venerdì 31 ottobre 2014

FEMMINISTE 4.0Emma Watson? Jennifer Lawrence? Non sono queste le feministe che stai cercando (Roxane Gay - The Guardian)


Non c'è niente di sbagliato se donne o uomini famosi fanno propaganda al femminismo, ma queste ambasciatrici e questi ambasciatori del "marchio" sono una porta verso il femminismo, non il movimento stesso.
Recentemente, una giovane donna mi ha chiesto come potremmo rendere il femminismo più accessibile agli uomini.
 Le ho detto che non mi importa di rendere il femminismo più accessibile agli uomini.
 In verità, non mi importa di rendere il femminismo più accessibile a nessuno.
Quello che mi interessa è fare in modo che le libertà di cui gli uomini godono liberamente diventino completamente accessibili alle donne, e se gli uomini - o le celebrità - che si proclamano femministi sono diventati il cucchiaino di zucchero per mandare giù la pillola, che sia.
Mi infastidisce, tuttavia, che si sia disposti ad abbracciare il femminismo o i messaggi femministi con più facilità solo quando vengono consegnati nel pacchetto giusto – che spesso include: giovinezza, un particolare tipo di bellezza, la fama e/o l’autoironia.
 Trovo frustrante che l'idea stessa che le donne godano degli stessi diritti inalienabili degli uomini sia così poco attraente da necessitare che la persona che rivendica tali diritti debba incarnare gli stessi standard che noi abbiamo messo in discussione.
 E’ esasperante che ci sia bisogno di ambasciatori del marchio e testimonial per rendere il mondo un luogo più giusto...

giovedì 30 ottobre 2014

Global Trends 2014: i diritti delle donne e il loro ruolo nella società di Patrizia Chimera -


Cosa ne pensano i cittadini europei e non solo dei diritti delle donne? Quali credono debbano essere i loro ruoli nell'odierna società e quale il contributo che possono portare? Ecco cosa emerge da un recente sondaggio.
Il Global Trends 2014, un sondaggio condotto in tutto il mondo su tematiche fondamentali e importanti, ci presenta un quadro chiaro su quello che pensano i cittadini in merito al ruolo della donna nella società. Tre, infatti, le domande poste agli intervistati che riguardano proprio l'universo femminile.
Le domande del sondaggio Global Trends 2014, infatti, si sono soffermate sull'uguaglianza di genere, sul ruolo delle donne nella società e sulle donne di potere: più di 16mila persone hanno risposto alle domande poste, semplicemente dicendosi d'accordo o meno alle tre diverse affermazioni proposte loro. Come saranno andate le cose?
Le donne hanno gli stessi diritti degli uomini e dovrebbero avere lo stesso potere degli uomini
A questa domanda la maggior parte degli intervistati ha risposto dicendosi d'accordo con affermazioni sacrosante, che ribadiscono l'uguaglianza tra l'uomo e la donna, sia per quello che riguarda i diritti sia per quello che riguarda il poter ricoprire ruoli di potere nella società. Ai primi posti Svezia e Spagna, con il 91% degli intervistati che si è detto d'accordo.
Seguono Francia, China e Canada, al 90% e poi Belgio, Gran Bretagna e Italia all'89%. Un gradino sotto la Germania, con l'88%, mentre negli Stati Uniti e in Australia è d'accordo l'85% della popolazione intervistata. Un po' peggio vanno le cose in Giappone: anche se il risultato è "positivo" ad essere d'accordo con queste affermazioni è il 63%, contro il 25% che si dice decisamente contrario.
Un dato allarmante per un paese avanzato come il Giappone. Altrettanto allarmante la situazione in Russia, con un 74% che è d'accordo e un 19% che non lo è. Tutto sommato, almeno a parole, l'Italia ne esce fuori in maniera positiva: solo l'8% non crede che l'uguaglianza sia giusta. Ma ripeto, solo a parole...
Il ruolo delle donne nella società è quello di essere buone madri e mogli
I dati che emergono da questa domanda rispecchiano pienamente le risposte date alla precedente. In prima posizione, infatti, troviamo la Russia: nel paese di Putin il 73% degli intervistati crede che il ruolo delle donne nella società dovrebbe limitarsi a quello di fare la madre e la moglie, contro un 22% che non è d'accordo. Male le cose anche in India e Cina, dove il "sì" è pari rispettivamente al 56% e 54% e il no rispettivamente al 39% e 42%.
Il Giappone, ultimo nella precedente classifica, si salva un po' con questa domanda, anche se il sì è ancora molto alto, con un bel 38%. Gli Stati Uniti propongono una percentuale di intervistati d'accordo con l'affermazione pari al 36%, stessa percentuale della Turchia, che però ha una percentuale più alta di contrari (61% contro 56%): da un paese come gli USA, il paese delle opportunità per tutti, ci saremmo aspettati qualcosa di meglio.
E le nazioni europee? Nel Vecchio Continente il ruolo della donna, almeno a parole, non dovrebbe limitarsi solo a quello di madre e moglie: in Gran Bretagna ne è certo il 68% degli intervistati, contro il 24% di persone che invece concordano con l'affermazione posta nella domanda, mentre in Italia è ben il 73% contro il 22%. Le percentuali salgono in Francia, Spagna e Svezia, superando l'80% e ponendo di fatto questi paesi come i più "avanzati" dal punto di vista delle pari opportunità.
Le cose andrebbero meglio se più donne occupassero posizioni di responsabilità nei governi e nelle compagnie
A sorpresa al primo posto di questa classifica si pone l'India, che crede, con il 69% degli intervistati, che le donne dovrebbero avere più potere: del resto stiamo parlando di un paese che spesso ha visto al potere figure femminili molto forti. Anche in Turchia la maggior parte delle persone è d'accordo con questa affermazione. E indovinate un po' chi c'è in terza posizione? Ebbene sì, c'è l'Italia, che a parole, da quanto emerge in questo sondaggio, è paladina dei diritti delle donne e delle pari opportunità anche nei ruoli più importanti della società, ma poi quando andiamo ad analizzare i fatti c'è ancora molto da lavorare sulle quote rosa, spesso non garantite.
La classifica prosegue poi con il Brasile (64%), la Spagna e il Sud Africa (60%), la Svezia (57%), la Francia (56%) e la Gran Bretagna (54%). Gli Stati Uniti, invece, arrivano a malapena a superare di un punto percentuale il 50%. 51% a pari merito con la Polonia. Maglia nera alla Russia, dove del resto i ruoli di potere sono spesso o quasi sempre in mano agli uomini, e all'Argentina: entrambi i paesi si attestano al 38%, mentre per il paese europeo ben il 42% delle persone non crede che le cose andrebbero meglio se le donne fossero al potere.
Sorprende il dato tedesco: in Germania da anni c'è una donna al potere e il paese ha goduto finora di ottima salute o, almeno, di una salute meno cagionevole di quella di paesi limitrofi. Ebbene, nonostante l'era di Angela Merkel in Germania il solo il 43% degli intervistati crede che le donne al potere migliorino la situazione, contro il 34% delle persone che invece non lo crede.
Global Trends 2014 è l’elaborazione di un ampio sondaggio condotto da Ipsos MORI: oltre 16mila interviste condotte fra il 3 e il 17 settembre 2013, 20 paesi del mondo coinvolti, un “panel” statistico composto da un pubblico di cittadini e consumatori attivi sul web e fortemente connessi. Il progetto, molto ambizioso, fotografa lo stato dell’arte su una serie di comportamenti e tematiche di rilevanza mondiale (dall'ambiente alla salute, dall'attivismo politico ai brand). E si propone di lanciare il dibattito su quel che sarà in futuro.

martedì 28 ottobre 2014

Reyhaneh Jabbari: "Cara, mamma, dona i miei organi. E poi dammi al vento" di Valentina Ravizza


L'ultimo audio-messaggio dell'iraniana giustiziata per impiccagione per aver ucciso l'uomo che voleva stuprarla è una toccante lettera alla madre piena d'amore per lei. La ragazza ricorda gli ultimi orribili 7 anni in carcere e chiede che «cuore, occhi, reni e quant'altro possa servire venga dato in dono». E nessuna tomba su cui piangere
«L’ultima pagina del libro della mia vita» l’ha voluta scrivere lei stessa. Reyhaneh Jabbari, la 26enne che sabato è stata impiccata in Iran perché “colpevole” di essersi difesa da un tentativo di stupro, ha detto addio alla madre Sholeh Pakravan con un toccante messaggio audio (registrato ad aprile ma reso noto solo dopo l’esecuzione grazie all’impegno degli attivisti del Consiglio Nazionale di Resistenza iraniano). Ripercorrendo i suoi sette anni negli inferi delle prigioni di Teheran, a partire da quella sera in cui tutto ebbe inizio: quando Morteza Abdolali Sarbandi, un ex agente dell’intelligence, l’attirò nel suo appartamento con la scusa di offrirle un incarico come interior designer e tentò di abusare di lei.
«Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella orribile notte io avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portata all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che noi non siamo ricchi e potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita soffrendo e vergognandoti, e qualche anno dopo saresti morta per questa sofferenza». La “colpa” di Reyhaneh Jabbari è non essersi arresa: né di fronte al suo aguzzino, né al processo, quando le fu offerta la possibilità di salvarsi dichiarando di essersi inventata tutta la storia dello stupro. «Ho imparato che a volte bisogna lottare. Mi ricordo quando mi dicesti di quel vetturino che si mise a protestare contro l’uomo che mi stava frustando, ma che quello iniziò a dargli la frusta sulla testa e sul viso fino a che non era morto. Tu mi hai detto che per creare un valore si deve perseverare, anche se si muore». Reyhaneh aveva fiducia nella giustizia. La stessa giustizia che l’aveva dipinta come «un’assassina a sangue freddo» (lei che non uccideva nemmeno gli scarafaggi ma li allontanava da casa tenendoli per le antenne) e che l’ha portata alla forca con la febbre (come ha scritto sua madre su facebook. «Questo paese per il quale tu hai piantato l’amore in me, non mi ha mai voluto e nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo i termini più volgari. Quando ho perduto il mio ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni in isolamento».

