soltanto le bambine piccole sono autorizzate a vivere come bacha posh. Appena raggiungono l’età della pubertà, devono tornare a comportarsi da donne.
Nel giro di una notte, le ragazze devono rinunciare alle libertà di cui godevano e piegare il capo di fronte alle violenze – visibili e invisibili – a cui son condannate le donne afghane. In molte famiglie, questo significa essere sottomesse, sposarsi da giovanissime, obbedire ai mariti e dedicarsi soltanto alla cura dei bambini e della casa. Non possono guardare in faccia altri uomini e devono parlare con tono sommesso.
La transizione non è semplice e può lasciare profonde ferite psicologiche. “Avere conosciuto la libertà e averla persa non è una pillola facile da ingioiare,” sostiene Nushin Arbabzadah sul Guardian. “Ma questa è la natura inflessibile della società afghana. Non c’è spazio per la sofferenza individuale, perché quello che conta è quello che la gente pensa di una famiglia. E se una bacha posh può aiutare a guadagnare onore e rispetto, allora è giusto che sia così”.
Quello delle bacha posh è un fenomeno culturale sotterraneo, di cui poche donne hanno voluto parlare pubblicamente. Ci sono però stati alcuni casi celebri, tra cui quello di Bibi Hakmeena, figura politica attiva durante l’era dei mujaheddin. Ha vissuto tutta la sua vita come un uomo e non esce mai di casa senza il suo kalashnikov. In un documentario della Bbc Persian, Hakmeena ha spiegato che in Afghanistan “essere uomo o donna è come provenire da due pianeti diversi”, e che per questo preferiva vivere come un maschio.
Era stata una bacha posh anche Azita Rafhat, una delle prime parlamentari donna in Afghanistan. Al contrario di Hakmeena, lei ha scelto di ritornare al suo genere originale ed è diventata madre di quattro bambine. Proprio per il fatto di non avere figli maschi, si è però ritrovata al centro di pettegolezzi e ricoperta da insulti. Per questo ha deciso di imporre un nome da maschio e capelli corti a una delle sue figlie, tramandando la tradizione delle bacha posh a un'altra generazione.
Recentemente, alcune associazioni per i diritti delle donne in Afghanistan hanno iniziato a denunciare il fenomeno, definendola una pratica misogina che viola il diritto delle bambine ad avere una propria identità.
“Non si può far diventare una bambina un bambino per un breve periodo di tempo. È contro l’umanità”, ha detto Qazi Sayed Mohammad Sami, capo della Commissione dei Diritti Umani della provincia afgana di Balkh.

Secondo alcuni, però, la pratica non ha soltanto aspetti negativi: le bacha posh hanno il privilegio di vivere – anche se per poco – libertà che altrimenti non avrebbero mai avuto.

