mercoledì 31 dicembre 2014

Bertolt Brecht (migliore augurio non credo esista)

Ci impegnamo, noi e non gli altri,

unicamente noi e non gli altri,

né chi sta in alto, né che sta in basso,

né chi crede, né chi non crede.

Ci impegniamo:

senza pretendere che gli altri si impegnino per noi,

senza giudicare chi non si impegna,

senza accusare chi non si impegna,

senza condannare chi non si impegna,

senza cercare perché non si impegna.

Se qualche cosa sentiamo di "potere"

e lo vogliamo fermamente

è su di noi, soltanto su di noi.

Il mondo si muove se noi ci muoviamo,

si muta se noi ci facciamo nuovi,

ma imbarbarisce

se scateniamo la belva che c'è in ognuno di noi.

Ci impegniamo:

per trovare un senso alla vita,

a questa vita

una ragione

che non sia una delle tante ragioni

che bene conosciamo

e che non ci prendono il cuore.

Ci impegniamo

non per riordinare il mondo,

non per rifarlo,

ma per AMARLO.



martedì 30 dicembre 2014

ROGHI DI LIBRI PER BAMBINI, ANCORA. AIUTO.

Questa è una storia a puntate
Una storia triste, una storia apparentemente circoscritta.
Una storia che riguarda le bambine e i bambini, e le bibliotecarie, e il progetto Nati per leggere. E che riguarda le mamme. Giusto, le mamme, quelle di cui tanto si parla in questi giorni con feroce curiosità, quelle che devono essere sempre perfette e mai depresse (consiglio il proposito lo splendido post di Helena Janeczeck sulla madre-strega). Le mamme che a volte si fanno branco, perché così si fa, da millenni, e così si ritiene giusto.
Possiamo partire da un libro, 
Il libro delle famiglie di Todd Parr, dove si racconta la verità. 
Le famiglie sono plurali, sono diverse fra loro (diamine, lo dice persino l’Istat). Possono essere formate da un genitore, o da due, e quei due possono essere dello stesso sesso. Normale, no? No. Se digitate su google il titolo del libro seguito dalle parole “contro il gender” potete rendervi conto da soli delle reazioni feroci che il libro ha suscitato tra i fondamentalisti cattolici (sì, fondamentalisti: altro termine non mi viene). Qui, per dire, ce n’è una.
Possiamo partire anche da un altro libro.
Un classico, davvero: si chiama Piccolo blu e piccolo giallo, lo ha scritto Leo Lionni e parla, semplicemente, di amicizia. Però c’é un precedente: questo libro fa parte anche del progetto “Leggere senza stereotipi”, e la parola “stereotipi” è sufficiente per far venire il mal di pancia ai fondamentalisti di cui sopra. Già qualche tempo fa la storia di due macchie di colore diverso che insegnano alle bambine e ai bambini cosa significhi la parola rispetto è stata oggetto di strali e crociate
Andiamo avanti.
 Ci sono progetti per diffondere la lettura nelle scuole. Sono noti e preziosi: Nati per leggere e In vitro. Progetti preziosi, che provano a cambiare le cose nel paese dei non lettori. E, aggiungo, anche degli stereotipi, tanto per far venire i crampi a qualche fondamentalista di passaggio. Magari quelli che credono a quanto scrive Il Giornale sugli svenimenti dei bambini che sentono parlare (oddio!) di gender a scuola.
Ora, se avete avuto la pazienza di arrivare fin qui, arriviamo al punto.
C’è una città, che per ora rimane anonima, dove un gruppo di mamme, sembra appartenenti al movimento Rinnovamento per lo Spirito Santo che ha deciso che quei progetti (Nati per leggere e In vitro) non s’hanno da fare. O che, quanto meno, i libri proposti vadano prima vagliati da loro.
C’è una scuola dove la direttrice scolastica sta dando ascolto, a quanto pare, a quelle madri.
C’è una scuola dove a una riunione è stato convocato un sacerdote esorcista, che ha ovviamente tuonato contro l’orrore della vicenda (forse dimenticando, chissà, che l’indice dei libri proibiti non esiste più. Ufficialmente).
C’è una raccolta firme aperta dalle mamme.
C’è una richiesta di controllo, da parte della scuola, di sapere chi entra nell’istituto per parlare del progetto, quali titoli vengono letti, con quali argomentazioni. Naturalmente la richiesta arriva dopo le pressioni dei fondamentalisti medesimi, che on line mettono a disposizione il modulo da compilare contro il gender. E, mentre noi si parla d’altro, si mobilitano contro ogni progetto di reciproco rispetto.
Ecco, questa è la prima parte della storia. 
Prima di raccontarvi il resto, e di dirvi dove sta accadendo tutto questo, chiedo e vi chiedo, e chiedo al ministero dell’Istruzione, a quello per i Beni Culturali, al Centro per il Libro e la Lettura, di intervenire.
Perché questa è una battaglia contro i libri: libri scelti e vagliati anche istituzionalmente.
Questo è, ancora una volta, un rogo potenziale. 
Che questa violenza si fermi, una volta per tutte.
I libri per bambini aprono menti, e non le chiudono.
In una parola: aiuto.


lunedì 29 dicembre 2014

#Lifeofwomen: diteci a che punto siamo Il Vaticano invita le donne al dialogo di Laura Ballio

Selfie e filmati da un minuto per dialogare con il Vaticano con l’hashtag #Lifeofwomen. 
Così la Chiesa chiede alle donne di raccontare con le immagini il proprio pensiero e la propria identità, per raccogliere spunti, suggerimenti e indicazioni che verranno inoltrati a vescovi e cardinali del Pontificio Consiglio della Cultura, riuniti nell’annuale Plenaria a porte chiuse che si terrà a Roma dal 4 al 7 febbraio prossimi.
Il tema, Culture Femminili: Uguaglianza e Differenza è stato scelto personalmente dal presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Cardinale Gianfranco Ravasi, e sarà articolato in quattro diverse sessioni: 
Tra uguaglianza e differenza: alla ricerca di un equilibrio,
La “generatività” come codice simbolico, 
Il corpo femminile: tra cultura e biologia,
Le donne e la religione: fuga o nuove forme di partecipazione alla vita della Chiesa?
«L’impegno della Plenaria, con il contributo prezioso di Membri e Consultori, attraverso queste quattro tappe tematiche sarà quello di cogliere alcuni aspetti delle culture femminili, per individuare possibili percorsi pastorali. E in questo modo mettere le comunità cristiane in grado di ascoltare e dialogare con la contemporaneità anche in questo ambito», spiega Ravasi. «L’espressione “culture femminili” non significa segnare una divisione da quelle maschili, ma manifesta la consapevolezza che esiste uno “sguardo” sul mondo e su tutto ciò che ci circonda, sulla vita e sull’esperienza, che è proprio delle donne».
Quello sguardo che, da quando è salito al soglio pontificio Papa Francesco, è sempre più presente nel mondo cattolico. «La Chiesa ha l’articolo femminile “la”: è femminile dalle origini», ha detto il Papa al direttore del Corriere della sera Ferruccio de Bortoli, nell’intervista in occasione del primo anno di pontificato, il 5 marzo scorso, «e la Vergine Maria è più importante di qualsiasi vescovo e di qualsiasi apostolo». E così il Pontefice aveva ripreso il brano finale dell’esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, del 24 novembre 2013, nel quale aveva anche affermato che «c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Perché il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali. Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere».
È proprio per sottoporre ai Membri della Plenaria queste domande, raccogliendo segnali anche dal mondo laico, che si è formata una Consulta di donne attive in diverse aree della società civile. Le stesse che stanno organizzando l’evento pubblico, al teatro Argentina di Roma, che precederà i lavori a porte chiuse, e che hanno ideato la “chiamata” di #Lifeofwomen. L’appello, interpretato da Nancy Brilli (membro della Consulta) e visibile sui social e su La 27ora (che ha collaborato con la Consulta Femminile del Pontificio Consiglio della Cultura), è rivolto a tutte le donne che hanno voglia di raccontare come vivono la loro identità tra uguaglianza e differenza, tra corpo e vita spirituale, tra lavoro e la maternità.
Per farlo basta un filmato di meno di un minuto o una foto: il materiale va postato, entro il 4 gennaio, sui social network con l’hashtag #LifeofWomen e va segnalato con un link a lifeofwomen2015@gmail.com

Le testimonianze, oltre a diventare un ulteriore spunto di riflessione per i vescovi e i cardinali della Plenaria, potrà essere selezionato per diventare parte di un docufilm (disponibile anche su YouTube) presentato all’evento del Teatro Argentina. Quindi, occhio alla qualità delle immagini e per ulteriori informazioni www.cultura.va.

domenica 28 dicembre 2014

Women of Vision Le grandi fotografe di National Geographic 25 ottobre 2014 – 11 gennaio 2015. Palazzo Madama, Corte Medievale.


