sabato 31 ottobre 2015

E' SUCCESSO DI NUOVO, ED E' ORA DI DIRE BASTA. di Paola Filippini

Premetto che ho contato fino a diecimila prima di scrivere queste parole. Ma non riesco a non dirle. E le scrivo qui, per una massima diffusione. Perché tutti devono sapere cosa accade al giorno d'oggi. Vi chiedo di prendervi un paio di minuti per leggere e condividere ciò che mi è successo, perché mi sento offesa e arrabbiata, e tutti, uomini e donne, devono sapere.
Questa mattina sono stata convocata per un colloquio di lavoro presso una nota agenzia immobiliare di Mestre che si occupa-anche-di affitti turistici. Sto cercando un lavoretto saltuario per arrotondare perché non sono ancora abbastanza brava e famosa per vivere di sola fotografia, quindi mi sono proposta come hostess per check-in per alloggi turistici, un lavoro che ho già fatto per tanti anni.
Lui, l'egregio Dott. M.M. si presenta all'appuntamento con 30 minuti di ritardo. Non fa niente. Ha una maglia verde lega, ma mi astengo da pregiudizi. Entro nell'agenzia, e dietro di me, sulla porta, un signore che parla poco l'italiano chiede di poter entrare a chiedere un'informazione. Lui, l'egregissimo M.M., lo secca con un “Torna dopo!”. Soppesando il suo grado di educazione e professionalità, lo seguo verso il suo ufficio.
Mi fa accomodare alla sua scrivania, ma non si presenta, non mi da la mano, non si scusa del ritardo, mi da del tu. Questa cosa mi da fastidio, ma anche qui passo oltre.
Prende un foglio prestampato. Questionario Informativo, c'è scritto. Inizia con le domande: 
Lui: “la tua data di nascita?”
io:“1-12-87”
Lui:“e quanti anni hai?”
io: “28” 
Lui:“dove vivi?”
io: “risiedo a Mestre”
Lui:“..mi serve l'indirizzo preciso”
io: “sono certa di averlo già scritto nel mio C.v.” sorrido educata.
Lui:“mi serve questa informazione di nuovo” (seccato)
io: “va bene, via ***”
Lui:“ok. Stato civile?”
io: “in che senso?” (oh no, sento già lo stomaco chiudersi)
Lui:“sei sposata? Convivi? Hai figli?”
Respiro “E' necessario che io risponda a questa domanda?”
Lui:“si, è necessario” (si sta agitando)
io: “posso non rispondere”?
Tenetevi forte.
Lui: “Certo. Allora ti puoi anche accomodare fuori, per me il colloquio finisce qui”.
Prende il Questionario Informativo, lo strappa davanti alla mia faccia con fare da vero uomo duro. Si alza, mi apre la porta.
“Non capisco,” dico io “perchè mi sta congedando in questo modo”
Lui: “Perchè tu mi devi rispondere alle domande, e se non mi rispondi il colloquio non può proseguire”
Io: “Non può proseguire il mio colloquio se io non le descrivo la mia situazione famigliare?”
Lui: “esattamente.”
Io: “mi può fornire almeno una spiegazione?” (cerco di insistere)
Lui: “Devo sapere se sei sposata e se hai figli, perché questo determina la tua disponibilità lavorativa”
Io: “mi scusi Dottore, ritengo che la mia disponibilità lavorativa esuli dalla mia condizione privata. Se vuole sapere quanto e quando posso lavorare, mi può semplicemente chiedere qual'è la mia disponibilità oraria”
Lui, ormai furibondo:“Io chiedo quello che mi pare, e se non vuoi rispondere non posso darti il lavoro. Ora te ne puoi anche andare”.
1...2....3......Vabe dai, ormai è fatta. Parto con le mie:
“Posso dirle una cosa? E' proprio per colpa di persone come lei che questo Paese sta andando a puttane. Perché se a una donna viene chiesto di dichiarare la sua situazione famigliare prima di chiederle quali sono le sue capacità, cosa sa fare e quali sono le sue aspettative lavorative, allora siamo proprio in un mondo di merda. Lei non sa che parlo perfettamente 3 lingue straniere, non sa che questo lavoro l'ho fatto per anni, che ho tanta esperienza e capacità. Lei non me lo ha chiesto. Mi tolga una curiosità, anche ai maschi chiede se hanno figli e se sono sposati quando fa loro un colloquio?”
Lui: “no, ai maschi non lo chiedo. Perché questo è un lavoro che ritengo debbano fare solo le donne”
Io (ormai balba): “Sul serio? Ma lei si sente quanto parla?”
A questo punto prendo la porta, ma prima di andarmene gli porgo la mano per salutarlo, professionalmente. Ma lui “no, non ti do la mano”
io: “e perché?”
Lei: “Perchè non voglio darti la mano, buona giornata”.
Sorrido, arrivederci, me ne vado. Torno all'ingresso, e lì, mentre sto per uscire, con gran classe mi urla dalla sua scrivania “spero proprio che troverai un lavoro!!”

Mi fermo un momento davanti alla porta. Non rispondo, semplicemente perché non è mio costume urlare alla gente da un ufficio all'altro. Chi mi conosce sa quanto sono Signora. Esco, e faccio un profondo respiro. Ho detto un decimo delle cose che avrei potuto dirgli. Perchè in quei momenti ti senti così male e così offesa che il cervello rallenta per l'incredulità. 
E allora: Caro piccolo uomo col maglione verde e il cazzo sicuramente minuscolo, nel tuo bellissimo ufficio hai incorniciato la foto di tua figlia, una graziosa ragazzina di circa 16 anni, che – per ironia della sorte – assomiglia tantissimo a me quando avevo la sua età. Prova a pensare, piccolo uomo con piccolo cervello e grande presunzione, quando un giorno non molto lontano, la tua piccola vergine figliola andrà a fare un colloquio di lavoro, ed incontrerà un piccolo uomo che le chiederà se è sposata, se ha figli, se convive, e che le sue risposte in merito alla sua situazione famigliare determineranno il suo successo lavorativo. Prova a pensare per un momento come può sentirsi una donna, quando le viene fatta una domanda del genere. E' offensivo, è bruttissimo, è una VIOLENZA. Perchè non importa se hai studiato, se hai lavorato tanti anni, se hai fatto gavetta, se hai un bel C.v.. Importa se hai figli. Perché se li hai, è meglio che tu stia a casa ad allattarli.

Ho scritto questo fatto su facebook, e lo racconterò a tutti. Perché le donne devono sapere che non si devono mai abbassare a queste offese, e gli uomini devono sapere che esistono tanti uomini di merda a questo mondo. Proprio ieri ne parlavo con alcuni colleghi, fatalità oggi mi è successo, di nuovo. Ho perso la possibilità di un lavoro, ma non mi importa niente. Ho salvato la mia dignità, ho mantenuto la mia privacy. La condizione della donna al giorno d'oggi è ancora molto difficile.
Sappiatelo tutti.

venerdì 30 ottobre 2015

Amo le donne feroci. Intervista a Erica Jong di Bia Sarasini

Cosa succede quando la paura di volare si trasforma nella paura di morire? Nessuno può rispondere meglio di Erica Jong, famosa da quando quarantatré anni fa fu pubblicato “Paura di volare”, il libro che ha raccontato in maniera indimenticabile cosa è stata la liberazione sessuale per le donne. Nel suo nuovo testo “Donna felicemente sposata cerca uomo felicemente sposato” (Bompiani, 277 pagine, 18,50 euro), la protagonista, che ha sicuramente più di cinquanta anni, ma non si sa quanto di più, incontra la protagonista di quel primo libro, Isadora Wing, e la interpella per alcune questioni non proprio secondarie. La morte, la malattia, l’invecchiare. La rabbia che ne viene. Sono le domande che abbiamo rivolto a lei, Erica, che in questi giorni è in Italia per presentarlo. Ironica, scoppiettante e combattiva, come sempre. Come le protagoniste dei suoi romanzi, che non si arrendono, che amano gli uomini, ma non per questo sono sottomesse.

Pensa che sia cambiato il modo di vivere l’amore, negli anni che ci separano dal suo primo libro?


«Non credo che l’amore cambi. Certo lo sparano i titoli delle riviste, che vogliono convincerci a tutti i costi, ma non è così. Come  sempre è molto difficile trovare una persona che ti capisce e che tu possa capire. Penso che la vita moderna sia folle nel decantare sempre il nuovo. Lo shampoo, la pasta, il vestito possono essere nuovi. Non i sentimenti. In realtà cerchiamo eternamente le stesse cose. Vogliamo legami. Vogliamo persone che ci fanno ridere. Come lo volevano i nonni, i genitori, o le sorelle, di loro lo so per certo, o mia figlia.


La vita delle donne però è cambiata. Anche grazie ai suoi libri


«Lo spero. Sono sempre molto felice quando mi viene detto. Mi riempie di gioia pensare di avere contribuito a rendere migliore la vita di tutte. Credo che Isadora possa aiutare le donne a parlare con sincerità dei propri sentimenti più profondi, a pretendere l’onestà dai partner e a esserlo altrettanto. Anche a essere abbastanza libere per potere parlare francamente, e cercare un lavoro di proprio gradimento.


E il mondo, quanto è cambiato?


«Non abbastanza.  Perché non è cambiato abbastanza per tutte le donne. Ancora troppe sono maltrattate, non hanno  accesso alla contraccezione, non posso vivere il loro piacere liberamente. Ho sentito raccontare di recente dello stupro di bambine molto piccole. Terribile»


Perché ha scelto di intitolare questo nuovo romanzo “Paura di morire”, questo il titolo della versione inglese?


«È stato il titolo che mi ha scelto, come il libro. Io penso sempre che sono i libri a scrivere me. Scrivo quello che sento di dover scrivere. Per finire questo c’è stata una gestazione molto lunga. La vita mi ha interrotto in continuazione. I miei genitori invecchiavano. Il mio cane è morto. Mia figlia ha avuto tre figli. Mio marito è quasi morto. È stato molto duro. Ero impegnata. Tutto il tempo cercavo di continuare a scrivere. Devi anche vivere».


Una delle cose tipiche dei suoi romanzi è che lei non parla solo alle donne. Gli uomini le piacciono molto. Cosa direbbe oggi ai suoi lettori?


«Non sei il tuo pene. Ci pensano troppo, davvero. Giuro. Ho molti amici gay. Ho cercato di capire, ho chiesto. E anche loro mi hanno detto: scherzi, non pensiamo ad altro. Non c’è speranza»


E alle lettrici, cosa le sembra importante dire oggi ?