lunedì 9 febbraio 2015

Addio ‎AssiaDjebar‬


AssiaDjebar‬ lei aveva subito compreso che la partita dell’emancipazione femminile passava attraverso il corpo delle donne: “Per tutte, giovani o vecchie, in clausura o mezze-emancipate, la lingua resta quella del loro corpo: quel corpo che gli occhi dei maschi chiedono sia invisibile, finché non riescono a incarcerarlo coprendolo interamente; quel corpo in trance, danzante, che si adatta alla speranza e alla disperazione; quel corpo ribelle, in grado di leggere e scrivere, in cerca di qualche spiaggia sconosciuta come meta del suo messaggio d’amore”, spiegò con una prosa armonica la scrittrice algerina.Perché lei, mentre le cugine pensavano a mettersi il velo, imparava il francese e andava al liceo: nel 1955 va a Parigi, dove è la prima donna ammessa all’École Normale Supérieure de Sèvres. E nel ’58 è a Tunisi dove da un giornale locale denuncia il dramma dei rifugiati algerini. L’esordio letterario si intreccia poi con la guerra di liberazione algerina. Nello stesso anno sposa Ahmed Ould-Rouïs, membro della Resistenza Algerina, dal quale divorzia per poi sposare nel 1980 il poeta Malek Alloula.Nel 1962 è ad Algeri dopo la dichiarazione d’indipendenza algerina. Insegna Storia del Nord Africa presso la Facoltà di Lettere poi nel 1977 ecco l’esordio dietro la macchina da presa con La Nouba des femmes du Mont Chenoua, film in bianco e nero che vince il Premio Internazionale della Critica al Festival di Venezia nel 1979, dove si narra la vicenda di una donna che decide di tornare sulle montagne berbere del suo paese natale alla ricerca delle “Madri” che parteciparono alla guerra d’indipendenza algerina per ritrovare i suoni della “memoria strappata”. Con le recrudescenze dell’oscurantismo islamico che fa irruzione in Algeria negli anni ottanta, la Djebar si allontana definitivamente dal suo paese natale per trasferirsi negli Usa, in Louisiana, poi a Parigi, e ancora a New York: ironia della sorte proprio pochi giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001: “Quella mattina ero lì, a dieci minuti a piedi dalle Torri Gemelle, chiusa nel mio appartamento, senza televisione. (…) La mia prima impressione è stata che il dramma che avevo conosciuto in Algeria negli anni della violenza integralista fosse sotto i miei occhi in una versione più spettacolare”, spiegò la Djebar. “La cosa che più mi ha colpito, nei giorni successivi, sono state le fotografie dei dispersi appese dappertutto e, a partire dal quarto giorno, la disperazione dei parenti che capivano che non avrebbero più avuto indietro neppure i loro corpi. È stato allora che ho deciso di chiamare il romanzo che avevo appena finito La donna senza sepoltura”. Djebar è, infine, stata la prima donna di origine araba a far parte dell’Accademia di Francia nel 2006. “E’ una fortuna essere uno scrittore, perché la scrittura – e questo me lo prometto ogni giorno interiormente – deve essere risparmiata dal sangue e dall’oscurità della violenza”, disse in un’intervista a Giovanna Taviani. “Ancor di più oggi mi rendo conto che il compito della scrittura letteraria è proprio questo: lavorare su se stessi, sulla propria memoria, sul ritorno o sul non-ritorno”

domenica 8 febbraio 2015

Più numerose e (un po’) più potenti Per le donne qualcosa è cambiato di Maria Silvia Sacchi