Palazzo Madama avvia la partnership con National Geographic Italia: Women of Vision, 11 grandi fotografe per 99 fotografie.
Ci sono storie, a questo mondo, che possono raccontare solo le donne.
Un po' perché ci sono società in cui è ancora radicata la separazione di genere. Un po' perche' solo gli occhi di una donna possono afferrare che cosa significhi essere sottoposti a forme tanto brutali di sopraffazione fisica e psicologica.
Women of vision raccoglie le storie narrate su National Geographic da 11 formidabili donne che hanno dedicato la loro vita alla testimonianza attraverso la fotografia.
Ci sono veterane come Lynn Johnson, Jodi Cobb e Maggie Steber, e talenti emergenti come Erika Larsen e Kitra Cahana. 
Ci sono artiste che hanno dedicato la loro carriera a raccontare la società e la condizione femminile, altre che hanno immortalato paesaggi onirici, altre ancora che hanno scelto per missione la conservazione della natura e la tutela dell’ambiente.
99 fotografie, tra cui commoventi ritratti di culture lontane, emozionanti immagini emblematiche di fenomeni come la memoria e l’alchimia che si instaura tra gli adolescenti, e impressionanti scatti che immortalano disagi sociali come le spose bambine e la nuova schiavitù del XXI secolo.
La mostra, ospitata in Corte Medievale di Palazzo Madama nasce dall’accordo di collaborazione siglato tra Fondazione Torino Musei e National Geographic Italia.
Da 125 anni la fotografia di National Geographic è testimone autorevole dei grandi cambiamenti del mondo, attraverso l’arte di donne e uomini consapevoli della missiondi moderni “cantastorie”della cultura, della bellezza, della conoscenza, dell’impegno e dell’esperienza.
La partnership tra Fondazione Torino Musei e National Geographic Italia e' una grande occasione per Torino, sia per la qualità dell’offerta culturale, sia perché questo accordo permette di affiancare l’immagine dei musei a un marchio internazionale, riconosciuto nel mondo.
Le fotografe in mostra: Lynsey Addario; Jodi Cobb; Kitra Cahana; Diane Cook; Carolyn Drake; Lynn Johnson; Beverly Joubert; Erika Larsen; Stephanie Sinclair; Maggie Steber; Amy Toensing











sabato 27 dicembre 2014

Io, vegetariana incompresa alle tavole delle Feste in famiglia di Valentina Ravizza

«Ma non mangi neanche il pesce?». Undici anni da vegetariana e mio cugino Alessio al pranzo di Natale mi farà immancabilmente la stessa domanda. Dall’altro capo del tavolo una zia mi inviterà di nuovo ad assaggiare il contorno di verdura preparato nella stessa pentola dell’arrosto o a prendere del purè di patate in cui hanno messo, «per insaporirlo», dei pezzi di prosciutto («al massimo quelli li togli» suggeriscono). Pranzi e cenoni delle Feste per me sono, gastronomicamente parlando, il peggior momento dell’anno. E quest’anno che la mia dieta è ormai quasi totalmente vegana andrà anche peggio. Perché se già rifiutare faraona arrosto e baccalà mantecato viene visto come un’offesa, figuriamoci se provi a dire di no al panettone.
Eppure un’alternativa a chi ti dice «noi mangiamo la carne, l’abbiamo sempre mangiata, se non ti sta bene evitala tu» ci sarebbe: a casa del mio fidanzato (cucina bergamasca doc con qualche tocco siculo) la proposta di preparare le crespelle vegane con la farina di ceci e, per il ripieno di funghi, sostituire la besciamella classica con quella di soia è stata subito accolta. Sia per il piacere di condividere anche il momento della preparazione del pranzo, sia per la golosità di assaggiare qualcosa di nuovo. Lo scetticismo non manca: «Non capisco com’è che dalla soia si arrivi al latte… Però si può provare». E questo nonostante lo scorso anno un tentativo di panettone vegano al farro avesse deluso un po’ tutti.
Anche alla loro tavola ci saranno probabilmente l’arrosto e le tartine al salmone, eppure la sensazione non è di esclusione ma di rispetto reciproco. Perché non è che i vegetariani mangino esclusivamente verdure e gli onnivori esclusivamente carne: basta pensarci un pochino e si trovano tanti piatti in comune. Non posso e non spetta a me impedire agli altri di mangiare carne, ma perché anche la mia scelta non può essere rispettata anziché considerata un capriccio? Forse è pure un capriccio intestardirsi sul non voler nemmeno provare a fare l’insalata russa con la maionese vegan perché non è la ricetta tradizionale.
Tuttavia, per evitare di finire di nuovo sotto torchio e passare l’ennesimo pranzo a giustificare i motivi della mia scelta, a cercare per delicatezza di non far notare la contraddizione di chi ti dice «anche io mangio poca carne» mentre addenta una fetta di salame e a rassicurare tutti sulla mia salute di ferro, anche quest’anno mi scuserò se non riempio il piatto «per colpa all’abbuffata della sera prima» (e non perché gli unici piatti vegan a tavola sono carciofini sott’olio e polenta). Però chiedo qui: davvero è impossibile provare un’alternativa vegan ad almeno uno dei piatti classici che porterete in tavola? Sono le persone che fanno le tradizioni, non le tradizioni che uniscono le famiglie.


giovedì 25 dicembre 2014

Auguri donne in lotta, la speranza non la porta Babbo Natale

Natale. Volevo fare gli auguri a tutt*. In particolare a quelle donne che lavorano per le feste, con contratti terribili o in nero. Quelle che aggiustano le vetrine, puliscono cessi nei locali, servono ai tavoli dei pub, si esibiscono nelle discoteche, rivestono manichini per esporre merce o la indossano per esporla a clienti e guardoni.
Auguri alle ragazze che mostrano il corpo, vendono sorrisi, sponsorizzano prodotti. Alle hostess di centri commerciali che assumono personale di bella presenza e che restano in piedi per ore e ore e ore. A quelle che vanno in giro a corpo svestito e devono sorbirsi da un lato gli sguardi maliziosi dei sessisti e dall’altro quelli moralisti delle donne che immaginano siano dignitosi solo i mestieri in cui vesti da suora.
Auguri a tutte quante, sperando che datori e datrici di lavoro abbiano in mente di pagarle il giusto, che possano assentarsi per starnutire, mangiare, pisciare. Auguri a quelle che devono animare, intrattenere, fare giochi scemi per far ridere clienti paganti in ristoranti, hotel, villaggi, iniziative varie.
Auguri a quelle che sono state assunte con contratti che durano due giorni per rappresentare le istituzioni in momenti ufficiali. Sappiate che le “istituzioni” sono quelle che vi pagano dopo due secoli e alla faccia della meritocrazia se non vi sta bene un completino uguale a quello delle hostess dei centri commerciali allora non vi pigliano. Sempre di vendita, tutto sommato, si tratta.
Auguri alle collaboratrici in senso lato, a quelle che lavorano a partita Iva, quelle che devono esserci a Natale e poi al cenone di Capodanno e hanno il sangue ai piedi per l’andirivieni tra cucine e sale dei ristoranti mentre ubriachi festeggianti e pereppereppeppari le fanno inciampare. Auguri alle studentesse fuori sede che per mantenersi già lavorano e non tornano a casa sicché si sentono sole rimpiangendo perfino quello che normalmente non tollererebbero.
Auguri alle donne in vacanza che una vacanza, in effetti, poi non la vivono. Quelle che devono stare in cucina, a preparare pranzi e cene per venti persone, ché hanno il “piacere” di vivere momenti di intensa fatica in famiglia, dove i ruoli sono a volte stabiliti a priori e dunque vedi gli uomini a giocare a carte e le donne a servire anche il dessert.
Auguri alle sex workers che restano al freddo, per la strada, sfuggendo le ordinanze pro/decoro di sindaci che vogliono multarle e schivando i tiri a pallini di gomma di giovani annoiati in vena di originali puttan tour.
Auguri alle migranti, le invisibili, le clandestine che guardano città dalle vetrine illuminate senza scorgere nulla di familiare che regali loro calore, fiato, accoglienza.
Auguri alle ragazze che dopo il sesso non protetto, distratto, sfortunato, devono superare obiettori e pro/life e fare chilometri e chilometri per una pillola del giorno dopo.
Auguri a quelle che vanno alle feste, si divertono, si ubriacano e quando raccontano di uno che le ha molestate devono sopportare quell* che “se sei ubriaca allora vuol dire che ci stai”, perché se esci, vai in discoteca, balli e ti diverti, secondo alcun*, poi non puoi dire no. Dicono che non lo puoi fare.
Auguri alle ragazze che vanno in giro mano nella mano e incontrano qualcun@ che dice che se sono lesbiche è perché non hanno trovato l’uomo giusto che le fa godere.
Auguri alle disoccupate, le precarie, le pensionate senza una pensione, quelle che non sanno dove sbattere la testa e vivono queste giornate col terrore di uno sfratto, un licenziamento, un pagamento da effettuare, a evitare telefonate minacciose di esattori e le scampanellate di pignoratori.
Auguri alle ragazze in lotta, dentro e fuori casa, quelle autodeterminate, che occupano e liberano spazi da regalare a tutt*, che sorridono, “difendono l’allegria e organizzano la rabbia”, irriverenti con l’autorità a fare le pernacchie ai patriarchi e alle matrone.
Auguri a tant*, non necessariamente a tutt*, perché a Natale non è vero che si è più buoni. Semmai un po’ più ipocriti a compensare il mito della festività utile a comprare e vendere, anestetizzando la realtà, mercificando sentimenti, lacrimucce senza senso, mentre la gente continua a perdere vita, metro dopo metro, sapendo che nessuno gliela restituirà mai.
Auguri a voi. Consapevoli che la speranza deriva dalla lotta, dalla ribellione ché non c’è nessun babbo natale, leggendario o istituzionale, che potrà mai regalarvela.