«Tu sei molto di più di quello che pensi. Molto più appassionata. E feroce. Credo nelle donne feroci. Per esempio perché piacciono tanto figure come Cleopatra? Perché sono feroci, determinate, dalla forte sessualità. Lei voleva tutto, potere, uomini, figli. E questo ci affascina, anche adesso».


Anche in questo libro il sesso non manca. SI apre con la protagonista che cerca incontri in un’agenzia che ha il nome dell’invenzione di Isadora, zipless, senza cerniera, cioè il sesso libero, senza costrizioni.


«Scherzo sul sesso. Non c’è niente di meglio»


Ci sono battute memorabili. Per esempio quando la non più giovanissima protagonista dice “Non credevo che avrei più visto un’erezione”.


«È buffo, nessuno lo dice ad alta voce, ma è vero. Se ne parla tra amiche. Il senso dell’umorismo ti consente di dire ciò che è proibito. Ridi della morte. Che altro possiamo fare che non riderci sopra?».


.Pubblicato sul Secolo XIX il 20 0tt0bre 2015


giovedì 29 ottobre 2015

Ma quante siamo? di Cristina Carpinelli

Dicono che nel mondo ci siano sette donne per ogni uomo. Non è così, le donne sono meno degli uomini. Uno studio sulla popolazione mondiale spiega perché
Sulla base degli ultimi dati dell’ONU (United Nations. DESA.World Population Prospects, the 2015 Revisions), in questo momento sulla terra ci sono più uomini che donne: per ogni 100 donne ci sono, infatti, 101,8 uomini (in totale: 3,64 miliardi di donne contro 3,7 miliardi di uomini). Si stima che la popolazione mondiale sia diventata a maggioranza maschile a partire dal 1962. Da allora il divario di genere (a svantaggio del sesso femminile) si è sempre più allargato. Nel 2013 gli uomini superavano le donne di 58 milioni. Il fatto che ci siano più maschi che femmine è il risultato di vari fattori, di cui il principale è la discriminazione contro le donne. Tenuto conto che la maggior parte dei paesi del mondo ha più donne che uomini (se non altro per il fatto che, in genere, le donne vivono più a lungo degli uomini), lo squilibrio mondiale di genere esiste soprattutto a causa di due paesi e delle loro politiche “eugenetiche”: la Cina e l’India, due regioni molto popolose, dove sono diffusi gli aborti selettivi e l’infanticidio delle neonate. La Cina ha quasi 50 milioni di uomini in più rispetto alle donne e l’India 43 milioni.

foto: Pew Research Center

Tuttavia, uomini e donne sono diversamente distribuiti nelle diverse parti del mondo. Nei paesi Europei, ma soprattutto in quelli dell’ex Unione Sovietica, per esempio, ci sono molte più donne che uomini (Paesi superati soltanto da una piccola isola “francese” delle Antille, la Martinica, dove ci sono 84,5 uomini su 100 donne). Al contrario, il numero più alto di uomini in rapporto a quello delle donne lo si trova negli Emirati Arabi Uniti, in Paesi densamente popolati come India e Cina, e nel Western Sahara (Nord Africa). Negli USA, la divisione della popolazione in base al sesso è quasi paritaria, con un leggero squilibrio a favore delle donne (98,3 uomini ogni 100 donne). Questo dato è più o meno stabile dal 1950. Le quattro grandi economie emergenti che fanno parte dei BRIC (Brasile Russia India Cina, ndr) si dividono in tre gruppi. Cina e India hanno un forte squilibrio verso gli uomini, la Russia verso le donne, mentre Brasile e Sud Africa sono nel mezzo. A rilevare tutte queste informazioni è una mappa elaborata dal “Pew Research Center” (Gender ratios in 2015) sulla base dei dati ONU 2015. 
Ma perché negli ex Paesi sovietici ci sono più donne che uomini? Nell’ampio territorio, conosciuto come ex URSS, la popolazione è prevalentemente femminile da almeno la seconda guerra mondiale, e cioè da quando molti uomini sovietici morirono in battaglia o lasciarono l’Unione Sovietica per andare a combattere altrove (quasi il 15% della popolazione maschile in età riproduttiva perse la vita durante le guerra). Ad esempio, nella Russia sovietica, nel 1950, c’erano 76,6 uomini ogni 100 donne, mentre nel 1959, quasi quindici anni dopo la fine della grande guerra patriottica, erano rimasti solo 81,9 uomini ogni 100 donne. La distanza era ancora più ampia in altri Paesi dell’ex URSS coinvolti direttamente nella guerra come, ad esempio, in Ucraina, dove c’erano 79,7 uomini ogni 100 donne. Quel rapporto sbilanciato era andato, tuttavia, nei decenni successivi, equilibrandosi costantemente (attestandosi, per esempio, nella Russia di Gorbachev a 88,4 uomini ogni 100 donne), per poi mostrare dalla dissoluzione dell’URSS un’inversione di tendenza. Negli anni ‘90, comuni indicatori demografici dei Paesi transizionali dell’ex URSS, a seguito del passaggio dall’economia pianificata a quella di mercato, erano stati l’alta mortalità degli adulti maschi e la brusca caduta della speranza di vita sia per uomini che per donne (nella nuova Russia indipendente, fra il 1991 e il 1994, l’aspettativa di vita media era scesa di sei anni per gli uomini e di tre per le donne). 
Oggi (dato 2015), il gender ratio (uomini ogni 100 donne) nella Federazione Russa è di 86,8 uomini ogni 100 donne. Anche in altri ex Paesi sovietici si registrano rapporti di genere simili: in Lettonia (84,8), Ucraina (86,3), Armenia (86,5), Bielorussia (86,8), Lituania (85,3) ed Estonia (88,0).  
La maggior parte di questi Stati ha bassi tassi di fertilità rispetto alla media globale. Questo fattore è causa nel tempo di uno squilibrio di genere della popolazione, poiché gli anziani hanno maggiori probabilità di essere di sesso femminile, mentre i giovani di essere di sesso maschile (tendenza, peraltro, riscontrabile anche a livello globale). 
In più, i giovani maschi adulti hanno un tasso insolitamente alto di mortalità, e la speranza di vita maschile è più breve rispetto a quella femminile.
Ecco perché Lituania, Lettonia, Kazakistan, Bielorussia, Russia, Estonia e Ucraina sono fra i paesi al mondo con una più elevata popolazione femminile e con il maggior divario nell’aspettativa di vita fra uomini e donne. Un esempio per tutti: in Bielorussia ci sono 86,8 uomini ogni 100 donne; quest’ultime hanno un’aspettativa di vita di 77,0 anni, mentre gli uomini - di 65,3 anni, con una differenza di 11,7 anni.
Molti uomini perdono la propria vita per incidenti dovuti al tasso eccessivo di alcol, suicidi e malattie. Com’è noto, il consumo di vodka, soprattutto da parte dei giovani, è stato a lungo un problema nell’ex Unione Sovietica, ed è ancora oggi una delle principali cause di morti precoci. Solo la Siria, dove da quattro anni è in corso una guerra devastante, supera, per tutt’altre ragioni, i paesi ex sovietici, con un life-expectancy gap di ben 12,3 anni (maschi: 64,0; femmine: 76,3). In conclusione, gli ex paesi sovietici occupano 7 dei dieci posti con la più alta quota di donne tra i 126 Paesi del mondo mappati con più donne che uomini.
Nei paesi sviluppati dell’Europa occidentale, il rapporto tra popolazione femminile e maschile è più equilibrato (rispetto all’Est europeo), anche se le donne sono quasi sempre in numero maggiore rispetto agli uomini. Nel nostro paese (Italia), ci sono 94,6 uomini ogni 100 donne, un dato vicino a quello rilevato in Francia (94,8) e comparabile a quello di Germania, Grecia e Serbia. Qui il fattore che gioca a favore del genere femminile è la speranza di vita media solitamente più alta nelle donne che negli uomini. In generale, in questi Paesi, il divario di genere si è nel tempo ridotto in gran parte a causa di stili di vita e condizioni tra uomini e donne sempre più simili. Gli unici paesi europei dove sono presenti (seppure in numero statisticamente irrilevante) più uomini che donne sono Islanda, Norvegia e Lussemburgo.
In Cina e India ci sono più uomini che donne. Questi due Paesi sono noti per le loro pratiche di “femminicidio infantile”. In Cina, ci sono attualmente 106,3 uomini ogni 100 donne; in India - 107,6 uomini ogni 100 donne. Le politiche di riduzione della natalità di questi Paesi ha fatto sì che le prime rappresentanti dell’eugenetica per fini economici (oltre che demografici) fossero le madri: le figlie femmine sono un costo (dote), un peso (se non si sposano), non sono adatte per il lavoro pesante (campi, miniere, ecc.) e non tramandano il cognome e i beni di famiglia. Ecografie, amniocentesi e altri esami servono a quelle popolazioni per stabilire il destino di un feto: se è femmina, verrà sacrificata. Le autorità cinesi stanno ora provando a ridurre il divario numerico fra uomini e donne inasprendo le pene per gli aborti selettivi (quelli che si basano sul sesso del feto) e istituendo bonus per i genitori delle bambine nelle zone rurali del Paese.
Chiudiamo con i paesi del Medio Oriente (Arabia Saudita, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), dove la sproporzione tra uomini e donne, a sfavore di quest’ultime, è assai sensibile. Il Qatar è abitato, ad esempio, da 265,5 uomini ogni 100 donne, mentre gli Emirati Arabi Uniti - da 274 uomini ogni 100 donne (quasi tre volte di più). In quest’ultimo Paese (e in altri Stati limitrofi), sono arrivati negli ultimi anni molti lavoratori stranieri maschi (soprattutto dall’Asia meridionale), che sono stati impiegati nelle industrie e a cui non è stato consentito di portare con sé la propria famiglia. Infine, proprio in Medio Oriente - dove le donne sono pesantemente sottoposte al controllo comunitario e ai divieti religiosi - si evidenziano ben 6 Paesi con il maggior divario di genere tra i 69 Paesi del mondo mappati con più uomini che donne.

mercoledì 28 ottobre 2015

Gender Pay Gap, a che punto siamo di Manuela Mimosa Ravasio

È dal 1957 che se ne parla e, secondo le previsioni del World Economic Forum, se ne parlerà ancora per una ottantina d’anni. Il divario salariale tra uomini e donne, internazionalmente noto come gender pay gap, rischia di essere così la notizia più longeva della storia dell’informazione........leggi tutto
http://manuelamimosaravasio.com/gender-pay-gap/

martedì 27 ottobre 2015

Mighty Dolls: le bambole sessiste diventano donne modello di Rossana Caviglioli

L'artista canadese Wendy Tsao ha deciso di dare un nuovo look alle contestate Bratz, per farle somigliare di più alle donne reali. Le sue modelle? Scienziate, astronaute e premi Nobel