I personaggi e le questioni aperte per leggere la mappa del nuovo potere femminile in Italia. Il nostro viaggio nel presente (e nel futuro) continua con un bilancio del tentativo di imporre un tetto di presenza delle donne nei vari ambiti della vita pubblica e professionale Ecco il risultato
Quando la creatività dialoga con l’impegno sociale il risultato è la denuncia e lo svelamento. Invisibili sono le artiste di strada fotografate da Marika Puicher. Dalle storie di “ordinaria resistenza” (a Taranto) alla crisi economica documentata attraverso scene familiari (in Sardegna ed Emilia), ai civili morti in Bosnia, gli scatti in 35 millimetri di Puiker incontrano le donne che hanno scelto un percorso artistico considerato esclusivamente maschile. Tra loro Allegra Corbo (foto sopra), creatrice di Popup, festival dell’arte underground ad Ancona. «Sono donne fuori dagli schemi, hanno scelto la galleria d’arte più democratica e più grande del mondo: la strada», dice Puiker, fotografa 35enne con un passato da educatrice in una casa di accoglienza per donne e minori. «Per vivere fanno le scenografe, le illustratrici o le graphic designer. Ma per strada c’è una dimensione umana, di relazione con il contesto e di interagire con le persone. La stessa emozione che ti dà il reportage fotografico». Nonostante la street art non sia più considerata solo vandalismo il loro lavoro resta spesso illegale. «Ho cominciato a ritrarle affascinata dall’illegalità. Volevo capire perché le donne sono meno degli uomini, perché restano sconosciute. L’adrenalina di pennelli e secchi, spesso fughe, sotto i muri è simile a quella di uno scatto per strada, anche non rubato. Ora tocca a me, provare con un progetto di street art fotografico». Foto: (Parallelozero)
La presenza femminile cresce dove è stata «forzata». Perché la diversità non è ancora entrata nella routine delle aziende. Ma il passaggio chiave è ora nel mondo della cultura, alla radice delle novità
Il monopolio dei posti di potere maschili si è rotto. Ma il cambiamento è ancora fragile.
Era il gennaio del 2008. In quelle settimane in Norvegia si stava dibattendo della volontà del governo di chiudere (nel senso proprio di non permettere più loro di operare) un centinaio di società che non rispettavano la quota del 40% riservata per legge nei consigli di amministrazione al genere meno rappresentato, le donne. Una decisione molto drastica. Ci si domandò allora in Italia cosa sarebbe successo alla nostra Borsa se si fossero applicati gli stessi criteri. Verdetto senza scampo: non una delle società avrebbe potuto restare in vita.
D’altra parte, il tetto del 40% era assolutamente «lunare» anche per le società più avanzate o per quelle che avevano donne nella famiglia proprietaria: le aziende quotate in Borsa viaggiavano in quell’anno su una media di donne che superava di un soffio il 5% e più della metà dei consigli di amministrazione esistenti era composto esclusivamente da uomini.
Pensare di avvicinare un nome femminile a società centrali nella vita economica e del potere italiano come Fiat, come Eni, come Telecom o Mediobanca o come le grandi banche era solo un esercizio di fantasia. Figurarsi la presidenza di un’autorità come la Consob, che controlla la Borsa. La presidenza di Confindustria, nel 2008, era stata il primo passo, rimasta a lungo una eccezione.
Terreno troppo ostico, l’economia e la finanza? La politica, che dovrebbe essere più vicina alle persone e, dunque, anche alle donne, non esprimeva un sentimento tanto diverso. Anzi. A fronte di una popolazione composta per metà da donne, nel 2008 le parlamentari italiane erano solo poco più di del 20% (con punte del 5% espresse dal Friuli o dell’11 e rotti di Sicilia e Calabria) mentre le parlamentari italiane in Europa avevano raggiunto quota 25% nel 2009 dopo aver galleggiato per diversi lustri tra il 10 e il 15%. Persino la scuola, terreno ad altissimo tasso di femminilizzazione, trovava una brusca caduta quando si arrivava all’università non riuscendo a superare la soglia del 20% dei professori ordinari donna.
Era solo sei anni fa.
«Bisogna prendere coscienza del fatto che siamo entrati in una fase nuova, che va consolidata ed estesa dove ancora ci sono resistenze — dice Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento Statistiche sociali dell’Istat —. Le donne stanno contando di più, soprattutto nella politica, da cui è venuta una forte accelerazione nel periodo più recente grazie a forme di regolamentazione o di autoregolamentazione che hanno portato non solo più donne ma anche a un ringiovanimento dei parlamentari».