Ma prima di dire addio a questo mondo Reyhaneh ha espresso il suo ultimo desiderio, per il quale, lei che aveva imposto alla famiglia di non implorare mai i giudici, chiede di arrivare fino alla supplica purché venga esaudito. «Mia dolce madre, cara Sholeh, l'unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via».

lunedì 27 ottobre 2014

Iran, cosa muore con Reyhaneh di Monica Lanfranco

Sono migliaia le donne e le bambine che muoiono per la violenza che subiscono in famiglia (più spesso) o per mano di sconosciuti ogni giorno sul pianeta, nel silenzio o nel disinteresse del loro paese e della comunità internazionale. Il pensiero è insopportabile, così come lo è quello per ogni ingiustizia compiuta sulle persone e sull’ambiente, e per questo non possiamo costantemente avere in mente sangue e dolore: se lo facessimo sempre saremmo già alla pazzia.
Però è vero che quando la vittima della violenza ha un volto e un nome ciò dà corpo e spessore alla realtà che si elude ogni giorno, e scegliendo di non abbassare lo sguardo o di coprirsi le orecchie l’impatto del reale è ineludibile, se si ha una coscienza.
Alla Secular Conference di Londra, indetta da alcune reti laiche tra le quali One Law for all, Women living under muslim laws e Secularism is a women issue la studiosa Karima Bennoune, docente arabo americana di legislazione internazionale ha scelto di parlare delle vittime del fondamentalismo facendo scorrere dietro di lei i volti di uomini e donne di varie provenienze geografiche, attiviste e attivisti per la laicità, che hanno trovato la morte negli ultimi anni per mano degli islamisti.
Non c’è stato nulla di enfatico o di eroico nel breve racconto delle biografie: Karima ha chiesto che si ricordino queste persone perchè fare memoria è un gesto politico prioritario per avere futuro e ricordare che “la libertà di vivere senza il giogo dell’ideologia religiosa non è realtà in molti luoghi del pianeta. Non si tratta di fede – ha scandito – ma di fanatismo, di politica, e di regime”.
Fa impressione il coraggio di Reyhaneh Jabbari, la donna iraniana impiccata dal regime perché, avendo reagito e ucciso il suo stupratore, si è rifiutata di aver salva la vita ‘riabilitando’ la memoria dell’uomo ritrattando l’accusa di violenza. Reyhaneh non ha ceduto, pur nella solitudine della sua cella, dopo anni di reclusione e forse di tortura, all’umanissima tentazione nella quale cadde la pur fiera e determinata Olympe de Gouges: tre secoli fa l’autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, condannata a morte per questo dai ‘rivoluzionari’, tentò di avere risparmiata la vita affermando di essere incinta. Alcuni precedenti negli anni scorsi che si erano risolti positivamente, tra i quali quelli di Safiya Husaini e Meriam Yehya Ibrahim avevano fatto sperare in una svolta favorevole. Ma in tempi di Isis e di febbre fondamentalista l’occasione, nel regimi teocratico iraniano, per ribadire che non si sgarra era servita sul piatto d’argento.
Così la forca per Reyhaneh è l’allungarsi della scura ombra del terrore e dell’inumanità che rischia, come si è stato detto a Londra, di travolgere il mondo.


sabato 25 ottobre 2014

Sesso, “giovani italiane ignoranti. Falsi miti su orgasmo femminile e contraccezione”di Stefania Prandi

Secondo vari esperti ed istituti di ricerca, nel nostro Paese la mancanza di programmi di educazione sessuale nelle scuole genera scarsa consapevolezza del proprio corpo e dell'affettività. E dalla scarsa confidenza tra le coppie etero derivano vaginismo, anorgasmia e matrimoni bianchi
Le giovani donne italiane sono poco consapevoli della propria sessualità e del proprio corpo. In questo non si differenziano dalle inglesi che, secondo una ricerca di The Eve Appeal, non sanno esattamente dove si trovi la propria vagina. “Contrariamente all’immagine che viene diffusa di ragazzine intraprendenti e aggressive, la maggior parte delle adolescenti di oggi ha scarsa coscienza di sé a livello fisico – spiega Mario Puiatti, presidente dell’Associazione italiana per l’educazione demografica (Aied). – Si tratta di un ritorno indietro nel tempo. Esaurita la spinta femminista degli anni Settanta, che aveva fatto della sessualità un cavallo di battaglia, la mancanza di un programma educativo nelle scuole si fa sentire. Restano soltanto le famiglie a parlare ai giovani di sesso ma, a causa dei molti tabù anche legati all’educazione cattolica, le informazioni vengono date poco e male. Il risultato è che pur vivendo nell’epoca della pornografia diffusa le giovani donne, così come i giovani uomini, sono parecchio ignoranti”.
Secondo una ricerca della Società italiana di ginecologia ed ostetricia (Sigo) soltanto il 30% delle italiane under 25 ha ricevuto informazioni corrette, da medici e insegnanti, riguardo alla sessualità. Il 42% del campione analizzato non ha usato alcuna protezione contraccettiva durante il primo rapporto sessuale. Questo dato va messo in relazione con l’aumento delle malattie sessualmente trasmissibili che in 2 casi su 3 si presentano proprio negli under 25. Le ragazze sono particolarmente vulnerabili a questa età sia per fattori ormonali sia per una maggiore fragilità del tessuto che riveste il collo dell’utero, meno resistente e più permeabile ai germi aggressori. Da un convegno della Società europea di contraccezione (Esc) emerge inoltre che resistono una serie di credenze che vengono diffuse anche tramite internet: il 30% delle adolescenti crede che il coito interrotto sia un metodo contraccettivo e il 7% pensa che i lavaggi con la Coca-cola possano funzionare come spermicida.
Elisabetta Todaro, psicologa dello staff dell’Istituto di sessuologia clinica (Isc), si occupa di educazione nelle scuole e dice che “il livello di ignoranza è incredibile. Chiediamo agli studenti di raffigurare la zona riproduttiva femminile con un disegno e quasi tutti fanno tre linee incrociate, senza considerare né il taglio delle varie parti né gli organi interni. Sono gli istituti a chiamarmi perché l’educazione si rivela il modo migliore per affrontare una serie di problemi che includono anche la violenza. Durante gli incontri fornisco spiegazioni sui metodi contraccettivi, sull’affettività, su quello che si condivide durante un rapporto”.
Secondo Todaro l’immagine che i ragazzi e le ragazze hanno della sessualità è distorta: gli adolescenti maschi, per esempio, credono che alle teenager importi soltanto la qualità della prestazione e sono preoccupati in modo ossessivo delle dimensioni dei genitali. “Senza contare che se un ragazzo ha avuto molte partner è ben considerato mentre lo stesso non vale per una ragazza”.