Mighty Dolls: le bambole sessiste diventano donne modello


Il restyling è drastico: via le extension, via il makeup eccessivo. E i vestitini da cocktail tipici delle Bratz vengono sostituiti da tute da astronauta, zaini e addirittura sciarpe da mago
È così che l’artista canadese Wendy Tsao crea le sue Mighty Dolls, bambole ispirate alle scrittrici, alle artiste e alle scienziate più famose della storia come Jane Goodall, Malala Yousafzai, Frida Kahlo.
«Scelgo le donne che ammiro di più. Sono loro che dovrebbero essere un modello per le bambine, non le principesse dei cartoni animati o le eroine di Hollywood», spiega.
Wendy dice di essersi ispirata al progetto di un’altra artista, Sonja Singh, che ha deciso di dare una seconda vita alle bambole usate progettando per loro un look più a misura di bambina, con abiti comodi e visi acqua e sapone.
«Nel mio caso ho pensato a come dovevano essere questi grandi personaggi da bambine. Ho immaginato ad esempio Jane Goodall giocare nel cortile di casa con il suo gorilla di peluche», racconta Tsao. «Non ho le prove, ma immagino che se un bambino gioca con la bambola di qualcuno che ha davvero una vita straordinaria, possa avere maggiore fiducia nelle sue possibilità, e magari seguirne le orme».
Wendy, che accetta anche lavori su commissione, progetta di mettere presto in vendita le sue bambole su e-Bay. Per chi preferisse il fai da te, suggerisce il tutorial dell’amica Sonja: perché giocare con la bambola di una scienziata famosa è già straordinario. Ma costruirsela da soli lo è ancora di più.

lunedì 26 ottobre 2015

Gender, ma di che cosa stiamo parlando? Conversazione con Francesca Pardi di Laura Porta.

Il grado di civiltà e di buona salute di una nazione lo si può misurare, come la temperatura corporea, attraverso la sua capacità di tollerare la presenza dell’intruso, dello straniero, del diverso. Lo scrive J.L. Nancy nel suo saggio “L’intruso’, lo osserviamo attraverso la buona riuscita delle politiche di integrazione e di supporto delle minoranze in tutti i paesi del mondo.
Accade che in Italia un decreto sulla ‘buona scuola’ promuova un programma di sensibilizzazione alle diversità, esso è teso a promuovere “l’insegnamento a carattere interdisciplinare dell’educazione di genere finalizzato alla crescita educativa, culturale ed emotiva, per la realizzazione dei princìpi di eguaglianza, pari opportunità e piena cittadinanza nella realtà sociale contemporanea”.
Inoltre esso auspica “alla promozione di cambiamenti nei modelli comportamentali al fine di eliminare stereotipi, pregiudizi, costumi, tradizioni e altre pratiche socio-culturali fondati sulla differenziazione delle persone in base al sesso di appartenenza e sopprimere gli ostacoli che limitano di fatto la complementarità tra i sessi nella società”.
Infine propone di affrontare “i temi dell’uguaglianza, delle pari opportunità, della piena cittadinanza delle persone, delle differenze di genere, dei ruoli non stereotipati, della soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, della violenza contro le donne basata sul genere e del diritto all’integrità personale”.
La versione integrale del decreto è leggibile qui
Insisto sul testo originale perché ciò che ne è conseguito sono state reazioni fobiche a qualcosa che è stato dipinto come un disegno di manipolazione di massa, che vedrebbe presunte lobby gay in complotto contro l’umanità intera per moltiplicare il numero di gay nel mondo e per deviare la sessualità dei nostri bambini. Reazione inverosimile per una società detta evoluta. Oppure verosimile per uno psicoanalista che ascolta, nel suo studio, un paziente in piena crisi delirante.
Come inviata speciale della Casa dei Diritti ho intervistato Francesca Pardi, che dal 2011 pubblica, con la casa editrice da lei fondata, libri per bambini che sensibilizzano al tema dell’accoglienza dell’omosessualità.
“È uno strumento che le maestre utilizzano volentieri, perché aiutano i bambini a mettere in parola le loro domande quando incontrano, tra i compagni di classe, bambini con genitori gay, oppure con due mamme o due papà”. In psicoanalisi sappiamo quanto tradurre in parole un problema, metterlo a fuoco, analizzarlo sia il primo passo per stemperare i mostri che esso può generare in termini di angosce, eccessi, immaginazione.
I libri di Francesca Pardi ci mostrano un mondo in cui le differenze possono coesistere e coabitare, in cui gli adulti sono coppie, gay o etero, che vigilano sulla propria serenità interiore e di coppia per garantire un ambiente famigliare sereno ai propri bambini.
Questo è il problema di fondo che viene dimenticato quando a proliferare è la fobia per l’omosessuale, il diverso, il pervertito (bisogna ancora ricordarlo, nel nostro paese, che l’omosessualità è stata cancellata dall’OMS dalla lista delle malattie mentali ben 25 anni fa?) non dovremmo, forse, piuttosto, preoccuparci di essere adulti responsabili, felici e capaci di trasmettere qualcosa ai nostri figli, qualcosa per cui valga la pena di vivere?
“Che poi un bambino con dei genitori omosessuali abbia un bagaglio in più da portarsi in termini di consapevolezza per proteggersi da eventuali attacchi per la loro condizione di diversità, questa è anche responsabilità degli adulti, è necessario creare una rete solida ed accogliente intorno a loro perché non siano loro a doversi far carico delle fobie degli adulti, ma affinchè vengano filtrate e metabolizzate preventivamente dai genitori”, continua Francesca, madre, insieme a sua moglie Maria Silvia, di quattro bambini.
Si apre così il tema enorme della sensibilizzazione alla diversità, la psicoanalisi ci insegna che ci fa paura ciò che è diverso, ma soprattutto ci fa paura ciò che, in noi, ci appare come estraneo, e dunque perturbante. Niente di più facile che rigettarlo fuori, sul ‘diverso’, come intollerabile tratto dell’altro, dell’estraneo. Questa la spiegazione, per la psicoanalisi, della reazione fobica nei confronti del gender, anche se non possiamo escludere, a monte, una manovra manipolatoria politica di diffusione del panico finalizzata unicamente all’accaparramento di voti.
Sensibilizzarsi alla diversità significa anche iniziare a pensare in termini di possibilità per tutti di esistere, con le loro particolarità, con le loro esperienze da portare e pareri da esprimere. Il che non comporta una Babele di orientamenti, ma la possibilità profonda della democrazia come condizione dell’esistenza, dove il rispetto e l’accoglienza procedono secondo logiche circolari e non piramidali o belliche. Il che, nel suo senso più profondo, è un’educazione alla pace come alternativa allo scontro tra fazioni, così tipico del sistema politico e sociale del nostro paese.
Sulla possibilità che un bambino possa modificare il suo orientamento sessuale perché influenzato dalla narrazione di storie o dall’essere messo a conoscenza di esempi alternativi al modello famigliare tradizionale, essa è di una tale ingenuità da disarmare qualunque persona di buon senso. La scelta dell’orientamento sessuale è inconscia ed insondabile, non è possibile stabilire una logica causale di ciò che la determina. Solo in un caso si può stabilire una correlazione tra comportamenti sessuali nell’adulto e sessualità infantile: l’incontro con il trauma. Aver subito una violenza o una molestia in età infantile, lo vediamo regolarmente nella nostra pratica clinica, è spesso origine di disturbi nel comportamento sessuale nella vita adulta.
Sfoglio i libri di Francesca Pardi, vedo famiglie di animaletti che vivono felici con mamma e papà, mamma e mamma, papà e papà, una sola mamma, un solo papà, animaletti adottati da altri animaletti. I colori sono tenui, le illustrazioni di Altan. Sono libretti per la prima infanzia, il tempo in cui le cose vanno spiegate con la massima semplicità. E il messaggio è questo: si può vivere felice laddove c’è serenità, rispetto, accoglienza, amore. Sono i questi i luoghi dove un bambino cresce sereno. Nessuna propaganda dell’omosessualità, solo l’illustrazione di storie possibili.
Siamo ormai giunti alla fine dell’intervista, e con mia grande sorpresa, Francesca estrae dal suo telefonino una copia della lettera integrale ed originale di Papa Francesco in risposta a una sua precedente lettera in cui, mandandogli i suoi libri, gli chiedeva gentilmente un parere per sapere se anche lui cogliesse in essi i segni dell’ideologia gender. Occorre fare una premessa: alcune immagini dei suoi libri sono state utilizzate ad un recente Family Day su volantini che mettevano in guardia in merito ad una presunta politica di propaganda che stava invadendo le scuole per diffondere l’omosessualità come inclinazione totalitaria nei bambini (sic.!).
Nella risposta il Santo Padre le scrive che è grato per il delicato gesto e per i sentimenti che lo hanno suggerito, auspica una sempre più proficua attività al servizio delle giovani generazioni per la diffusione degli autentici valori umani e cristiani.
Nessun complotto, nessuna propaganda, stiamo parlando di impegno a diffondere autentici valori umani e cristiani. Ancora una volta Papa Francesco ha dato prova della sua illuminata intelligenza.

domenica 25 ottobre 2015

Kerala, India: le raccoglitrici di tè vincono contro una multinazionale, e contro i loro uomini

