domenica 29 novembre 2015

A volte non diciamo nulla (“Sometimes, We Don’t Say Anything”, di Feminist Aspie – pseudonimo di una studente inglese, trad. Maria G, Di Rienzo.)

Forse sto attestando l’ovvio, qui, ma la maggior parte delle donne in effetti non menziona ogni singola cosa sessista che le capita. A volte la affrontiamo direttamente, a volte ci sfoghiamo con un’amica, a volte ne parliamo online, ma un mucchio di volte… niente.
Ci sono alcune ragioni per questo.
In primo luogo, c’è la faccenda del sessismo giornaliero così normalizzato da non essere immediatamente notato.
Secondo, abbiamo delle vite e non è che desideriamo particolarmente stare a parlare del sessismo tutto il giorno. Dire “mi è capitata questa stronzata oggi.” non è sempre possibile – non sempre c’è qualcuno che possa ascoltarti, non sempre internet è disponbile, non sempre hai l’energia o la voglia di dire qualcosa. A volte intendiamo parlarne in un secondo momento; a volte ce ne dimentichiamo.
A volte, pensiamo “non ne vale la pena”, il che può significare un certo numero di cose diverse. A volte non vale la pena fare lo sforzo di cominciare una conversazione o di mandare un tweet; evidentemente, a volte dobbiamo scegliere le nostre battaglie e quando le altre persone non possono comunque risolvere il problema sembra un po’ privo di senso tirarlo fuori.
A volte non vale la pena spendere energia per la solita vecchia solfa in cui dobbiamo spiegare che non siamo ipersensibili e che gli ormoni non hanno nulla a che fare con come queste storie si accumulano, e che è dannoso e che le loro intenzioni non cancellano il danno fatto, e che non dovrebbe avere alcuna importanza come siamo vestite e tutte le altre cose che abbiamo già maneggiato un milione di volte prima.
A volte non vale la pena sentirsi dare della “stronza” o della “guastafeste” o dell’ “irrazionale” o comunque siano chiamate questa settimana le donne che difendono se stesse, in special modo quando siamo chiamate così per aver menzionato una singola istanza femminista, lasciando perdere il resto; e persino quando non te importa di cosa la gente pensa di te, ci sono pur sempre situazioni (come sul posto di lavoro) dove le opinioni delle altre persone su di te hanno rilevanza e conseguenze pesanti. A volte, specialmente nel confronto diretto o sui forum pubblici, non vale la pena delle molestie e degli abusi che possiamo ricevere per aver parlato.
A volte, decidiamo che la cosa è troppo insignificante per essere menzionata. A volte non ha avuto quel grande impatto su di noi personalmente e non ci importa abbastanza per raccontarla. A volte sembra così piccola che pensiamo nessun altro vorrà ascoltarla. A volte pensiamo che è improbabile essere prese sul serio.
A volte il significato di quel che è accaduto diventa chiaro solo nel contesto di una diseguaglianza più vasta, dal lavoro domestico alle persecuzioni, che può essere davvero difficile comunicare ad altri, in particolare a coloro che sembrano star attivamente impegnandosi per non ascoltare.
A volte non c’è modo di articolare questo schema senza menzionare, ad un certo punto del discorso, che i perpetratori sono uomini e quando diciamo questo, molte persone ignorano completamente la nostra dichiarazione iniziale preferendovi una massa di “non tutti gli uomini sono così”, come se noi questo non lo sapessimo già, come se una generalizzazione (persino dovesse esistere) fatta da poche persone avesse più o meno lo stesso potere degli stereotipi e dei ruoli che la società forza su di noi, come se la semantica importasse di più del problema di cui stiamo parlando.
Per cui, quando qualcuna si apre ricordate che lo fa nonostante l’enorme numero di ragioni per non farlo, il che dimostra che l’impatto dell’evento è stato rilevante. Potrebbe essere stato particolarmente grave o flagrante. Potrebbe essere stato uno dei parecchi “piccoli accadimenti” che si sono dati in un solo giorno. Potrebbe essere la goccia finale per qualcuna che è già nervosa, arrabbiata o ansiosa per qualcosa di interamente diverso.
Qualsiasi sia la ragione, quando voi sentite parlare del sessismo quotidiano probabilmente significa che la donna in questione ne ha davvero abbastanza di maneggiare ‘sta roba un giorno dopo l’altro e di stare zitta al proposito.
E prima di risponderle con “perché fai tutto questo casino” o “smetti di essere così permalosa” o “non tutti gli uomini”, dovreste probabilmente prendere ciò in considerazione.

sabato 28 novembre 2015

Perché non ti ho detto che mi picchiava. Una traduzione da This Is Why I Didn’t Tell You He Was Beating Me di Janice Fuller-Roberts