Auguri, ancora. E auguri un po’ anche a me

mercoledì 24 dicembre 2014

La discriminazione non è un gioco

Quando parliamo degli stereotipi di genere e tentiamo di decostruirli e abbatterli, lo facciamo perchè siamo fermamente convinte che siano contemporaneamente specchio delle discriminazioni reali e causa del consolidamento della cultura patriarcale nella sua forma più esteriore.
Questo discorso vale forse ancora di più per quel che riguarda l’infanzia: l’entry point del consumo si è abbassato notevolmente negli ultimi anni e oggi ad avere in mano il mercato sono per lo più consumatori molto giovani o addirittura bambini. Programmi e film che una volta erano destinati a un pubblico adulto, oggi hanno un’utenza per lo più infantile o preadolescenziale: il cortocircuito comunicativo si sviluppa quando a questa utenza così giovane viene proposto un modello stereotipato, erotizzato ed oggettivizzato quanto quello dei loro genitori, anche per i prodotti da bambini.
Ovviamente uno degli ambiti più significativi è proprio quello dei giocattoli, dove più e meglio proliferano stereotipi di genere che, ben radicati nell’uso e nella “tradizione”, aiutano la cultura patriarcale ad affondare le proprie radici nel divertimento dei più piccoli, delle più piccole, che un giorno diventeranno donne e uomini ben addestrati.
Così, da Natale 2013 portiamo avanti la campagna “La discriminazione non è un gioco”
Lanciata per la prima volta nel 2012 dalle nostre amate compagne del Medusa Colectivo, in Cile, la riproponiamo in Italia perchè la troviamo particolarmente adatta al nostro contesto, e perchè ci rattrista e insieme ci rafforza l’idea che in Paesi così distanti si facciano le stesse lotte.
Del loro comunicato riprendiamo queste considerazioni
“Noi usciamo dal binomio maschio/femmina perchè siamo esseri umani, non siamo frammentati e non possiamo continuare a crescere incasellati in ruoli assegnatoci ( tra i quali il maschile è sempre un ruolo di dominazione rispetto al femminile ).
Infine, vogliamo che le nostre relazioni obbediscano solo al desiderio e al piacere, questo proponiamo, usciamo dai ruoli imposti ( l’amore romantico, l’esclusività, il “per sempre”, la eteronormativtà, il sacrificio, la colpa e la stigmatizzazione della maternità ) dando un nuovo significato alla nostra soggettività e a questa forma di ribellarci alle imposizioni patriarcali, permettendoci di sentire, pensare e creare liberamente, recuperare il nostro corpo per disegnare le nostre proprie vite.”
E a queste uniamo le nostre.
In questi ultimi anni abbiamo monitorato la comunicazione nell’ottica di genere e ci siamo rese conto di quanto radicati siano stereotipi e discriminazioni nell’industria dell’infanzia.
Abbiamo realizzato un’inchiesta sui cataloghi di giocattoli dell’anno passato, Infanzia Made in Italy, rilevando in particolare quattro caratteristiche comuni a quasi tutta la produzione
Una netta distinzione degli articoli “da femmina” dal resto del mondo maschile o “neutro”.
I giochi da bambina normalmente sono rosa in tutte le sue sfumature, dalle forme arrotondate e poco serie, brillanti e vezzosi.
Ci sono giochi da bambina e giochi da bambino e poi un territorio neutro, comunque caratterizzato al maschile, come se le piccole potessero trovare se stesse solo in un certo tipo di giochi.
I giocattoli sono “da femmina” o “da maschio” secondo severe categorie di differenziazione dei ruoli, inculcando una specie di predestinazione biologica: alle bambine sono riservati tutti i giochi di simulazione di cura della casa e della famiglia con tutte le derivazioni volte comunque all’ “istinto di accudimento” ( sempre rosa e con foto di bambine sulle confezioni ), ai bambini i giochi di simulazione del lavoro, prevalentemente virile cioè caratterizzato per successo sociale o forza fisica.
I giochi “neutri”, di tipo scientifico tecnologico, sono spesso caratterizzati dalle foto di soli maschi sulle confezione. Anche quando invece il gioco è destinato ad entrambi i generi, esiste ancora più spesso una “versione femminile”, dove di nuovo ritornano i colori rosa, si abbassa il livello delle conoscenze richieste, cambiano gli ambiti di apprendimento ( relegati spesso nel mondo dell’estetica: trucco, gioielli, vestiti ).
Tra i giochi per bambine, molti veicolano un modello estetico imperante, fatto di make up anche per piccolissime e di canoni estetici fuorvianti e innaturali. Bambole sottili, dalle labbra turgide e gli occhi truccatissimi. Giochi ritenuti creativi che insegnano alle bambine dai 3 anni in su a truccarsi e “farsi belle”.
Per questo, con l’avvicinarsi dell’evento più consumista dell’anno, ci siamo chieste: che genere di gioco regalare?
Le bambine che giocano a fare la mamma, la moglie, la massaia e poi appena più grandi sognano di diventare come scheletriche bambole dalla proporzioni assurde o di valorizzarsi solo col trucco e la moda.
I bambini che imparano a giudicarsi e giudicare secondo il binomio maschio/femmina, forza/debolezza, semplicità/vanità.
L’apprendimento a due binari, distinti per temi e velocità.
La contrapposizione rosa/azzurro, due mondi inconciliabili persino nel gioco.
Decidiamo di no.
Nei negozi di giocattoli di diverse città italiane, abbiamo lanciato la campagna “La discriminazione non è un gioco”: consiste nell’attaccare degli adesivi sui giocattoli che rispecchino una delle quattro caratteristiche elencate sopra, per aiutare chi compra a capire bene cosa sta acquistando, cioè sessismo, discriminazione, stereotipi.

Medusa1
Uno aiuta a sottolineare la differenziazione di genere di alcuni giochi di simulazione del lavoro “dei grandi”: solo i maschi possono giocare con le ruspe, solo le femmine con gli intrecciacapelli.

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L’altro sottolinea i giochi che vendono canoni estetici innaturali, costituendo quel modello impossibile che, insegnato fin da piccole, è uno dei motivi della scarsa autostima e considerazione di sè di molte donne.

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Il terzo invece si va a posare su tutti quei giochi “di accudimento” rigorosamente per femmine, perchè per tirare su un esercito di donne “multitasking” è bene addestrarle fin da piccole.

Gli adesivi sono gli stessi della campagna cilena del collettivo Medusa, tradotti in italiano e con la speranza che sia sempre più possibile fare rete tra realtà così lontane eppure tanto vicine.
Per lo stesso motivo, aspettiamo sempre fiduciose le foto di chi volesse partecipare alla campagna.
Gli adesivi potete scaricarli direttamente da questo post salvando l’immagine, stamparli in copisteria e… aspettiamo le vostre foto!


