martedì 30 novembre 2021

Aborto: almeno 22 gli ospedali con il 100% di obiettori

Ass. Luca Coscioni: Speranza invii ispettori presso le strutture 

(ANSA) - ROMA, 29 NOV - 

In Italia ci sono 22 ospedali in cui almeno una categoria tra medici ginecologi, anestesisti, personale infermieristico e Oss è obiettore di coscienza al 100%. 

Emerge dall'indagine aggiornata 'Mai dati!' curata da Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista e resa nota con l'Associazione Luca Coscioni. 

Nello specifico, sono 

72 gli ospedali con personale obiettore tra l'80 e il 100% e 18 quelli con il 100% di ginecologi obiettori. 

Quattro invece i consultori con il 100% di personale obiettore. 

Le regioni in cui c'è almeno un ospedale con il 100% di obiettori sono: Abruzzo, Veneto, Umbria, Basilicata, Campania, Liguria, Lombardia, Puglia, Piemonte, Marche, Toscana. "La legge 194 del 1978 prevede che 'gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza - dichiara Filomena Gallo, avvocato e segretario nazionale dell'Associazione Luca Coscioni - Chiediamo al Ministro della salute l'invio di ispettori presso le strutture con il 100% degli operatori obiettori di coscienza e alle Regioni di sapere com'è garantito l'espletamento delle procedure di IVG e in che modo ne garantiscono l'attuazione. Chiediamo anche che la Relazione al Parlamento sia inviata entro febbraio con i dati dell'anno precedente, perché non si comprende in base a quale norma speciale quando vi sono adempimenti di legge il Ministero reputi di essere esonerato dal rispetto degli stessi violandoli come consuetudine invece di dare l'esempio nel rispetto della legge". "I dati aperti non sono una concessione ma un nostro diritto - spiegano Chiara Lalli e Sonia Montegiove - Tutti i dati devono essere aperti, pubblici, aggiornati e per singola struttura. Chiediamo al Ministero di aprire i dati e di proseguire nella raccolta. Chiediamo alle Regioni di fare la stessa cosa e di uniformare le modalità di presentazione dei dati. Solo se i dati sono aperti hanno davvero un significato e permettono alle donne di scegliere in quale ospedale andare, sapendo prima qual è la percentuale di obiettori nella struttura scelta". (ANSA).

https://www.facebook.com/marcoantoniocappato/posts/10161577705657907

lunedì 22 novembre 2021

I numeri della violenza maschile non diminuiscono Alessandra Pigliaru

VERSO IL 25 NOVEMBRE.

Ieri Di.Re. ha presentato i dati sul 2020: «oltre 20mila le donne che si sono rivolte ai nostri centri, ma i fondi sono scarsi». Intanto, nelle ultime ore, salgono a tre i femminicidi. Autori sono partner o ex. Spesso uccidono anche i figli

L’ultimo femminicidio è avvenuto poche ore fa, a Montese, sull’Appennino modenese. Un uomo ha accoltellato la moglie e in seguito ha cercato di togliersi la vita. Poco distante da lì, a Sassuolo, un altro uomo, ex partner di Elisa Mulas, ha ucciso ieri l’altro lei, la ex suocera e i due figli di 2 e 5 anni. Quante donne muoiano per mano maschile ce lo raccontano le cronache, quasi ogni giorno (alcuni dati si trovano nel sito del Ministero dell’Interno che stila un report settimanale). Che l’intensificarsi di questo fenomeno, strutturale e sistemico, coinvolga sempre più spesso i bambini e le bambine lo rammentano le storie, come quella di Vetralla, nel viterbese, quando un uomo, che aveva il divieto di avvicinamento alla sua ex e al figlio, ha ucciso il bambino di 10 anni.

C’è un denominatore comune in queste vicende, ovvero la volontà deliberata delle donne di fuoriuscire da una condizione di violenza mettendo dunque fine alla relazione. In più di un caso, gli individui che le hanno uccise, o hanno ucciso i figli, hanno contravvenuto a ordinanze e, senza apparente difficoltà, hanno raggiunto le proprie vittime. Qualcosa non sembra funzionare, ed è un fatto di cui si discute da tempo. Lo fanno anche i centri antiviolenza, come quelli della rete Di.Re. che ieri hanno presentato alcuni dati (relativi al numero di donne che si rivolge ai Centri) insieme alle iniziative in vista del 25 novembre (giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne) e della manifestazione organizzata da Non Una Di Meno di sabato 27.