Quando sono fuggita dal mio rapporto con un uomo maltrattante per l’ultima volta (sì, l’ho lasciato e sono tornata), una delle prime cose che i miei ben intenzionati amici e i miei familiari mi hanno chiesto è il motivo per cui non ho mai detto loro quello che mi stava succedendo.
“Perché non hai detto qualcosa”, mi hanno chiesto, preoccupati e confusi. “Avremmo potuto aiutarti. Avremmo potuto fare qualcosa!”
Ci credo. Se avessero saputo quanto orribile la mia vita era diventata, non ho dubbi che avrebbero fatto del loro meglio per aiutarmi. Ma tutto questo è successo più di vent’anni fa. Oggi sono guarita, emotivamente sana, ne sono definitivamente uscita, e col senno di poi è facile vedere con chiarezza che i miei amici e la famiglia mi avrebbero aiutato.
Ma allora non era così. Perché quando sei nel bel mezzo delle cose, nel bel mezzo di un inferno del quale sei convinta di essere responsabile, non puoi vedere nulla in modo chiaro. La paura e la vergogna ti consumano: sono costantemente al tuo fianco. E quando guardi la tua famiglia e gli amici, li immagini mentre ti giudicano e ti deridono. Perché conosci le loro opinioni sulle donne coinvolte in relazioni violente.
Considerate questo scenario: avete un’amica d’infanzia alla quale siete sempre stati vicino. Ultimamente, non la vedete in giro tanto quanto eravate abituati a vederla. Ne deducete che sia presa dal suo nuovo rapporto. E in un primo momento era proprio così. All’inizio non poteva fare a meno di lui. Hanno trascorso quasi ogni momento della giornata insieme.
Ma in quel periodo ancora la sentivate, vi chiamava. E anche se lei per lo più parlava del suo nuovo amore, non aveva importanza. Era felice.
Poi le telefonate sono diventate meno frequenti. E quando avete provato a chiamarla voi, si è sottratta alla conversazione, con tono frettoloso e distratto. Amici comuni vi dicono che non la vedono da tempo. “E’ il suo nuovo ragazzo,” commentate fra voi “Non si separano mai ultimamente.”
Presto vi abituate alla sua assenza, non parlate più di lei tanto spesso. Vi manca, ma non volete essere quelli che cercano di sabotare il suo nuovo amore.
Un giorno vi imbattete in lei mentre fate la spesa, e rimanete sconvolti dal suo aspetto. Era sempre stata così attenta al suo aspetto, soprattutto in pubblico. E ora indossa una tuta macchiata di sudore con la quale non si sarebbe mai fatta vedere fuori di casa o fuori dalla palestra! Eppure eccola, non solo in tuta, ma una tuta sporca, e indossa una maglietta sformata, mentre i suoi capelli, di solito perfettamente acconciati, sono raccolti in una sciatta coda di cavallo. Le sue unghie sono trascurate.
Ha l’aria stanca.
Ma siete così felici di rivederla che subito l’abbracciate. Si irrigidisce tra le vostre braccia, come se le aveste fatto male. La lasciate andare, sorpresi. E osservate il suo viso.
Non vi guarda negli occhi. La sua bocca trema un po’, e le sue labbra sono screpolate. “È l’ombra di un livido quella sulla sua guancia?” pensate. No, deve essere l’illuminazione.
A questo punto vi scambiate convenevoli, ma non c’è una vera conversazione. Avete la sensazione che lei voglia andarsene … che lei non sia felice di vedervi. Vi sentite a disagio, ma non sapreste dire perché.
“Come stai?” le chiedete di nuovo, solo che questa volta sul serio.
“Bene”, risponde bruscamente. “Sto veramente bene. Ma vado di fretta. Ho bisogno di tornare a casa. ”  “Non voglio trattenerti, allora.”
Qualcosa vi dice che non va bene affatto. Avete una voglia inspiegabile di prenderla di nuovo fra le braccia, ma non lo fate. Ignorate il vostro istinto e la lasciate andare per la sua strada. Ma dentro sentite che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in quella che una volta era la vostra estroversa, vivace, bella amica.
Ecco quello che non sapete: la vostra amica vorrebbe rifugiarsi fra le vostre braccia e chiedervi aiuto. Ma non lo farà. Non può. E’ troppa la vergogna. Se voi avete pensato che il suo aspetto fosse terribile, lei si vede ridotta in uno stato peggiore. In un lasso relativamente breve di tempo, lui è entrato nella sua testa e l’ha convinta che è brutta, stupida, senza valore.
Non si cura più, perché lui la accusa di vestirsi per qualche “altro uomo”, o perché in ogni caso lui le dirà che sta di merda, quindi non ha alcun senso provare a dimostrare il contrario.
La tuta è il suo nuovo migliore amico.
Lei non chiama più perché si vergogna della sua vita. Quel ragazzo meraviglioso del quale vi raccontava in principio si è trasformato in un mostro. E lei sa che se i suoi amici sapessero quanto male vanno le cose, penserebbero che lei è stupida proprio come lui la descrive, e che quindi forse lei lo è davvero. Dopo tutto, lei lo ama ancora. Quindi forse ha esattamente quello che si merita. Almeno questo è quello che pensa.
Non l’avete più vista in giro perché è questo che fanno gli uomini violenti: isolano le loro vittime da amici e familiari. Lo fanno in modo sottile, però. Non arrivano mai fino al punto di dire che lei non è autorizzata a vedervi, sarebbe troppo diretto e lui è molto più intelligente di così. Invece la convince a tenersi a distanza facendo cose come litigare con lei quando torna a casa. In questo modo, la prossima volta che sarà invitata fuori, lei declinerà, al fine di evitare un altro conflitto. Oppure la accusa di amare i suoi amici più di lui. In modo che lei resti a casa per non turbarlo. Lui usa l’amore di lei come un’arma.
E quei conflitti che lei è così ansiosa di evitare? “Conflitto” non è esattamente la parola giusta, non quando finisci sempre distesa sul pavimento. In un primo momento, si trattava più che altro di urla. Lei era capace di controllare la situazione allora. E’ sempre stata in grado di rispondere a tono. Ma poi lui è diventato crudele, ha cominciato a dire cose che la ferivano nel profondo. Ha preso le sue stesse parole e le ha usate contro di lei. E per tutto il tempo, ha interpretato il ruolo di quello ferito, che non riusciva a capire come lei potesse trattarlo così male, mentre lui la amava tanto. Accuse, recriminazioni, scenari selvaggi forgiati nelle valli profonde della sua mente contorta. Le risposte ragionevoli non potevano nulla contro la sua brutalità emotiva.
Quando il primo pugno ha colpito la sua mascella, la sua psiche era già stata picchiata a sangue. E non fatevi ingannare da quel fantasma di donna che avete appena visto al supermercato. Lei ha reagito. E’ riuscita a mandare a segno qualche colpo, specialmente quella prima volta. Ma lui è più forte di lei. Più grande di lei. Lui ha tirato pugni per tutta la vita e non ha mai ricevuto nemmeno una sculacciata da bambino, non c’è gara fra loro due, neanche fisicamente.
Vi chiedete: “Se sta così male perché non mi ha detto nulla? Ero proprio lì! Siamo amici fin dall’infanzia. Sicuramente lei sa che io l’avrei aiutata!”
Lo sa? Lo sa davvero? Oppure lei ti guarda, la sua amica d’infanzia, e pensa a quella volta che hai detto: “Io non capisco perché le donne stanno con gli uomini che le picchiano”?
Ricordate quando è uscita fuori la storia di Ray Rice, e ne avete parlato tra un drink e l’altro? Ricordate quello che avete detto? Avete detto: “Se un uomo mi picchia una volta, la colpa è sua; se mi picchia una seconda volta, la colpa è mia. Quella donna è stata un idiota a sposarlo dopo quello che lui le ha fatto in quel ascensore! ”
Lei si ricorda quelle parole. E anche se sa che la amate e la sosterreste, non può fare a meno di chiedersi cosa pensereste di lei se sapeste che cosa sta realmente accadendo. Lei vuole disperatamene uscire da quella situazione, ma non sa come. Può anche essere convinta che lui farà del male a chi cerca di aiutarla. Dovete ricordare che lui è sempre nei suoi pensieri, anche quando non è lì a picchiarla.
Fidatevi del vostro istinto. Conoscete la vostra amica. E da quell’incontro nel negozio, sapete che c’è qualcosa che non va. Quindi, per favore, non abbiate paura di approfondire.
Iniziate con una telefonata. Ma non entrate subito in argomento: non dite subito che avete paura che lui la maltratti, o cose del genere. Se lui è in casa, in quel momento, lei non dirà nulla in ogni caso. Semplicemente trasmettetele il messaggio che vi importa di lei e volete aiutarla. Siate amorevoli e gentili senza farle pressioni.
Dire qualcosa come: “lo so che sei occupata ora. Ma quando hai un po’ di tempo per te, fammi una telefonata. Sono preoccupata per te e ti voglio aiutare. Ti voglio bene.” Siate brevi, ma chiari: siete preoccupati, la volete aiutare, le volete bene.
Se lei non richiama dopo quella prima telefonata, chiamatela di nuovo. Cercate di avviare un dialogo con lei. Cercare di raggiungerla quando sapete che è sola, o almeno lontano da lui. Ricordate che il vostro obiettivo è aiutarla, non metterla in pericolo.
Siate pronti alle sue smentite. Vergogna, senso di colpa, paura, e anche la preoccupazione per la vostra sicurezza sono tutte cose che le impediranno di aprirsi con voi. Basta ricordarle con delicatezza che, se lei è nel tipo di guai che sospettate, non ha motivo di vergognarsi. Le volete bene, avete stima di lei, volete solo aiutarla.
Il tentativo di persuaderla potrebbe non funzionare. Un intervento concreto, possibilmente a norma di legge, potrebbe rendersi necessario. Se questo è il caso, non tentate di gestire la situazione da soli. Coinvolgete altri amici e la famiglia, e, soprattutto, affidatevi a degli esperti. (…)
Dovete sapere che in media una vittima di violenza lascia il suo aguzzino sette volte prima di lasciarlo per sempre. Quindi, anche se la vostra amica lo abbandona, può sempre tornare sui suoi passi. E’ a questo punto che la vostra amicizia sarà messa a dura prova. Sarete delusi e anche arrabbiati visto che, dopo tutta la fatica fatta per aiutarla a fuggire, lei torna al punto di partenza. E la vostra rabbia è comprensibile.
Ma l’arma più letale di un violento è la sua capacità di manipolare la mente della sua vittima. Per rompere quel legame ci vuole tempo, pazienza, un aiuto professionale, e un sacco di duro lavoro da parte vostra. Dovete solo continuare ad amarla e sostenerla, anche quando lei vi delude. Cercate di trattenervi dal giudicarla: potrà solo peggiorare le cose.
E’ doloroso vedere qualcuno che amate soffrire a causa della violenza domestica. E ‘anche difficile capire perché le donne rimangono assieme o tornano con degli uomini che fanno loro del male. Ma lasciarli è molto più difficile di quanto si pensi. La paura, la mancanza di risorse finanziarie e la vergogna sono solo alcuni dei motivi per cui le donne rimangono (o ritornano). Se ci sono dei figli coinvolti, è ancora più complicato. Molte donne non hanno  un posto dove andare. I rifugi si riempiono velocemente, sono pochi e lontani tra loro. E purtroppo, nonostante tutto quello che è stato fatto a livello legislativo per proteggere le vittime di violenza domestica, è ancora troppo facile per i violenti rintracciare le loro vittime e ucciderle. Così alcune donne scelgono di restare, nella speranza che questo le mantenga in vita.
In quanto amici di vittime di abusi, dobbiamo informarci sulle dinamiche della violenza domestica. E soprattutto, abbiamo bisogno di abbandonare i nostri pregiudizi sulle vittime. Hanno bisogno del nostro sostegno e di empatia. Io l’ho imparato nel modo più duro. Anche io giudicavo le donne che rimangono con un partner violento. E ho continuato a giudicarle  fino al momento in cui l’uomo che amavo mi ha colpito con un pugno.


venerdì 27 novembre 2015

Eve Ensler e il "Monologo dell'Is", un grido contro la violenza sulle donne

Penso al listino del mercato delle schiave sessuali dell'Is in cui donne e bambine sono prezzate come il bestiame. L'Is ha dovuto calmierare i prezzi, temeva un calo del mercato: 40 dollari per le donne tra i 40 e i 50 anni, 69 dollari per le trenta-quarantenni, 86 per le venti- trentenni fino a 172 per le bimbe da 1 a 9 anni. Quelle sopra i cinquanta non compaiono neppure in lista, considerate prive di valore di mercato. Vengono scartate come cartoni di latte scaduti. Ma non ci si limita ad abbandonarle in qualche fetida discarica. Prima probabilmente vengono torturate, stuprate, decapitate. Penso al corpicino in vendita di una bambina di un anno, a come dev'essere per un soldato trentenne, corpulento, affamato di guerra e sesso, comprarla, impacchettarla e portarsela a casa come un televisore nuovo.

Penso che nel 2015 io sto davvero leggendo un manuale online con le buone pratiche di schiavitù sessuale. Ci sono istruzioni passo per passo e regole su come trattare la tua schiava, lo pubblica un'istituzione molto ben organizzata(l'Ufficio della schiavitù sessuale) di un governo canaglia, incaricata di regolamentare gli stupri, le percosse, l'acquisto e la riduzione in schiavitù delle donne.

Ecco qualche esempio tratto dal manuale: "È permesso percuotere la schiava come [forma di] darb ta'deeb [percosse disciplinari], [ma ] è vietato [ricorrere alle ] darb al-takseer [letteralmente percosse massacranti], [darb] al-tashaffi [percosse allo scopo di ottenere gratificazione], oppure [darb] al-ta'dheeb [percosse come tortura]. Inoltre è proibito colpire al volto". Mi chiedo come facciano i burocrati dell'Is a distinguere i pugni, i calci e lo strangolamento inflitti a scopi disciplinari dagli atti mirati alla gratificazione sessuale. Interviene una squadra tutte le volte che una schiava viene picchiata, per controllare se c'è erezione? E come fanno poi a stabilire che cosa, con esattezza, l'ha provocata? Certi uomini si eccitano soltanto nel momento in cui affermano il proprio potere. E se si stabilisce che il soldato picchia, strangola e prende a calci la sua schiava per puro piacere, qual è la punizione per lui? Verrà costretto a restituire la schiava e a perdere il deposito, dovrà pagare una multa salata, o semplicemente pregare di più?

Penso alla facilità con cui si considera l'Is una mostruosa aberrazione, mentre in realtà è l'esito di una lunga serie ininterrotta di crimini e disordini. Le atrocità sessuali inflitte dall'Is si differenziano solo nella forma e nella prassi da quelle perpetrate da molti altri signori della guerra in altri conflitti. Sconvolgente e nuovo è lo sfoggio sfrontato e impudente che si fa di questi crimini pubblicizzati su internet, lo sdoganamento commerciale di queste atrocità, le app, dove il sesso è un mezzo per reclutare. Le azioni e la rapida proliferazione dell'Is non nascono dal nulla. Sono il frutto di un'escalation legittimata da secoli di dilagante impunità della violenza sessuale. Questo mi fa venire in mente le Comfort women , le prime schiave sessuali dell'era moderna, giovani donne asiatiche rapite nel fiore degli anni dall'esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra mondiale e detenute nelle comfort stations , per soddisfare le esigenze sessuali dei soldati al servizio del loro Paese. Le donne subivano anche settanta stupri al giorno. Quando, esauste, non riuscivano più a muoversi, venivano incatenate al letto e stuprate ancora come sacchi molli. A queste donne la vergogna ha tappato la bocca per quarantacinque anni e per altri venticinque hanno marciato e atteso, vigili, sotto la pioggia, chiedendo giustizia. Sono rimaste in poche ormai e non più tardi di un mese fa il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha perso l'ennesima occasione di fare ammenda.