Nel chiuso delle coppie eterosessuali l’ignoranza e la scarsa confidenza creano una serie di problemi. Tra questi il cosiddetto vaginismo. “Una situazione sempre più diffusa tra le pazienti – spiega Adele Fabrizi psiecoterapeuta dell’Isc – che, a causa della mancanza di consapevolezza dei propri genitali e dell’elasticità della vagina, hanno paura di provare dolore durante il rapporto di penetrazione. Assistiamo così a un aumento dei matrimoni bianchi: persone che stanno insieme da anni e che non riescono ad avere figli pur desiderandoli”. Frequente è anche l’anorgasmia. “Vige la credenza che esistano due tipi di orgasmo, quello vaginale e clitorideo, mentre invece ce n’è uno solo ed è dato dalla stimolazione dell’organo propulsore femminile che è la clitoride. Falsi miti – conclude Fabrizi – che si possono combattere solo con la corretta informazione e l’educazione”.

venerdì 24 ottobre 2014

I figli le scattano una foto sulla spiaggia: scopre una cosa sconvolgente

La mamma Bridgette White, sul suo blog, ha raccontato una storia incredibile, che dovrebbe far riflettere tutte le madri che, come lei, per stare dietro ai figli hanno perso di vista l’amore per se stesse. Un giorno Bridgette, controllando la galleria del suo cellulare, ha trovato una foto e
scopre una cosa sconvolgente
Ecco la sua reazione:
All’inizio ero sconvolta. Chi mi aveva fatto quella foto orribile?
Ero talmente disgustata da me stessa che stavo per scoppiare a piangere.
Stavo per eliminare la foto, quando mio figlio entra nella stanza.
Gli chiedo: “L’hai fatta tu questa foto?”
Giro lo schermo in modo che possa vederla. Lui fa un sorriso smagliante.
“L’ho scattata a Tahoe” replica.
“Eri così bella sdraiata sulla spiaggia. Dovevo fartela per forza mamma”
“Se vuoi fare delle foto con il mio cellulare devi chiedermelo prima” rispondo.
“Lo so,” replica. “Ma mamma, davvero, non vedi come sei bella?”
Guardo di nuovo la foto per capire quello che ci vede lui.
Arriva anche mia figlia a dare un’occhiata.
“È una foto da cartolina, mamma” replica sorridente. “Sei bellissima, mi piace un sacco”.
Tiro un respiro profondo.
Era esattamente ciò che avevo bisogno di sentire.
Di solito mi concentro sui difetti e le imperfezioni. Adesso inizio a vedere anche qualcosa in più.
Vedo ancora le mie cosce grasse e piene di cellulite.
Ma vedo anche una madre che ha esplorato il lago per ore assieme ai suoi figli e adesso è sdraiata esausta sulla spiaggia.
Vedo ancora le mie braccia flaccide.
Ma vedo anche le braccia di una madre che ha aiutato i suoi figli a non farsi male nell’attraversare scogli e sabbia rovente.
Vedo ancora una cicciona che cerca di nascondere i suoi problemi di peso sotto un costume da bagno intero nero.
Ma vedo anche una madre avventurosa che ama i suoi figli alla follia.
Ho lottato con il mio peso per quasi tutta la vita, come la maggior parte delle donne. È una cosa che non smetterò mai di fare. Non sono magra di costituzione. Non lo sarò mai.
Da dieci anni a questa parte non sono mai stata così grassa. Eppure…
Questa volta non permetterò che il mio peso rappresenti un ostacolo per me. Indosserò canottiere, prendisole e costumi da bagno in pubblico. Quest’estate correrò dietro ai miei figli e giocherò con loro e qualche volta mi sentirò pure bella.
Sì. Avete capito bene.
“Mi sento carina…davvero carina. Carina, intelligente e brillante.”
Be’.. non così tanto. Più o meno.
Forse perché sto invecchiando?
Forse perché ho preoccupazioni ben più grandi del mio aspetto fisico?
O forse perché i miei figli mi guardano con così tanta ammirazione.
Davvero, non ha importanza.
Non odio più il mio corpo.
È incredibile ammetterlo e ancora più difficile comprenderlo a fondo.
Non ho smesso di fare attività fisica e vivere in modo più sano. Questi sono due aspetti su cui continuerò a lavorare perché voglio rimanere qui ancora per un po’.
Tuttavia, per adesso voglio amare il mio corpo così com’è. Voglio che sia normale vedermi come mi vedono i miei figli.
Grazie mille ragazzi.


giovedì 23 ottobre 2014

STORIA DI UNA YAZIDA SCAPPATA DALL’ISIS di Giulia Argenti

15 anni e l’inferno alle spalle
Ha solo 15 anni la giovane e coraggiosa yazida scappata dalle grinfie dell’Isis che ha raccontato la sua incredibile storia all’Associated Press e al Daily Mail
La ragazza era tra le yazide rapite in agosto, per mano dei miliziani del sedicente califfato islamico. 
Un lungo percorso quello affrontato dalla yazida scappata che, separata dalle sue sorelle, anch’esse rapite, è stata portata prima a Mosul e poi a Raqqua. 
Per ben due volte ha tentato la fuga, non esitando a sparare a chi la teneva prigioniera, ma è stato inutile e la yazida è stata venduta come moglie ad un palestinese.
Con l’aiuto della governante della casa, la yazida scappata ha rubato un fucile e ha fatto fuoco sul marito uccidendolo e poi è corsa via. Non sapendo dove andare, però, la ragazza ha deciso di tornare nella casa dove era stata portata dai miliziani insieme alle altre donne. Non riconosciuta, la yazida scappata è stata è stata venduta di nuovo per mille dollari, ad un combattente saudita questa volta. Anche da questo nuovo carnefice la giovane, a cui era stato anche cambiato il nome per non renderla rintracciabile, è riuscita a fuggire dopo aver versato del veleno sulla sua tazza di tè, uccidendolo.
Fino in Turchia 
La coraggiosa yazida non ha commesso lo stesso errore due volte: è fuggita lontano questa volta, non voleva più finire nelle mani di quegli assassini, così è arrivata in Turchia e, qui, ha ritrovato il fratello. Dopo aver pagato la loro libertà con duemila dollari, i due sono stati portati da un contrabbandiere fino a Dahuk, dove si sono rifugiate centinaia di famiglie di yazidi. 
Due sorelle della ragazza sono ancora nelle mani dei tagliagole dell’Isis.

mercoledì 22 ottobre 2014

ALYSSA CARSON: La bambina che sognava di andare su Marte di Elisa Elia

Alyssa Carson: chi è
Se già le figure di donne rivoluzionarie ci sembrano atipiche, in un mondo che ci ha abituati ad una storia fatta da uomini, sentire parlare di una donna astronauta può fare lo stesso effetto. E ancora di più se questa donna non è altro che una bambina di soli tredici anni: si tratta di Alyssa Carson, proveniente da Baton Rouge, in Louisiana. Alyssa Carson si sta preparando da quando ha otto anni e sta svolgendo il suo allenamento alla Nasa, dove ha completato tre campi spaziali. Ma, il sogno di andare nello spazio, inizia da molto prima: come spiega lei stessa nel suo blog, “già all’età di tre anni volevo realizzare il mio sogno di diventare astronauta.” E ora, la sua meta è Marte.
Verso Marte – La forza di Alyssa Carson è stata premiata proprio qualche giorno fa, il 9 ottobre, quando Alyssa è risultata essere l’unica persona che è riuscita a completare il Nasa Passport Program. Da quel momento, è stata invitata a trasmissioni televisive della Nasa per discutere delle future missioni su Marte: “Spero di essere la prima o una dei primi ad arrivare su Marte. Mi piacerebbe andarci perché è un pianeta su cui nessuno è stato prima. E’ all’incirca della stessa forma della Terra e ci sono calotte di ghiaccio in alto e in fondo su Marte. E questo significa che c’è acqua. Potrebbe essere la nostra prossima terra. Pensate a tutte le cose che ci sono nello spazio: pianeti che non abbiamo mai esplorato, galassie di cui non abbiamo mai sentito parlare, stelle che sono appena nate. E’ più di quanto possiamo immaginare. Io sono la generazione Marte.”
Il futuro di Alyssa Carson – Sarebbe bello se, un giorno, guardando con ansia sullo schermo il primo atterraggio su Marte, vedessimo i piedi di Alyssa Carson poggiarsi per primi sul pianeta. Sarebbe una grande vittoria per Alyssa e per noi; del resto, Alyssa Carson dimostra come il pregiudizio che le donne non siano adatte ad attività scientifiche sia ormai del tutto fuori luogo – e del resto, ci aveva pensato già qualche tempo fa Maryam Mizrzakhani, che ha vinto la Medaglia Fields. Alyssa, dunque, ha già programmato il suo futuro prossimo in vista del suo scopo e ha già un nome in codice: Bluebarry, per la tuta blu che la accompagna nel suo allenamento aerospaziale. Per il resto, il futuro prevede la maturità, un periodo di studio a Cambridge, poi a International Space University of France e infine un dottorato in astrofisica.



martedì 21 ottobre 2014

«Voglio decidere del mio futuro e provvedere a me stessa» di Barbara Bonomi Romagnoli