martedì 23 dicembre 2014

Dame e cavalieri

Non c’è laboratorio per bambini in cui alle femmine non venga proposto di costruire una corona. Non la corona d’alloro. No. La corona da principesse. Non che sia disdicevole. Anzi. Fino a un certo punto è normale. Ma quello che mi colpisce è che quasi sempre, e dico quasi sempre, si propone solo la figura della principessa. Almeno fosse una regina. Invece è proprio la figura della donzella tutta fiocchi e merletti che vedo in giro. È questo che si intende per differenza di genere? O forse è un modello arcaico che ripropone vecchi schemi per allevare una prole accomodante?
Intendiamoci. Non è che le ragazzine di oggi siano sottomesse. Piuttosto è il contrario e, spesso, le trovo perfino troppo aggressive. Ma molto concentrate sull’aspetto. Fin troppo vacue, in certi casi. Complici le crisi ormonali, le dodicenni che osservo in vari contesti, dalla scuola alle occasioni di gruppo, mi fanno talvolta un po’ paura (sì, sono la solita bacchettona). Tuttavia, se penso ai modelli che, in generale, sono loro proposti capisco che non si possa andare molto più in là. Le pubblicità sono piene di bimbe ammiccanti con le unghie laccate e le magliette strette da piccola donna. C’è una serie italiana di cartoni animati in cui i due unici personaggi femminili si chiamano Diva e Strega. Diva e Strega. Non c’è bisogno di essere allievi di Umberto Eco: da un lato, la papera vanesia con lo specchio sempre pronto e, dall’altro, la brutta fattucchiera cattiva. Modelli vecchi di cento anni. Ed è una serie recente, degli anni Duemila. Dico che c’è ancora molta strada da fare per gli autori italiani. Rimpiango la cara vecchia famiglia dei Barbapapà che è sempre stata molto avanti per temi affrontati e tipi “umani”.
Se anche le immagini, i messaggi pubblicitari e i contesti minimi parlano di noi, allora – di nuovo – si dimostra che in Italia manca una vera cultura dell’infanzia, sul modello di quella anglosassone. Che gli sforzi attuati in questo senso sono ancora poca cosa, soprattutto perché riguardano una minoranza di persone e di istituzioni. E che la cultura di massa, almeno in Italia, non ha ancora elaborato un pensiero critico sul ruolo che i bambini devono svolgere nella nostra società. Non solo dame e cavalieri ma persone che possano crescere nel rispetto dei propri gusti e della loro infinita curiosità.
I bambini di oggi, si sa, saranno gli adulti di domani. Sarebbe bello vedere maschi e femmine uniti nella consapevolezza che solo la collaborazione e il rispetto possano costruire un futuro degno di essere vissuto. Non è semplice. In certe regioni siamo ancora al Medioevo e si allevano piccoli adulti destinati a replicare il destino dei padri e delle madri. Forse lo faccio anche io. Anche se mi sforzo continuamente di fare il contrario, nella speranza che i miei figli siano migliori di me.
Per questo rivendico il diritto alla libertà delle scelte, anche per i bambini. Il diritto all’esplorazione, all’avventura, ad avere un mondo “a misura di bambino”, come predicava tanti anni fa Maria Montessori. Un mondo che permetta di saggiare, a piccoli passi, la bellezza delle proprie conquiste, la vertigine delle possibilità. In una parola il diritto a crescere. A essere nel mondo.

Solo se tutti gli adulti riusciranno a essere consapevoli che siamo tutti educatori, in quanto adulti e perché tutto rappresenta un esempio per il bambino, allora potremmo farci carico di una responsabilità che è collettiva. Sapere che i padri e le madri lasceranno un’impronta sulle generazioni future che non è solo biologica ma soprattutto culturale. Sociale. E mai come in questi tempi difficili, nei quali la regressione dei costumi e dei diritti acquisiti è un argomento di cui si deve parlare, è diventato importante stare dalla parte dei bambini, non più e non solo delle bambine, come citava un vecchio saggio degli anni Settanta, il quale nel frattempo, magari, si potrebbe anche rileggere (si vedano Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, 1973 e il recente Ancora dalla parte delle bambine di Loredana Lipperini, 2007).

lunedì 22 dicembre 2014

I giocattoli sono sessisti? Di Giulia Siviero

Ci sono cose da maschi che le fem­mine non pos­sono fare e ci sono cose da fem­mine che è vergognoso che i maschi fac­ciano. Ci sono reparti tutti rosa con cose soffici, ferri da stiro in miniatura, piccoli saloni di bellezza, attrezzi per la cura dei capelli, per infilare collane e sfornare dolcetti. E ci sono reparti con treni, costruzioni e armi. E anche quando il gioco non è per soli maschi spesso lo è la sua rappresentazione: è il caso, per esempio, dei giochi scientifici. Basti guardare uno degli ultimi spot della Clementoni per il 2014, quella dei “giochi educativi”.
I giocattoli (così pensati e così rappresentati) non sono neutri e insegnano invece una precoce e stereotipata separazione dei ruoli. Attraverso i giochi si incoraggia in modo acritico la ripetizione di ciascun ruolo (la bambina viene addestrata alla futura funzione materna, per esempio) e si inibisce la possibilità per entrambi i sessi di esprimersi su un territorio “differente” e più ampio. Si dovrebbe dunque impedire alle bambine di giocare con le bambole? Ovviamente no.
Ma si può scegliere di non fare nessun regalo al sessismo.
Qualche consiglio:

- Lammily, l’alternativa alla Barbie: ha proporzioni realistiche, ha ginocchia, gomiti e polsi snodabili (e non bloccati, come quelli della sua compagna che sembra sempre sul punto di servire un piatto di minestra), è meno truccata e ha i piedi ben piantati per terra. Se l’è inventata Nickolay Lamm e il progetto è stato finanziato attraverso una campagna di crowdfunding.

- Casa per bambole da costruire con circuiti elettrici e altri meccanismi: è stata scelta dal Times come miglior gioco dell’anno ed è stata creata da Alice Brooks e Bettina Chen, due ingegnere della Stanford University.

- Cuntaline: sono delle carte per inventare storie. Non ci sono mamme (come se quello della mamma fosse un mestiere tra gli altri, non lo è), non ci sono principesse né principi azzurri, non ci sono bamboline truccate con un aspirapolvere rosa in mano. Ci sono una sindaca, un’astronauta, una muratrice, un signore senza cappello da chef che sta in cucina, uno che fa l’ostetrico e una famiglia composta da due papà. Il progetto è di Barbara Imbergamo.

- GoldieBlox: dei libri illustrati guidano alla costruzione di macchine semplici per risolvere i problemi che si trovano ad affrontare Goldie e le sue amiche. Il marchio è di Debbie Sterling, ingegnera: «Ho creato GoldieBlox perché le ragazze fin dalla giovane età possano capire che l’ingegneria è un mondo aperto anche a loro». Nel 2014 GoldieBlox si è anche guadagnata uno spot pubblicitario gratuito di 30 secondi al Super Bowl.

- Libri: “Leggere senza stereotipi” è un progetto dell’associazione Scosse che ha messo insieme un buon catalogo di libri per bambine e bambini da zero a sei anni circa. Per i e le più grandi segnalo: Quante tante donne di Anna Sarfatti e Serena Riglietti (che racconta per rime e per disegni il principio della parità tra maschi e femmine sancito dalla Costituzione) e i titoli della collana Sirene, edizioni EL (Un’ereditiera ribelle. Vita e avventure di Peggy Guggenheim; Il coraggio di Artemisia. Pittrice leggendaria; La Rosa Rossa. Il sogno di Rosa Luxemburg; Signore e Signorine. Corale greca).
- Il libro: Piccole donne di Louisa May Alcott. Una buona ragione per regalarlo, a bambine e bambini, o per rileggerlo, la si trova nella recensione della filosofa Luisa Muraro:
«Questo romanzo è un capolavoro di astuzia femminile, per centocinquant’anni è riuscito a farsi stampare, tradurre e raccomandare come un romanzo di formazione (un Bildungsroman, dicono i letterati) per giovinette di buona famiglia, e ne ha tutti gli ingredienti, in effetti, ma intanto riesce ad annunciare la fine del patriarcato. (…) Volendo usare etichette, per il capolavoro della Alcott, io parlerei di romanzo d’iniziazione. Il romanzo di formazione mostra un percorso per diventare quello che la società domanda o aspetta, mentre il romanzo di iniziazione racconta i passaggi che ti portano a scoprire quella che sei, e a diventare quella che puoi essere, più profondamente.