Io penso all'inerzia, al silenzio, alla paralisi che ha bloccato e impedito le indagini e l'incriminazione degli abusi sessuali ai danni delle donne musulmane, croate e serbe stuprate nei campi dell'ex Yugoslavia, delle donne e delle bambine afroamericane stuprate nelle piantagioni del Sud, delle donne e delle bambine ebree stuprate nei campi di concentramento tedeschi, delle donne e delle bambine native americane stuprate nelle riserve degli Stati Uniti. Mi sembra di sentire i lamenti delle anime in pena di donne e bambine violate in Bangladesh, Sri Lanka, Haiti, Guatemala, Filippine, Sudan, Cecenia, Nigeria, Colombia, Nepal, e la lista si allunga. Penso agli ultimi otto anni che ho trascorso nella Repubblica democratica del Congo dove un'analoga conflagrazione di capitalismo rapace, secoli di colonialismo, guerra e violenza senza fine ha lasciato migliaia di donne e bambine prive di organi, salute mentale, famiglia o futuro. E penso a parole come "ri-violentata", sostituita ormai da "ri-ri-riviolentata".

Vedete, è come se stessi raccontando la stessa storia da vent'anni. Ci ho provato con i numeri, il distacco, la passione, le suppliche, la disperazione esistenziale, e anche ora, mentre scrivo, mi chiedo se abbiamo creato un linguaggio adatto a questo secolo che sia più potente del pianto.

Penso che le istituzioni patriarcali non hanno saputo intervenire in maniera efficace e che le strutture come l'Onu amplificano il problema nel momento in cui le forze di peacekeeping che dovrebbero proteggere le donne e le bambine si macchiano a loro volta di stupri.

Penso all'operazione Shock and Awe ("colpisci e terrorizza")e a come ha contribuito a scatenare questa, che potremmo definire "Stupra e decapita". Quando noi cittadini, a milioni, in tutto il mondo, manifestavamo contro la guerra inutile e immorale in Iraq restando inascoltati, eravamo perfettamente consapevoli del dolore, dell'umiliazione e dell'oscurità che avrebbero generato quei letali tremila missili Tomahawk americani.

Penso al fondamentalismo religioso e a Dio padre, a quante donne sono state stuprate in suo nome, a quante massacrate e assassinate. Penso al concetto di stupro come preghiera, alla "teologia dello stupro", alla religione dello stupro. Questa pratica è una delle più diffuse religioni al mondo, in crescita con centinaia di conversioni al giorno, dato che un miliardo di donne nella sua vita subirà percosse o uno stupro (i dati sono dell'Onu).

Penso alla velocità folle a cui si moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi delle donne in un siste- ma in cui ciò che più è vivo, sia esso la terra o le donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la crescita e l'amnesia.

Penso alle migliaia di giovani occidentali, uomini e donne, tra i quindici e i vent'anni, che si sono arruolati nell'Is. In cerca di cosa, in fuga da cosa? Povertà, alienazione, islamofobia, desiderio di avere un senso e un obiettivo?

Penso a quello che mi ha detto la mia sorella attivista in una conversazione su Skype da Baghdad questa settimana: "L'Is è un virus e l'unica cosa da fare con i virus è sterminarli". Mi chiedo, come si stermina una mentalità, come si bombarda un paradigma? Come si fanno saltare la misoginia, il capitalismo, l'imperialismo e il fondamentalismo religioso?

Penso, o forse non riesco a pensare, prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo. Da un lato sono consapevole che l'unico modo per andare avanti è riscrivere da zero la storia attuale, procedere a un esame collettivo approfondito e ponderato delle cause che stanno alla base delle varie violenze in tutte le loro componenti economiche, psicologiche, razziali, patriarcali, che richiedono tempo. Allo stesso tempo, so che in questo preciso istante tremila donne yazide subiscono percosse, stupri e torture.

Penso alle donne, alle migliaia di donne che in tutto il mondo hanno operato senza pausa per anni e anni, esaurendo ogni fibra del loro essere per denunciare lo stupro, per porre fine a questa patologia di violenza e odio nei nostri confronti. E la razionalità, la pazienza, l'empatia, la mole della ricerca, le cifre che mostriamo, le sopravvissute che curiamo, le storie che ascoltiamo, le figlie che seppelliamo, il cancro di cui ci ammaliamo non contano: la guerra contro di noi infuria ogni giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.

Penso che l'Is, come l'aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature assassine sia forse il segnale che per le donne si avvicina lo scontro finale. È giunta l'ora in cui secoli eterni di rabbia femminile devono fondersi in un'impetuosa forza vulcanica, scatenando la furia globale della vagina delle divinità femminili Kali, Oya, Pele, Mama Wati, Hera, Durga, Inanna e Ixchel, lasciando che sia la nostra ira a guidarci.

Penso alla cantante folk yazida Xate Zhangali, che dopo aver visto le teste delle sue sorelle penzolare dai pali nella piazza del suo villaggio ha chiesto al governo curdo di armare e addestrare le donne, e penso alle Sun Girls, la milizia femminile da lei creata, che combatte l'Is sulle montagne del Sinjar. E in questo momento, dopo anni di attivismo contro la violenza, sogno che migliaia di casse piene di ak47 cadano dal cielo sui villaggi, le fattorie e le terre delle donne, questi guerrieri con il seno che insorgono combattendo per la vita.

Così sono arrivata a pensare all'amore, a come il fallimento di questo secolo sia un fallimento dell'amore. Cosa siamo chiamati a fare, di che cosa siamo fatti tutti noi che siamo in vita su questo pianeta oggi. Che tipo di amore serve, quanto deve essere profondo, intenso e bruciante. Non un amore ingenuo sentimentale, neoliberista, ma un amore ossessivamente altruista.

Un amore che sconfigga i sistemi basati sullo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi. Un amore che trasformi il nostro disgusto passivo di fronte ai crimini contro le donne e l'umanità in una resistenza collettiva inarrestabile. Un amore che veneri il mistero e dissolva la gerarchia. Un amore che trovi valore nella connessione e non nella competizione tra noi. Un amore che ci faccia aprire le braccia ai profughi in fuga invece di costruire muri per tenerli fuori, bersagliarli con i lacrimogeni o rimuovere i loro corpi gonfi dalle nostre spiagge.

Un amore che bruci di fiamma viva tanto da pervadere il nostro torpore, squagliare i nostri muri, accendere la nostra immaginazione e motivarci a uscire infine, liberi, da questa storia di morte. Un amore che ci dia la scossa,

spingendoci a dare la nostra vita per la vita, se necessario.

Chi saranno i coraggiosi, furibondi, visionari autori del nostro manuale di amore rivoluzionario?

Parigi, settembre 2015. Per Yanar e le mie sorelle in Iraq e in Siria

(Traduzione di Emilia Benghi)

giovedì 26 novembre 2015

25 Novembre da Il corpo delle donne

Come ho già scritto, non scriverò di questo 25 novembre.
Le donne vengono picchiate ed ammazzate durante tutto l'anno: non fornirò scusanti a chi le ricorda solo 1 giorno all'anno.

La ricetta per diminuire i casi di violenza io ce l'ho:

- corsi di educazione alla relazione e all'affettività nelle scuole

- corsi per uomini maltrattanti

-finanziamenti decorosi ai centri antiviolenza

-corsi di formazione, urgenti, per chi opera nei tribunali e per la polizia

-eliminazione delle immagini oggettivanti e deumanizzanti dai media tutti, pubblicità e tv

-formazione per i giornalisti che imparino a raccontare la violenza

Il problema oggi siamo noi donne italiane: conniventi con un sistema che disprezza e umilia le donne. 
Ci vorrebbe più coraggio, più determinazione e meno bisogno della costante approvazione maschile per esistere: sta diventando ributtante questa insicurezza che vediamo in molte politiche cosi come nella società. 
Un esercito di yes women che ha fatto entrare il tema della violenza in quella " spirale del silenzio" in cui rientrano i temi che non godono di popolarità.
Basterebbe farsi valere.
Ma per farlo, ci vuole una bella dose di orgoglio di essere Donne

mercoledì 25 novembre 2015

Il disprezzo. Purtroppo è il 25 novembre di Marisa Guarneri

Il disprezzo. Purtroppo è il 25 novembre.
E dobbiamo sopportare di tutto.
Anche da fonti, come dicono i giornalisti, autorevoli.
Ma io sento ormai x lunga frequentazioni con questa scadenza emergere sotto parole di circostanza ,il disprezzo e la colpevolizzazione verso le vittime della violenza.
La questione lo sappiamo sta nella relazione uomo/ donna e nel pensiero, teoria, pratica che nasce dalla relazione diretta con la donna che la violenza subisce.
Le donne in disagio sono le vere esperte della violenza, l'ho sempre capito e detto, anche in ambienti sfavorevoli.
Da loro è venuto il sapere dei Centri Antiviolenza in Italia e la loro particolarissima e innovativa pratica. Coraggiosa e dirompente specialmente verso le Istituzioni .
Pratica che ribalta la logica della loro criminalizzazione (delle donne) , perchè la violenza maschile da chi detiene i poteri è sempre coperta e giustificata, usando le armi di altri saperi consolidati.Fino ad arrivare a considerare le donne che non vogliono denunciare e sottoporsi a tremendi iter giudiziari come malate, instabili, fragili, inaffidabili e quindi bisognose di tutela.
Per avere dei diritti è necessario combattere tutti i giorni e non darli mai x scontati e rifiutare mediazioni che portano svantaggio alle donne in difficoltà e di conseguenza alle donne tutte.
Non si tratta di buonismo o altro : è politica.
Fino a quando il mercato della violenza, che oggi fa fare buoni affari , sarà rigoglioso, non possiamo aspettarci grandi cambiamenti istituzionali.
E' come x la guerra, oggi, ci sono troppi interessi in campo e troppe connivenze. Ma come per la guerra oggi, si deve costruire speranza e nuovi ambiti di sperimentazione, proprio x i Centri Antiviolenza.
Penso che la rivendicazione ed il vittimismo politico non servano. Si deve andare oltre.
E come mi hanno insegnato le donne dell'Udi prima e sempre la libreria delle donne, è mettendosi al centro come soggetti della politica delle donne che si modifica il simbolico.