Mettiamo al centro i diritti delle circa 250 milioni di ragazze che oggi vivono in povertà e nell’impossibilità di desiderare e immaginare il loro futuro
Sono circa 250 milioni le ragazze che vivono in povertà in tutto il mondo; 14 milioni di adolescenti partoriscono ogni anno nei Paesi in via di sviluppo; 4 milioni le madri adolescenti ogni anno in India e con il loro conseguente abbandono scolastico il paese perde 383 miliardi di dollari di reddito potenziale; 3,4 miliardi di dollari – un aumento quasi del 10% – è il reddito nazionale a cui potrebbe arrivare il Kenya se tutte le ragazze (1,6 milioni) completassero la scuola secondaria e le 220.000 madri adolescenti ritardassero la gravidanza.
Queste sono solo alcune delle cifre che saranno presentate oggi a Roma (Camera dei deputati, ore 17) da Aidos, Associazione italiana donne per lo sviluppo, e il Gruppo di lavoro parlamentare Salute Globale e diritti delle donne. Soprattutto sarà annunciata in anteprima italiana la The Girl Declaration, nata nell’ambito del progetto European Alliance for Girls, realizzato fra gli altri da Aidos. Un documento importante nel quale ci sono quattro parole chiave: istruzione, salute, sicurezza – anche economica – e cittadinanza.
Istruzione, perché le adolescenti devono raggiungere l’età adulta con competenze e conoscenze adeguate per partecipare pienamente alla vita economica, sociale e culturale della propria comunità e del Paese di riferimento; Salute perché le ragazze devono avere accesso a informazioni e servizi affidabili, appropriati all’età, che includano l’educazione sessuale e la salute sessuale e riproduttiva, affinché si riduca il numero di gravidanze precoci e l’utilizzo di pratiche tradizionali dannose, incluse le mutilazioni dei genitali femminili; Sicurezza perché le giovani donne devono essere libere da violenza e sfruttamento, essere tutelate dalle leggi vigenti, da sistemi di protezione efficaci ed adeguatamente finanziati e infine dalle loro comunità di riferimento; ma devono anche sapere come costruire e proteggere le proprie risorse economiche e diventare adulte con le competenze necessarie, comprese quelle tecniche e professionali, per avere un reddito sicuro e produttivo. Governi, comunità e settore privato devono rispettare e sostenere i diritti economici delle ragazze; Cittadinanza, perché le donne giovani devono avere parità di accesso a servizi, opportunità, diritti legali e libertà personale, per essere in grado di partecipare pienamente come cittadine alla vita delle comunità e dei paesi in cui vivono.
«In tempi di grande recrudescenza dei fondamentalismi, il messaggio della Girl Declaration risveglia la consapevolezza globale sulla necessità di agire quotidianamente affinché non ci troviamo, come è successo molto spesso in questo ultimo anno, a far fronte a lutti e emergenze a cui non si può rimediare», sostiene Bianca Pomeranzi, rappresentante italiana all’Onu per il Comitato per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Cedaw). «I numeri delle spose bambine, delle forme di mutilazioni genitali più nocive, della violenza sessuale sulle bambine e sulle ragazze non sono che la punta dell’iceberg di discriminazioni quotidiane subite da adolescenti che hanno solo la colpa di essere nate in un corpo femminile – prosegue Pomeranzi – L’impegno a fare dell’educazione, della salute, dei diritti riproduttivi, della sicurezza e della libertà di scegliere la propria vita, una realtà per le adolescenti e le donne di tutto il mondo è al centro dell’azione della Cedaw che si appresta a lanciare nuove “raccomandazioni generali contro le pratiche nocive”, per ricordare a tutti i 198 stati che aderiscono alla Convenzione il dovere di proteggere i diritti umani delle bambine e delle donne. Diffondere il messaggio della Girl Declaration è dunque, una grande opportunità per fare in modo che nella prossima Agenda dello Sviluppo Post 2015 le istituzioni e la società civile non accettino che differenze culturali ed etniche siano causa di discriminazioni inaccettabili».

Poiché il ruolo cruciale che le ragazze possono svolgere nel mondo è stato ignorato dai precedenti Obiettivi di Sviluppo del Millennio, per evitare che riaccada è stata scritta la Girl Declaration: non è più possibile, dicono le promotrici, sottovalutare l’azione svolta dalle donne per migliorare e trasformare le comunità, le società e l’economia dei propri paesi. È necessario, e non più procrastinabile, mettere al centro delle politiche dello sviluppo l’empowerment e i diritti delle circa 250 milioni di ragazze che oggi vivono in povertà e nell’impossibilità di desiderare e immaginare il loro futuro.

lunedì 20 ottobre 2014

Donne, il karma non basta chiediamo l’aumento!di Elisabetta Ambrosi

“Ssss… zitta che sta passando il capo”.
“Embè? Anzi, guarda, volevo proprio chiedergli un aumento”.
“Cosa? Ma che sei impazzita? Non hai visto quello che ha detto Satya Nadella?”.
“No, è chi è?”.
“Il Ceo di Microsoft. Ha detto che le donne non devono chiedere aumenti, ma avere fiducia nel sistema che alla fine gli darà quelli giusti”.
“Eh? Scusa, ma io sto qui da cinque anni e il sistema non mi si è proprio filato”.
“Sì, ma dice Nadella che sarà il karma dei manager a realizzare quando è tempo di darli”.
“E se il manager il karma non ce l’ha? Oppure ce l’ha a intermittenza?”.
“In che senso?”.
“Beh, il tipo accanto alla mia scrivania fa le stesse cose che faccio io e guadagna un terzo in più”.
“Si vede che ha avuto fiducia”.
“Macché, l’ho visto entrare l’altro giorno nella stanza del capo e uscirne gongolante. Gli avrà portato due etti di karma”. “Ma noi donne tanto lo sappiamo che valiamo, no?”.
“Daje con ‘sto discorso. Non potremmo sapere di valere e pure guadagnare uguale? Che poi il valore deriva pure da quello che ti danno, come diceva il buon Marx”.
“E chi è, un super eroe?”.
“Macché il filosofo tedesco. Basta con tutto ‘sto spiritualismo, diceva, alla fine contano i rapporti di forza. Che a furia di dire che per le donne conta altro, lavoriamo come i maschi ma la borsa la tengono sempre loro”.
“Mi sa che c’hai ragione”. “Eccerto”. “Guarda ‘sta ripassando il capo. Glielo diciamo?”.
“Sì. Insieme?”.
“Vai”.

“Capo, dacce l’aumento!!!”.

venerdì 17 ottobre 2014

Si è spenta un'intelligenza luminosa di Lidia Ravera

Riderebbe di questa frase, Mariella. Abbiamo vissuto abbastanza tutte e due per trovare inadeguato, retorico, superfluo ogni commento alla morte. L'unico opportuno essendo, infatti, il silenzio. Ma non un silenzio qualunque. Il silenzio che ti cade addosso quando sparisce il tuo interlocutore, la persona con cui amavi parlare.
È un silenzio cupo impotente definitivo. Non una punteggiatura, non un'interruzione, non una pausa. Un silenzio pesante e atroce e illimitato. Per questo abbiamo bisogno tutti di parlare quando muore una persona che abbiamo amato, che vorremmo continuare ad amare, e non sappiamo come. Come si continua ad amare quando tu ci sei ancora e l'altra non c'è più? Con il pensiero? Con il ricordo? Consolando i suoi figli? È per questo che ci si mette a parlare, superando il senso di superfluo e inadeguato.
Ci si riunisce e si parla.
Perché non si ha il coraggio di restare in silenzio.
Si loda la protagonista di una assenza, si evocano quadri recenti o antichi di vita vissuta insieme.
Proprio nel momento in cui si dovrebbe tacere si prova un'impellenza di parlare. Un'urgenza mai provata prima. Io non faccio eccezione.
Dopo aver pianto, dopo averla guardata, dopo aver abbracciato sua figlia, sento il bisogno di parlare di Mariella. Oggi si è spenta una persona luminosa.
E ho bisogno di dirlo e di ripeterlo.
Una persona luminosa. E generosa. Sì, generosa, perché Mariella prestava attenzione e intelligenza a tutti. Non c'era chiacchiera "femminile" che non contenesse un paio di pepite d'oro. Quel regalo immenso che è l'intelligenza degli altri.
Quel regalo che si trova, già freddo, nei libri, più caldo, più mobile, più raro, nelle conversazioni con le persone luminose.
Bene, Mariella la versava a piene mani la sua intelligenza, senza distinzioni di casta o appartenenza. Senza cascami ideologici, preconcetti, esclusioni.
Abbiamo parlato tanto da quando, nel lontano 1975, Giaime Pintor (morto anche lui, tanti anni fa, ancora giovane) ci presentò l'una all'altra.
Parlare ci metteva di buon umore. Qualunque cosa dicessimo, anche la più pessimista.
Parlava bene, Mariella, con quella voce ondeggiante e morbida.
Parlava con una precisione chirurgica e ti accorgevi che aveva capito quasi sempre qualcosa in più degli altri. E da subito, fin da quando era una bella ventenne vestita con allegra disattenzione e innamorata della politica.
Sì, innamorata della politica e capace di vederne le potenzialità nobili sempre, anche nei tempi più oscuri, senza mai allinearsi alle schiere dei denigratori, senza mai accettare alcuna forma di connivenza con i denigrati.
Per anni ha governato la città, Mariella, e io, di recente, ancora e fino all'ultimo, le ho chiesto aiuto, avendo accettato un incarico politico, dopo una vita da romanziera, le ho chiesto se aveva senso, se si poteva , se non era ormai tutto perduto... Mi ha risposto che sì, che qualche piccola buona cosa si può sempre fare, qualche piccola cosa concreta per migliorare anche di poco la qualità della vita dei cittadini.
Non si nascondeva mai dietro il pathos, Mariella, non recitava, non si metteva in scena, rifuggiva da ogni tentazione lirico estremista.
La ascoltavo con ammirazione.
Il coraggio della lucidità, quando non diventa distruttivo, è merce rara.
Abbiamo parlato di tutto, nel corso degli anni, io e Mariella.
E alla fine abbiamo parlato molto anche della morte.
Alla fine? No, non soltanto in prossimità della fine. Anche prima, perché la morte ha tallonato Mariella senza un momento di tregua per molto tempo.
Malattie, ancora malattie, operazioni.
E lei opponeva ad ogni nuovo insulto del destino una fermezza epica, una razionalità commovente.
Un realismo mai autoindulgente.
Guardava in faccia uno per uno tutti i suoi mostri.
I nostri mostri, perché, più vicini o più lontani, i mostri sono gli stessi per tutti. La vecchiaia, la malattia, la morte. La tua, quella della persona che ami.
Li guardava in faccia e provava ad addomesticarli con le parole, a cauterizzare le molte ferite della sua anima e del suo corpo con il ragionamento.
Pacata, anche quando era disperata.
Mai scomposta, mai arresa.
Mi mancherai terribilmente, Mariella.