LA RILEVAZIONE presentata ieri, curata da Sigrid Pisanu e Paola Sdao, copre l’intero 2020. Hanno partecipato 81 organizzazioni aderenti a Di.Re per un totale di 106 centri antiviolenza di cui il 60% può contare su almeno una struttura di ospitalità, cioè le case rifugio – strutture essenziali in casi di allontanamento necessario dall’abitazione famigliare, non solo per le donne ma anche per i figli. Che le case rifugio (insieme alle case di semi-autonomia), 64 in totale, siano in numero insufficiente in tutto il territorio nazionale è un dato che colpisce ma non sorprende, non si possono fare miracoli con pochi fondi distribuiti in maniera eterogenea. Il 72% dei centri usufruisce di finanziamenti pubblici di fonte regionale (i fondi più consistenti in Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Toscana), oltre la metà beneficia di finanziamenti comunali (l’Emilia Romagna è la più virtuosa) e circa un terzo dal Dipartimento pari opportunità. Ci sono poi i finanziamenti privati che sono una fonte per il 75% dei centri. Il lavoro di Di.Re., che fa accoglienza, offre consulenza legale, psicologica e percorsi di orientamento al lavoro, insieme a consulenze genitoriali, gruppi di auto-aiuto e consulenza alle donne immigrate, è dunque su base largamente volontaristica. Anche nel 2020, con 20mila donne accolte, di cui 13mila al primo contatto (dunque accolte per la prima volta), sono le volontarie a sostenere le attività dei centri, soltanto il 32% delle oltre 3mila viene retribuita.

IL DATO relativo ai profili delle donne che si rivolgono a un centro antiviolenza è omogeneo rispetto agli anni precedenti, il 54,7% ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, la maggior parte è di nazionalità italiana e una donna su tre non ha reddito. I tipi di violenza vanno da quella psicologica a quella economica, dalla violenza sessuale allo stalking cui le prime due forme spesso si appaiano. Anche l’autore della violenza è della stessa tipologia: nel 76,4% dei casi è di nazionalità italiana, un’età compresa tra i 30 e i 59 anni, la metà ha un lavoro stabile e nel 60% dei casi sono partner, nel 22,1% sono invece ex.

PUNTO IMPORTANTE della conferenza stampa di ieri è l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria, ne ha parlato Nadia Somma ponendo l’accento sulle «conseguenze più dolorose dei percorsi giudiziari che le donne affrontano per porre fine alla violenza che subiscono, ovvero l’essere rese nuovamente vittime a causa di procedure e approcci che non riconoscono o minimizzano la violenza subita, mettono in dubbio la loro credibilità, le colpevolizzano per la stessa violenza subita, sottovalutano l’impatto della violenza assistita da figli e figlie e impongono forzatamente forme di bigenitorialità che consentono agli uomini maltrattanti di reiterare comportamenti abusanti nei loro confronti».

Ieri, una nota di Donatella Conzatti, segretaria della commissione d’inchiesta sul femminicidio, fa sapere che è stato approvato in Consiglio dei ministri il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il triennio 2021-2023. L’ultimo era scaduto nel gennaio 2021, lamentano i centri antiviolenza che, pochi giorni fa, in una lettera aperta alla ministra Bonetti dal titolo «Forma e sostanza, i finti percorsi partecipati» specificavano come non vi sia stato ascolto e condivisione nel metodo e in alcuni contenuti, augurandosi di essere smentite quando si conosceranno meglio i dettagli.

https://ilmanifesto.it/i-numeri-della-violenza-maschile-non-diminuiscono/?fbclid=IwAR3qPzUFHcXNitpe-4nNjUVXVmtJY5a5QHsAMB70ztD9PHS_7wynh2cF8C8


Le panchine rosse, simbolo del no alla violenza sulle donne, continuano il giro in città


 

mercoledì 17 novembre 2021

Signorini e la propaganda contro l’aborto in prima serata sono un insulto a tutte le donne A cura di Daniela Collu

Alfonso Signorini ha detto in diretta tv, al Grande Fratello che “noi siamo contrari all’aborto”, ma a nome di chi parla e perché nessuno si è ribellato?