domenica 22 novembre 2015

mercoledì 18 novembre 2015

Addio a Doris Lessing Vinse Nobel per la Letteratura

Doris Lessing, Nobel, 480 LP


 È morta all'eta di 94 ani la scrittrice britannica Doris Lessing, vincitrice del Nobel per la Letteratura nel 2007. Lo riferisce il Guardian.
Autrice di ben 50 romanzi, la Lessing fu testimone dei totalitarismi del secolo scorso ed autorevole intellettuale.
ALLA NOTIZIA DEL NOBEL ESCLAM0': «OH CRISTO!»
Il suo editore, HarperCollins, precisa che è morta serenamente questa mattina. Tra le sue circa 50 opere L'erba canta del 1050, Il taccuino d'oro del 1962, Sotto la pelle del 1994, Il senso della memoria del 2006.
Nata da genitori inglesi con il nome di Doris May Taylo in Iran nel 1919, si trasferì bambina nella Rhodesia meridionale, oggi Zimbabwe. Studiò in un convento, poi in una scuola femminile, ma a 15 anni lasciò gli istituti per continuare gli stud da autodidatta.
Nella vita adulta ha vissuto per mezzo secolo a Londra, si è sposata due volte, divorziando da entrambi i mariti, e ha avuto ha tre figli. Il cognome Lessing è quello del secondo marito, il tedesco Gottfried Lessing.
La Lessing ha ricevuto il premio Nobel nel 2007, undicesima donna a esserne insignita, battendo l'americano Philip Roth. Ai giornalisti in quell'occasione, ricorda il Guardian, commentò: «Ho 88 anni e non possono dare il Nobel a un morto, quindi penso che probabilmente abbiano pensato fosse meglio darmelo prima che io fossi fuori gioco». La motivazione del premio la definiva una «cantrice dell'esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa».

giovedì 12 novembre 2015

Per i diritti delle donne africane: rimpatri forzati e tragiche conseguenze

Resistenza Femminista, insieme a UDI Napoli, Associazione Salute donna, ARCI donna Napoli, UDI, scrive per sollecitare l’applicazione delle leggi che tutelano i diritti delle donne arrivate nel nostro paese in fuga dalla violenza e dalla violenza di genere.
Perché non vengano lasciate preda degli sfruttatori e dei trafficanti, perché non vengano respinte nei loro paesi d’origine dove le attende un destino di segregazione, stupro o condanna a morte.

All’On. Angelino Alfano, Ministero dell’Interno

All’On. Giovanna Martelli, Consigliera per le pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

All’On. Luigi Manconi, Presidente della Commissione straordinaria per la promozione dei diritti umani

La presenza delle donne nei Centri di prima accoglienza e in quelli di identificazione è spesso sfuggente. La cronaca si occupa di loro, delle loro condizioni, solo in coincidenza di criticità.
La notizia del possibile rimpatrio di decine di giovani donne, provenienti dalla Nigeria, deve finalmente richiamare l’attenzione della politica sulla crucialità che queste donne incarnano: le violenze certe dalle quali fuggono, quelle dovute alla loro invisibilità nel fenomeno globale delle migrazioni, quelle insite nel contesto di approdo, spesso violento e ricattatorio, e quelle proprie delle reti femminicide e schiavistiche.
Secondo notizie che sembrano più che supposizioni, un numero imprecisato di donne arriva nel nostro paese, in fuga non solo da guerre e fame, ma anche per sfuggire a leggi imposte da schiavisti e bande criminali: queste donne, non di rado, con promesse false vengono “importate” come merce sessuale e come schiave.
Le nostre leggi offrono a queste donne, sottoposte a ricatti e a mire criminali delle reti dello sfruttamento sessuale, salvaguardie e possibilità, diritti dei quali le stesse titolari sono inconsapevoli.
La continua emergenza, determinata dalla naturale ricerca di nuovi orizzonti di sopravvivenza e di vita da parte di donne uomini, non aiuta a evidenziare la strumentalità dei divieti e delle barriere, forse le più invalicabili nella storia del mondo; e non aiuta ad affermare il dovuto riconoscimento delle differenze tra generi nella migrazione.
Gli stereotipi di moglie e madre, che sono i soli a giustificare tanto la comparsa in cronaca quanto l’attribuzione dei diritti, in un paese come il nostro, che si dichiara sulla soglia del riconoscimento della piena libertà delle donne, devono cedere il passo ad altre consapevolezze verso quelle donne che  giungono nel nostro Paese non solo in fuga dalle armi, ma anche dalle guerre che nei loro paesi “in pace” sono state dichiarate  verso il loro genere.
Il rimpatrio, per una donna fuggita da paesi come la Nigeria, può significare morte per lapidazione, per stupro, per segregazione sessuale.
Noi chiediamo di essere rassicurate sull’applicazione dell’Art. 18 del Testo Unico di pubblica sicurezza, sull’applicazione della legge 75 e delle norme italiane e internazionali che regolano la materia del rimpatrio verso paesi nei quali è prevista la pena capitale, oppure limitazioni della libertà per reati non contemplati dal diritto del paese ospitante.

Le sottoscritte: Stefania Cantatore (UDI), UDI di Napoli, Elvira Reale (Salute donna), Associazione Salute donna, Chiara Carpita (Resistenza Femminista), Imma Barbarossa, Simona Ricciardelli, Clara Pappalardo (ARCI donna Napoli), Carla Cantatore (UDI).



mercoledì 11 novembre 2015

Ain’t I a Woman? di Simona Sfprza

Sojourner Truth, nel 1851, Convegno per i diritti delle donne dell’Ohio, che si tiene ad Akron.

“Ain’t I a Woman? Non sono forse una donna, io?
La ripete ben quattro volte, questa domanda. Come se volesse inciderla nella memoria di ciascuno dei partecipanti a quel congresso in cui si parla dell’abolizione della schiavitù, ma non dei diritti delle donne, dell’uguaglianza tra i sessi.”
Così ci racconta Milton Fernández nel suo Donne. Pazze, sognatrici, rivoluzionarie edito da Rayuela Edizioni. 
Lo sguardo di un uomo che riesce a cogliere con una sensibilità rara le molteplicità dell’esser donna attraverso 34 donne che hanno attraversato la storia, quella storia che di solito gli ha assegnato un ruolo marginale, ma che loro hanno solcato in modo rivoluzionario, lasciando un segno indelebile. Questo libro è stato una splendida scoperta e mi piacerebbe cogliere alcune delle storie di donne presenti in questa raccolta, come spunti di riflessione. 
Il prossimo 15 ottobre l’autore presenterà il suo libro a Milano – Baggio (Qui l’evento su FB).
Ho scelto di iniziare il mio viaggio attraverso le pagine di questo libro, dalla storia di Sojourner perché in questo momento mi ha dato molta speranza.
“Se la prima donna creata da Dio è stata in grado di mettere il mondo sottosopra, tutte noi insieme possiamo rimetterlo per il verso giusto, e tornare a rovesciarlo quante volte vogliamo, basta deciderlo… cosicché, uomini, mettetevi l’anima in pace… e accettate un consiglio: è meglio per voi che non cerchiate di impedircelo…”
Sojourner si batté per il suffragio universale, dei diritti di tutte le donne, senza distinzione di colore, dell’abolizione della pena di morte.
Sojourner è approdata sul pianeta rosso il 4 luglio del 1997, infatti il modulo della NASA portava il suo nome. Nel giorno dell’orale del mio esame di maturità.
Questa donna che aveva vissuto esperienze dolorosissime, è stata schiava ma non ha mai perso la speranza di essere libera, coglie una cosa che ancora oggi molte di noi faticano a comprendere. Solo il lavoro unitario delle donne può rivoluzionare il mondo in meglio, non ci sono limiti se si è solidali. Questo il mio augurio per il movimento delle donne italiane in questo periodo storico, che sappiano guardare a Sojourner che con la sua forza ha attraversato i secoli, quasi fosse una stella luminosa per aiutarci a trovare il cammino verso una società migliore, che ci consideri esseri umani in tutto e per tutto.

martedì 10 novembre 2015

« Care compagne vi scrivo.Secondo passo di Simona Sforza

mafalda_io non ci sto

Bando alle ciance, procediamo.

Molte donne hanno risposto con un “io ci sto” a questo appello, per dire basta, per dire che è giunto il momento di raccontare i nostri “io non ci sto” a un Paese che ha mille cose che non vanno per le donne, mille aspetti in cui si esplica la violenza nei loro confronti. E allora urliamo gli “io non ci sto” in un corale racconto del nostro presente e i nostri “io ci sto” per suggerire ipotesi di cambiamento per il futuro di tutte. Per le donne che vogliono lavorare ad un nuovo spazio, per coloro che con entusiasmo hanno accolto il mio sassolino nello stagno, con loro e per loro vado avanti.

Così iniziava il Manifesto di Rivolta Femminile:
“Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?”
(Olympe de Gouges, 1791).