L’iniziazione ha a che fare con la nascita della libertà, quella associata alla scoperta di sé, ed è una cosa che, se non hai l’idea di questa libertà, non esteriore ma intima e personale, può essere scambiata con la moderazione o il conformismo. La Alcott lo sapeva, io credo e penso che ne abbia approfittato per mascherarsi da scrittrice bempensante e così fare il suo gioco. Le Piccole Donne che tengo nella mia biblioteca, una traduzione, si aprono con l’introduzione di un letterato italiano, sicuramente bravo, ma, in questo caso, completamente fuori strada. Per metà dell’introduzione insiste sul fatto che si tratterebbe di un romanzo datato, ancorato a certi ideali, ormai superati: donne che sono angeli del focolare, silenziose e pazienti, ecc. Leggiamo pure Piccole Donne, conclude con un po’ di supponenza, ma si tenga conto dell’epoca in cui fu scritto. Fa ridere: non si è accorto di niente, non ha capito niente».

domenica 21 dicembre 2014

Virna Lisi morta, addio all’attrice che rifiutò Hollywood. Aveva 78 anni

Comencini: "Virna Lisi, donna unica e bellissima"
"Era piena di passione e umanità, mi piaceva la sua normalità femminile. Quando ero bambina la vedevo arrivare in barca a Ischia, era stupenda. Ed era come parte della mia famiglia. Aveva fatto anche un film con papà (Luigi Comencini, ndr), 'Buon Natale... buon anno', lo avevo scritto con lui". Così la regista Cristina Comencini ricorda l'attrice scomparsa all'età di 78 anni. Con lei Virna Lisi ha girato "Va' dove ti porta il cuore", "Il più bel giorno della mia vita" e anche il suo ultimo film, "Latin Lover", non ancora in sala: le riprese sono terminate solo lo scorso luglio

La 78enne attrice, che in carriera è stata premiata anche a Cannes, è morta. Ha girato film con Cavani, Amelio, Comencini (Luigi e Cristina), Zampa, Samperi, Festa Campanile, Lattuada, Risi, Loy, Monicelli e tanti altri
Anche Hollywood si era innamorata del suo talento e della sua bellezza. Ma Virna Lisi prima partì per Los Angeles e poi la ripudiò. La 78enne attrice, che in carriera è stata premiata anche a Cannes, è morta. Ha girato 100 film con Cavani, Amelio, Comencini (Luigi e Cristina), Zampa, Samperi, Festa Campanile, Lattuada, Risi, Loy, Monicelli e tanti altri. Nel suo carnet Nastri d’Argento, David di Donatello e il premio come miglior attrice sulla Croisette per l’interpretazione di Caterina de Medici nel film La regina Margot.
Tanti i premi in carriera, ma il più importante è stato quello tributatole dal Festival di Cannes per La regina Margot
In una intervista al Fatto Quotidiano del 28 settembre l’attrice raccontò come fu suo marito a liberarla dall’oppressione degli Studios Usa dicendo ai produttori che avrebbero voluto tre figli. “Un colpo di genio” aveva rivelato l’attrice. “Avrei dovuto interpretare Barbarella per la regia di Roger Vadim, ma dei ruoli da bellona svampita, di dire buongiorno e buonasera in presa diretta in una lingua che non conoscevo e dei ritmi deliranti imposti dalla major non ne potevo più. Non mi divertivo. Così dissi no e con gli americani iniziò la rumba. Riunioni, minacce legali, avvocati sul piede di guerra. All’ennesimo consesso aspro, Franco vide una foto sul tavolo del produttore. Una bella famiglia. Moglie, bambini, scenari campestri sullo sfondo. Gli venne l’idea e parlò”. La Lisi, nata ad Ancona, è stata interprete fin dai suoi esordi anche di sceneggiati tv e fiction. La prima, Orgoglio e pregiudizio, risale al 1957, e l’ultima, La mia Famiglia, andrà in onda nel 2015.
Oltre 100 film, ma anche tantissima tv. Amata da Hollywood l’attrice scappò via per l’oppressione esercitata dagli Studios
Il primo contratto cinematografico lo firmò a 14 anni ma l’esordio ufficiale nel 1953 sul set di Cinecittà in …E Napoli canta! con Carlo Giuffré. Puoi arriva un ruolo ne La donna del giorno (1956) di Francesco Maselli. Ancora qualche piccola parte comica, uno spot tv di un dentifricio che contagia molti italiani e arriva il successo di critica e d’autore con Signore & Signori (1966) di Pietro Germi, trionfo a Cannes. Il film di Germi è il trampolino di lancio per un contratto hollywoodiano con la Paramount, ma La Lisi di Hollywood non ne volle sapere e dopo poco riuscì a scappare via grazie all’aiuto dell’adorato marito Franco Pesci.

Dopo il matrimonio l’attrice annunciò il suo ritiro dalle scene per dedicarsi alla famiglia, ma dopo un anno tornò sulla sua decisione e partecipò prima ad alcuni famosi sceneggiati Rai poi comparve in numerose commedie all’italiana per il grande schermo e contemporaneamente recitò in numerosi spettacoli teatrali, diretta fra gli altri da Giorgio Strehler e Luigi Squarzina. Amata anche dal cinema francese che la impegnò in diversi titoli, Virna Lisi nel 1963 rifiutò la parte della bond-girl in “Dalla Russia con amore” al fianco di Sean Connery.  