Oggi le società quotate vedono la soglia del 20%, il Parlamento è per un terzo composto di deputate e senatrici, le italiane elette nel parlamento europeo sono a un passo dal 40%, il governo ha 8 ministre su 16 e nelle università ci sono 5 rettrici su 79, poche in percentuale ma ci sono. Quando alla Consob, è stata designata la prima presidente donna (Anna Genovese). Così come all’Agenzia delle entrate (Rossella Orlandi).
Una vera svolta, riconosce Monica Parrella, coordinatrice dell’ufficio per gli interventi in materia di parità e pari opportunità della Presidenza del consiglio. Ma una svolta ancora fragile. Perché la presenza femminile cresce prevalentemente là dove è stata forzata. Non a caso è nel 2009 che sono arrivati in Parlamento i progetti di legge da cui è nata la Golfo-Mosca che nel 2011 ha introdotto in Italia le quote di genere. Poi la doppia preferenza per le europee e le amministrative e in alcuni partiti.
«La presenza femminile non cresce in tutte le amministrazioni pubbliche, anzi in alcuni casi sta diminuendo — scrive Sabbadini nella presentazione del Rapporto sul benessere in Italia 2014, diffuso nei giorni scorsi —, a conferma di quanto sia importante garantire la presenza di meccanismi che condizionino il raggiungimento di certe soglie. Quanto più azioni e risultati innovativi, significativi e concreti corrisponderanno a questi evidenti sommovimenti, tanto più questa evoluzione potrà incidere sui valori di fiducia nelle istituzioni e negli altri, traducendosi in una forte spinta al rinnovamento per il Paese».
Attenzione, insomma, a non tornare indietro. In passato è già successo.
«Si è fatto molto — riconosce Maria Cristina Bombelli, fondatrice di della società di consulenza Wise Growth e grande esperta di carriere femminili — ma la diversità non è ancora entrata nella routine delle aziende. Stiamo facendo una ricerca sulla motivazione e sono convinta che emergerà che c’è un orgoglio da top manager di dover lavorare e di perseguire determinati risultati con modalità che non sono quelle femminili». Il «problema» sta nei modelli organizzativi: totalizzanti nel tempo e «che non lasciano possibilità di comportamenti diversi. Molte donne arrivate a un certo punto si domandano “Ma chi me lo fa fare?”. E non parlo solo di quando arriva un figlio, che acuisce sì le questioni, ma che rappresenta un periodo sempre più breve in una vita che si allunga. Sono le modalità di lavoro che non corrispondono tra uomini e donne. Tra l’altro, se avessimo un Pil elevato si potrebbe capire, ma siccome non è così forse bisogna usare leve diverse».
Proprio perché la sfera culturale è quella che poi, in definitiva, domina tutto, Maurizio Ferrera, professore ordinario di Scienza politica a Milano, sottolinea come negativo il fatto che mentre i numeri mostrano un progresso evidente in tema di presenza di genere, si senta la mancanza della presenza femminile nella cultura «importante per il potere ideologico che può esprimere».
Ferrera, che nel 2008 ha dato alle stampe quello che è una sorta di manifesto del lavoro femminile (Fattore D – Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia) incalza le attuali ministre: «Mi stupisce che in questa nuova congiuntura politica, che sarebbe più favorevole alla politica per le donne, non se ne parli nemmeno. In Germania — ricorda — il riorientamento è stato frutto dell’alleanza di due politiche come Ursula von der Leyden, della Cdu, e come Renate Schmidt, socialdemocratica, spalleggiate dalla cancelliera Merkel».
L’obiettivo di questi sei anni? Non certo la sostituzione di un nome femminile a uno maschile, di un monopolio all’altro, ma l’uso di tutti i talenti. Non è un caso che l’accelerazione sia avvenuta proprio negli anni della crisi economica peggiore. Vertici con una varietà di punti di vista e di età dovrebbero aiutare a modificare le organizzazioni. E finalmente rompere quello che è il vero grande problema italiano: il tasso di occupazione femminile. Sempre inchiodato al 46 e virgola. Eppure, conclude Ferrera, è una cosa ormai così scontata che più donne al lavoro produce un aumento del Pil, che si studia nei primi anni di università.
I numeri
Le società quotate
Dal 5,2% di presenza femminile nel 2008 sono arrivate al 18% a fine 2013. Con le assemblee della scorsa primavera si prevede un salto oltre il 20%. Designata una donna alla presidenza Consob.
Le società pubbliche
Dal 4% di donne nei cda sono arrivate al 17,2%. Nelle società non quotate che hanno già rinnovato il consiglio si è saliti al 23,8%. Presidenti donne per quattro gruppi pubblici (Eni, Enel, Poste e Terna). Nominata una presidente per l’Agenzia delle entrate.
La politica
Otto ministre su 16, 30,7% di parlamentari italiane (dal 20,3%), 38,9% di parlamentari in Europa (dal 25%).
Le organizzazioni
Prima segretaria generale per la Cgil (nel 2010). Confindustria: 3
vicepresidenti su 10, 1 presidente di comitato tecnico su 4, una direttrice generale.
Le prefette
Sono arrivate al 40% (erano al 33% nel 2010).