Sono trascorsi oltre due secoli, eppure sembra che ad oggi la risposta a quella domanda sia ancora no. Anzi dopo un tentativo e un’ illusione di aver smontato questa abitudine alla divisione, ci siamo ricascate alla grande con l’ulteriore rischio di perdere importanti pezzi di pensiero e di riflessioni femministe. Spesso ci perdiamo nei meandri di personalismi e di una infinità di micro-conflitti al nostro interno, con la conseguente incapacità di lavorare in modo unitario o quanto meno solidale. Altre volte ci si ritrova di fronte ad un femminile, che per il potere ha scelto di mimare il maschile e di ripeterne valori, linguaggio, modi e relazioni, condannando al silenzio le voci dissonanti.
Allora per fare da cassa di risonanza a chi voglia dire la propria opinione su come vive la sua condizione femminile in un Paese certamente non all’altezza di corrispondere ai bisogni delle donne, lancio qui un tentativo di presa di parola collettiva:

Io non ci sto a una donna definita in rapporto all’uomo, che non può costituire il modello di lettura di noi stesse e del mondo;
Io non ci sto al perpetuo monologo patriarcale;
Io non ci sto a una suddivisione tra donne vincenti e perdenti;
Io non ci sto alle discriminazioni sul posto di lavoro;
Io non ci sto alle differenze salariali uomo-donna;
Io non ci sto al mobbing;
Io non ci sto alle molestie sul lavoro;
Io non ci sto alla precarietà lavorativa, con le sue ricadute sulle nostre esistenze;
Io non ci sto all’esclusione lavorativa e sociale per chi sceglie di diventare madre;
Io non ci sto a un welfare che poggia quasi esclusivamente sulle donne e sul loro contributo gratuito;
Io non ci sto agli stereotipi;
Io non ci sto all’equazione donna-madre;
Io non ci sto all’imposizione dei ruoli di genere sin dalla prima infanzia;
Io non ci sto ai ruoli sociali imposti e attesi;
Io non ci sto ai servizi per le donne, come i consultori che vengono sempre più ridotti e trasformati ;
Io non ci sto all’obiezione di coscienza che mi impedisce di esercitare il mio diritto ad una maternità libera e consapevole;
Io non ci sto all’abuso e oggettificazione del corpo delle donne;
Io non ci sto alla stigmatizzazione delle donne per la loro condotta sessuale;
Io non ci sto alla mercificazione delle donne;
Io non ci sto alla sopraffazione ed alla discriminazione;
Io non ci sto alla violenza sulle vittime di tratta;
Io non ci sto alla normalizzazione della violenza in ogni sua forma;
Io non ci sto alla violenza psico-fisica, che ci annienta e per alcune comporta la perdita della vita.

Non basta più solo parlarne tra di noi, ora penso sia giunto il momento di dare corpo e voce unitarie e fare rete, gruppo, come le sorelle spagnole, dando vita a qualcosa di concreto. Non lasciamo cadere nel vuoto questa voglia di cambiamento che è dentro di noi, facciamola uscire! Coraggio, raccontiamo i nostri “io non ci sto” e come potremmo dire “io ci sto a un Paese che…”, “io ci sto a lottare per chiedere/pretendere/costruire…”. Potrebbe essere questa la formula del nostro manifestare il 7 novembre, in concomitanza con la manifestazione delle nostre sorelle spagnole, in varie città, paesi, borghi, unite insieme da un filo che ci porta a non poter più stare zitte. Perché cambiare è possibile se lo vogliamo.. partendo dal basso, da un movimento spontaneo. Quanto meno proviamoci! A breve ci sarà un terzo passo di questo cammino che abbiamo intrapreso insieme e ci aspettiamo i vostri racconti, la vostra partecipazione per comporre questo mosaico collettivo.




lunedì 9 novembre 2015

Care compagne vi scrivo di Simona Sforza

Care compagne vi scrivo, sì inizio così!
Siccome sono proprio stufa di aspettare che qualcosa si muova, ho preso il pc e ho iniziato a scrivervi.
Le nostre sorelle spagnole hanno organizzato una Marcia contro la violenza maschile contro le donne, prevista per il prossimo 7 novembre (QUI maggiori informazioni). La chiamata del movimento femminista ha accolto le adesioni e il sostegno di moltissime associazioni, di partiti politici e di organizzazioni sindacali.
La manifestazione sarà preceduta da una serie di azioni di sensibilizzazione, volte a promuovere la partecipazione di massa per le strade per denunciare la terribile realtà della violenza di cui soffrono migliaia di donne e che ha la sua massima espressione nei femminicidi.
Le donne spagnole ci dimostrano ancora una volta che il luogo della politica delle donne è la strada, la piazza, uno spazio aperto per riunirsi spontaneamente, per dare un segnale di lotta, mai di resa a una realtà, quella della violenza in questo caso, che miete vittime ogni anno.
Una donna su tre tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Oggi si denuncia di più, ma resta ancora forte lo stigma su queste donne, spesso oggetto di linciaggio mediatico, specie sui social network.
C’è uno sforzo nel contrastare questo fenomeno, ma non sembra bastare, se non si va alle sue radici. Alle origini di questa cultura dello stupro e della violenza c’è il patriarcato, che con un’azione di “restaurazione” cerca di riportare le donne sotto il totale controllo degli uomini, attraverso l’uso sistematico della violenza.
L’Italia ha aderito alla Convenzione di Istanbul ma una firma non è un sufficiente segnale di comprensione del fenomeno e di una volontà chiara di contrastarlo. I mezzi messi a disposizione sono sempre troppo pochi: con l’ultimo Piano antiviolenza è stato erogato qualche milione di euro alle Regioni, senza che venisse organizzato un controllo su come questi fondi vengono poi distribuiti e utilizzati. Non sempre si comprende la necessità di lavorare sulle nuove generazioni, contrastando le discriminazioni, aiutandole a comprendere la ricchezza e l’importanza delle differenze, impostando un lavoro fondato sulla cultura del rispetto, superando le barriere di genere, costruendo relazioni sane e non imperniate di cultura machista, facendo comprendere che la mascolinità non coincide con l’uso della forza e della sopraffazione. Altra grave mancanza è un efficace Piano anti-tratta. Manca una cabina di regia che sappia programmare e monitorare le azioni per contrastare le violenze. Sollecitiamo un Ministero delle Pari Opportunità e maggiori investimenti nel relativo Dipartimento.
Il machismo permea le nostre vite, tanto che per molte donne questa è “normalità”. Una normalità pericolosissima perché apre la porta a ogni tipo di violenza, le donne sono facilmente oggettificate, de-umanizzate, tanto che i loro diritti appaiono più deboli e facilmente bypassabili. Lo vediamo chiaramente con le nostre sorelle vittime di tratta. Ma questo riguarda le vite di tutte le ragazze e delle donne. Se si considera la donna sub-umana, inferiore a un essere umano di sesso maschile, sarà anche possibile ucciderla, cancellarla perché non rientra nello schema di donna costruito dagli uomini in secoli di storia.
Perché non ci siano più schiave sessuali, perché non siano tollerate le molestie, le violenze e le discriminazioni di qualsiasi tipo, perché non imperversino gli stereotipi sessisti che ci ingabbiano in ruoli atavici e che ci vogliono subordinate all’ordine patriarcale, che vivo e vegeto e produce tutto questo, dovremmo scendere in piazza anche in Italia. Superando i nostri steccati e uscendo ognuna dai propri antri autoreferenziali, perché lo dobbiamo a tutte noi e, soprattutto alle future generazioni di donne e uomini.
Unica deve essere la parola d’ordine di questa manifestazione:
LA VIOLENZA NON HA MAI SENSO O GIUSTIFICAZIONE! LA VIOLENZA NON DEVE AVERE SPAZIO NELLE NOSTRE VITE!
Basta violenze, basta femminicidi, non dobbiamo assuefarci alla violenza. La violenza deve diventare una questione di stato ai primi posti dell’agenda politica.
Chiediamo, quindi, che si attui pienamente in Italia la Convenzione di Istanbul e che si seguano puntualmente le raccomandazioni CEDAW, monitorandone periodicamente l’applicazione. Siamo stanche di promesse che rimangono parole non accompagnate dai conseguenti fatti.
Ultimamente le donne italiane hanno scelto un ripiegamento nella dimensione privata, personale, incomprensibile e autolesionista, un ripiegamento silenzioso che necessita di essere ascoltato e condiviso. Per questo motivo dobbiamo essere in piazza, perché non si smetta di ascoltare le nostre voci, storie e testimonianze, perché solo se ci siamo tutte insieme (e direi TUTTI insieme) le nostre battaglie avranno forza e potranno incidere significativamente. Ci devono ascoltare non solo il 25 novembre, perché quella data simbolica non basta più a contenere le rivendicazioni delle donne italiane contro ogni forma assunta dalla violenza di genere.
Stiliamo insieme un manifesto, che leghi le nostre marce piccole o grandi, in ogni quartiere, borgo, paese, città della penisola e lavoriamo a questo appuntamento, ognuna con le proprie idee e contributi, semmai gemellandoci con le nostre sorelle spagnole.
Potrebbe anche essere l’occasione per abbracciarne altre, quelle che arrivano in Italia quali vittime di tratta, a fini sessuali o lavorativi. Sappiamo che la violenza che subiscono prima e dopo il loro arrivo nel nostro Paese deriva dalla domanda di sesso a pagamento da parte degli uomini, nostri partner, amici, familiari. Come non c’è spazio per la violenza, cogliamo la possibilità di gridare a viva voce che non ci può essere tolleranza per queste nuove schiavitù.
Esigiamo che tutti i livelli istituzionali si impegnino a contrastare la violenza contro le donne, in ogni sua forma e in ogni ambito della nostra vita. Qualsiasi politica si decida di mettere in campo, ci auguriamo che ci si ricordi che si tratta di difendere delle vite umane, di donne in carne e ossa, con le loro storie reali, che hanno diritto a vivere serenamente senza che qualcuno decida di rovinare e distruggere le loro esistenze. E, soprattutto, impariamo a credere alle donne e sosteniamole davvero, perché una donna che si sente sola e sotto giudizio avrà più paura di denunciare le violenze.
Non possiamo più stare ferme ad assistere a tante vite interrotte perché tanti non-uomini decidono di farlo. Uniamo le idee, troviamo la formula giusta e manifestiamo insieme! Con le nostre voci libere, i nostri cartelloni faidate, le nostre parole piene di energia, per non dimenticare tutte le donne che hanno vissuto e vivono e vivranno questo orrore sulla propria pelle. Basta veramente poco per dare quel segnale forte, che in tante aspettano, soprattutto quelle donne oppresse dall’impotenza della rassegnazione di una vita fatta di soprusi, sopraffazione e tanta, tanta violenza, fino a poterne morire.