Perciò sarò costretta a continuare a parlare di te.

mercoledì 15 ottobre 2014

Addio a Mariella Gramaglia, una vita per le donne

Il giornalismo, la politica, l’impegno sociale. Era editorialista de La Stampa. diceva: «Il femminismo è stata la più grande scoperta della mia vita».

L’ultima vita di Mariella Gramaglia è stata ancora e sempre a fianco delle donne ma in India, dove aveva iniziato a collaborare con Sewa, il più importante sindacato femminile di un Paese dove le pari opportunità sono un sogno ancora più che in Italia.
 «Non sto scappando dall’impegno né dalla politica», spiega la scelta nel suo blog. Non c’è nemmeno voglia di eroismi o di rischiare, continua.
 Più semplicemente: «Mi sto facendo un bellissimo regalo di libertà». 
Parole che suonano ancora più belle e piene di significato lette ora, dopo che una malattia ha spento anche quest’ultima vita di Mariella Gramaglia.
Sono state tante le sue vite, a partire dall’infanzia a Ivrea, la laurea in filosofia nel 1972, l’arrivo a Roma, il femminismo che le i definisce “la più grande scoperta della mia vita”. Da quel momento inizia a lavorare nei giornali: al Manifesto, alla Rai, al Lavoro, fino a diventare editorialista della Stampa in questi ultimi anni. Nel 1985 inizia a dirigere Noidonne, incarico che segnerà una svolta ulteriore nel suo impegno.
Nel 1987 entra in Parlamento come deputato della sinistra indipendente. Appoggia Occhetto nel difficile passaggio dal Partito Comunista al Pds, lavora in Campidoglio con Rutelli e con Veltroni.
 Di quel periodo ricorda la fatica ma ne rivendica i risultati con un 0rgoglio sempre più raro da trovare nella classe politica:
 «L’elenco tecnico delle cose fatte per cercare di semplificare la vita dei cittadini, comunicare con loro e ascoltare il loro punto di vista, sarebbe lungo e noioso. Quello che conta è la sostanza: la consapevolezza vissuta che i diritti dei cittadini non si esercitano solo una volta ogni cinque anni per votare, ma sono il sale della democrazia ogni giorno. E che la loro dignità, la loro uscita dal ruolo di sudditi o di clientes, è uno straordinario valore per il quale impegnarsi».   

martedì 14 ottobre 2014

Francia, Sandrine Mazetier multa un deputato per averla chiamata “Il Presidente” di Stefania Manservigi

La battaglia per il raggiungimento della parità di genere si combatte (anche) con il linguaggio. È questo il messaggio lanciato da Sandrine Mazetier, vicepresidente dell’Assemblea Nazionale francese, resasi protagonista di un episodio significativo destinato a creare discussione e a riaprire il mai veramente chiuso discorso sulla connessione tra la parità di genere e l’utilizzo di un linguaggio appropriato.
Sandrine Mazetier, vicepresidente dell'Assemblea Nazionale francese, ha multato un deputato per averla chiamata ripetutamente "Il Presidente" 
La Mazetier, infatti, ha multato un deputato che ha insistito nel rivolgersi a lei definendola “Il Presidente” nonostante l’invito della stessa a correggere l’espressione linguistica in “la Presidente”. La sanzione disposta per il deputato è di 1378 euro ed andrà ad intaccare l’indennità mensile percepita.
Una reazione sconsiderata? Non in Francia dove il rispetto di genere è citato e tutelato nel regolamento dell’Assemblea Nazionale francese, a differenza del vuoto regolamentare esistente in Italia dove la parità di genere costituisce da sempre un obiettivo ancora lontano e di difficile piena realizzazione.
A sottolineare la profonda differenza esistente nelle due nazioni geograficamente così vicine ma culturalmente mai così lontane sull’argomento, è stata la Presidente della Camera Laura Boldrini, da sempre sensibile alla tematica della parità di genere e sostenitrice delle battaglie delle donne per l’affermazione della stessa. Dopo aver inviato una lettera di apprezzamento a Sandrine Mazetier, la Boldrini ha così evidenziato sul suo profilo Facebook la situazione ancora oggi esistente nel nostro paese, che ci distanzia in maniera netta da quanto avvenuto in Francia:
«[...]da noi l’uso scorretto del linguaggio, quello che declina solo al maschile alcuni ruoli di responsabilità rivestiti da donne, è questione che viene liquidata generalmente come una perdita di tempo, un’impuntatura tardo-femminista, talvolta da deridere.
Non conta nemmeno il fatto che l’Accademia della Crusca, la nostra più prestigiosa istituzione linguistica, abbia chiaramente detto che nel denominare le professioni va rispettato il genere di appartenenza.
La Francia ci conferma, se ce ne fosse bisogno, che il tema è serio, e che il rispetto di noi donne passa anche attraverso le parole giuste.»
La battaglia sulla parità di genere nel linguaggio è stata, in effetti, da sempre sostenuta dall’Accademia della Crusca, l’istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana, una vera e propria istituzione per la nostra lingua. Nel maggio 2012, infatti, l’Accademia aveva collaborato alla realizzazione del progetto “Genere e linguaggio. Parole e immagini della comunicazione”. Il progetto, realizzato grazie al finanziamento della Regione Toscana, era nato da una riflessione avviata da tempo dal Comitato Pari Opportunità sul modo in cui il mondo femminile viene rappresentato attraverso le parole e le immagini. In quell’occasione la Presidente dell’Accademia, Nicoletta Maraschio, aveva lavorato alla prefazione dello scritto «Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo». Una presa di posizione non del tutto nuova da parte della presidente che già nel 2011 aveva curato insieme all’Istituto di teoria e tecniche dell’informazione giuridica, una Guida alla redazione degli atti amministrativi. Segni inequivocabili della posizione assunta dall’Accademia della Crusca nell’annosa questione sul linguaggio e la parità di genere.



domenica 12 ottobre 2014

MALALA, UN NOBEL PER LA PACE ( quest'anno) MERITATISSIMO !


La 17enne Malala Yousafzay, oltre ad essere uno dei simboli dei diritti dei minori, è stata premiata anche perché ha vissuto sulla propria pelle la violenza dello sfruttamento e della violazione dei diritti dei bambini: 
”Nonostante la sua giovane età – osserva il Comitato del Nobel – Malala Yousafzay già da anni combatte per i diritti delle bambine all’educazione e ha dimostrato con l’esempio che i giovani possono anche loro contribuire a migliorare la situazione. E lo ha fatto nelle circostanze più pericolose: attraverso la sua battaglia eroica, è diventata una voce guida per i diritti dei bambini all’educazione”.
 Malala diventa così la più giovane persona ad aver ricevuto il premio Nobel. Malala è diventata famosa per la sua decisione di donare, a soli 11 anni, il suo diario scritto in urdu alla Bbc, dove raccontava la vita di una bambina sotto il regime talebano nella Valle di Swat. Per questo suo impegno nella lotta per i diritti delle bambine in Pakistan, subì un attacco da parte di guerriglieri taliban: il 9 ottobre 2012, mentre tornava da scuola in bus, un miliziano salì sul mezzo e sparò due colpi che la colpirono alla testa e al collo “non perché lottava i favore dell’istruzione femminile – dichiareranno i Taliban pakistani successivamente – ma perchè faceva propaganda contro di noi e contro la Sharia”. L’allora 15enne venne trasportata d’urgenza all’ospedale di Peshawar e poi trasferita in condizioni critiche a Birmingham, dove venne operata e salvata. Da quel momento in poi, il suo attivismo subì un’accelerata: storico il suo discorso alle Nazioni Unite del 12 luglio 2013. Per il suo impegno, la giovanissima pakistana ha ricevuto, l’anno scorso, il Premio Sakharov per la libertà di pensiero.