Per oltre un mese le piantagioni di tè del Kerala, India meridionale, sono state il teatro di  un’agitazione mai vista. Migliaia di raccoglitrici hanno bloccato strade, assediato gli uffici delle piantagioni, fermato il lavoro, ma era molto più di una semplice battaglia sindacale: quelle donne erano in lotta contro i padroni delle piantagioni e anche contro i sindacalisti, contro condizioni di lavoro da schiavi, contro i loro stessi uomini, e contro l’indifferenza dello stato e dei media. E alla fine hanno vinto: sia aumenti di salario, sia soprattutto un po’ di voce.
La battaglia è cominciata ai primi di settembre. Le piantagioni di tè in India sembrano rimaste all’era coloniale, salvo che i padroni non sono più britannici: in Kerala sono ad esempio la Kannan Devan Hill Plantation (controllata dalla multinazionale Tata, proprietaria del marchio Tetley) o la Harrison Plantation, le più grandi di una cinquantina di aziende in Kerala.
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Le piantagioni di tè sono stupende alla vista, colline ondulate coperte di un verde intenso, ma lavorarci è un inferno: significa raccogliere foglie per lunghe ore, per una paga da miseria, e vivere nelle baracche messe a disposizione dall’azienda, baracchette di una stanza, senza gabinetto né altri comfort essenziali.
Le raccoglitrici sono per lo più donne e sono dalit (fuoricasta, o “intoccabili”: lo scalino più basso e discriminato della gerarchia sociale indiana). Per i loro figli non c’è scuola; i loro mariti fanno lavoro altrettanto malpagati, oppure si consumano con l’alcool.
La rabbia è esplosa quest’estate, quando la Kannan Devan Hill Plantation ha deciso di tagliare il bonus pagato fino ad allora alle lavoratrici – circa il 20 per cento su una paga di 230 rupie al giorno (pari a 3,5 dollari). Un giorno di inizio settembre un gruppo di lavoratrici ha deciso di formare un collettivo che hanno chiamato Pombilai Orumai, «unità delle donne». Quello stesso giorno a gruppi hanno camminato fino agli uffici dell’azienda, nella cittadina di Munnar. Chiedevano di ripristinare il bonus e anche di aumentare i salari; protestavano per lo sfruttamento del loro lavoro, le loro baracche senza cesso e la loro vita tanto dura.
I loro slogan però non erano diretti solo ai padroni delle piantagioni. Anzi, se la prendevano quasi più con i dirigenti del sindacato che in teoria doveva rappresentarle, riferisce il giornale web indiano Catch. Urlavano «Noi fatichiamo tutto il giorno, voi ci saccheggiate». «Noi portiamo foglie di tè nei nostri fagotti, voi portate pacchi di soldi». «Noi viviamo in minuscole baracche, voi vi concedete comodi bungalow».
Le aziende sono state colte di sorpresa, e anche i sindacalisti. Le piantagioni di tè non conoscevano agitazioni da tempo immemore, almeno da quando hanno trovato un accomodamento con i dirigenti sindacali, a cui garantiscono posti stipendiati e privilegi. Alcuni dirigenti sindacali sono diventati deputati al parlamento dello stato, altri sono di fatto parte di una burocrazia parastatale. Inutile dire che hanno sempre gestito le relazioni industriali in modo più che morbido. E pensare che il Kerala ha una forte tradizione di sindacalismo di sinistra, il partito comunista è stato al governo per decenni, e gli indicatori di sviluppo sociale sono tra i migliori in India – ma non per i dalit delle piantagioni.
Sta di fatto che quando i padroni delle piantagioni hanno chiesto a un ex dirigente sindacale – ora deputato comunista eletto a Munnar – di andare a parlare con le donne, queste l’hanno aggredito a colpi di sandali (pare che sia accorsa la polizia a salvarlo).
In breve, lo sciopero è cresciuto; alla fine circa 6.000 lavoratrici da numerose piantagioni, anche distanti, si erano riversate nella cittadina di Munnar, dove hanno assediato gli uffici delle piantagioni – e anche del sindacato. Negozi chiusi, la vita si è bloccata (per recuperare terreno, anche i sindacati allora hanno proclamato uno sciopero per aumenti salariali). La stampa indiana, che all’inizio aveva ignorato la storia, ha cominciato a parlarne.
Infine quelle lavoratrici senza nessuna esperienza sindacale, e spesso semianalfabete, hanno vinto – almeno in parte. Hanno costretto la Kannan Devan Hill (cioè Tata) a ripristinare il bonus. Infine hanno accettato un accordo per un salario di 301 rupie giornaliere: non sono le 500 rupie che loro chiedevano, ma è pur sempre un aumento del 30 percento. Forse ancora più importante, hanno costretto i rappresentanti delle aziende e i sindacalisti a fare i conti con loro.
«Hanno portato alla luce le terribili condizioni di vita e di lavoro in piantagioni ancora coloniali», commenta il quotidiano The Hindu. «Migliaia di donne dalit hanno … rappresentato se stesse in una coraggiosa ribellione contro il capitalismo e il patriarcato, inclusa una struttura sindacale dominata da uomini». Hanno chiamato in causa uno stato assente («le piantagioni sono mini-imperi … l’assenza dello stato è un’eredità coloniale»), sindacati apatici o complici, e un’industria delle piantagioni fondata sullo sfruttamento. (In settembre la Bbc aveva descritto una situazione altrettanto terribile nelle piantagioni dell’Assam, nel nord).
Revocato lo sciopero, ora il «Pombilai Orumai» vuole trasformarsi in un sindacato a tutti gli effetti, forse presentare candidate alle prossime elezioni locali. «Sappiamo cosa vogliamo», ha detto una delle leader della lotta, Lissy Sunny (a Catch). Sunny ha 46 anni e ha lavorato nelle piantagioni per 23 anni – metà della sua vita. «Siamo state costrette a lottare giusto per salvare le nostre vite. Lavoriamo 12 ore al giorno ma non avevamo niente, neppure del cibo decente. Vivevamo peggio del bestiame», dice. «Non abbiamo nulla da perdere. Fame e sofferenza sono parte delle nostre vite. Ma non permettiamo più a nessuno di sfruttarci. Troppo è troppo».

@fortimar

sabato 24 ottobre 2015

“La teoria gender non esiste”, il punto di vista dell’Associazione Sociologi di Vittoria Dolci e Federica Sterza

gender
"La Circolare del 15 settembre 2015 emanata dal Ministro Giannini spinge in senso positivo le scuole"
Nelle ultime settimane, con l’inizio dell’anno scolastico, si è sentito tanto parlare di “teoria gender”: ma di cosa si tratta? Italia-24news sta conducendo un’inchiesta per fare chiarezza sui termini della questione. Dopo aver raccolto il parere della professoressa Nicla Vassallo, ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Genova, abbiamo intervistato i membri dell’Associazione Italiana Sociologi (AIS): Elisabetta Ruspini (Università di Milano-Bicocca) e Claudia Santoni (Presidente Associazione Osservatorio di Genere).
Il dibattito è esploso a partire dal mese di luglio, in seguito alla conversione in legge della riforma “La Buona Scuola”. Da più parti è stata avanzata l’ipotesi che nel testo fossero presenti riferimenti all’ideologia di genere. Ecco cosa ne pensano i due sociologi che abbiamo ascoltato.
Cosa è la teoria gender?
La “teoria gender” (spesso chiamata, molto scorrettamente, “ideologia di genere”), termine sovente utilizzato nel dibattito pubblico e politico, manipola in senso ideologico alcuni concetti che sono stati assunti in senso positivo nelle Scienze Sociali. La “teoria gender” in senso ideologico non esiste; esiste invece un approccio scientifico sensibile al genere (gender-sensitive), che promuove la produzione teorica e la ricerca orientate a leggere ed analizzare le realtà storico-sociali in quanto abitate e plasmate sia da donne sia da uomini. Tale approccio si sofferma su relazioni, ruoli, differenze e diseguaglianze di genere e ha una storia scientifica assai rilevante. Studi, teorie e approcci sensibili al genere costituiscono parte fondamentale e irrinunciabile della conoscenza prodotta dalle Scienze Umane e Sociali. Studi e ricerche gender-sensitive sono un campo di studi scientifico riconosciuto, affermato e diffuso a livello internazionale (europeo ed extraeuropeo) e, lo ripetiamo, non un terreno di propaganda ideologica. L’approccio di genere problematizza l’identità sessuale naturalisticamente intesa, per cui il concetto di genere vuole indicare che non è la sola biologia a determinare cosa sia una donna oppure un uomo: la società e la cultura (attraverso l’azione di agenzie di socializzazione e istituzioni) influenzano e indirizzano la conformazione dei ruoli maschili e femminili. Il riconoscimento della dimensione di Genere (socialmente costruita) della realtà sociale permette di agire (con azione preventiva e correttiva) sulla costruzione del sistema di diseguaglianze basate sulla differenza sessuale.
Il ministro Giannini ha detto che tale teoria non è contenuta all’interno della riforma della “Buona Scuola”. Ciò nonostante si è creato un acceso dibattito sulla questione. Cosa a pensa a proposito?
La questione è complessa perché i documenti circolati in questi mesi sono stati molti: tale affastellamento ha prodotto disinformazione e generato ansie. In sintesi, ne La Buona Scuola, Legge n. 107 del 13 luglio 2015, viene specificato – in particolare all’art. 5 – che il piano triennale dell’offerta formativa deve assicurare l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra donne e uomini, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni attraverso azioni di sensibilizzazione e di informazione. La Legge 107 dunque, in sinergia con la nuova programmazione comunitaria 2014-2020, insiste sulla necessità che la scuola non sia solo un luogo di conoscenza ma anche uno spazio accogliente e positivo rispetto al processo di sviluppo dell’identità di genere. La scuola è tenuta ad insegnare l’educazione all’uguaglianza e questa passa anche attraverso l’eliminazione degli stereotipi di genere. In quest’epoca storica di aumentata complessità del contesto socio-culturale e di pluralità delle esperienze individuali, familiari e genitoriali è fondamentale che la scuola si costruisca sempre più come spazio pubblico di riflessione sul mutamento individuale e sociale. La Circolare del 15 settembre 2015 emanata dal Ministro Giannini spinge in senso positivo le scuole, nel rispetto della normativa vigente, a promuovere un’educazione finalizzata a contrastare di ogni forma di discriminazione basata sul genere.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stilato le linee guida per l’educazione sessuale nelle scuole, che in molti hanno associato alla teoria gender. E’ giusto considerarli tali?
Altra questione da chiarire riguarda le linee guida che l’OMS avrebbe emanato per l’educazione sessuale. Nel documento dell’OMS, ampio e articolato in quanto tratta le tappe della crescita sessuale nei bambini/e da un punto di vista scientifico, viene enfatizzata la necessità di promuovere l’educazione alla sessualità non solo parlando di pericoli e rischi ma anche sostenendo la visione della sessualità come dimensione identitaria determinante per lo sviluppo individuale. In linea con questa indicazione, ci pare necessario continuare a promuovere nelle scuole metodi didattici specificamente orientati alle specificità di genere che stimolino l’affettività, la paritaria relazione tra i generi e che consentano di costruire sul tema della sessualità una visione priva di pregiudizi. Le singole parti del documento dell’OMS fatte circolare on line e tolte da loro contesto generale di analisi non hanno alcun valore informativo e purtroppo generano un senso di paura e di smarrimento che va assolutamente ridimensionato e ricondotto all’interno di una discussione scientifica, formativa e non ideologizzata.


venerdì 23 ottobre 2015

Noi che non eravamo vere signore di Celeste INGRAO

Una cosa sola voglio dire in risposta alle cretinate di Alessandra Moretti.