ADESIONI per lavorare insieme a un manifesto unitario,che sia di supporto ad una Manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne:
donneinmovimento25n@gmail.com

giovedì 5 novembre 2015

Di ciccia, di femminismo e di uomini che mangiano pop corn inserito da Silvia Vaccaro

L'ultima copertina di Marie Claire e il dibattito che ne è seguito. Quelle che seguono sono opinioni personali organizzate.



Proprio pochi giorni fa su Pasionaria, sito femminista vitale e pieno di cose interessanti, è uscito un pezzo firmato dalla sua fondatrice, la giornalista Benedetta Pintus, che parlava della sua ciccia. Il pezzo è piaciuto molto ed è stato largamente condiviso perché racconta in maniera schietta quello che succede a una donna giovane che mette su dei chili.
L’argomento mi coinvolge moltissimo perché anche io ho rotolini in più che sbucano impietosamente da varie zone. Nella mia vita non sono mai stata magra (se non per sei mesi nel 2003) e ho spesso desiderato di pesare di meno. Però, nonostante questo, se ripenso alle decine di dietologi che ho consultato negli anni, agli abbonamenti in palestre da me poco frequentate e alle immagini di me magra prima di addormentarmi come pensiero positivo (altro che pecore) posso dire che in fondo, pur volendo spesso “cambiare aspetto”, non sono mai stata davvero infelice a causa del mio corpo. Al contrario è lui che ha pagato tante volte e in tanti modi il mio stress, le mie insicurezze, le mie frustrazioni.
Non averlo curato e non curarlo tanto quanto il mio amico Luca, splendido uomo gay conoscitore di ogni soluzione che cancelli la normale dotazione di difetti estetici che la natura assegna agli umani, avrebbe voluto e vorrebbe, non significa che gli altri si possano arrogare il diritto di dirmi come dovrei essere. Ma non sono sempre stata così serena. A questa consapevolezza di me, a questa inattaccabilità ci sono arrivata con gli anni e indubbiamente attraverso il femminismo. Quell’idea rivoluzionaria che le donne possano essere libere, autodeterminate, consapevoli, felici. E che qualsiasi attacco a tutto questo vada respinto al mittente. Scrivo in merito a questo ispirata dal dibattito che si è scatenato dopo che la scrittrice Michela Murgia sulla sua pagina Facebook ha scritto uno status commentando l’ultima copertina di Marie Claire (foto di questo post). “Quando cominceremo a reagire sul serio e tutte insieme alla costruzione di una simile idea di donna?”. E in un post successivo ha aggiunto, sempre riferendosi all’immagine: “Quell'idea di donna si fonda sull'estetica dell'infelicità. La morte, e quindi anche la mortificazione, che ne è la declinazione simbolica, ci fa belle”. Le ha risposto una giornalista dell’Unità, Alessandra Serra, nel pezzo“Anoressica a tua sorella” (già il titolo promette bene) in cui scrive “È un’idea di emancipazione femminile, quella della Murgia, offensiva e pericolosa, perché passa per quella pratica di body shaming (l’insulto a vergognarsi del proprio presunto difetto fisico) che è una delle derive peggiori della cultura del nostro tempo”. E conclude: “Penso alle ragazze magre e insicure di oggi che hanno visto quel post di Michela Murgia, e dico a loro, fregatevene, tutta invidia”.
Francamente mi cadono le braccia per vari motivi. E’ abbastanza evidente che il punto sollevato dal post della Murgia non sia il peso della modella, la sua presunta o reale anoressia, quanto l’utilizzo in copertina di una foto così lontana da un’idea di bellezza vitale, forte, consapevole, personale nel senso di rispondente solo ai desideri della persona che la incarna, e lontana o comunque incurante dei canoni che, per esempio, la moda degli ultimi decenni propone. Moda e anoressia del resto sono argomenti che spesso vanno insieme e non perché le femministe (nell’articolo descritte come vecchie in senso dispregiativo. Insomma, trovatevene un’altra di cantilena. Raimondo che barba, che noia) passino il tempo ad attaccare le riviste femminili, ma perché capita che siano proprio le modelle a raccontare le condizioni a cui devono sottostare e pubblicamente si ribellino, come ha fatto Charli Howard qualche giorno fa. Alessandra Ghimenti, un’amica filmaker che conosce meglio di me il mondo della moda, scrive in merito a questo scambio sulla copertina. “Tutti sappiamo la vita da geishe che fanno le modelle sottoposte a contratti capestro di sfruttamento da cui guadagnano poco e si stressano da morire, tutti sappiamo che il loro corpo non è loro, e che "consapevole" è l'aggettivo che meno si addice al corpo di chi cerca la carriera nella moda, e non lo dico per pietismo o per giudizio, ma perché le modelle vendono il loro corpo e la loro immagine non gli appartiene, è così che funziona, un kg in più e devi informare l'agenzia”. Tutti lo sanno ma la giornalista preferisce attaccare la scrittrice, ignorando o fingendo di ignorare che proprio il femminismo – sia in passato che oggi, almeno il femminismo che in tante cerchiamo di praticare – ha fatto della battaglia contro il body-shaming una battaglia quotidiana. Cadono le braccia anche perché spesso leggiamo opinioni di giornalisti uomini palesemente maschilisti ma quando è una donna a scrivere io, che forse sono un po’ scema, ci rimango sempre molto più male. La giornalista dell’Unità perde un’occasione. Invece di dare un contributo, gioca al ribasso, in termini di dibattito e proposta di nuovi e diversi punti di vista. Usa tanto sarcasmo, sceglie l'attacco personale e dimostra di avere tanta voglia di litigare più che di discutere, come spesso accade nei dibattiti pubblici uomini contro donne, o donne contro donne, pronte come siamo a farci le pulci su tutto, mentre gli uomini mangiano pop corn godendosi lo spettacolo.
E anche questo, per me, è parte di quell’infelicità di cui parla la Murgia, di cui noi donne talvolta ci nutriamo come vampire assetate di sangue. Il femminismo, al contrario, propone alle donne ben altro nutrimento: quello che viene dal vivere la propria corporeità (e più in generale la propria vita, che non mi sembra poco) infischiandosene dei canoni che siano estetici, culturali, di ruolo, scegliendo quello che è meglio per il proprio corpo e per la propria psiche, mettendosi in ascolto e diventando consapevoli dei messaggi che ci mandano in ogni diversa fase dell’esistenza. Il femminismo propone inoltre di nutrirsi insieme, trovando nelle altre donne delle possibili alleate.
Credo che non sia un caso se Michela Murgia nella frase incriminata dalla giornalista dice proprio “quando cominceremo a reagire sul serio e tutte insieme”. Per me quel “tutte insieme” suona come un richiamo in questo senso: bionde, more, alte, grasse, magre, sportive, campionesse di sfondamento del divano, indipendentemente dal corpo consegnatoci dalla biologia e da quello che ne abbiamo fatto nel tempo, abbiamo tutte pieno diritto ad essere forti e felici. Io stessa sogno un mondo in cui le donne non si piacciano “così come sono” nel senso di non voler cambiare nulla, ma si piacciano perché consapevoli del corpo che hanno e delle potenzialità – non solo procreative!!!! – che ancora possono esplorare.
Non una lotta rotolino contro occhiaia, maniglia dell’amore contro zigomo scavato. Al centro della mia pratica femminista e di quella di molte, credo ci sia il desiderio di creare una società in cui i corpi e le menti delle donne diventino per loro spazi di autodeterminazione e consapevolezza inattaccabili. Con un po’ di onestà intellettuale si dovrebbe riconoscere che quella foto non trasmette affatto tutto questo.