Sembra il giorno della marmotta ormai. Ogni mattina un telespettatore si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di leone, gazzella e di Alfonso Signorini che, a suo agio nelle vesti di conduttore del Grande Fratello Vip, dice qualcosa che se poi glielo fai notare diventa che “non si può più dire niente”. Stavolta non parliamo di burqa, ma di aborto. Rivolgendosi in confessionale a Giucas Casella ha detto “noi siamo contrari all’aborto in ogni sua forma, anche quello dei cani”, frase che già di per sé meriterebbe un premio per il dadaismo involontario, ma che apre comunque la riflessione su vari aspetti.

Primo: noi chi? Quando un conduttore parla al plurale, a nome di chi lo fa? Autori del programma? Le reti Mediaset? I concorrenti in gara? Il pubblico? La domanda non è banale, perché dietro a chi parla c’è, o almeno dovrebbe esserci, la responsabilità di quello che si dice. La legge sull’aborto è stata votata diversi decenni fa dal 68% della popolazione, quindi statisticamente, a nome di chi sta parlando Alfonso Signorini? E soprattutto perché non lo specifica?

Secondo: quando Signorini parla di ogni forma di aborto, di cosa sta parlando? È contrario all’aborto terapeutico? O anche a quello reso necessario dopo una violenza sessuale? È contrario all’aborto praticato legalmente nelle strutture sanitarie (ammesso che si riesca a fare, vista la quantità di medici obiettori) o alle centinaia di aborti clandestini praticati ancora in un paese in cui vergogna, moralismo e giudizio vengono propinati in prima serata come se niente fosse?


https://www.fanpage.it/attualita/signorini-e-la-propaganda-contro-laborto-in-prima-serata-sono-un-insulto-a-tutte-le-donne/

venerdì 12 novembre 2021

Afghanistan, continua la lotta delle donne: «Ci vogliono seppellire. Ma denunciare il regime è un dovere» di Chiara Sgreccia

Dopo quasi tre mesi della presa di Kabul le attiviste di RAWA non mollano. E guidano la resistenza contro il dominio talebano: «Forse non riusciremo a rovesciare il regime ma non smettiamo di aiutare la nostra gente»

«Ci siamo sempre opposti con veemenza all'occupazione degli Stati Uniti e dei loro alleati. Hanno invaso l'Afghanistan sotto le bandiere della guerra al terrorismo e dei diritti delle donne ma hanno solo rafforzato il fondamentalismo». A raccontare è una donna che preferisce non dire il suo nome. Parla al plurale, in nome di RAWA - Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane di cui fa parte. Nata negli anni Settanta come movimento femminile di resistenza all’occupazione sovietica, oggi opera in clandestinità. È una delle organizzazioni più importanti per la difesa dei diritti delle donne in Afghanistan sulle quali, forse più che su tutti gli altri, pesa il ritorno del dominio talebano.

«Gli ultimi 20 anni hanno trasformato il paese in un bagno di sangue e lo hanno lasciato nella corruzione e nell'insicurezza. Sono morte più di 240 mila persone dal 2001 - quando gli Stati Uniti e la Nato hanno invaso il paese - a oggi, nelle aree di guerra tra Afghanistan e Pakistan, sono stati sprecati migliaia di miliardi di dollari. Nessuno ha ascoltato i reali bisogni del popolo perché alla base dell’invasione occidentale ci sono sempre stati gli interessi economici, geopolitici, militari, come il traffico di oppio, la vendita di armi, la posizione strategica in Asia Centrale e la ricchezza mineraria del sottosuolo. Ma l’occupazione ha avuto bisogno anche di un volto umano per ottenere il supporto dell’opinione pubblica. Tra i documenti segreti sulla guerra in Afghanistan resi noti da WikiLeaks, c’è quello in cui la CIA consiglia di usare le donne afgane come strumento per accrescere il consenso della popolazione verso il conflitto, per provocare indignazione, perché il possibile ritorno dei Talebani avrebbe deteriorato le condizioni di vita delle donne».