Non siamo mai state austere e rigide e non abbiamo mai pensato di doverci mortificare. Siamo state allegre, appassionate, trasgressive, arrabbiate.
Ci siamo messe gonnellone a fiori, zoccoli, sciarpe, camicie di pizzo, minigonne. Magari anche quando, secondo i canoni, non ci stavano proprio bene: era anche quello un modo di affermare la nostra libertà. Perché quello soprattutto ci interessava: non “piacere” a tutti i costi ma affermare la nostra libertà.
Alcune fra di noi erano belle, molto belle, altre carucce, alcune bruttine.
Alcune ci tenevano all’eleganza, altre se ne fregavano.
Alcune frequentavano l’estetista, altre si limitavano a una cremetta da supermercato.
Ci siamo prese cura di noi ognuna a suo modo, nel modo che ci pareva più giusto per stare bene con noi stesse.
Abbiamo patito e ci siamo divertite, come succede nella vita.
Ci siamo anche divise, abbiamo litigato, furiosamente, ma mai per come andavamo vestite o per come ci acconciavamo i capelli.
Eravamo diverse e in questa diversità stava la nostra bellezza e la nostra ricchezza di donne.
Abbiamo subito molte sconfitte e conquistato grandi traguardi.
Abbiamo, almeno un po’, rivoltato la politica, costringendo tanti uomini a riflettere sulla nostra differenza.
Siamo state bellissime.
Ora siamo diventate vecchie.
Qualcuna, certo, si sarà un po’ intristita: succede quando si invecchia. Ma tante hanno ancora voglia di dire la loro e stanno sia fra quelle che si tingono i capelli sia fra quelle che preferiscono averli bianchi, sia fra quelle che si sono fatte un ritocchino sia fra quelle che mostrano tutte le loro rughe.
I tempi, come dice la Moretti, sono cambiati.
Mi consola però, se guardo alle mie figlie e a tante donne giovani come e più di loro, trovare la stessa varietà e la stessa bellezza che avevamo noi.
Non hanno tutte uno stile lady-like, ma va bene così.
Sono donne tutte diverse e sono bellissime.

giovedì 22 ottobre 2015

Le armi spuntate contro le unioni civili di Chiara Saraceno

Il ricorso all’utero in affitto è l’aspetto più controverso e più carico di problemi morali, sociali ed anche legali delle possibilità offerte dalle tecniche di riproduzione assistita. Interroga non tanto sulle capacità genitoriali dei committenti aspiranti genitori, quanto sui rapporti di potere in cui avviene (difficile che una donna senza problemi economici e con buone opportunità di vita presti il proprio corpo e tempo a produrre figli per altri) e sulla possibile mercificazione dei bambini.
E’ proibito nella maggioranza dei paesi dell’Unione Europea, inclusi quelli che riconoscono il matrimonio tra persone dello stesso sesso. E’ consentito invece in altri paesi, tra cui alcuni dell’Est Europeo, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, sia alle coppie – dello stesso sesso o di sesso diverso - sia ai singoli. E’ quindi considerato una questione separata dal riconoscimento delle unioni civili o del matrimonio per le persone omosessuali.
Fare, come sta succedendo in Italia, della condanna all’utero in affitto l’arma principale per opporsi al riconoscimento delle unioni civili è quindi un pretesto per opporsi non solo a qualsiasi riconoscimento della capacità e responsabilità genitoriale delle persone omosessuali, comunque si trovino ad avere figli, ma anche della loro dignità di coppia tout court. Così come non verrebbe in mente di proibire il matrimonio a due persone di sesso diverso a motivo della sterilità di una o entrambe, non verrebbe neppure in mente di proibire il matrimonio a due persone di sesso diverso solo perché potrebbero ricorrere all’utero in affitto per soddisfare il proprio desiderio di avere un figlio.
Eppure sembra che il ricorso a questo tramite sia diffuso altrettanto, se non di più, tra le coppie etero che tra quelle dello stesso sesso. Si può decidere di proibire il ricorso all’utero in affitto a tutti – singoli, coppie etero, coppie omo – senza per questo inficiare la legittimità di riconoscimento legale e sociale della coppia dello stesso sesso e della sua capacità generativa in senso non solo biologico, ma relazionale, affettivo, sociale. Giustamente si dice che ci si deve mettere nell’ottica anche dei bambini, dei figli reali e potenziali. Per crescere bene, questi hanno bisogno di avere qualcuno che faccia loro posto nel mondo, investa su di loro, ne abbia cura e coltivi le condizioni per la loro libertà. Distinguere, come si è sentito in questi giorni di affannose trattative tra chi si può eventualmente adottare – solo il figlio/a naturale del/della partner o anche il figlio adottivo? Solo il figlio di uno dei due o anche un bambino in cerca di genitori? – non è certamente dalla parte dei figli, perché consentirebbe ad alcuni di loro di avere due genitori, mentre condannerebbe altri ad averne legalmente solo uno, o nessuno.
Tanti anni fa un grande giurista minorile, Carlo Moro, aveva rilevato come la distinzione, rimasta in Italia fino al 2013, tra figli legittimi e naturali lasciasse questi ultimi singolarmente sprotetti dal punto di vista legale. Dopo aver tardivamente eliminato ogni residua diseguaglianza tra le due origini di nascita, nel caso dei figli con un genitore omosessuale si vuole reintrodurre una diseguaglianza ancor più grave: l’assenza di un genitore.
L’Italia è stata più volte richiamata sia dalla Corte Costituzionale sia dalla Corte Europea, sia dalla Corte per i diritti dell’uomo per la mancanza di riconoscimento dei diritti delle coppie dello stesso sesso. Se continuerà a tergiversare continueranno i richiami e le cause vinte dagli interessati. Lo stesso, sospetto, avverrà se passerà una norma che, per far valere un concetto univoco di capacità genitoriale discriminerà tra bambini. La lezione della legge quaranta sulla riproduzione assistita, progressivamente smantellata dalle corti perché discriminatoria e lesiva della libertà e dignità delle persone sembra non sia stata imparata abbastanza.

martedì 20 ottobre 2015

Quelle donne che volevano cambiare il mondo di Rita Di Santo

Cinema. «Suffragette» apre il London Film Festival, la storia del movimento femminista inglese con Carey Mullligan e Meryl Streep. Nelle nostre sale il prossimo gennaio, inaugurerà il Torino Film Festival 2015
Pren­dono a sas­sate le vetrine dei negozi di bam­bole, con pac­chi bomba fatti in casa fanno sal­tare in aria le cas­sette delle poste, pic­chiate a man­ga­nel­late dai poli­ziotti fini­scono in pri­gione, i mariti le cac­ciano di casa, per­dono lavoro, casa e figli. Le suf­fra­gette sono il sog­getto appas­sio­nate del film che ha aperto il Lon­don Film Festi­val –fino al 19 otto­bre e che aprirà il pros­simo Festi­val di Torino, 20–28 novembre.
Diretto da Sarah Gavron (Brick Lane) e scritto in col­la­bo­ra­zione con Abi Mor­gan (Shame, Iron Lady),Sufra­gette (nelle nostre sale il pros­simo gen­naio) rac­conta la sto­ria del movi­mento fem­mi­ni­sta bri­tan­nico e di alcune tra le sue pro­ta­go­ni­ste. Carey Mull­li­gan è Maud, ope­raia impie­gata in una lavan­de­ria della peri­fe­ria povera di Ben­thal Green,a East Lon­don. Come dice nella depo­si­zione di fronte ai par­la­men­tari di West­min­ster, figlia di padre ignoto, orfana a quat­tro anni, a sette si ritrova a lavare panni spor­chi per una delle più grosse lavan­de­rie della capi­tale. Ora ha 25 anni, spo­sata con un marito con­ser­va­tore (Ben Whi­shaw) anche lui impie­gato alla lavan­de­ria, vive in una una stanza, con un figlio pic­colo da man­te­nere. «Cosa importa a un’operaia come Maud del diritto di voto?» le chie­dono i par­la­men­tari. «Non lo so — risponde lei timi­da­mente — Non ho mai pen­sato che potesse acca­dere». E poi bisbi­glia: «Ma forse è possibile».
Le diverse sto­rie di donne si avvol­gono, in una strut­tura nar­ra­tiva com­patta da cui emerge il com­plesso pro­cesso d’emancipazione. Ragio­nato nella scrit­tura, risolto senza comizi o tro­vate spet­ta­co­lari, il film segue soprat­tutto le sto­rie d’ineguaglianza dell’epoca. Nella lavan­de­ria lo sanno tutti che il pro­prie­ta­rio abusa ses­sual­mente delle ope­raie, le ado­le­scenti sono le vit­time più fre­quenti. A casa i mariti ubria­chi pic­chiano le mogli, al lavoro a parità di ore, il sala­rio degli uomini è sem­pre il dop­pio, e nella fami­glia sono ancora loro a eser­ci­tare un diritto totale sui figli.
Maud è dop­pia­mente schiac­ciata, è povera ed è suc­cube del marito. La sua coscienza si risve­glia gra­zie alll’ amica atti­vi­sta Vio­let. Attra­verso gli occhi espres­sivi di Mul­li­gan, vul­ne­ra­bile e forte, il rac­conto dei soprusi, privo di sen­ti­men­ta­li­smo, assume una verità commuovente.
La regi­sta Sarah Gra­van segue l’organizzazione clan­de­stina di soli­da­rietà tra le donne che vogliono scar­di­nare il mec­ca­ni­smo di con­trollo e potere dei poli­tici di West­min­ster, e di una lotta fisica, men­tale este­nuante in cui l’operaia è accanto alla bor­ghese e all’aristocratica. Nel cast, tante bravi attrici inglesi, tra cui Anne-Marie Duff, l’operaia atti­vi­sta, o Helena Bon­ham Car­ter, far­ma­ci­sta che nel retro­bot­tega fab­brica le bombe. E non poteva mana­care Meryl Streep, nel ruolo della fem­mi­ni­sta sto­rica Emme­line Pan­khurst, che dal suo quar­tiere ari­sto­cra­tico infiamma gli animi.
La regi­sta usa la sua espe­rienza di docu­men­ta­ri­sta, per rico­struire la Lon­dra degli anni Venti con natu­ra­lezza e rea­li­smo. Come nelle car­to­line vin­tage, con l’accuratezza dei col­le­zio­ni­sti, gli oggetti sem­brano uscire dal Vic­to­ria and Albert Museum: le teiere di cera­mica, le car­roz­zine per neo­nati con le ruote grandi. Rivive Oxford Street con i primi auto­bus, le mac­chine dell’epoca, i suoi negozi e le strade affollate.
Suf­fra­gette riflette su un pezzo di sto­ria sco­no­sciuta, una lotta, che come testi­mo­niano i titoli di coda è ancora attuale. Su Time Out sono uscite le foto delle attrici del film con la una t-shirt bianca con su scritto: «I’d rather be a rebel than a slave» (Pre­fe­ri­sco essere un ribelle che uno schiavo). E il film nel suo omag­gio alle donne che hanno lot­tato per la parità dei diritti, diventa uno spunto di rifles­sione sul diritti vio­lati delle donne nel mondo.