mercoledì 4 novembre 2015

E' nel corpo che risiede il potere di Loredana Lipperini

Questa mattina, in metropolitana, c'erano tante donne. Come sempre, certo, ma questa volta le ho osservate attentamente. Erano tutte diverse. Giovani, vecchie, magre, grasse, molto magre, molto grasse, molto medie. Ancora. Alte, basse, con i capelli colorati (un rosa fucsia, due verdi, molti biondo chiaro, qualche nero corvino, alcune bianche). Con i leggins, con i jeans, con la gonna al ginocchio, con la gonna sopra al ginocchio, con il giubbotto l'impermeabile il blazer. Di umore radioso, apatico, pessimo. Allegre, tristi, preoccupate, assonnate. Con figli sul passeggino, per mano, senza figli. Con cagnolino. Con fidanzato. Con marito. Sole. Con un'amica. Con più amiche. Eccetera.
Questa è, direte, una banalità. Naturalmente lo è, perché la realtà è molto spesso banale. Ci si dovrebbe chiedere, dunque, perché di questa banale molteplicità di esistenze e di modi di essere chi diffonde i modelli femminili (e maschili, evidentemente, ma non si sa perché gli uomini parlano molto malvolentieri di questo) non  prende atto.
Lo so, è una vecchia questione e se ne discute da anni, e in molti casi con esiti importanti, perché è capitato e capita che pubblicitari e direttori/trici di magazine accolgano quella che è, e dovrebbe rimanere, una riflessione culturale da fare insieme: è dunque accaduto che alcuni  magazine abbiano scelto di ospitare sulle loro copertine donne di ogni conformazione fisica, che alcuni pubblicitari abbiano fatto altrettanto, e così via. Alcuni lo hanno fatto con convinzione, altri obtorto collo, ma è stato fatto.
Perché, dunque, tornare sulla vicenda? Perché negli ultimi tre giorni è avvenuto qualcosa che mi fa pensare: non per la polemica in sé, ma per la reazione collettiva molto forte. Significa che la faccenda è tutt'altro che superata.
Andando con ordine: venerdì scorso Michela Murgia posta sulla sua pagina Facebook la foto della copertina di Marie Claire che mostra una ragazza filiforme. Segue discussione. Segue un intervento su l'Unità on line di Alessandra Serra, docente di linguistica e traduzione inglese all'Università della Tuscia, studiosa di linguaggio della politica e dei nuovi media. L'intervento viene titolato Anoressica a tua sorella (laddove nello status di Michela Murgia di anoressia non si parlava affatto) e per una buona parte contiene frecciate a Michela Murgia e alla sua candidatura alle regionali sarde di due anni fa (questione vecchia: Serra è stata molto prodiga di attacchi a Murgia in tempi elettorali), alla sua attività di scrittrice, al femminismo d'antan che ha ancora un suo pubblico di attempatelle (sic), con la stoccata finale, miserabile, "tutta invidia".
Ora, non ho intenzione di difendere Michela Murgia, che si difende benissimo da sola e che, a quanto so, è invidiosa soltanto di Stephen King e di Daenerys Targarien (per i draghi, precisiamo). Faccio solo qualche considerazione sul punto: che è punto culturale, e dunque riguarda tutte, donne e uomini, femministe e antifemministe, maschilisti e padri della Chiesa, volendo.
Il potere che si esercita attraverso i corpi, questo è il punto: vederlo ridotto a una guerra magre contro grasse, e grasse contro magre, è stato desolante, e ingiusto. Cercando tra le migliaia di commenti on line, i più frequenti erano quelli di donne magre che lamentavano il body shaming nei loro confronti e viceversa di donne grasse che lamentavano la stessa cosa. Entrambe con ragioni, certo.
Il problema è che mentre le donne magre dicevano "non siamo sacchetti d'ossa e l'anoressia non viene ispirata da un giornale" (vero) e le donne grasse dicevano "non si trova una taglia sopra la 42 a meno di andare nei negozi per oversize" (vero pure questo) quel potere piccolo, miserabile, banale si esprimeva attraverso un paio di clic in più. Alla rivista, per esempio. E siccome siamo in tempi gramissimi un paio di clic fanno la differenza, e portano pubblicità, mentre commentatori e commentatrici si godono lo spettacolo della lotta femminile nel fango, che è roba forte, eccita e porta pubblico.
Qual è dunque la questione?
Più di una. C'è un primo punto, culturale e antico, che accarezza una rappresentazione estetica del femminile esangue e morente. Questione vecchia, lo abbiamo anche scritto in "L'ho uccisa perché l'amavo":
"l’immaginario delle morte ammazzate e dei candidi colli recisi, e dei gigli che trascolorano ci accompagna da secoli, e che dopo la funebre fioritura ottocentesca, ci si è avvinghiato alle caviglie come lo scheletro che ghermisce la vergine (...). Fu Mario Praz, in La carne, la morte e il diavolo, a scandagliare la “bellezza medusea” e “intorbidata dalla morte” che dal seicento ai romantici e fino a D’Annunzio domina in letteratura, sposandosi con l’altro durevole mito, quello della donna-vampiro e della belle dame sans merci".
Ora, è bene mettere in chiaro una cosa: conoscere i modelli non significa volerli eliminare. Perché quel che mi ha veramente stufata è la pessima fede di chi continua a parlare di femminismo prescrittivo che vuole togliere libertà alle singole. BALLE. Siate quello che volete, magre, grasse, vampiri, grandi madri, angeli, comari. Quello che volete: ma almeno sappiate a quello modello state aderendo. Conoscere quei modelli porta alla libertà (e santi numi quanto mi mancano Foucault e i discorsi su corpo e potere), forse. O comunque costituisce un primo passo. Accusare chi ne parla di volervi obbligare a essere come lei non serve che a effimere autoconsolazioni che non fanno fare un solo passo avanti a nessuna.
Secondo punto. Proprio ieri, mentre si discuteva sui propri ego, una giovane donna scriveva a Repubblica chiedendo se in Italia esistesse un movimento femminista in grado di lottare per i diritti delle donne sul lavoro. E sul corpo, visto i graziosi attacchi che vengono sul tema dell'interruzione di gravidanza da ultimo. Mi ha colpito, quella domanda. Perché le femministe in Italia ci sono, ma vengono continuamente accusate da altre donne di occuparsi di minuzie (e discutere sui modelli non è mai una minuzia, nè è meno importante rispetto ai discorsi sul lavoro: sempre di potere si tratta) e soprattutto di voler impedire alle altre di fare quel che vogliono.
Che siate in ottima o pessima fede, voi che sostenete questo, sappiate che non importa quale sia la vostra taglia: importa che occorra una misura per definire una donna, semmai. Siate magre. Siate grasse. Siate medie. Siate trasandate. Siate chic. Siate quel che volete. Ma non lasciate che qualcuno faccia soldi, o miserando curriculum di polemista, su di voi.
Siamo tutti mucchietti d'ossa, bag of bones, a prescindere da quanta carne c'è attorno quelle ossa. Cerchiamo di essere portatrici e portatori di discorsi comuni, e di comuni sentieri. Questo è quel che conta.
E' nel corpo che risiede il potere, il titolo di questo post, è una frase tratta da Nel bosco di Aus di Chiara Palazzolo. Una volta riconosciuto quel potere, è possibile farsene beffe. Non prima.

martedì 3 novembre 2015

Altro che Halloween, vi presentiamo le vere streghe da LINKIESTA

Donne emarginate ma con un potere enorme e grande fascino: facevano paura, e vennero demonizzate
Si parla di Halloween, si parla anche di streghe. Il legame c’è (Halloween, del resto, è “la notte delle streghe”), e nel calderone, tra zucche, dolci/scherzi, scheletri vampirie e zombie la strega è un personaggio di primo piano. Questo articolo però è un’avvertenza, o meglio ancora una guida: chi sceglie di indossare i panni della fattucchiera, con tanto di scopa e cappello a punta, sappia che sta impersonando una figura antica e misconosciuta, ghettizzata (spesso bruciata) dalla Chiesa e poi addomesticata dalla Disney, o da Hollywood. E che con la reale “strega” non ha nulla a che fare.
Per non farla tanto lunga, lasciamo spiegare la questione alla scrittrice Vanna De Angelis, che al tema ha dedicato anni di studio e un libro interessante.

Quanto è appropriata la presenza della strega nella festa di Halloween?
Come figura, molto poco. La strega che ho scoperto nei miei studi non ha nulla a che fare con lo stravolgimento, neanche fiabesco, operato con Halloween. Qui diventa poco più di un pupazzo, un fantoccio. Qualcosa di molto, molto lontano dalle sue origini.

Quindi bisogna rifiutare l’idea di una strega con scopa, cappello a punta, artigli, etc. etc.?
La strega, prima di tutto, è una donna. È una figura marginale rispetto alla società ed è anche una figura molto legata al mondo della natura. La rappresentazione che lei descrive è una caricatura cinematografica di quella che è stata, a sua volta, una caricatura operata nei secoli dalle culture dominanti, cioè, in poca sostanza, dalla Chiesa.

Si spieghi meglio.
È una questione che affonda nella storia. La strega era una donna, aveva un ruolo importante nelle comunità in cui viveva, spesso montane. Era la conoscitrice delle erbe – viene rappresentata curva, ma non perché è vecchia, come poi è sembrato, ma perché era china sul terreno a scrutare la vegetazione – e insieme alle erbe, ai loro poteri. La tradizione è antica, e precede il cristianesimo. La sua demonizzazione però risale a un periodo che si può inquadrare tra il 1300 e il 1600. Le streghe facevano paura per due motivi: erano donne “trasgressive”, nel senso che vivevano ai margini, isolate, ed erano “eccedenti” alla figura prevista dal cristianesimo. E poi perché erano, in generale, erboriste eccezionali. Conoscevano le erbe che curavano – e anche quelle che uccidevano. Questo irritava gli speziali di città. Ma soprattutto era un potere che faceva paura.

Un collegamento con il mondo della morte e con la festa di Halloween c’è, allora.
Il rito è antico, affonda nelle tradizioni celtiche: è una festa che a novembre celebrava la morte della natura e avveniva nei cimiteri. Era un rito giocoso, festoso. Era previsto che ci si travestisse, che si invertissero i ruoli tradizionali. Gli uomini si vestivano da donne, i preti da streghe. Questo si è conservato. Ma il legame con il mondo infero è legato soprattutto al rituale del sabba. Le streghe conoscevano le erbe, anche quelle allucinogene. Facevano viaggi che superavano i limiti della realtà, che le mettevano a contatto con dimensioni sconosciute, cioè con quello che veniva considerato il mondo dei morti.

Anche questo fa paura.
Molta. Era una figura che non si poteva inquadrare. In più, nei villaggi più dispersi, era ancora autorevole, più della Chiesa. Le persone andavano dalla strega per i filtri, per curarsi, per abortire. È qui il punto: la strega conosceva i rimedi per provocare la morte e impedire le nascite. Era un nemico che andava distrutto, e così venne demonizzato. Diventò una creatura del diavolo, e la festa a inizio novembre assunse toni lugubri, che non le erano propri. Del resto cambiò tutta l’idea della morte. Ma questo è un discorso più ampio.

Cosa è rimasto, se è rimasto qualcosa, di quell’antica cultura pagana/magica?
Ormai nulla. La festa ha assunto toni molto più superficiali. La strega è legata a concezioni cinematografiche, semplici. Il suo potenziale di libertà, di indipendenza – la strega era la donna libera, che faceva paura perché indipendente e non inquadrata – è stato cancellato. È rimasto l’insulto, però. Dire “sei una strega” significa riconoscere a una donna una malvagità profonda e incontrollabile, ma in ultima analisi diversa e incontrollabile. Le streghe di oggi sono le donne viste con sospetto, le donne non omologate, che sfidano. Quella impiccata in Iran perché aveva ucciso il suo stupratore, in questo senso, è una strega. Ma in modo autentico.