Però, prima ancora che gli americani e la Nato terminassero il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, lo scorso agosto i talebani sono tornati davvero. Sono entrati nel palazzo presidenziale di Kabul, la capitale, e hanno preso il potere. Hanno promesso che la stampa sarebbe rimasta libera - purché non andasse contro i valori nazionali - e che le donne avrebbero visto i loro diritti rispettati - anche se all’interno di un sistema di leggi basato su una rigida interpretazione della legge islamica. Ma ora che sono di nuovo al comando, e che l'attenzione internazionale inizia a rivolgersi altrove, i Talebani mostrano il loro vecchio volto.

Che fine hanno fatto le loro promesse?

«Il desiderio dei Talebani di essere presi sul serio dall’Occidente non ha cambiato la loro natura che è e sarà sempre misogina, inumana, barbara, reazionaria, antidemocratica e anti-progressista. La situazione nel paese è di totale caos e devastazione. Oggi le città afgane sono tristi, cupe e grigie: non si sente più musica o le voci delle persone lungo le strade. La gente esce poco di casa perché ha paura. Ci sono pochissime automobili perché il gas e la benzina costano caro. La situazione economica è disastrosa: è quasi raddoppiato il prezzo degli alimenti di base, molti prodotti sono scomparsi dal mercato. Le banche, le imprese private, le start-up locali e anche i piccoli negozi stanno chiudendo; le importazioni e le esportazioni sono bloccate. Non c'è denaro e i pochi che lo possiedono, non posso prelevare più di 200 dollari al mese. Secondo UNDP (United Nations Development Programme) il 97% della popolazione rischia di cadere in povertà entro la metà del 2022, se non vengono forniti aiuti internazionali.

Anche il settore sanitario è in crisi, non ci sono le medicine, non ci sono gli strumenti, non ci sono gli operatori sanitari. Il tasso di disoccupazione è altissimo, sono aumentati i suicidi di chi non riesce a sfamare la famiglia o a pagare l’affitto. In molti affermano che quest’angoscia non è affatto diversa dalla sensazione di terrore che si prova in guerra. In più, una delle nostre più grandi paure è che i Talebani trasformino l'Afghanistan in un rifugio sicuro per i terroristi».

Come prima del 2001?

«I cinque anni del regime talebano, dal 1996 al 2001, sono stati bui e soffocanti, ricchi di crimini e atrocità. Le infrastrutture e l’economia del paese erano devastate. Non c'era acqua corrente, elettricità, mezzi di comunicazione come i telefoni, strade funzionanti o forniture regolari di energia. L'Afghanistan era un angolo di mondo completamente dimenticato in cui le donne non potevano uscire di casa se non accompagnate dal mahram (un partente maschio stretto, come il padre, il fratello), andare a scuola, essere curate da medici uomini, lavorare fuori dall’abitazione, fare sport, farsi vedere in balcone, etc. Era vietato anche ridere rumorosamente. No tacchi, no trucco, caviglie coperte. Fustigazioni e pestaggi, le pene per chi non si fosse vestito seguendo le regole talebane. Venivano lapidate in pubblico le donne accusate di aver fatto sesso fuori dal matrimonio».

Dopo cosa è successo?

«Dalla fine del primo regime talebano, la società è cambiata molto: le donne sono andate a scuola, si sono laureate all’università, formate come medici, poliziotte, attrici, giornaliste. Si sono candidate al parlamento, hanno lavorato per il governo, per le organizzazioni internazionali. Questo, però, non è mai stato un merito degli occidentali che hanno invaso il nostro paese, ma il risultato naturale di una società che si evolve. Vent’anni sono molti. Secondo le statistiche, il 25% della popolazione dell'Afghanistan è nata dopo il 2001 e nonostante la quasi totale assenza di libertà le ragazze sono riuscite ad acquisire un'istruzione e competenze grazie al digitale. Internet e la tecnologia hanno giocato un ruolo importante nel progresso della nostra giovane generazione in particolare per le donne che sono diventate più consapevoli politicamente e socialmente».

E adesso?

«Oggi è straziante vedere che gli obiettivi di tante donne, come quelli di studiare o di costruirsi una buona carriera, siano infranti, seppelliti sotto il burqa che in molte non erano più abituate a portare. I Talebani trattano le donne peggio delle bestie. Considerano illegale la detenzione degli animali in gabbia ma le imprigionano tra le quattro mura di casa. Mentre prima le donne costituivano poco più di un quarto del parlamento del paese e il 6,5% dei posti ministeriali, oggi sono escluse dal governo. E nonostante le false assicurazioni la maggior parte, deve ancora tornare in ufficio o in aula. L’edificio che una volta ospitava il Ministero degli Affari femminili da quando ci sono i Talebani è stato riadattato per accogliere il Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, la polizia morale dei Talebani.