lunedì 19 ottobre 2015

Le bambine che costano troppo di Elsa Pasqual

In India sono avvenuti circa 12 milioni di aborti femminili negli ultimi trent'anni, di cui la metà solo nell'ultimo decennio
"Per il matrimonio di nostra figlia, in futuro avremo bisogno di centomila rupie (circa 1.300 euro). Se non riesci a ottenere questa cifra da tua madre, allora bisogna ucciderla. Subito".
Umar Farook e Reshma Bano, 19 anni, sono una coppia indiana. Ad aprile del 2012 hanno dato alla luce una bambina, Neha. Per Umar, però, si è trattato di un incidente.
Per le famiglie indiano meno ricche, dover dare in dote soldi e gioielli ai parenti dello sposo per permettere il matrimonio della figlia risulta spesso sconveniente. Anche se la legge indiana ha vietato la pratica nel 1961, è ancora molto diffusa.
"Nostro figlio doveva nascere maschio. Perché hai dato alla luce una femmina?", ha chiesto disperatamente Umar a sua moglie Rashma dopo la nascita della bambina, ritenendola colpevole di aver dato alla luce una figlia.
Rashma non ha mai avuto intenzione di uccidere la bambina messa al mondo e credeva che suo marito avrebbe cambiato una volta presa in braccio sua figlia. Ma Umar è rimasto convinto della sua opinione: lui voleva un uomo, un erede.
Tre mesi dopo, nel giugno del 2012, Neha è morta di arresto cardiaco. "Stavo dormendo”, racconta Reshma alla Cnn. “Non mi sono accorta di nulla. Mio marito Umar ha preso la nostra bambina, le ha messo un calzino in bocca e poi ha iniziato a riempirla di botte. Quando mi sono svegliata, l'ho trovata ricoperta di lividi, morsi e bruciature di sigaretta”.
Oggi Umar Farook è in arresto con l'accusa di aver picchiato a morte la bambina. Secondo le autorità, avrebbe confessato l'omicidio.
Quello di Neha non è un caso isolato in India. Secondo dottori ed esperti, la nascita di una femmina è vista come un pericolo nel Paese. Un figlio maschio invece è considerato come un investimento, dal momento che porta avanti il nome di famiglia e si occupa del sostentamento.
Nel giugno 2013 un uomo residente nel distretto di Dharmapuri, nel sud dell'India, è stato arrestato con l'accusa di aver fatto bere a sua figlia di 22 giorni del latte avvelenato e di avere seppellito il corpo in un fosso. L'infanticidio delle neonate è molto diffuso nel Paese e sebbene non ci siano dati ufficiali riguardo il numero di bambine uccise, gli attivisti sostengono che almeno due casi di questo tipo vengano riportati alle autorità ogni mese. 
Alcune comunità indiane vivono in situazioni di estrema povertà e non si possono permettere il test degli ultrasuoni per rivelare il sesso del nascituro. Per questa ragione ricorrono spesso all'infanticidio. Le famiglie più abbienti, invece, cercano di liberarsi delle figlie ancor prima che nascano, con aborti selettivi in base al sesso. 
Un rapporto dell’Onu, intitolato Sex Ratios and Gender Biased Sex Selection, denuncia il fenomeno degli aborti femminili in India. L’analisi, che si fonda sui dati forniti dall’ultimo censimento generale del 2011, mette in evidenza il forte squilibrio numerico tra maschi e femmine nel Paese. Si stima che ogni 1.000 maschi, nel 1961 si contavano 941 femmine, mentre nel 2011 solo 933. Tra i 0 e i 6 anni invece, nel 1961 c’erano 976 bambine ogni 1.000 maschi. Nel 2011 solo 927.
Uno studio effettuato nel maggio 2011 dalla rivista medica britannica Lancet ha rilevato che sono avvenuti fino a 12 milioni di aborti di sesso femminile negli ultimi trent'anni in India, di cui la metà solo nell'ultimo decennio. “La parità di genere è una delle sfide più pressanti per lo sviluppo del Paese”, afferma Lise Grande, coordinatrice per delle Nazioni Unite in India.
“È tragicamente ironico che le donne, esseri in grado di creare la vita, vengano private del diritto di nascere. La forte differenza tra maschi e femmine in India ha ormai raggiunto livelli d’emergenza. È quindi necessario provvedere a delle misure di emergenza per alleviare questa crisi”, dice Lakshmi Puri, vicedirettore esecutivo di UN Women.
Seema Sirohi, giornalista indiana, in un articolo per The Christian Science Monitor, ha scritto: “Chi sostiene che le donne indiane siano libere di scegliere di abortire se sono in attesa di una femmina, sbaglia. Una tipica donna indiana ha poca o nessuna libertà di scelta. Per essere veramente accettata deve dare alla luce un figlio maschio. Pensare che una donna abbia il possesso del proprio corpo è un concetto estraneo in India”.
Nonostante il governo indiano abbia emanato leggi che proibiscano ai medici di dichiarare alla future madri il sesso del nascituro in modo da limitare l'infanticidio femminile, la pratica dell'aborto illegale è tutt'ora molto praticata.
Un altro tentativo da parte delle istituzioni indiane per limitare l’infanticidio e l’aborto selettivo è stato quello di creare orfanatrofi per accogliere le bambine rifiutate. Queste strutture dispongono di ceste in vimini dove lasciare le neonate indesiderate.
A Salem, una regione del Tamil Nadu, nel sud dell’India, c’è un orfanatrofio, il Life Line Trust, che permette alle madri di abbandonare in completo anonimato le bambine che poi verranno date in adozione. Tuttavia, alcuni attivisti dei diritti umani fanno notare che l’iniziativa non affronta le cause profonde dell’infanticidio femminile, ma anzi incoraggia ad abbandonare le bambine, permettendo ai genitori di delegare la responsabilità delle loro figlie allo stato.

domenica 18 ottobre 2015

18 ottobre Giornata Europea contro la ‪#‎Tratta‬ Organizzata dalle ‪#‎donne‬ vittime e ex vittime di tratta.