venerdì 19 dicembre 2014

Noi e loro: le donne dell’Islam, Isis, Allah. Conversazione con Luisa Muraro

Il numero di dicembre del periodico Via Dogana (l’ultimo, almeno per ora), edito dalla Libreria delle Donne di Milano, pubblicherà un articolo dal titolo “A proposito del sedicente Stato islamico (o Isis)” a firma di Aïcha El Hajjami.
Marocchina, Aïcha El Hajjami ha insegnato giurisprudenza a Fès e Marrakech, è ricercatrice e studiosa dell’Islam e si occupa in particolare dello studio e dell’applicazione del nuovo diritto di famiglia e della posizione giuridica e politica delle donne nell’Islam. È anche consulente per vari organismi nazionali e internazionali. È nota per aver tenuto una lezione al re del Marocco Mohamed VI durante il Ramadan del 2004 (vedi VD 75, Il re e la maestra).
L’intervento di Aïcha mi offre lo spunto per una (lunga) conversazione con la filosofa Luisa Muraro, che con lei è in relazione politica da anni, sui temi affrontati nell’articolo: Isis, Occidente, condizione delle donne. Partiamo dall’inumanità e dalla ferocia dei jihadisti, che secondo Aïcha sono “il prodotto di un’accumulazione storica di ignoranza e di frustrazioni… conseguenze di una lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabomusulmano fin dai tempi della colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali;del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin Laden era stato armato da loro”.
La chiave, dunque, per Aïcha è l’umiliazione. Analisi sulla quale si può facilmente concordare. Ma la diagnosi non costituisce una terapia: che cosa si deve fare per fermare Isis e le sofferenze che provoca?
“Il lavoro di Aïcha è provare a contenere e impedire il contagio del fanatismo tra i giovani maschi del mondo arabo musulmano, sia tra quelli che vivono in quei paesi sia tra i figli di immigrati nei nostri paesi. Lei lotta insieme a molte altre donne e uomini perché valga un’interpretazione più giusta dell’Islam e delle parole del profeta Maometto, contro la lettura fanatica e la rabbia vendicativa, peraltro già esplicitamente condannate da svariate autorità religiose”.
E con quali mezzi fa questo lavoro? Ci sono altre donne impegnate a farlo?
“Il 12-14 novembre ho preso parte a un convegno internazionale a Rabat al quale state erano invitate donne delle tre grandi religioni monoteiste, e anche, come nel mio caso, donne che portavano un contributo filosofico. L’Islam è l’ultima delle tre grandi religioni, e ha raccolto molto del messaggio sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento. Per fare un esempio: riconosce Maria di Nazareth come profeta. Maometto non è che l’ultimo di una serie di profeti che comincia con Mosè, e in questa serie c’è anche Maria”.
Che per noi non è una profeta…
“Nella Chiesa delle origini la figura di Maria era tenuta in grande conto. C’è lei a pregare con gli apostoli, quando arriva lo Spirito Santo. E’ lei a capo di questa assemblea di uomini spaventati”.
Che cosa hai visto a Rabat a testimonianza dell’impegno antifondamentalista?
“Ho visto molte donne ben presenti nel vivo delle società di religione islamica: maestre, professoresse, teologhe, consigliere di entità politiche e religiose. Sono anche predicatrici: Aïcha, che è sunnita, è titolata a predicare nelle moschee, in più c’è il suo lavoro di consigliera. Altre invece sono teoriche pure, impegnate a dimostrare come lo spirito dell’Islam sia gravemente tradito dai guerrieri jihadisti. Secondo loro è un lavoro efficace, sia nei loro sia nei nostri paesi. D’altro canto le minoranze musulmane d’Occidente si sono spesso pronunciate contro Isis, benché anche da noi vi siano giovani malconsigliati che si uniscono al jihad”.
Colpisce che sia il medesimo libro, il Corano, a fondare sia il femminismo islamico che le atrocità di Isis. Si parte dalla stessa fonte, con esiti tanto diversi.
“E’ successo anche da noi. Nella civiltà europea premoderna, imbevuta di fervore cristiano, la fede è stata fonte di atti eroici, di grande devozione, della cura degli infermi in nome di Gesù… Ma nello stesso nome di Gesù altri andavano in giro a sgozzare il prossimo. Ho letto la bellissima lettera degli Ulema Sauditi al “califfo” Al-Baghdadi: gli dicono che sta sbagliando, e testo alla mano gli mostrano dove. Gli dicono: tu metti la spada allo stesso posto della misericordia, ma il Profeta ha sempre detto che la spada si usa limitatamente a certe situazioni, mentre la misericordia di Dio è assoluta, e trionfa, è scritta sul suo trono. Tu e i tuoi seguaci, gli scrivono, siete una ferita terribile per l’Islam, per i popoli musulmani e per l’umanità intera. Sul numero di via Dogana che ospita l’intervento di Aïcha è riportata la parola del Profeta, che spiega: Jihad piccolo è usare il coraggio e la spada, quello grande è tenere a bada i propri impulsi e istinti“.
Si può parlare di un movimento delle donne nei paesi islamici? Abbiamo menzionato personalità femminili eminenti, che fanno un grande lavoro: ma c’è qualcosa che somigli a un movimento delle donne come noi lo conosciamo?
“Ci sono paesi più vicini al nostro modo di concepire la politica, come la Tunisia: lì c’è una base di movimento femminista, con associazioni e gruppi, ispirato al femminismo francese. Ma c’è anche un femminismo che vuole salvaguardare e custodire i valori religiosi, un femminismo che passa attraverso la parola. Aïcha appartiene a questo tipo di femminismo. Io l’ho conosciuta a Parigi, lei ha spiegato la strada che stava intraprendendo con altre e ci sono state critiche di femministe marocchine che avevano una formazione laica, e che chiedevano la separazione tra Stato e Chiesa, tra religione e politica. Io invece mi sono convinta della bontà degli argomenti di Aïcha”.
Quel legame tra la libertà femminile e Dio, tu come lo pensi? Come un limite di quel femminismo o come una risorsa? Te lo chiedo in particolare per il fatto che hai dedicato gran parte del tuo lavoro degli ultimi anni al pensiero delle mistiche.
“La borghesia occidentale ha voluto la separazione non solo tra Stato e Chiesa, separazione che è benefica, ma anche tra religione e la politica. E’ un’operazione finta. Di tutto si può fare politica, anche della fede. E la borghesia ce ne ha dato più volte dimostrazione. Queste realtà che riguardano gli esseri umani non sono separabili. Sono anche sicura che una religione meno costruita della nostra, in cui c’entra molto il potere degli uomini e il prestigio del sesso maschile, una religione più libera, più fluida, come quella che si vive nella tradizione mistica, per le donne sia la possibilità straordinaria di dialogo interiore con l’Assoluto, con il divino, con l’Amore. Quelle che io ho incontrato ne hanno guadagnato forza per sé”.
Che cosa sta sfuggendo di essenziale nella percezione comune, quando parliamo di Islam? E in particolare quando parliamo delle donne di quei paesi, di cui in questo momento non sentiamo la voce?
“Ci sfugge la dimensione spirituale. Il senso della giustizia, della pietà, della misericordia. La puntura dell’interiorità, che non va intesa come la intendiamo noi. Si tratta di una dimensione interiore costantemente curata insieme al comportamento esteriore. Noi vediamo una interpretazione molto maschile dell’Islam, ma l’Islam non è quello. Nell’Islam c’è anche una cultura di separazione fra i due sessi. Noi la intendiamo solo come segregazione femminile. Ma in una società dove gli spazi sono più grandi dei nostri piccoli appartamenti, le donne hanno grandi spazi per vivere tra loro, e per vivere bene, con agio, una vita civile. Il nostro immaginario è deformato perché l’immigrazione mette queste donne e questi uomini in situazioni pesanti, difficili da sopportare, e quindi questo agio femminile qui non lo vediamo. Però non si può negare che nelle campagne povere l’Islam sia una forma di patriarcato, com’è stato il Cristianesimo nelle nostre campagne povere fino a non molti decenni fa, quando gli uomini comandavano totalmente sulle donne, e questo veniva rivestito di Cristianesimo”.
Aisha scrive: “Abbiamo bisogno di un pensiero critico sul nostro patrimonio religioso e culturale, così come sulle sfide che ci vengono dalle ricadute della modernità e dalla globalizzazione. Dobbiamo occuparci di risolvere la problematica del rapporto tra religione e politica, la problematica dei diritti umani e soprattutto dei diritti delle donne. Bisognerebbe anche agire sugli aspetti economici dello sviluppo e aver cura di assicurare una suddivisione equa delle risorse nazionali. Il jihâd di cui abbiamo bisogno è quella del pensiero. Ha un nome nella nostra cultura: l’ijtihâd”. Non dovremmo, a tuo parere, contribuire da occidentali a questa lettura critica? Dire esplicitamente, per esempio, che per una donna e per la sua libertà quella cultura è meno ospitale della nostra?
“No, non sarebbe giusto. Le differenze culturali sono così profonde che rendono incommensurabili le situazioni. Il nostro compito è far conoscere la nostra cultura e la nostra civiltà senza complessi, ma anche conoscere meglio, più profondamente e dare più ascolto alla loro civiltà”.
E quali sono le occasioni di ascolto, qui in Occidente?
“Ormai nelle periferie è possibile intrecciare relazioni reali con questa gente. Nella scuola dei miei nipotini ci sono brave maestre che stanno facendo un grande lavoro di integrazione rispettosa. Davanti a scuola vedi madri di bambine e bambini italiani e stranieri. In attesa della campanella ascoltavo i discorsi, e devo dire che talvolta le cose andavano bene, talvolta no. Molte madri milanesi erano esposte all’influsso di discorsi xenofobi, ripetevano luoghi comuni, magari anche con argomenti non infondati: bisogna sapere ascoltare le popolazioni delle periferie che sono messe in difficoltà da questa immigrazione povera. Il problema è questa povertà. L’Islam che queste mamme milanesi vedono è povertà e difficoltà”.
Ma se non ammettiamo l’inevitabilità di un quid di xenofobia, rischiamo che siano i razzisti e gli xenofobi veri a dare parole estreme a questi sentimenti di disagio…
“Sono d’accordo. Occorre generosità sia nei riguardi degli immigrati sia nei riguardi di quelli che fanno fatica in questa convivenza. Prima avevano una vita tradizionale in cui i loro modi di pensare e di essere erano pacifici e universali, e all’improvviso si trovano davanti a presenze che li mettono in discussione. In più c’è il problema della lingua, del capirsi. Le maestre fanno grande opera di civiltà. Non fanno prediche a nessuno, mostrano affetto per i bambini degli immigrati e quindi sono amati dalle loro madri e dai loro padri, e poi hanno buoni rapporti con le madri locali, fanno feste a fine anno dove tutti contribuiscono con il loro cibo. Questo lo fanno anche tante associazioni, le parrocchie, sempre all’insegna del buon esempio e senza fare prediche. Bisogna essere severi con chi per tirare su voti semina odio: con questi no, non si deve essere indulgenti”.
Al di là di queste relazioni quotidiane, con queste donne si può costruire un legame più propriamente “politico”? Un lavoro di coordinamento, di riflessione comune?
“Io ci riesco solo a livello di scambio colto con studiose di quei paesi. Ma il livello “politico” come lo intendiamo noi, che con la Rivoluzione Francese, e via via con i partiti di sinistra, con il movimento operaio e così via, ci siamo abituati a un agire che coinvolge anche i ceti medi, anche le persone meno attrezzate e più semplici, in altre situazioni non esiste. Per esempio sono stata in Africa, nel Burkina Faso, e ho provato a spiegare alle donne di lì questa forma di agire politico, ma non sono riuscita a fare loro capire che cos’è. Loro concepiscono provvedimenti calati dall’alto che aiutino i poveri. L’idea dei movimenti, della mobilitazione sfugge”.
Recentemente a Padova c’è stato il caso di alcuni profughi che hanno rifiutato di essere visitati da mediche, e l’Asl ha dovuto richiamare tre medici maschi pensionati per accontentarli.
“Dicevamo prima che loro sono abituati a una forte separazione tra i sessi. Vedersi toccare intimamente da una persona dell’altro sesso contravviene a un forte pudore che è anche maschile. Anche a Rabat c’erano uomini, partecipanti al convegno o servizio d’ordine o camerieri. Loro evitavano il contatto fisico in ogni modo. Quella Asl ha fatto molto bene, è stato un atto diplomatico e di grande civiltà”.
Tu non vedi il rischio di assecondare sentimenti misogini?
“Le emozioni che una persona ci mette dentro possono essere le più varie. Ma le interpretazioni –è misoginia, è disprezzo eccetera- ci portano già nel terreno scivoloso della mancanza di rispetto per l’altro”.
Ma dopo questo primo impatto in cui vengono dimostrati rispetto e pazienza, non si può cercare di spiegare: qui le cose vanno diversamente, dovete adeguarvi?