E Il fatto che ancora oggi menzionino costantemente il complesso di regole della Sharia significa che il sistema di restrizioni e regolamenti diventerà sempre più duro e stingente fino a che non ci soffocherà».

Ha mai pensato di lasciare l’Afghanistan?

Non pensiamo che fuggire dal paese sia la soluzione giusta per le donne di RAWA perché, come abbiamo imparato dalla storia, nei momenti di guerra e oppressione il popolo mostra la sua capacità di resistenza. Proveremmo vergogna a lasciare il paese e abbandonare milioni di persone che soffrono. Forse non riusciremo a rovesciare il regime talebano ma non smettiamo di aiutare la nostra gente. È un dovere continuare la lotta e denunciare il regime, i suoi crimini e il ruolo da traditore che hanno avuto le potenze straniere. Nonostante viviamo in una società misogina, fondamentalista e patriarcale, nonostante i divieti, le botte, la paura, le minacce e le morti, le donne afghane continuano a protestare. Nessuna nazione può donare i diritti o la democrazia ad un altro stato. Perciò siamo certe che saranno proprio le nostre donne, ora politicamente consapevoli, a guidare la lotta per la resistenza in Afghanistan. Faranno da apripista perché sanno che cosa significa essere oppresse e, molto più di quanto accada agli uomini, stanno provando sulla loro pelle il dolore per la violazione dei diritti fondamentali, le brutalità del regime talebano».

https://espresso.repubblica.it/attualita/2021/11/09/news/afghanistan_continua_la_lotta_delle_donne-325704656/?fbclid=IwAR19dNPlzJs-gpwX-7ycMfg7_I8HQN7XM2t7J1lwHypqqoPENd5PYMndLIE

giovedì 11 novembre 2021

Hussain Rezai: 'La mia lotta per le donne afghane' di Alessandra De Poli

La testimonianza di un esule hazara che a Daykundi aveva creato una Fondazione in onore della fidanzata uccisa in un attentato. "Volevamo lottare contro l'oblio della memoria, ma i talebani hanno distrutto tutto". Ora in Italia cerca un modo per far studiare la sorella. 

L'uccisione di quattro donne a Mazar-e-Sharif, trovate morte in casa, ha riacceso negli ultimi giorni i riflettori sulla condizione femminile nell'Afghanistan nonostante la propaganda dei talebani. Una di loro - Frozan Safi - era un’attivista e insegnava all’università. Da quanto ricostruito le quattro uccise sono probabilmente state ingannate: avevano ricevuto delle telefonate in cui veniva loro detto che avrebbero potuto lasciare il Paese e si sono fidate delle persone sbagliate.

Una tragedia che ha bucato lo schermo dell'informazione, ma che è troppo simile a tante altre storie che arrivano dall'Afghanistan. “Quando me ne sono andato mi è sembrato di lasciare l’inferno, di scappare di prigione”. Hussain Rezai parla ad AsiaNews tenendo davanti a sé un quaderno con la scritta “Re-born” sulla copertina. Ha un viso grande, pacifico, e sorride mentre sorseggia tè allo zafferano con accanto la sorella Fatima Jaan. “Ho paura che i talebani compiano una pulizia etnica di noi hazara”.

Hussain fa parte della comunità più perseguitata in Afghanistan. In queste settimane sono arrivate numerose testimonianze sugli hazara costretti ad abbandonare i loro villaggi, dopo che i talebani ne avevano confiscato le case e le terre. Dalle province arrivano anche voci di uccisioni extragiudiziali, impossibili da verificare anche perché tutti oggi hanno troppa paura di possibili ritorsioni. Hussain, ora che ha lasciato l’Afghanistan, può raccontare le atrocità che ha vissuto.