La tratta delle donne in Italia: la storia di Isoke Aikpitanyi
Isoke Aikpitanyi è una giovane ragazza nigeriana arrivata nel 2000 in Italia con il sogno di trovare un lavoro e una vita migliore. Tuttavia come troppo spesso accade le cose sono andate diversamente: resa schiava dalla mafia nigeriana e italiana, è costretta a prostituirsi..
Dopo essere riuscita a liberarsi dall'oppressione, ha scelto di aiutare le altre decine di migliaia di ragazze nigeriane schiavizzate in Italia avviando il progetto «La ragazza di Benin City», divenuto ormai un’associazione. Nel libro “Le ragazze di Benin City”, di cui è coautrice, racconta la disgrazia di 50 ragazze nigeriane che hanno subito le sue stesse violenze. Sentiamo la sua storia dalla stessa voce di Isoke.
io non tratto e tu?D. Nelle interviste rilasciate, dici di aver lasciato la tua famiglia per fare loro un favore, dato l'alto numero di fratelli. Si tratta di una motivazione comune tra le giovani ragazze nigeriane? Perché si arriva a pagare anche 30mila euro per una destinazione sconosciuta?
R. Io sentivo di dover fare qualcosa per aiutare mia mamma, rimasta sola a preoccurarsi di tanti figli. Nella maggior parte dei casi, invece, la famiglia sacrifica una figlia, più o meno consapevole di cosa andrà a fare. Chiamatela povertà, ignoranza… ma così stanno le cose. Oggi si parla non di 30mila ma di 80mila euro. Nel 2000, quando nella trappola ci sono finita io, si parlava di 30 milioni di lire. Perchè si accetta? Anzitutto perchè l'Europa è un miraggio, un sogno, poi perchè nessuna ragazza capisce bene che cosa vogliono dire 30 o 80mila euro; o forse sono dollari? o naira (la moneta nigeriana)? Se fossero naira sarebbe certo una cifra ingente, ma sicuramente non allo stesso livello degli euro. In secondo luogo si fidano dei trafficanti, spesso amici di famiglia, e pensano davvero che il prezzo da pagare per il ‘riscatto’ non sia poi così alto.
D. Come arrivano in Africa le false notizie di “ottimi” posti di lavoro in Italia? Alcune ragazze sono mai riuscite a tornare a casa per raccontare la verità?
R. I trafficanti, detti italos, raggiungono città e villaggi, individuano ragazze e poi avvicinano le famiglie. Spesso sono le famiglie stesse che cercano gli italos. Molte ragazze poi tornano a casa, ma non con l'intenzione di viverci, e quando tornano non vogliono ammettere che la loro storia è stata così tanto drammatica: vogliono sembrare ricche. D'altra parte, se al loro ritorno non fossero ricche chi le perdonerebbe per essersi comportate in modo così indecente? In fondo tutti sanno qual è il loro destino, ma tutti fanno finta di nulla a patto che le ragazze inviino i soldi.
D. La Nigeria è un paese ricchissimo, tra i più ricchi del mondo grazie al petrolio. I proventi dell'esportazione costituiscono circa il 95% delle entrate fiscali. Tuttavia la popolazione vive in una povertà assoluta e continua a dedicarsi principalmente all'agricoltura. Cosa succede alle giovani ragazze quando si rendono conto del gap tra la ricchezza del loro paese e la povertà della loro vita quotidiana? Immagino che influisca profondamente anche la conoscenza, seppure superficiale, dello stile di vita dei bianchi…
R. Le ragazze cercano una opportunità per migliorare la qualità della loro vita poiché sembra loro che in Europa il benessere sia alla portata di tutti. Arrivate in Europa accettano qualsiasi compromesso, persino l'idea di doversi prostituire che, talvolta, qualcuno prospetta loro: il sogno è un sogno e tutte credono che quando arriveranno saranno così furbe e in gamba da prendere il meglio, non il peggio.
D. In Africa la donna svolge un ruolo centrale per la società: lavora, gestisce l'economia della casa e si occupa dell'educazione dei figli. Quello che forse manca è una vera consapevolezza di questo ruolo. Cosa succede quando, arrivate in Italia, le donne si accorgono di essere finite in trappola? C'è qualcuna che vorrebbe tornare indietro?
R. Indietro non si torna, la ragazze che arrivano non sono niente, sono merce di proprietà della mafia nigeriana e delle maman che le hanno comperate o le gestiscono per conto di terzi. Sono clandestine, spesso analfabete, spesso minorenni, si trovano in un paese nel quale non conoscono nessuno, e non conoscono la lingua per farsi sentire. E le cose non cambiano, da circa vent'anni il governo italiano finanzia progetti contro la tratta e a sostegno delle vittime, ma i risultati non si vedono: solo una su dieci riesce a uscire da quella trappola.
D. Parliamo di te: come sei riuscita a liberarti dal giro della tratta? Quali sono gli obiettivi che tu e il tuo compagno Claudio Magnabosco vi siete proposti attraverso il progetto “La ragazza di Benin City”?
R. Io ho detto basta, ho cercato l'aiuto di servizi sociali accreditati e finanziati e inizialmente sono stata respinta perchè non sapevo neppure chi e che cosa denunciare. Da sola ho affrontato i trafficanti che mi hanno quasi uccisa. Sono scappata, ho trovato un rifugio da Claudio e da allora, insieme, cerchiamo di dare una risposta a chi non la trova, in modo autofinanziato e indipendente da leggi, associazioni, enti e istituzioni. Da allora abbiamo dato sostegno a casa nostra a più di cento ragazze. In rete, con altre ex vittime o con persone che come noi offrono accoglienza, ne abbiamo sostenute migliaia.
D. Il libro “Le ragazze di Benin City”, scritto insieme alla giornalista di Panorama Laura Maragnani, racconta l'esperienza drammatica di 50 donne nigeriane attratte in Italia con l'inganno e poi costrette a prostituirsi per ripagare l'ingente debito contratto. Si tratta solo una minuscola parte delle migliaia di ragazze africane che arrivano nel nostro bel paese. Il libro ha avuto un enorme successo, tanto che è stato creato anche un premio “La ragazza di Benin City” che ogni anno verrà attribuito ad un personaggio che abbia contribuito a creare una cultura della solidarietà relativamente al problema della schiavitù e della condizione della donna. Ti ritieni soddisfatta del risultato raggiunto?
R. Il libro, pubblicato nel 2007, parla in primo luogo di me e delle prime 50 ragazze che hanno ricevuto aiuto. Nel 2011 ho scritto un altro libro: "500 storie vere", in cui parlo di 500 ragazze, racconto la loro storia, i loro drammi e le mancate risposte alle loro richieste e ai loro diritti. Non sono soddisfatta, resta ancora troppo da fare e mi manca soprattutto l'ascolto da parte di istituzioni e associazioni. Spesso sono invitata ad eventi e manifestazioni organizzate da associazioni di sostegno, tuttavia se da un lato io rappresento l'esempio tangibile della possibilità di uscire dalla tratta, dall'altro a volte il supporto delle associazioni non è sufficiente.
D. Chi ti ha ostacolato maggiormente in questo cammino che hai deciso di intraprendere? E chi, dall'altra parte, ti ha maggiormente sostenuta?
R. Mi ostacolano le leggi, l'articolo 18 della Bossi-Fini ad esempio non è la migliore legge europea contro il traffico delle donne, come tutti credono, ma anzi è il principale ostacolo all'uscita dalla tratta soprattutto per le ragazze nigeriane. Dall'altro lato mi sostengono il mio compagno, la rete di donne che lottano contro le violenze al genere femminile, quelle che combattono per la loro dignità, e infine anche i maschi che stanno mettendo finalmente in discussione le loro responsabilità rispetto alle violenze della tratta. Mi ostacola il fatto che ho fatto di questo impegno una “missione” e non ho un lavoro, ho lasciato quello che avevo per dedicarmi interamente al sostegno di mie sorelle vittime di questa tragedia...

        

sabato 17 ottobre 2015

Cultura di genere, c’è ancora molto da fare di Raffaella Sirena

Il rapporto di Terre des Hommes denuncia 11 milioni di minori sfruttate come domestiche. Drammatica la condizione nelle aree di crisi e di guerra. Vincenzo Spadafora, Garante per l’adolescenza: “I ragazzini ignorano il fenomeno delle discriminazioni”
L'11 ottobre si è celebrata in tutto il mondo la Giornata internazionale delle bambine e delle ragazze, ricorrenza istituita tre anni fa dall' Onu per sensibilizzare sui diritti negati di tante giovani donne. Secondo le stime dell' Unicef sono circa 70 mila le ragazze che ogni anno muoiono per il parto e le complicanze legate alla gravidanza, oltre 70 milioni le spose minorenni (Cina esclusa), 31 milioni le bambine che non hanno potuto frequentare la scuola primaria e oltre 11 milioni quelle che lavorano come domestiche.
A denunciare i soprusi subiti dalle bambine e ragazze in tutto il mondo è intervenuta la Ong Terre des Hommes, che lo scorso mercoledì alla Camera dei deputati ha presentato la quarta edizione del dossier Indifesa, per garantire istruzione, salute, protezione da violenza, discriminazioni e abusi. Amani, Carol, Isabel, Tania e Rubina sono i nomi e i volti di alcune dei 68 milioni di bambine sfruttate e costrette a condizioni di lavoro disumane. Le loro storie sono raccontate nella piattaforma Indifesa e anche attraverso i social è possibile sostenere la campagna di raccolta fondi con l' hashtag #OrangeRevolution.
Da Terre des Hommes sottolineano le motivazioni di questa iniziativa: " Vogliamo mettere al centro dell' agenda dello sviluppo i diritti delle bambine. Riteniamo che l' obiettivo sia quello di dare alle ragazze tutte le opportunità che meritano. Per la campagna sui social network abbiamo scelto il colore arancione perché vuole essere un segnale di rottura degli stereotipi di genere, che impongono il rosa come il colore delle bambine" .
Nel rapporto viene messa in luce la drammatica condizione dei baby-lavoratori, soprattutto nelle aree di crisi e di guerra: in Siria, e nei paesi limitrofi che hanno accolto milioni di rifugiati, il magro stipendio delle bambine e dei bambini spesso rappresenta il principale, a volte l' unico, reddito della famiglia. " Credo che la presentazione del rapporto sia l' occasione per fare la differenza tra la realtà e ciò che qualcuno vuole far credere" , commenta Vincenzo Spadafora, Garante per l' infanzia e per l' adolescenza" .
" Voglio commentare due dati in particolare" ,  prosegue Spadafora, " quello delle violenze subite dalle bambine e quello della percezione delle differenze di genere tra gli adolescenti. Rispetto al primo punto, come Authority abbiamo fatto una raccolta dei dati di quante tra le vittime che avessero subito maltrattamenti sono in carica ai servizi sociali, ed è uscito un numero importante: sono circa 91mila, di cui la maggioranza bambine. Per il secondo punto, mi ha colpito molto nel dossier la parte dedicata alle interviste, devo dire molto autentiche, fatte agli adolescenti queste sottolineano come tra loro non si riconosca molto il fenomeno delle discriminazioni legate alle differenze di genere, soprattutto da parte dei maschi" .
Della sensibilizzazione in età infantile e adolescenziale sul tema della differenza di genere si è molto occupata la case editrice Sinnos, che ha pubblicato la graphic novel " Cattive ragazze, 15 storie di donne audaci e creative" . Nell' opera sono contenute 15 biografie espressione di femminismo e dissidenza: matrimoni precoci, violenza, discriminazione, istruzione ostacolata sono i temi affrontati.
L' opera a fumetti ha ispirato la realizzazione di una trasposizione teatrale, in scena fino al prossimo sabato 17 ottobre nei teatri romani di Villa Torlonia e della Biblioteca Quarticciolo. Della Passarelli, direttrrice editoriale di Sinnos, che da subito ha creduto nella validità di un' opera, utile a far conoscere ai piccoli lettori e alle piccole lettrici le questioni di genere, dichiara: " Di questi tempi in Italia raccontare l' intelligenza e la dignità delle donne è urgente" .

venerdì 16 ottobre 2015

Le bambine salveranno il mondo? Anche no. di Federica Gentile

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Se vi è sfuggito, ve lo ricordiamo noi, l’11 ottobre è stato l’International Day of the Girl Child, una giornata nata per attirare l’attenzione sui problemi delle bambine e delle giovani donne: ogni anno 700 milioni di ragazze si sposano (o meglio, vengono fatte sposare) prima dei 18 anni. Di queste, circa 250 milioni si sposano prima dei 15 anni.  Ogni 10 minuti, una adolescente muore vittima di violenza.
Per quanto riguarda invece l’economia, da più parti si fa notare che investire sulle ragazze – per esempio sulla loro istruzione - ha effetti importanti sulla crescita economica. Uno studio di Stanford riportato da Katrine Marçal  sul The Guardian evidenzia che ogni anno aggiuntivo di istruzione ha l’effetto di aumentare la crescita economica di 0.58 punti percentuali e ovunque abbondano statistiche che confermano e riconfermano che investire sulle ragazze e sulle donne è benefico per l’economia.
Di conseguenza da tempo ci sono campagne che si concentrano in particolar modo sulle  bambine nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” tra cui il Girl Effect, che ci racconta: “investi in una ragazza e lei farà il resto. Non è una cosa importante. Solo il futuro dell’umanita’”.
Giusto per capirci: la donna  o la bambina che una volta ricevuti i mezzi, una mucca o istruzione  che sia, fa miracoli che porteranno la salvezza della loro comunità, società e / o il mondo intero, non agisce in un vuoto cosmico, ma in un sistema che riproduce costantemente le disuguaglianze, e cioè le condizioni sociali, economiche e culturali  che strutturalmente non sostengono le bambine e le donne nel Nord come nel Sud del mondo.
Possiamo anche dare una uniforme o dei libri ad una bambina, grazie ai quali potrà frequentare la scuola, ma se non si esce dalla logica per cui è lei la prima a dover stare a casa ad accudire fratellini  e sorelline se i genitori non possono farlo, la sua istruzione non migliorerà.  
Questo non significa che le donne e le ragazze siano sempre vittime incapaci di azioni di riscatto e di cambiare la propria vita, al contrario, ma il cambiamento non è una responsabilità solo individuale. Se ci fissiamo solo sulle capacità di riscatto individuale, facciamo un gran favore al neoliberismo, che: “enfatizza il potenziale dell’individuo, l’opportunità e la scelta e inoltre maschera o ignora le disuguaglianze per cui alcuni individui hanno più opportunità di altri di fare le scelte giuste”.
Le nostre vite sono condizionate non solo dalle nostre scelte, ma anche da decisioni di natura molto più ampia: aggiustamenti strutturali, politiche di austerity, accordi commerciali, etc.
Inoltre, come evidenzia Katrine Marçal, enfatizzare il contributo delle bambine e delle ragazze all’economia è anche giusto, ma oscura il fatto che ragazze, donne e bambine lavorano già, ma il loro contributo – la maggior parte del lavoro di cura - non è riconosciuto come lavoro dall’economia.
​E dunque :
  “Le ragazze e le donne non sono una risorsa inutilizzata nel mondo,  il loro lavoro è la struttura invisibile che tiene insieme le società e le economie. Ma non hanno scelto liberamente questo ruolo. E non sono pagate, compensate, o riconosciute per il proprio lavoro. Questo deve cambiare.”