Questa edizione del Nobel per la Pace vuole trasmettere anche un altro messaggio di distenzione tra due paesi ormai in guerra dal 1947: l’India e il Pakistan. 
I due premiati sono un’hindu (Satyarthi) e una musulmana (Malala), l’uno accanto all’altra, a simboleggiare la possibilità di dialogo tra due paesi che per anni hanno combattuto per la nascita di un paese di indiani musulmani e, ancora oggi, per il controllo della regione di confine del Kashmir.

sabato 11 ottobre 2014

Perché lo stupro coniugale è un tabù, e non solo in Italia di Luisa Betti Mediaprogetto

In un recente rapporto dell’Unicef, “Hidden in Plain Sight”, si legge che un’adolescente su tre in India viene regolarmente picchiata e violentata dal proprio marito, e che in 190 Paesi del mondo circa 84 milioni di ragazze che hanno o hanno avuto una relazione stabile, è stata vittima di violenza psicologica, fisica o sessuale da parte del marito o del partner, e che circa il 70% delle giovani vittime di violenza fisica o sessuale nelle reazioni intime non hanno mai chiesto aiuto perché non lo ritenevano un problema. Un modo di pensare, quello che all’interno di una coppia sia tutto lecito basta sia l’uomo ad avere questa libertà di decisione, che svela il fulcro della discriminazione delle donne legato allo stereotipo della madre-moglie che nel momento in cui oltrepassa la soglia di casa diventa automaticamente oggetto privato dell’uomo che se l’è scelta. Ma non bisogna andare lontano, per capire come la violenza sulle donne – fisica, sessuale, psicologica o economica – all’interno di una relazione intima, sia ancora un tabù intoccabile nel mondo.
In Italia si è dibattuto aspramente sulla sentenza della Cassazione che ha accolto il ricorso di un 48enne veneto condannato per maltrattamenti e per violenza sessuale sulla moglie (artt. 572 e 609 bis c.p), disponendo un nuovo esame del caso sulla possibilità di applicare le attenuanti all’uomo e annullando con rinvio la sentenza della Corte d’appello di Venezia (07/10/2013) che aveva rifiutato la richiesta di uno sconto di pena dell’offender, confermando la sentenza di condanna del Tribunale di Vicenza.
In particolare la Suprema Corte – sentenza 39445 – ha accolto la richiesta del ricorrente che “deduce come debba assumere rilevanza la qualità dell’atto compiuto (e segnatamente il grado di coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione) più che la quantità di violenza fisica esercitata”, dichiarando che “nella specie è mancata ogni valutazione globale del fatto in particolare in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol”, e che “ai fini della concedibilità dell’attenuante di minore gravità, assumono rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili (…) al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni, fisiche e mentali, di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”, concludendo infine “che così come l’assenza un rapporto sessuale completo non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità”.
Sentenza di fronte alla quale donne singole e appartenenti ad associazioni, si solo alzate per condannare questo rinvio che aprirebbe una porta alle attenuanti per l’offender, senza però andare a fondo su quello che veramente sottintende un’indicazione che in un caso come questo rimanda il pacco al mittente dicendo: riguardatelo bene che manca qualcosa.
Il primo fatto contestato è che “le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol”, e per questo forse meno gravi: un dato in cui la giurisprudenza indica che se è vero che l’art. 91 c.p. esclude l’imputabilità – o prevede la riduzione della pena applicabile nel caso di parziale incapacità – quando l’ubriachezza sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore, cioè se è “accidentale”, è anche vero che l’ubriachezza volontaria o colposa, non esclude né diminuisce l’imputabilità (art. 92 c.p.). Un fattore però, quello dell’alcol, che un esperto della materia saprebbe essere ingrediente costante di una parte della violenza domestica nel mondo – soprattutto nei Paesi nordici – dove però l’uso di alcol da parte del partner violento non determina l’atto in sé, in quanto l’offender è considerato violento a prescindere, a riprova del fatto che non tutti gli ubriachi sono violenti. Un concetto che è alla base della comprensione del fenomeno della violenza sulle donne e di come agisce un offender per il quale i problemi da cui è afflitto non possono essere attenuanti del femminicidio.
Quello che però sorprende di più, in Italia e per quanto riguarda i maltrattamenti in famiglia e la violenza sessuale nei rapporti intimi, è la reale applicazione della legge 119 che ha introdotto a ottobre 2103 misure per rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di “maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori”, indicando nelle “Circostanze aggravanti” (art. 609ter) proprio quelle commesse “nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza” (5-quater). Normative che dovrebbero aver dato maggior peso alle violenze che avvengono nella coppia, che sono l’80% della violenza complessiva in Italia, ma che stentano ancora a essere completamente assorbite nell’applicazione della giurisprudenza.
Il dato costante, e questo non solo in Italia, è il fatto che davanti a una violenza domestica si metta in discussione il danno arrecato alla donna: perché forse una donna che viene stuprata e picchiata da un marito ha conseguenze fisiche e psicologiche minori? Oppure è lei che ha un profilo psicologico anomalo dato che ha sposato un uomo violento? O magari non era proprio un no ma un nì e quindi la responsabilità è a metà? In fondo le relazioni sentimentali, si sa, sono conflittuali e per essere violenza deve “scorrere il sangue”. Un modo di pensare, ancorato a stereotipi discriminatori delle donne, che porta a una dubbia applicazione delle norme esistenti, anche valide, e che costringe ancora oggi le donne a esibire prove della violenza subita – in quanto non creduta fino in fondo e quindi costretta a dimostrare pubblicamente e in maniera estenuante di essere stata sottoposta a maltrattamento e a stupro – fino a un’esposizione rivittimizzante. Eppure è la stessa Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia e ora in vigore, a sottolineare non solo la gravità della violenza domestica (indicata anche nel titolo) in tutte le sue forme, ma anche a specificare che le Parti devono mirare “ad evitare la vittimizzazione secondaria” (Articolo 18 – Obblighi generali) che significa non sottoporre le donne a ulteriore violenza anche, tra le altre forme, nel momento in cui si verifica l’accaduto nei tribunali e se ne narra in sedi pubbliche.
Ma la verità è un’altra e risiede in un tabù, e cioè che lo stupro, ancor più della violenza fisica, all’interno di una relazione intima o di un matrimonio, è considerato una violenza di serie B: un fatto per cui se non arrivi massacrata e lacerata, o addirittura morta, non è dimostrabile fino in fondo. Un problema culturale che riguarda i doveri coniugali di una donna relegata al ruolo di moglie-madre che non è solo italiano e che attraversa tutte le società del Pianeta. Diciamo pure che rimane la punta di diamante della discriminazione delle donne in una cultura che non ammette che i diritti umani disturbino la quiete familiare e soprattutto mettano in discussione la sua riproducibilità biologica attraverso il “mezzo” femminile, costi quel che costi. Ed è per questo, come ripetuto tante volte, che si possono fare le migliori leggi dell’Universo ma che se non si cambia la cultura tutto rimane inalterato.
Viviane Monnier è co-fondatrice del primo numero verde nazionale francese “Violences conjugales”, e oltre a fare parte dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne della Lobby Europea delle donne, dirige il centro antiviolenza “Halte Aide aux Femmes battues” (HAFB) di Parigi, e secondo lei anche in Francia, che è più avanti di noi su molte cose, ci sono buone leggi che continuano a non essere applicate per una questione di mentalità: un buco che produce un sommerso indescrivibile. “Nei tribunali – dice Viviane Monnier – i giudici hanno una professione libera, sono indipendenti ma soprattutto sono intoccabili. Molti pensano di essere neutri, e magari ti dicono anche che sono sensibili sulla violenza contro le donne, eppure ancora adesso davanti a un tribunale gli elementi di prova per una violenza domestica, dove magari ci sono dei bambini, non bastano mai, e spesso si sente ancora la frase che se anche un marito è violento in fondo può essere comunque un buon padre. Una mentalità che si perpetua in maniera devastante tanto che se le sanzioni applicate per le violenze fatte da sconosciuti fossero applicate anche per la violenza domestica, avremmo le prigioni piene di uomini che invece stanno a casa e continuano a fare quello che sappiamo”.
“Anche se oggi va meglio rispetto a quando ho cominciato questo lavoro – continua Monnier – succede ancora che se un marito fa due anni di prigione significa che ha massacrato la moglie, e il termine di paragone è che se quell’uomo avesse fatto a una sconosciuta quello che ha fatto alla moglie, sarebbero stati sicuramente dai 5 ai 10 anni. Ma nel penale la tragedia è nello stupro delle donne da parte del partner – spiega – perché nell’immaginario collettivo per chi vive con qualcuno le relazioni sessuali sono un atto dovuto, ed è per questo che lo stupro coniugale viene denunciato da pochissime donne che in realtà si vergognano e si convincono che sia normale che un marito le costringa ad avere rapporti sessuali. Non entra in testa che lo stupro esiste anche all’interno di relazioni coniugali e convivenze. Questo è il tabù più forte. E allora come fai a denunciare quando sai che non sarai creduta? In verità quando le donne denunciano, spesso la reazione in tribunale è: sì, ma qual è la prova del danno che hai subito? Se è uno sconosciuto la prova è il Dna ma per il marito questa prova non c’è. E allora va accompagnata da violenze fisiche e psicologiche che però devono essere pesanti e devastanti, altrimenti non sussistono. E poi vuoi sapere che fine fanno queste denunce? Molte vengono archiviate”.