È arrivato a Perugia a fine agosto, ma è riuscito a portare con sé solo la sorella. La madre, i fratelli e i due nipoti di cui si prendeva cura dopo la morte di un'altra sorella, sono rimasti indietro. A Kabul lavorava nella commissione anti-corruzione del governo afghano. Dopo l'arrivo dei talebani nella capitale ha cominciato a nascondersi in casa di amici perché non sapeva se e quando sarebbero venuti a prenderlo. “Ho indossato un vecchio peraahan tunbaan, il vestito tradizionale afghano per gli uomini, mi sono fatto crescere la barba e ho smesso di lavarmi per non essere riconoscibile e per non sembrare un ex funzionario”, racconta ad AsiaNews. È stato aiutato a fuggire da un giornalista italiano con cui aveva lavorato nel 2012 e da un parente, Hamed Ahmadi, che li aveva fatti conoscere. Aveva il permesso per far uscire anche i due nipoti, Hadi e Mahdi, che però, in quei giorni frenetici dopo ferragosto in cui le forze occidentali cercavano di evacuare più afghani possibile, si sono persi nella folla e non sono riusciti a entrare all’aeroporto.

La vita di Hussain era stata già sconvolta il 24 luglio 2017, quando un attentato suicida colpì un autobus su cui stavano viaggiando dei funzionari del ministero delle Miniere e del Petrolio. Muoiono 36 persone. Tra di loro c’era anche Najiba Bahar, la sua fidanzata. “Era tornata da sei mesi in Afghanistan, stavamo comprando tutto l'occorrente per celebrare il matrimonio nel suo villaggio nella provincia di Daykundi”.

Najiba era una ragazza brillante. Laureatasi in informatica in India, era poi ripartita per il Giappone con un’altra borsa di studio per un master di due anni. Siccome dopo l’attentato il corpo non si trovava, gli amici di Hussain gli avevano proposto di seppellire una bara vuota. Ma lui voleva qualcosa di tangibile. Dopo diverse ore gli hanno inviato la foto di una mano e ha riconsociuto l’anello di fidanzamento che aveva regalato a Najiba. “È stato il giorno più brutto della mia vita. Per due anni non mi sono scrollato di dosso il trauma”, prosegue. “Ma se anche avessi preso una pistola e fossi andato a uccidere un talebano che cosa sarebbe cambiato? Non sapevo nemmeno chi fosse responsabile dell’attacco”.

È stato così che Hussain ha dato vita alla Najiba Foundation nella città di Nili, provincia di Daykundi. All’inizio era solo una biblioteca, “perché volevamo combattere i talebani con l’istruzione”. Poi le attività della fondazione si sono ampliate: in onore di Najiba è stato costruito un laboratorio informatico alimentato a pannelli solari, poi è stata creata una squadra di pallavolo femminile. “Volevamo vendicarci dei talebani in maniera non violenta, creare tante piccole Najiba e lottare contro l’oblio della memoria, far sapere alle nuove generazioni che tutto quello che abbiamo fatto è stato fatto grazie al sangue dei nostri cari”.

Il mese scorso la biblioteca è stata distrutta, il laboratorio saccheggiato, le pallavoliste non giocano più e si nascondono. È stato dopo l’attacco alla Fondazione che Hussain ha deciso di lasciare il suo Paese, temendo che i talebani venissero a cercarlo.

Hussain ha una laurea triennale in sociologia e filosofia e ha studiato relazioni internazionali. Prima di andarsene ha cercato di nascondere tutti i libri che potessero essere pericolosi per la sua famiglia, quelli di filosofia e di inglese. Quando AsiaNews gli chiede che cosa voglia fare, ora lui dice che prima vuole pensare a sua sorella: “cercarle una borsa di studio del governo italiano e iscriverla all’università". “Quanto a me, mi piacerebbe continuare gli studi, ma una cosa alla volta”. Intanto è salvo in Italia, poi si vedrà. Forse, quel “re-born” sulla copertina del suo quaderno, quell’ennesima rinascita, non è così irrealizzabile.

http://www.asianews.it/notizie-it/Hussain-Rezai:-'La-mia-lotta-per-le-donne-afghane'-54448.html?fbclid=IwAR07XRegO3AT_EI9v42fEuO-Gean4jNQah6h5ad8JoItUpCbX2q03YeSh6g

venerdì 5 novembre 2021

Qual è lo stato della parità di genere in Europa di Alessandra Servidori

L’Istituto di Studi di Parità di Genere ha pubblicato il 28 ottobre un resoconto allarmante del Gender Equality Index 2021: guadagni fragili, grandi perdite.