“Il tema è quanta capacità di adattamento abbiano questi immigrati. Io credo che la capacità sia diminuita dalla rabbia per quello che hanno vissuto nei loro paesi. Lì si è accumulato risentimento verso l’Occidente che li ha colonizzati, sopraffatti. Non è stato dato loro il tempo di recuperare il ritardo in cui sono finiti perché lo sappiamo com’è il capitalismo, che ha la terribile fretta del profitto. I cinesi si difendono bene e si adattano velocissimamente, e in fatto di capitalismo abbiamo solo da imparare da loro. I latinoamericani si inseriscono facilmente, favoriti dalla lingua e dalla comunanza di religione. Per i musulmani è più difficile. Sono popolazioni orgogliose e irrigidite nelle loro posizioni. In città meno grandi di Milano ho fatto esperienza di donne mussulmane ospitali e rilassate. Ricordo che anche tra gli emigrati italiani nella zona miniera del Belgio, che ho visitato da giovanissima, le donne davano prova di maggiore elasticità degli uomini, specialmente dei padri di famiglia”.

giovedì 18 dicembre 2014

Che cosa significa quell’osso? Tre ipotesi di Luisa Muraro

Barbara Bonomi Romagnoli scrive: essere femministe vuol dire voler cambiare, insieme, un mondo che non ci piace. Sono d’accordo con lei e sono femminista come lei. Sia chiaro, io condivido non il progetto titanico di rifare il mondo, ma l’idea di lottare praticamente contro la logica del potere (profitto, competizione, rapporti di forza), a partire da me, facendomi forte delle relazioni che ho con altre e altri. Vorrei aggiungere che il mondo sta cambiando comunque. Il movimento femminista c’entra con questo cambiamento, ma bisogna vedere come. La mia polemica nell’intervista di Giovanna Pezzuoli era nei confronti di quelle donne che vengono promosse con la logica della parità e della cooptazione. La mia polemica era con il femminismo di Stato che promuove delle eterne seconde (sottinteso: rispetto agli uomini).
Dalle parole di Barbara B.R. deduco però che mi sono spiegata male, malissimo, infatti lei mi accusa di un mancato riconoscimento verso quelle come lei, che vogliono cambiare il mondo. Al contrario!
Ma, precisato questo, mi resta l’impressione profonda che la cosa non si riduca a un equivoco. Non si tratta cioè, da parte di Barbara e di altre che le danno ragione, di un attacco limitato a quell’intervista e neanche di un attacco personale a me. Ho l’impressione piuttosto che quello sia stato un pretesto per una polemica più grande di me, che però mi riguarda da vicino. Ma da dove nasce e qual è il punto in questione?
Credo che la risposta si nasconda in quell’immagine dell’osso che troviamo nel testo di Barbara B.R.: le eterne prime (le vecchie femministe come me?) non mollano l’osso e di conseguenza ci sono femministe (come lei, cioè le più giovani?) che restano eterne seconde. Così si esprime.
Non sono un muro di gomma, la violenza delle parole e dei sentimenti di una donna la sento. Ma non mi abbatto: la pratica di relazione ci insegna ad ascoltare e a pensarci. Ecco le ipotesi che ho fatto sul significato dell’osso conteso.
La prima ipotesi è molto simbolica, quasi metafisica. L’osso potrebbe essere l’appartenenza alla “generazione fortunata”, delle nate tra il 1935 e il 1955: donne chiamate a innovare profondamente l’umanità cambiando i rapporti fra i sessi in un senso favorevole alla libertà femminile. Le nate dopo si collocano fatalmente nel seguito di questa impresa.
Seconda ipotesi. La contesa per l’osso nasce da una sottrazione indebita. In altre parole, le femministe come me hanno vissuto, negli anni Settanta e Ottanta, un’esperienza di felicità che non hanno saputo trasmettere… per avarizia? Abbiamo mancato a una responsabilità politica… per insipienza?
Terza ipotesi. Non c’è una contesa vera e propria e la mancanza di cui parla la seconda ipotesi sarebbe propriamente un difetto d’amore. Non parlo dell’amore sentimentale ma dell’amore come componente della passione politica, componente necessaria specialmente alle donne, in quanto meno sensibili degli uomini alla attrazione del potere. Tra i progetti che ormai restano nel limbo di Via Dogana, io ne ho concepito uno che poteva tradursi in un titolo così: Donne, amate le imprese delle altre donne.
La questione va posta con o senza Via Dogana. Penso alla mappatura dei femminismi in Italia, fatta da Barbara B.R.: come lei sospetta, io non ne sapevo nulla, dunque qualcosa non ha funzionato nella trasmissione della notizia. Altro esempio, preso dalla stessa fonte, è il convegno nazionale di Firenze, il 6-8 dicembre, promosso dalla Società delle letterate e dal Giardino dei ciliegi, di cui questo sito non ha dato notizia perché non ne sapeva nulla. Eppure la notizia c’era sul manifesto del 5 dicembre e la Libreria delle donne è abbonata al manifesto: anche qui, qualcosa non ha funzionato… Il rimedio non è l’organizzazione, credo che siamo d’accordo. Il rimedio è la passione politica, una passione impastata di amore per le imprese delle altre.

mercoledì 17 dicembre 2014

Un muro di gomma: risposta a Luisa Muraro di Barbara Bonomi Romagnoli

Tornare a casa entusiasta e piena di senso per il futuro, dopo tre giorni di Convegno nazionale dal titolo “Archivi dei sentimenti e culture femministe dagli anni Settanta a oggi” , e leggere le dichiarazioni di Luisa Muraro è come andare a sbattere contro un muro di gomma. E davvero non se ne può più.
Per questo mi associo con passione alle parole dette da Luisa Pronzato e Elena Tebano.
Essere femministe significa prima di tutto voler cambiare, insieme, un mondo che non ci piace, da decenni. Molto è stato fatto dalle donne arrivate prima di me, nata nel 1974, e molto altro lo stanno facendo le mie coetanee e quelle più giovani. Solo che non si sa, lo si racconta poco o male, e soprattutto c’è molta resistenza da parte di molte delle donne che hanno fatto le lotte degli anni Settanta a voler riconoscere autorevolezza, posizionamento politico e spazi di visibilità a chi è venuta dopo di loro. Il risultato di questo mancato riconoscimento è sotto gli occhi di tutte: si afferma sempre più una mentalità puramente emancipazionistica e per niente liberatoria, spesso moralista e fintamente non sessista, con giovani donne e giovani uomini che non percepiscono quanto si stia tornando indietro sul piano delle conquiste e dei diritti che, sappiamo bene, non sono acquisiti per sempre.
Dire che le donne delle nuove generazioni «danno lustro a una baracca che sta crollando. Manca in loro una vera volontà di affermarsi se non come puntelli, riflessi, eterne seconde, manca un protagonismo di qualità”, per usare le parole di Muraro e di chi condivide il suo stesso sguardo, lo trovo offensivo, arrogante e superbo, ed è curioso che una delle “madri” della differenza non distingua fra donne e faccia di tutta l’erba un fascio. Senza il minimo sforzo per andare a vedere cosa succede nella realtà, fuori dal salotto delle illuminate.
Con Luisa Muraro non abbiamo mai avuto contatti diretti, la conosco perché ho letto e studiato i suoi testi e per averla ascoltata in incontri pubblici, su molte cose mi sono ritrovata, su molte altre ho elaborato un pensiero critico.
Lei sicuramente non può accostare un volto al mio nome e probabilmente non sa nemmeno che sono l’autrice di un recente testo che cerca di fare una prima mappatura dei femminismi in Italia dal Duemila a oggi
Non lo dico per farmi pubblicità ma per farle presente e ricordarle che le femministe del nuovo millennio non sono le donne cooptate dal capo che accettano i ruoli di ministra o altro, ma sono le centinaia, migliaia, di donne che da anni agiscono pratiche politiche femministe radicali, che nulla hanno a vedere con le donne dei partiti e delle istituzioni(che guardacaso spesso si riferiscono al “pensiero della differenza” come loro fonte di ispirazione), che sono “irriverenti e libere” perché non intendono aderire/riverire a nessun partito/chiesa/dogma tanto più se questo dogma è di stampo femminista.
Sono donne irriverenti e libere, perché sono corpi politici scomodi anche per i movimenti misti e la sinistra radicale; perché sono sconvenienti nel parlare di post porno e prostituzione, insistenti nel dire che c’è un intreccio enorme fra sessismo/razzismo sul tema della violenza ma non solo; insolenti quando serve, allergiche al politicamente corretto ma anche alle pratiche del maternage, dell’affidamento e delle madri simboliche, perché la politica delle donne è certamente diversa da quella degli uomini ma non è una sola.
Sono donne diverse per età, classe, colore, formazione, donne biologiche e non, donne queer/post/trans/iperfemministe perché sono partite dalle loro differenze per mettere in discussione anche il potere – nodo mai risolto – presente nelle relazioni fra donne, ogni qual volta si è ricreato un sistema di gerarchie identico a quello che si voleva combattere. Ammesso e non concesso che siamo “eterne seconde”, lo siamo perché le “eterne prime” non mollano l’osso, non provano a fare neanche un passo laterale.
Le donne irriverenti e libere degli ultimi 15 anni parlano al plurale e mai in assoluto. Hanno messo di nuovo al centro la sessualità e tutto quello che ruota attorno ad essa in un momento di moralismo imperante e di pericolosa alleanza con un Papa che fa semplicemente il lavoro suo, mentre le voci laiche latitano o sono completamente affascinate da un gesuita che ha studiato marketing molto più di noi femministe.
Detto tutto questo, credo che la chiusura di uno spazio autonomo di riflessione sia sempre una perdita. Per tutte e tutti. Ma in questo spazio di vuoto che si apre dopo la fine di Via Dogana mi permetto di suggerire a Muraro di ascoltare queste molteplici e numerose voci, provare a imparare da loro come noi, nate dopo la grande stagione del ’68, abbiamo imparato anche dalle pratiche di tante donne che non hanno mai abbracciato il pensiero della differenza e che sono state rese invisibili dalle donne che – nei media, nei partiti, nelle istituzioni – hanno fatto del pensiero della differenza l’unico femminismo in Italia con la F maiuscola.
Sostiene Cigarini: “Non siamo rimaste indietro, siamo andate troppo avanti”. Ma quale sarebbe questo avanti? In che cosa consisterebbe?