venerdì 10 ottobre 2014

Lee Miller di Giovanna Bertelli

Poughkeepsie, New York 1907 - Farley Farm House 1977
Lee Miller ha occupato, negli ambiti che ha attraversato, posizioni per così dire opposte: tanto da essere allo stesso tempo protagonista di primo piano e personaggio defilato del suo tempo, esaltata e allo stesso tempo celata da chi lavorava con lei, modella e fotografa.
Nasce a Poughkeepsie, nello stato di New York, in una famiglia borghese; il padre, inventore, ha un interesse particolare per la fotografia e ben presto sceglie la figlia come modella per i suoi scatti, oltre ad introdurla ai segreti della ripresa e del laboratorio.
A soli 7 anni subisce uno stupro da parte di un amico di famiglia.
A 19 anni, attraversando una via di New York, Condé Nast in persona, il fondatore del colosso editoriale proprietario di «Vogue» e «Vanity Fair», nota la sua bellezza e frena l’automobile su cui viaggia. Lee Miller diventa una fotomodella di «Vogue». È fotografata da Edward Steichen, il più noto ritrattista del tempo e fotografo capo di «Vogue» e «Vanity Fair», da Heunyngen-Heune e Arnold Genthe. Il volto di Lee si affaccia dalle copertine delle riviste per signore. È tra le più famose ed apprezzate fotomodelle, la sua bellezza non passa inosservata. Nel 1928 è coinvolta in uno scandalo commerciale: un suo ritratto a figura intera, scattato da Steichen, è utilizzato per una pubblicità di assorbenti femminili. È la prima volta che l’immagine di una donna è associata ad un prodotto così intimo e le proteste non passano inosservate. Neanche Lee inizialmente approverà la scelta di Steichen, ma poi si ricrederà andando fiera di aver contribuito ad abbattere un tabù tra i più radicati nella società.
Nel 1929 si trasferisce in Europa: a Roma e Firenze studia l’arte e la sua storia, a Parigi è modella per la redazione di «Vogue» Francia e vive nella città culturalmente più vivace di quegli anni. Frequenta il mondo della moda e degli artisti; è fotografata e fotografa lei stessa. Ha un proprio studio, partecipa a mostre, posa come fotomodella per Man Ray e ben presto diventa la sua musa, la sua assistente, la sua amante. È con Lee Miller che Man Ray sperimenta e mette a punto il processo di solarizzazione della stampa fotografica; lo aiuta posando per lui e assistendolo in laboratorio. Si pensa che diverse delle solarizzazioni firmate Man Ray siano state effettivamente realizzate da Lee. Nel frattempo conosce Aziz Eloui Bey, un ricco egiziano. La relazione con Man Ray si interrompe nel 1932. Lee torna a New York ed apre un suo studio.
Ritrattista di grande successo, nel 1934 decide di chiudere l’atelier per sposarsi con Aziz Eloui Bey, e si trasferisce a Il Cairo; fotografa il deserto e le rovine dell’antico Egitto in uno stile fotografico che alterna fotogiornalismo e suggestioni accademiche. Durante un viaggio a Parigi nel 1937 conosce Roland Penrose. Iniziano a lavorare insieme in Grecia e Romania e il sodalizio diventa anche una relazione d’amore. Nel 1939 Lee lascia l’Egitto e si trasferisce a Londra poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Malgrado gli inviti del governo americano a rientrare in patria Miller decide di restare a Londra con Penrose; riesce ad essere accreditata da «Vogue» come corrispondente di guerra. Inizia per lei una nuova epoca. Lei e Margaret Bourke-White, anche se non lavoreranno mai insieme, saranno le uniche donne accreditate presso l’esercito degli Stati Uniti come corrispondenti di guerra. Lee Miller non avrà la temerarietà e le ambizioni di Margaret, ma restituirà un’altra prospettiva femminile del fronte di guerra. Se fino al 1944 fotograferà Londra, le incursioni e i bombardamenti sull’Inghilterra del sud, dopo lo sbarco in Normandia arriverà in Francia e seguirà le truppe nell’avanzata verso Parigi e Berlino. La battaglia di St. Malo, l’ Alsazia, l’incontro a Turgau tra americani e russi. Fotograferà Monaco, Vienna, l’Ungheria. Lavorerà in team con David Scherman, fotoreporter di «Life»: insieme affronteranno battaglie e liberazioni. Lee Miller fotograferà l’entrata degli Alleati nel campo di Dachau e sarà fotografata da Scherman mentre si lava nella vasca del bagno privato di Hitler.
La guerra sarà un’esperienza che la segnerà pesantemente. Continuerà a fotografare ancora per un paio di anni per «Vogue», ma la depressione post bellica e l’alcool pare abbiano la meglio sulla sua volontà. Sarà con l’aiuto di Penrose e dei vecchi amici surrealisti, primi tra tutti Man Ray, che riuscirà ad uscirne. Nel 1947, in attesa di un figlio, divorzia da Aziz Eloui e sposa Penrose. Con lui pubblicherà le biografie di Picasso, Mirò, Tapies, Man Ray, tutte corredate da sue fotografie. Continua a fotografare e scrivere per «Vogue»: ritratti, arte, moda. Nel 1955 sarà chiamata da Steichen per la mostra collettiva The Family of Man.

Il suo ricordo rimarrà per sempre legato agli anni della sua gioventù, quando era tra le più belle e apprezzate fotomodelle. Nel 1977 morirà a Farley Farm House, nel Sussex, nella casa comprata con Penrose nel 1949, meta e punto di riferimento per tanti artisti.

giovedì 9 ottobre 2014

Le donne laureate più brave dei compagni Ma con meno chance di lavoro dei maschi DI FRA. SI.

Finiscono in tempo. Con 110 e lode. Più spesso dei loro coetanei. Ma escono sconfitte nell'occupazione: più disoccupate, oppure impiegate in mansioni che non richiedono un titolo di studio. Un nuovo rapporto fotografa la disparità di genere dopo l'Università. Ancora forte
Voto di laurea: 110 e lode. 
Frequenza: costante. 
Scelta: per passione.
 «Ma svolgi una mansione adeguata al tuo titolo?». 
Il 46,4 per cento delle ragazze ha risposto di no. E per il 38 per cento il no riguarda qualsiasi vaga coerenza con gli studi affrontati. Sono alcuni dei risultati del rapporto "Bachelor" sulle laureate italiane. Mille interviste, in tutto il paese, in diverse facoltà, sul rapporto fra università, interessi e lavoro. Le risposte fotografano un ritardo che non riusciamo a colmare: le giovani universitarie hanno meno possibilità dei loro coetanei maschi, nonostante i risultati siano mediamente migliori.
Il 41,6 per cento delle ventenni intervistate infatti ha preso 110 e lode come voto finale. Fra i maschi la percentuale è di dieci punti inferiore. Ma a questo non corrisponde maggior successo nel difficile mondo del lavoro di oggi.
 La disoccupazione infatti colpisce le giovani più loro dei compagni: una ragazza su due fra quelle residenti al Sud è senza impiego. 
Al Centro il 28,7 per cento delle laureate contattate è senza stipendio a un anno dalla fine degli studi. Per i laureati la percentuale è del 12,7.
 Così al Nord: 13,2 contro 12 per cento. E anche quando un lavoro c'è spesso non ha nulla a che fare con gli esami superati con lode: solo per un terzo dei giovani (meno per le compagne di classe) il posto occupato valorizza la fatica di cinque anni in facoltà.