L’UE ottiene 68 punti su 100 sul Rapporto dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE). Si tratta di un incremento microscopico di appena 0,6 punti rispetto all’edizione dello scorso anno.

L’Europa ha realizzato fragili progressi nell’uguaglianza di genere. Ma stanno emergendo grandi perdite a causa della pandemia. La ricaduta economica dura più a lungo per le donne, mentre l’aspettativa di vita per gli uomini è diminuita.

I risultati dell’indice misurato possono aiutare i leader europei ad affrontare i diversi effetti della pandemia su donne e uomini e ad alleviare il diseguale impatto a breve e lungo termine.

Svezia e Danimarca sono ancora una volta i migliori risultati nell’indice di quest’anno, seguiti dai Paesi Bassi, che hanno scavalcato Finlandia e Francia per aggiudicarsi il terzo posto. Lussemburgo, Lituania e Paesi Bassi sono migliorati di più dall’edizione dello scorso anno. La Slovenia è stato l’unico paese che ha fatto marcia indietro.

Ci sono grandi variazioni nei punteggi di uguaglianza di genere tra i paesi. Si va da 83,9 punti in Svezia a 63,5 in Italia, a 52,6 punti in Grecia. Riflettori puntati su Covid-19, salute mentale e salute sessuale e riproduttiva.

L’indice di quest’anno si concentra sui legami tra salute e uguaglianza di genere, un’area che la pandemia di coronavirus ha esposto più che mai. Ad esempio, le donne sono sovrarappresentate nel settore sanitario e quindi corrono un rischio maggiore di contrarre il virus. Gli operatori sanitari hanno anche affrontato un grave disagio mentale durante la pandemia a causa del sovraccarico di lavoro e del vedere i pazienti soffrire e morire.

Gli uomini con Covid-19 erano a più alto rischio di ospedalizzazione rispetto alle donne. Ciò è legato ai loro comportamenti di salute e alle condizioni preesistenti come le malattie cardiovascolari e il diabete, che sono più comuni tra gli uomini.

I tassi di natalità sono diminuiti, soprattutto nei paesi più colpiti dalla pandemia. Il disagio psicologico, l’incertezza economica e l’aumento del lavoro non retribuito per le donne hanno portato le coppie a ritardare la nascita dei figli o a non averli affatto. Ciò è avvenuto anche in un momento in cui l’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva era più difficile

Con la pandemia di Covid-19 che rappresenta una sfida senza precedenti per il benessere mentale collettivo e la salute generale dei cittadini europei, è fondamentale che i responsabili delle politiche integrino le preoccupazioni sull’uguaglianza di genere nella salute e in altre misure di recupero per ottenere i migliori risultati per tutti. La salute è lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale.

La parità di accesso a servizi sanitari di buona qualità, compresi la salute e i diritti sessuali e riproduttivi, consente alle donne e agli uomini, in tutta la loro diversità, di vivere una vita piena e attiva nella società. Attraverso il programma EU4Health, la Commissione è pronta a sostenere le esigenze e le azioni degli Stati membri dell’UE per riconoscere il diritto fondamentale di ogni persona all’accesso all’assistenza sanitaria sancito dalla Carta dei diritti fondamentali e dal pilastro dei diritti sociali, ha affermato Helena Dalli, Commissaria europea per l’uguaglianza.

Il Gender Equality Index (indice sull’uguaglianza di genere) è uno strumento di misurazione che mostra il complesso concetto della gender equality e che, basandosi sui framework di policy europee, assiste i singoli membri dell’UE nel processo di monitoraggio dell’uguaglianza di genere.

I dati dell’European Institute for Gender Equality, mostrano la situazione dell’Italia rispetto alle (dis)uguaglianze di genere. Il rapporto usa una scala da 1 a 100, dove 1 corrisponde alla completa disuguaglianza e 100 all’assoluta uguaglianza di genere. I punteggi sono basati sul gender gap (il divario di genere) e i livelli di realizzazione in 6 aree principali: lavoro, finanze, conoscenza, tempo, potere e sanità.