A Firenze in questi giorni ho imparato a non accentuare il conflitto generazionale, perché è vero che i nuovi femminismi sono abitati anche dalle donne delle generazioni precedenti e perché oggi siamo tutte (e tutti) meno fortunate e più povere e precarie con nessuna amica che può darci 20mila euro per realizzare un nostro desiderio, ma questo non significa pacificare o tacitare un conflitto fra un “noi” e “voi” che ritorna ogni qualvolta si annulla la pluralità delle differenze e viene meno la pratica del rispetto e riconoscimento reciproco.

lunedì 15 dicembre 2014

Smettiamo di pensare che siamo «altre» (e quindi «meglio») per natura di Luisa Pronzato e di Elena Tebano

Cara Muraro, la forza delle donne è la libertà di idee anche distanti
Noi sessantenni, distanti dalle altre?
Certo, per anni, rughe e orizzonti… Diverse, distanti non so. Non è un caso che le persone con cui ho rapporti di scambio, discussione, litigio (qualche volta) e quindi interazione sono le 30/40enni.
Cara Muraro, come farete ad ascoltare se partite dal rifiuto delle strade che le altre stanno scegliendo? Perché ancora citare solo la propria generazione (certo fortunata, anche perché aveva utopie orizzonti che le attuali non possono avere). Luisa Muraro, Lia Cigarini, sono certo le “madri” del pensiero femminista che si è sviluppato in Italia. Con Lea Melandri, Letizia Paolozzi, Bia Sarasini… Eccomi anch’io a citare la mia generazione. Le ho lette, seguite, per trovare altri pensieri. Per restare a quegli anni, però, i pensieri altri e la mia ribellione si è formata anche su Kerouak. E pure su Lang, Cooper… che da psichiatri (alternativi ovviamente) sostenevano la fine della famiglia o se volete la famiglia come luogo di schiacciamento dell’io… Di maschi e femmine. Loro non facevano distinzioni… Io allora avevo traslato famiglia con consuetudini, cultura patriarcale….
Se qualcuno mi chiede se sono femminista, oggi dico sì: credo ci sia bisogno di dirlo. Non ho però frequentato le pratiche femministe, ci avevo buttato un occhio. Ho, quasi subito, preferito una strada individuale. Ho cercato di attingere ovunque. Ovunque trovassi parole aperte.
Non so, la Yourcenar di “A occhi aperti”, per fare un esempio, voce totale di un’intervista di un uomo la cui presenza è appena percettibile nelle domande. E le risposte che segnano tanti percorsi, in cui contagiarsi ma non appartenere. L’autoderminazione l’ho inseguita ogni istante… (quasi). Diciamo l’ho “messa in pratica” con scelte, contrapposizioni, curiosità. E continua ora che navigo sui sessanta… No, cara Muraro, quello che dici non mi piace. Non mi piace, come fece Snoq dividere in brave e zoccole o dividere,come fai tu oggi in militanti e manipolate. Non così, generalizzando. Non mi piace ritrovare nelle tue parole quel suono incomprensibile a chi non fa parte del percorso storico. Che è lo stesso che vi ha diviso, isolato tra voi, rese incomprensibili alle altre e agli altri. Non c’è un solo modo di essere donne pensanti e autonome. Non c’è un solo modo intellettuale, penso a Beatrice Preciado o a Nicla Vassallo. Non c’è un solo modo di fare politica o dare a se stesse le opportunità di una crescita che non è da meno dei compagni maschi. Penso a una collega che gioca ai videogames come il marito. Ah già, troppo banale… Penso ad altre colleghe che si fanno il mazzo, per ore di lavoro e studio, per raccontare alla pari dei colleghi . Penso a quelle che studiano, fanno carriera… Ah, sono puntelli, riflessi, eterne seconde…
C’è tutto il mondo della Rete, altri spazi, altri modi, altri toni… Ancora qualche esempio, Margherita Ferrari o Eretica che dai loro siti/blog non smettono di fare le pulci sia a comportamenti sessisti, spesso con il sarcasmo, sia al conformismo, sia alla parità di maniera. E pure al femminismo storico. Non le condivido sempre. Non è necessario.
Quello che dici non mi pare una pausa di ascolto. Ma l’ennesimo arroccamento sulle proprie verità. A partire dal linguaggio.

Luisa Pronzato


Il pensiero della differenza?
Non sono sicura che ci aiuti a essere più libere
Appartengo a un’altra generazione (quella nata negli anni 70), ma sono d’accordo con quanto scrive Luisa Pronzato. A partire dal giudizio di Luisa Muraro sulle donne in politica oggi. È facile opporre due figure imponenti come Nilde Iotti e Tina Anselmi. Ma serve? Non significa dimenticare che c’è stato uno scadimento generale della politica? Vale per tutti ma si rinfaccia alle donne.
Oltretutto mi sembra ci sia una contraddizione di fondo: Muraro (giustamente) critica la politica tradizionale, poi rimprovera alle donne di farla solo da subalterne. Si dimentica però che la «politica» è un sistema che funziona per coptazione e quindi espelle tutto ciò che non è affine a quel medesimo sistema. Renzi, che ha un talento comunicativo e un carisma fuori dall’ordinario, è pur sempre il figlio di un rodatissimo esponente Dc (vogliamo parlare di D’Alema? o Alfano?).
Iotti e Anselmi sono state sì grandissime, ma in quel sistema sono entrate grazie alla frattura della Resistenza: un periodo storico brevissimo in cui tutti gli assetti costituiti sono saltati per la guerra e la reazione alla dittatura. Neppure il ’68 è riuscito a fare altrettanto per le donne, di certo non ci sono riusciti gli anni 70 con il rifiuto della «politica maschile».
Il pensiero della differenza, infine: non riesco – nonostante la gratitudine per il lavoro fatto dalle pensatrici di quella generazione, e la consapevolezza del suo valore filosofico – a non registrare vari punti di distanza. Uno – come spiega Luisa (Pronzato) – è il linguaggio, che finisce per parlare a chi è già d’accordo, incapace di vedere chi non rientra in quegli schemi. Un esempio solo: l’abitudine di alcune di declinare tutto al femminile, fino a espressioni come «site amiche» invece che «siti amici», registrata online.
Non so se abbia senso chiudere Via Dogana per fare silenzio, è importante invece sapere ascoltare, anche quello che è detto con parole apparentemente straniere (sempre più spesso in Rete, un campo di auto-educazione formidabile per le nuove generazioni di femministe, che nella maggior parte dei casi hanno dovuto ricominciare da zero perché è mancato un rapporto diretto con le femministe storiche). Solo trovando i termini per un dialogo, le «idee buone» che rivendica Muraro possono ricevere nuova linfa ed espressione. Altrimenti rimangono un discorso autoreferenziale.
Il secondo è l’ontologizzazione, l’idea che esista una univoca «natura femminile», contrapposta a quella maschile: se il femminismo è stato prima di tutto un pensiero e una pratica di libertà per le donne, questa idea che esista una natura femminile (Altra? Migliore? Unica?) mi sembra una nuova gabbia. E infatti oggi la Muraro su tanti temi ha le stesse posizione dei conservatori. Compreso il modo vagamente ostile in cui parla di omosessualità («Soltanto così viene meno quella sorda omosessualità mentale che poi sfocia nel politically correct verso le donne, quanto mai fastidioso»).
Non esiste «la donna», esistono le donne. E anche gli uomini, che devono essere chiamati a una riflessione critica sul maschile, non a fare l’agiografia di Matilde di Canossa. Perché se le verità che il femminismo ha esplorato su come sono strutturati i rapporti tra i generi nella società non diventano patrimonio comune, non si va da nessuna parte…
Questo non toglie che dalla riflessione sulla differenza femminile io personalmente abbia imparato moltissimo: a partire dal fatto che non c’è carriera che valga la rinuncia agli affetti. Ma non credo che le donne siano per natura «Altre» e quindi, sottinteso, «Meglio».

Elena Tebano