Altri dati emergono dal rapporto di Bachelor, una multinazionale italiana che si occupa di ricerca e selezione di talenti per le aziende; che la differenza di genere riguarda ancora alcuni indirizzi (35 su cento le donne nell'area umanistica, contro gli 11 uomini, e l'inverso in Ingegneria: 4,6 quote rosa su 22,5 matricole maschili) ma non tutti: legge, economia, architettura e tutta l'area scientifica sono ormai in quasi parità. E che nella scelta dell'indirizzo di studio per le ragazze conta più il proprio interesse dei consigli altrui: i maschi intervistati hanno dichiarato di aver seguito i suggerimenti di professori e parenti con più costanza rispetto alle colleghe.

mercoledì 8 ottobre 2014

Storia di Hawa, la «nonna» che ha salvato 90mila profughi somali di Carlotta De Leo

«Mia madre sognava che diventassi una persona importante». E così è stato: Hawa Abdi Diblawe, medico e attivista per i diritti umani ha passato la vita ad aiutare i rifugiati e, nel 2012, è stata candidata al Nobel per la Pace. In oltre 22 anni passati nel Corridoio di Afgooye, travagliata regione a nord ovest della Mogadiscio, oltre 90mila persone hanno trovato un riparo nel campo profughi nato spontaneamente nel giardino di casa sua.
«Per lo più sono venuti donne e bambini in fuga dagli orrori della guerra civile. Fanno tutti ormai parte della mia famiglia. Le mie figlie, Deqo e Amina, sono diventate dottoresse e ora lavoriamo tutte insieme». A Cosenza, per ritirare il premio Cultura Mediterranea, Hawa (ormai la «nonna dei rifugiati») è arrivata proprio insieme a Deqo che ora gestisce la Fondazione nata da un piccolo ambulatorio di provincia per la salute delle donne. «Mia madre rimase incinta del suo settimo figlio quando io avevo appena 11 anni. Mentre la sua pancia cresceva, lei era sempre più debole e sofferente. La morte in Somalia può arrivare attraverso le violenze, le malattie o anche il parto – ricorda – È per questo che sono diventata un dottore, una ginecologa, perché volevo risparmiare ad altri le sofferenze che avevo patito io».
Con l’aiuto della Russia, Hawa si è laureata all’università di Kiev ed è diventata la prima ginecologa donna in Somalia. «Io sono cresciuta in tempi molto diversi, la Somalia era un Paese diverso –ricorda – La mia Mogadiscio era il posto migliore di tutta l’Africa. Nelle zone rurali, i bambini avevano latte fresco, carne fresca e aria fresca. La vita era molto semplice e molto tranquilla».
Ma nel 1991 tutto cambiò. «Quando il governo cadde, sempre più persone vennero all’ambulatorio e a casa in cerca di un rifugio dai combattimenti delle città. Mi sembrò doveroso dare a tutti un posto per dormire e sentirsi sicuri. Piano piano si sparse la voce e aumentava la gente che bussava alla nostra porta. Quando nella nostra casa non ci furono più letti liberi, le famiglie dormivano fuori sotto gli alberi del nostro giardino».
È da quell’accampamento di fortuna che è nato il suo villaggio: «Non è sempre stato facile, negli anni abbiamo temuto per la nostra vita: più volte mi sono trovata di fronte ai guerriglieri».
La Somalia di oggi si sta avviando verso la normalizzazione, ma « il governo è ancora troppo debole. Non riusciamo ancora ad avere una stabilità, alcuna sicurezza. E le vere vittime di questa tragedia sono proprio le donne e i bambini – racconta Hawa – Il nostro Paese sta soffrendo da 22 anni ininterrottamente. L’emergenza oggi è la mancanza di lavoro. Con la guerra, era impossibile lavorare, produrre, sfamare la propria famiglia. E la conseguenza è che nei campi i bambini muoiono per fame. Non per malattie incurabili: è la malnutrizione che se li porta via».
Tra le emergenze, anche quella dell’educazione soprattutto per le bambine. «Nel nostro campo c’è una scuola elementare che di fatto copre fino alle medie, dalla prima all’ottava classe. Il prossimo anno creeremo anche una scuola superiore – dice Deqo che aiuta la mamma a organizzare le lezioni- Ovviamente dobbiamo fronteggiare diversi problemi: mancanza di fondi, di insegnanti, di spazi e attrezzature. Ma nonostante tutto, il 25% dei nostri bambini riceve un’istruzione di base».

Per le ragazze, poi, la situazione è ancora più complessa: «I figli sono fonte di reddito per le loro famiglie, soprattutto le bambine che si occupano, a loro volta, della gestione degli altri piccoli e della casa. Per questa ragione, stiamo cercando di aprire questa un asilo dove le famiglie possono portare i neonati. E finalmente anche le bambine potranno andare a scuola» conclude Deqo.

martedì 7 ottobre 2014

SOLDATESSE PUBBLICATO DA PAROLADISTREGA

Nei social (soprattutto Facebook) gira la testimonianza di Jacques Berès, fondatore di Medici senza Frontiere, sulla situazione curda
E colpisce molto ciò che Berès riporta sulle donne armate curde, vere eroine combattenti, temute anche dall’ISIS (il c.d. nuovo Stato Islamico): “Almeno il 40% dei guerriglieri che ho operato in seguito a gravi ferite provocate da esplosioni, missili e bombe sono donne. Questa è una caratteristica unica nella regione. Le strutture della società sono laiche, il ruolo della donna qui è importante, a capo di ogni istituzione ci sono generalmente un uomo e una donna, una visione nettamente in contrasto con la misoginia tipica di queste zone del Medioriente e soprattutto che cozza con la visione integralista che vogliono imporre i seguaci del Califfo. Sono stato a un chilometro dal fronte di battaglia con l’ISIS. Ho visto molte donne guerrigliere e anche giovani respingere gli assalti dei jihadisti con armi modeste.”
Da questa notizia (non nuovissima, perché sapevamo dell’esistenza delle donne curde armate, ormai da un po’ di tempo) nascono commenti ed opinioni di donne sul tema delle “DONNE NELL’ESERCITO” (comprendendo nelle discussioni, eserciti nazionali o gruppi partigiani di resistenza).
Le femministe storiche non amano l’idea delle armi e della donna nell’esercito, rifiutando in tal senso un modello maschile di “risoluzione dei conflitti”.
C’è un rifiuto delle armi e della violenza come problem solving di tensioni sociali, culturali, economiche.
C’è un rifiuto delle donne nell’esercito, considerando il tutto come una “ripetizione” degli errori al maschile.
Quindi: le donne devono e possono risolvere in modo alternativo e diverso la società e la cultura, perché volere la parità dei diritti-doveri non significa cerca di imitare i lati peggiori e distruttivi del mondo maschile.
Condivido questo pensiero.
MA. C’è un MA.
Come ho scritto nel gruppo FEMMINISTE di Facebook – come commento al post di una giovane soldatessa, che sollecita l’arruolamento di donne nell’esercito italiano – deve esistere una “via di fuga”, una “via di emergenza” rispetto al pensiero di fondo, a quello che poniamo come uno dei “principi etici” del femminismo.
La “via di emergenza”, secondo me è la seguente: non si può dire in senso assoluto che le donne rifiutano le armi e l’esercito.
Facile dirlo in tempo di pace.
Facile dirlo se non stiamo vivendo la situazione delle donne curde.
Facile dirlo se non siamo sottoposte alla minaccia di RAPIMENTI, STUPRO, MASSACRO da parte di fanatici organizzati in esercito.
Se fossimo nelle donne curde, rifiuteremmo l’uso delle armi?
Se fossimo nelle donne curde, attenderemmo in santa pace di essere stuprate e vendute come schiave?
Se fossimo nelle donne curde, non difenderemmo le nostre madri, sorelle e figlie?
Io sono contro le armi: tutte, sia ben chiaro. Proprio non ne sopporto neppure la vista. Odio anche la caccia, figuriamoci se tollero l’uso delle armi in “normali condizioni di vita”. Ma non sempre e non in tutto il mondo, esistono “normali condizioni di vita”.
La violenza fa parte dell’uomo, da sempre.
Certo, sarebbe bello contrastarla civilmente, combatterla con le parole, le azioni positive, il confronto, il dialogo costruttivo. Ma ci sono momenti storici e contesti culturali dove la PAROLA non basta a garantire la sopravvivenza di sé e del proprio gruppo sociale. Ci sono eventi più grandi delle buone intenzioni delle donne. Purtroppo.
Io ammiro quindi le donne curde: stanno dimostrando al mondo intero una forza, una determinazione, una capacità organizzativa incredibile. Non sono donne di eserciti occidentali, finanziati e strutturati: sono al livello di partigiane sulle montagne, nel senso che gli arruolamenti e gli addestramenti avvengono in situazione di emergenza.
Ricordate le nostre partigiane?
Sì, c’è chi sostiene che alcune combattevano senza armi. Ma senza armi il nazismo e il fascismo sarebbero sopravvissuti. Purtroppo le guerre non si fanno con le parole, il sangue non si lava con le parole, le teste e gli arti mozzati non si “ricuciono” con le parole.
Pur odiando le armi, mi chiedo quindi cosa farei di fronte al pericolo di violenza e morte: credo che il mio ”spirito di sopravvivenza” sarebbe più forte di qualsiasi altro spirito, volontà e buona intenzione.
Sono femminista e il femminismo odia le armi. Ma ama le donne.
Quindi, credo che – in fondo – le amiche femministe comprenderanno la difficile e terribile posizione delle donne armate curde: hanno scelto di combattere. Per sopravvivere.