Con 63,5 punti su 100, l’Italia si posiziona quattordicesima in Europa nel Gender Equality Index, con un punteggio minore di 4,4 rispetto a quello europeo. Teniamone conto e lavoriamo bene e insieme per migliorare la situazione soprattutto ora che la terza ondata di Covid-19 rischia di tagliarci ancora le gambe.

https://www.startmag.it/mondo/ue-appena-sufficiente-secondo-listituto-europeo-per-uguaglianza-di-genere/?fbclid=IwAR1PjVthrhtKrCBzkFR4o9kM1OuFy4_EXm21Nxh2368MhJPWFHCHA0e-Mx8

mercoledì 3 novembre 2021

Diritti delle donne. In Afghanistan una scuola che non abbandona le ragazze Francesca Ghirardelli

Sono tempi duri, carichi di rischi e insidie, eppure fra i banchi di scuola o tra pile di libri a casa, con l’aiuto della rete là dove Internet arriva, in Afghanistan c’è chi resta sul campo, non pensa a espatriare, non rinuncia a provaci.

Ha scelto di reagire così un’organizzazione per la promozione dell’istruzione, forte di contatti intessuti da tempo con leader tribali e religiosi, e di una fiducia conquistata tra la popolazione fin nelle aree più remote.

Con 2.400 volontari disseminati in molte province, la Ong afghana Pen Path riparte dopo il trauma che ha investito il Paese. Cerca spazi percorribili, varchi rimasti aperti nelle maglie delle rigide regole appena imposte. Nell’Emirato islamico le bambine possono frequentare la scuola se hanno tra i sei e i dodici anni. Quelle più grandi, per ora, sono a casa. È così in 28 delle 34 province. Le università private hanno riaperto con classi separate, gli atenei pubblici restano chiusi.

Non ha perso tempo, il fondatore di Pen Path, Matiullah Wesa. Il 16 agosto, all’indomani della presa di Kabul, è partito per raggiungere le province di Kandahar, Kunduz, Jalalabad, Kunar, Logar, Zabul. «Ho incontrato leader tribali e religiosi, insegnanti, studenti», racconta. «Ho ricordato loro che la scuola è un diritto fondamentale, un diritto islamico (per il profeta Maometto l’istruzione è un obbligo per bambini e bambine). Li ho rassicurati che il nostro lavoro sarebbe continuato. Da loro ho avuto la promessa che avremmo proseguito insieme».

Nel team di Pen Path lavora Zarlasht Wali, insegnante oggi impegnata su due fronti: «Incontro le famiglie di ragazze a cui, per l’età, non è permesso il rientro a scuola: molte, le più dotate, hanno subito un contraccolpo emotivo. La loro salute mentale è a rischio», racconta da Kabul. «Parlo con le ragazze, le incoraggio, le invito a studiare da casa, a seguire lezioni online, modalità già sperimentata con la pandemia. Le famiglie conoscono Zoom e Google Classroom», come le altre app per la formazione. Dico loro che imparare non significa necessariamente mettere piede in una classe».

La professoressa Wali opera anche con le bambine più piccole, quelle che potrebbero presentarsi a scuola ma non lo fanno: «Avvicino i genitori per convincerli a riportare le figlie fra i banchi. Non le mandano perché non si sentono sicuri o perché con la crisi non se lo possono più permettere». Il calo degli studenti è consistente: «La frequenza in due scuole primarie di cui ho notizia a Kabul è passata da 650 alunni a 320. Parliamo di classi in cui le bambine sono ammesse. Il danno è per tutto il sistema».

Intanto, Pen Path ha avviato una campagna social che vede capi villaggio e leader tribali «metterci la faccia», con foto postate online accompagnate da cartelli con l’invito rivolto ai taleban a riaprire gli istituti scolastici, sia quelli appena vietati alle ragazze, sia quelli sigillati da vent’anni perché in zone di guerra. «Invitiamo la popolazione a scrivere al ministero dell’Istruzione per riaprirle, a fare pressione per registrarne di nuove», aggiunge Matiullah Wesa, che ripone grande fiducia nel «potere delle persone» e sa quanto i taleban siano attenti ai social network.

«In giro per il Paese incontriamo insegnanti e studenti, li troviamo spesso privi di speranze», aggiunge, ma lui è certo che la speranza c’è: «Alle persone diciamo che hanno un grande potere e che possono esercitarlo facendo pressione su chi governa. I taleban devono sapere che l’istruzione appartiene alla popolazione. Non possono non ascoltare la grande voce che proviene da lì».

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