lunedì 2 novembre 2015

Benedetta Selene Zorzi, la teologa che promuove il gender di Giovanni Panettiere

SU UN PUNTO al Sinodo sulla famiglia i vescovi liberal e conservatori hanno convenuto senza particolari fibrillazioni: la condanna della teoria gender. Una vera e propria «ideologia» che - recita il paragrafo 8 della relazione finale, votato da 245 padri sinodali, con appena 9 contrari - «nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso e svuota la base antropologica della famiglia». Peggio ancora, il gender è responsabile di «progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo». Ma è proprio così? Il gender è questo? O almeno, è solo questo? Ne parliamo con la teologa Benedetta Selene Zorzi, ex monaca benedettina, autrice di 'Al di là del genio femminile' (2014), un libro che approfondisce gli studi di genere in relazione alla Bibbia, alla patristica e al magistero della Chiesa. Il tutto con una chiarezza espositiva e una capacità di sintesi non comuni per un tema tutt'altro che agevole.
Partiamo dall’inizio... Teoria o ideologia gender?
«Le teorie sul genere sono molte e anche varie. Non sempre sono simili nel collegare il dato biologico a quello culturale. Il tipo di approccio a questa categoria cambia anche a seconda del modello di disciplina con la quale la si accosta, storica, sociologica, psicologica, filosofica eccetera».
Niente ideologia, quindi?
«Il termine ‘ideologia del gender’ è in uso unicamente all’interno delle gerarchie cattoliche: in questo ambito l’espressione viene combattuta in quanto tale. Il termine appare come un blocco monolitico, connotato dai contenuti più vari, risultando assai contraddittorio. Non se ne sanno indicare nemmeno gli autori».
Come se ne esce?
«Dicendo sì alle teorie sul genere che sono utilissime alla causa delle donne, all’emancipazione, sia femminile sia maschile, e alla difesa dei diritti delle minoranze. No, invece, all’ideologia del gender, perché così presentata non sembra effettivamente portata avanti da nessuno e, se così fosse, sarebbe confusa e dannosa».
Per il Sinodo gli studi di genere cancellano la differenza sessuale, maschio-femmina.
«Totalmente il contrario. Le teorie del genere intendono dare conto delle differenze, valorizzarle. Puntano a studiare come si creano e perché le discrepanze di valore, di trattamento, di potere tra uomini e donne. Vogliono dare conto del perché e secondo quali strategie mentali e politiche la differenza sessuale crei penalizzazioni di dignità e di opportunità alle persone. Studiare le differenze di genere fa penetrare lo sguardo e accorgersi che la diversità fra uomini e donne è solo la prima della tante che attraversano la cultura, le nostre società e le persone stesse. Le uguaglianze tra maschio e femmina per le quali le teorie di genere si battono è l’uguaglianza di dignità, di opportunità e di responsabilità da assumere».
Da ex monaca, come si spiega questa avversione dei vertici ecclesiali nei confronti del gender? 
«Con lo stesso motivo che mi ha portato a lasciare il monastero: le istituzioni ecclesiali sono fondate su un modello di antropologia sessuale in cui la donna è considerata subordinata e funzionale/strumentale alla completezza e realizzazione dell’uomo maschio. Su questo oramai gli studi, anche a livello teologico, sono abbondantissimi, ma spesso poco conosciuti o ignorati dai teologi e dalle gerarchie. Mi sembra che dietro la creazione di questo nemico caricaturale che chiamano ‘ideologia del gender’ vi siano almeno tre paure: quella di perdere i privilegi dell’ordinazione maschile, quella di scoperchiare la questione omosessualità e quella di accettare il nuovo protagonismo femminile nella storia».
Quanti e quali pregiudizi di genere si celano nella morale familiare cattolica? 
«Gli stessi che si nascondono in quella antropologia e teologia di cui sopra e che hanno fondato una determinata morale dove la sessualità e la donna sono dati secondari e funzionali al maschio».
La rivoluzione della tenerezza di Francesco ha bisogno degli studi di genere? 
«Tutti abbiamo bisogno della prospettiva di liberazione che gli studi di genere offrono e di illuminare le assunzioni acritiche che ci portiamo dentro e che abbiamo ereditato da secoli di androcentrismo. Anche il Papa è un uomo cresciuto in una istituzione e secondo una formazione androcentrica e non può sfuggire al suo tempo. Certamente però tutti possiamo evolvere e superare determinati schemi mentali. Mi piace pensare che la rivoluzione della tenerezza di papa Francesco sia un esito dell’evoluzione che il femminismo prima e lo smascheramento che gli studi di genere permettono ai meccanismi di potere poi hanno innestato nella visione dell’essere umano che abbiamo attualmente. Ho però l’impressione che l’allineamento tra questa rivoluzione e quella di cui hanno bisogno le istituzioni cattoliche richieda un processo lungo».



domenica 1 novembre 2015

Halloween: sexy angurie e donne vestite da bambine ( vestite da donne ) Laura /


Halloween è una festa di origine celtico-anglosassone, da una decina di anni importata anche in Italia per la felicità dei gestori di pub e discoteche che ospitano tutti quelli che il 31 ottobre festeggiano non si sa bene cosa. Sorvolando sull’egemonia culturale statunitense dilagante e su come in Italia si viva ancora riflessi nello specchio di un grande sogno americano, anche grazie alla rappresentazione di film e tv statunitensi, Halloween è la festa più importata di Europa, fenomeno diventato massiccio nel giro di soli 4 o 5 anni. Così anche in Italia ecco apparire costumi dei più vari, tra i quali non può mancare una differenziazione di genere che ha molto in comune con quella dei giocattoli ( maschere “da femmina” e “da maschio” ) o delle rappresentazioni mediatiche in generale ( gli uomini mascherati da modelli maschili e le donne da quelli femminili ).Ci sono però alcune caratteristiche particolarmente rilevanti, che assumono aspetti grotteschi a tratti esilaranti.


Primo. Che voi stiate cercando un costume da pirata o da soldatino di piombo, non c’è modo di non trasformarsi in una “versione sexy” dello stesso. Calze a rete, bustier e culo di fuori sono d’obbligo per qualsiasi brava piratessa ,soldatessa super eroina , suora e diavoletta.
Secondo. Le maschere da “oggetto buffo” o animale. Anche queste sono pensate come une versione assurda e sessuata di ogni cosa esista al mondo. Così ecco la maschera da sexy banana , sexy pennarello , sexy apesexy pappagallo , persino sexy anguria sexy bacon. Bacon? Eh, bacon.
sexy bacon
Sexy bacon
Terzo. Le prime due caratteristiche si spiegano con la terza considerazione. Ogni costume, ogni maschera, è considerata la “versione femminile” di un identità maschile. Questo vale sia per le professioni più disparate ( dalmedico al capotreno ) sia per i personaggi di fantasia ( cartoni animati, angeli e cappellai matti ), ma in generale quasi per qualsiasi maschera esistente.
Persino le banane, i pennarelli e il bacon sono maschili da convertire in una versione “da donna”, quindi scosciata, scollata, velata, strizzata.
Qui, un sito raccoglie una dettagliata collezione di foto, costumi di halloween versione uomo e donna, sottolineando come un vestito maschile spiritoso, ridicolo, divertente abbia solo una versione femminile sexy e svilente.
swap halloween
I costumi di Halloween non sono che una delle infinite opportunità del mercato per fare differenze sessiste di genere.
Sono l’ennesimo riflesso di un binarismo imposto, di stereotipi incarnati in consumo,  identità che ci vengono imposte fin da piccoli. Esattamente come la distinzione tra rosa e azzurro.
Nel caso dei costumi di Halloween si tratta di un fenomeno che capillarmente investe sia uomini e donne, ma di solito le donne se ne accorgono prima perché rimangono spesso col culo al freddo. 
“You can’t be a princess” è il docu- candid della ABC proprio riguardo alle identità di genere imposte ai bambini. Un’attrice finge di non voler comprare a sua figlia il costume da Spider Man, preoccupata per la sua femminilità. La maggior parte delle clienti intorno la appoggia, si preoccupa per la bambina così poco “pretty”, una le consiglia un bel costumino da cubista. Stessa sorte per il bimbo che voleva vestirsi da principessa.
Le stesse bimbe vengono incoraggiate infatti fin da piccole a scegliere un’immagine a dir poco inappropriata all’età di una bambina, non di certo perchè non si possa giocare alle donne già da piccole, ma per il modello sessualizzato ed assolutamente adultizzante che le investe. Come nella pubblicità, come nella moda, come nella vita.
A proposito di infanzia, vale la pena rilevare un altro trend significativo: i costumi per donne vestite da bambine vestite da donne ( sexy ). Tra i sexy costumi di Halloween ci sono infatti versioni ipersessualizzate di personaggi che si presume rappresentino giovanissime donne, se non bambine. Si pensi ad Alice nel Paese delle Meraviglie,Cappuccetto RossoDorothy del Mago di Oz. O, ancora più esplicitamente, collegiali, studentesse, scoutgirl.
dorothy
Sembra una piccolezza, ma è rilevante notare la moda per le donne adulte di travestirsi da bambine super sexy. Emergono i due fenomeni più diffusi della percezione estetico-culturale della bellezza femminile: la sessualizzazione precoce delle bambine e l’infantilizzazione delle donne adulte. Per quel che riguarda l’infanzia sessualizzata, abbiamo spesso affrontato il tema in fatto di modelli estetici adulti riproposti a bambine. Si tratta di rappresentazioni imposte a piccolissime donne nella moda, in televisione, nei famigerati concorsi di bellezza per piccole, ma anche in spiaggia, al parco, in famiglia. Passano per i giochi sul make up per giovanissime, attraversano i modelli adolescenziali proposti già per bambine sotto i 10 anni, finiscono spesso nel fraintendimento del modello di successo femminile e quindi la perpetuazione del binomio sexy = vincente. Tutto il resto non conta. Le donne adulte, al contrario, sono infantilizzate. Private di peli, forme, dell’età adulta, le modelle che ci sorridono vendendoci anche l’anima sono glabre riproduzioni plastificate di corpi adolescenti, mai maturi, tanto meno anziani. Le donne adulte sono vendute come la versione legale della bambina sexy che non è lecito immaginare. Ma che contemporaneamente prepariamo al peggio.
costumi bambina
Ognuna ha il diritto di piacersi e di sentirsi sensuale a modo suo, persino vestita da sexy banana. Come non si può negare che il sexy bacon abbia un fascino notevole. Antropologico almeno. Però sarebbe bello che allora tutte avessimo la libertà di camminare culo all’aria senza sentirci chiamare puttana e fischiare dietro, invece che fare le scimmie ammaestrate comprando un costume da idiota perchè da piccole non ci hanno fatto vestire da Spider Man.
Ridiamoci su con Jillian Tamaki che, dopo aver evidentemente notato anche lei la questione, suggerisce agli stilisti il vestito da “sexy calzino puzzolente” ed altri anche migliori. Chapeau.