giovedì 15 ottobre 2015

Il maschilismo in politica, dal dopoguerra a oggi di Greta Sclaunich

Il gesto della fellatio di D’Anna e Barani solo l’ultimo di una lunghissima serie di episodi simili, ripercorsi nel saggio «Stai zitta e va’ in cucina» di Filippo Maria Battaglia
Le critiche al vestito blu elettrico di Maria Elena Boschi durante il giuramento al Quirinale? Niente di nuovo: il primo «scandalo» in materia di abiti femminili e politica risale al 1947, quando Maria Romana De Gasperi osa indossare i pantaloni per accompagnare il padre, all’epoca premier, in un viaggio diplomatico negli Usa. Così come le critiche a Rosy Bindi, secondo Silvio Berlusconi «più bella che intelligente» hanno radici lontane, in quel «Teré tu sei bella come un fiore di Rafflesia» (strano fiore che pesa 7 kg, ha il diametro di un metro e mezzo e puzza di carne putrefatta) con cui viene apostrofata, sempre nel 1947, la parlamentare Teresa Noce. E poi c’è quel paterno consiglio, sempre di Berlusconi, alla precaria («Le consiglio di cercare di sposare il figlio di Berlusconi o qualcun altro del genere») che ricorda tanto il «la moglie fa la moglie e basta» scagliato dal senatore repubblicano Giovanni Conti, nel 1952.
Ricordate quando l’onorevole Cosimo Mele venne beccato con una escort e ci fu chi lo difese dicendo che un uomo aveva le sue esigenze e che era un problema di solitudine e di lontananza dalla famiglia? Successe anche nel 1947 quando, durante un viaggio organizzato dalla Cgil a Mosca, gli uomini della delegazione si riunirono perché dopo otto giorni di assenza dall’Italia sentivano la necessità di avere rapporti sessuali ma non sapevano a chi rivolgersi.
Il maschilismo in politica, in Italia, ha radici lontane. Nel suo saggio Stai zitta e va’ in cucina – breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo (ed. Bollati Boringhieri, in libreria da giovedì 8 ottobre) il giornalista Filippo Maria Battaglia ne ripercorre le tappe e analizza le tendenze. Scoprendo che, dal primo dopoguerra ad oggi, ben poco è cambiato.
«Abbiamo in mente sempre i soliti episodi, ma oltre a Bossi e Berlusconi ce ne sono mille altri. Perché in fondo a livello culturale siamo stretti tra il moralismo di una certa concezione del cattolicesimo e tendenze molto simili del post-comunismo: la donna è vista o come madre o come essere diabolico. E questo si riflette anche in politica», spiega Battaglia. Questo spiega la ragioni di certe uscite, mascherate da battute e boutade. Se sono ancora oggi in voga è perché «l’opinione pubblica, da noi, ha la memoria corta. Tende a dimenticare e a perdonare: per il gesto della fellatio Vincenzo D’Anna e Lucio Barani sono stati sospesi per soli cinque giorni». Una situazione che potrebbe cambiare, però. Nel saggio Battaglia cita le alte percentuali di donne dei governi Letta e Renzi, rispettivamente del 31,82% e del 47,06% contro una media europea del 28%. Numeri che però crollano quando si guarda la presenza femminile tra capigruppo, presidenti di commissioni e uffici di presidenza: qui le donne sono solo il 16%. E poi c’è la politica locale, dove tra enti centrali e periferici le donne ricoprono solo il 19,73% degli incarichi istituzionali. Percentuale che scende ancora se si esaminano nel dettaglio Comuni e Regioni, dove le donne sono circa il 10%. Insomma, «un primo passo è stato fatto ma resta ancora molta strada da percorrere», analizza Battaglia. Iniziando, per cominciare, a parlarne: «Ci sono tanti politici non maschilisti: devono iniziare a dissociarsi in modo netto dalle prese di posizione dei loro colleghi. Anche il silenzio è un errore quanto la più greve delle battute».

 Il libro Stai zitta e va’ in cucina sarà presentato il 14 ottobre a Milano alla libreria Open (via Monte Nero 6, ore 18) con l’introduzione di Paolo Volterra e l’intervento di Lella Costa.

lunedì 12 ottobre 2015

Violenza sessuale su minori, ogni 10 minuti qualcuno muore. Dati choc di Terre des Hommes di Gianluca Testa


 Mentre si continua a discutere delle parole atroci e difficilmente fraintendibili dell’ormai noto don Gino Flaim («I bambini cercano affetto e qualche prete cede, posso capirli» ha detto il prete riferendosi ai pedofili), ecco che Terre des Hommes ci restituisce una fotografia drammatica e impietosa dell’universo minorile. Dal dossier presentato stamani alla Camera in vista della Giornata Mondiale delle Bambine in programma l’11 ottobre emergono dati sconcertanti. Primo fra tutti l’aumento delle vittime di pornografia minorile: in dieci anni si è registrato un aumento del 569,4% con un picco di 24 punti percentuali solo nell’ultimo anno. Otto volte su dieci ad essere coinvolte sono le bambine.

70 MILIONI DI VITTIME “Indifese”. E’ il nome della campagna di Terre des Hommes. Sul roll up che stamani ha accompagnato la presentazione del rapporto sulla condizione delle bambine si leggeva così: «Proteggiamole insieme». Sì, perché “indifese” sono anche quelle ragazze tra i 15 e i 19 anni che subiscono abusi e violenze fisiche. Secondo il rapporto, che prende in esame i dati delle forze dell’ordine, nel mondo sono 70 milioni. E proprio a causa delle violenze ne muoiono 60 mila ogni anno. Basta fare due semplici conti per capire che si tratta di un decesso ogni dieci minuti.


CRIMINI IN AUMENTOLa crescita esponenziale delle vittime ha raggiunto la cifra record di 5.356 casi nel 2014 (più 61,8% in dieci anni) mentre le denunce per violenza sessuale sono 962. La famiglie? Il (buon) senso comune le attribuisce il ruolo del nucleo educante e protettivo. Eppure i maltrattamenti in famiglia (secondo il dossier si tratta del reato con il maggior numero di vittime tra i minori) sono passati da 751 a 1.479 facendo registrare un incremento del 96,9%. Cifre in crescita anche per gli omicidi volontari (più 25,9%) e l’abuso dei mezzi di correzione o disciplina (più 124%). Un solo dato ha fatto registrare un segno meno: quello della prostituzione minorile, calato di 18 punti percentuali. La spiegazione? «Forse perché sempre più spesso avviene di nascosto negli appartamenti» si legge nel rapporto.
LA PUNTA DELL’ICEBERG Una cosa è certa: sopratutto è sul corpo delle bambine (letteralmente) che si consumano i reati di sfruttamento sessuale a fini commerciali e quelli di violenza sessuale. Sono loro le vittime designate dei reati, con percentuali che oscillano tra il 78 e l’85 per cento. Secondo il dossier questi numeri «rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più vasto eche comprende tutta una serie di comportamenti che vanno dalle punizioni corporali agli stupri, dagli atti di bullismo ai matrimoni forzati, dagli abusi psicologici alle mutilazioni genitali». Nel corso della loro vita quasi 7 milioni di donne hanno subìto almeno una forma di violenza sessuale (dati Istat). Vale a dire il 31,5% delle donne tra 16 e 70 anni. Senza considerare che per una ragazza il rischio di morire a seguito di un atto violento cresce con l’aumentare dell’età (0,4% nella fascia 0-9 anni, 4% da 10 a 14, 13% tra 15 e 19 anni).
UNA LUCE SULLE INDIFESE «La campagna “Indifesa” di Terre des Hommes è utile per accendere i riflettori sui diritti negati a milioni di bambine in Italia e nel mondo» commenta Lia Quartapelle, deputata del Pd della commissione Affari esteri della Camera. «Il dossier dimostra che c’è molto da fare. In particolare nelle aree di conflitto dove bambine, ragazze e donne sono ridotte a un mero strumento di guerra e di sopraffazione».

domenica 11 ottobre 2015

Svetlana Alexievich, ecco chi è il Nobel per la Letteratura 2015 di Daniele Dell'Orco,

È la bielorussa Svetlana Alexievich il premio Nobel per la letteratura 2015, appena assegnato dall’Accademia di Svezia “per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”.
Nota soprattutto per essere stata cronista, per i connazionali, dei principali eventi dell’Unione Sovietica della seconda metà del XX secolo: dalla guerra in Afghanistan, al disastro di Černobyl’, ai suicidi seguiti allo scioglimento dell’URSS. Su ognuno di questi particolari argomenti ha scritto libri, tradotti anche in varie lingue, che le sono valsi la fama internazionale e importanti riconoscimenti.

Con le sue opere tradotte in molte lingue, si è fatta conoscere in tutto il mondo: 
-La guerra non ha un volto di donna (sulle donne sovietiche al fronte nella seconda guerra mondiale), 
-Ragazzi di zinco (sui reduci della guerra in Afghanistan),
-Incantati dalla morte (sui suicidi in seguito al crollo dell’URSS), 
-Preghiera per Cernobyl’ (sulle vittime della tragedia nucleare).

Delle sue vicende biografiche è oggi noto soprattutto che, perseguita dal regime del presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko, è stata costretta a lasciare il paese perché su di lei gravava l’accusa di essere un agente della CIA.

Tra i suoi lavori pubblicati in Italia ci sono 
Preghiera per Cernobyl’. Cronaca del futuro, Ragazzi di zinco, Incantati dalla morte,pubblicati da e/o edizioni, Roma  
Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, Bompiani, Milano