giovedì 30 maggio 2019

Il governo e i fondi non versati ai centri antiviolenza di Flavia Amabile

Sono 20 milioni di euro presenti nella legge di bilancio del 2018, da destinare alle attività contro la violenza sulle donne. Ferme non solo le risorse ma tutta l’attività del Dipartimento Pari Opportunità su questa materia, denuncia la presidente del Telefono Rosa

Dove sono i 20 milioni stanziati per creare nuovi centri antiviolenza o per finanziare quelli esistenti e le attività di assistenza e sostegno delle donne vittime e dei loro figli? Il governo avrebbe dovuto trasferirli fin dagli inizi del 2019 alle Regioni per finanziare i centri e le case rifugio, ma sta per terminare anche maggio e di quei fondi non c’è traccia nei versamenti effettuati.

Si tratta delle risorse previste nell’ultima legge di bilancio del 2018 del governo Gentiloni nel fondo antiviolenza. Sono state aumentate rispetto agli anni precedenti ma sono anche state accompagnate da molte polemiche per un uso non corretto. La Corte dei Conti era intervenuta nel 2016 per denunciare la cattiva gestione da parte delle Regioni: si disse che il problema era creato dalla mancanza di un censimento dei centri e fu avviata un’attività di raccolta dei dati per creare la prima mappa nazionale.

«Ma da novembre si è fermato tutto», denuncia Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa. «Non ci sono state più convocazioni di incontri che prima erano regolari, non si è andati avanti nel lavoro per la mappatura e non c’è stato più alcun segnale di attività».

Fermi anche i fondi, denuncia Francesca Puglisi, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio dal 19 aprile 2017 al 22 marzo 2018.

«E il ritardo nel trasferimento da parte del governo si somma al ritardo con cui in genere le Regioni ripartiscono a loro volta i fondi ai comuni». Chissà fra quanto tempo, insomma, i centri e le case- rifugio di tutta l’Italia vedranno arrivare i fondi necessari per la loro attività rendendo ancora più difficile e precaria la vita di istituzioni che già oggi appaiono inadeguati rispetto ai problemi.

Il caso più recente è quello di Monterotondo, per esempio. Un fallimento totale delle istituzioni, hanno denunciato i centri antiviolenza: nessuno degli enti competenti è riuscito a occuparsi di un uomo già arrestato per violenze mettendo la figlia in una situazione di difficoltà tale da costringerla a ucciderlo per difendersi durante l’ennesima aggressione.

La presidente del Telefono Rosa: «La sensazione è che si sia fermato tutto e che il dipartimento stia perdendo pezzi e quindi quell’importanza che ha avuto nel tempo. Ne ho parlato anche con il responsabile del Dipartimento Pari Opportunità Vincenzo Spadafora che mi ha rassicurato sulla buona volontà di andare avanti ma di concreto non c’è nulla. Forse è colpa delle elezioni? Ma la violenza che c’è contro le donne va avanti, non aspetta mica la fine della campagna elettorale».
https://www.lastampa.it/2019/05/25/societa/il-governo-e-i-fondi-non-versati-ai-centri-antiviolenza-urBARqHlxDQJQ5iWsNK0iO/pagina.html?fbclid=IwAR0M3LI8jQ7kvG7JvaO6A6WsAEAvd6ppYblPQmkUlCW7KO32uFKfNQD-Rk8

mercoledì 29 maggio 2019

Il voto delle donne alle elezioni europee 2019 di Giovanna Badalassi

E insomma, se vi siete alzate con un bel cerchio alla testa stamattina c’è da capire: per chi ha a cuore le politiche per le donne queste elezioni europee sono state molto amare.

Non solo in campagna elettorale abbiamo infatti assistito a programmi elettorali di tutti i partiti dove la questione femminile era assolutamente ignorata, ma oggi ci tocca assistere al trionfo di forze sovraniste-populiste che nell’ultimo anno si sono messe proprio di impegno per rappresentare al peggio il maschilismo più retrivo che si possa immaginare.

Fa quindi molto male pensare che anche delle donne abbiano potuto votare partiti che hanno proposto il Disegno di Legge Pillon, rimesso in discussione la Legge 194/78, esaltato la famiglia “tradizionale”, proposto la riapertura delle case chiuse, messo alla gogna sui social giovani donne manifestanti, sospeso insegnanti, approvato misure di politica economica che di fatto escludono le donne, tipo Quota100.

E aiutatemi se mi sono dimenticata qualcosa.

Disastro totale, quindi? Non proprio, se andiamo a vedere bene i risultati elettorali che ci raccontano anche altre verità.
Una bella analisi del voto delle elezioni europee 2019 di SWG ci conferma intanto che il 37% delle donne che hanno votato hanno scelto un partito ostentatamente maschilista addirittura in misura superiore al risultato generale (34,3%).

La Lega, primo partito in Italia, ha raggiunto questo risultato tra le donne grazie ad un aumento del 17% rispetto alle elezioni politiche del 2018, pare per un travaso di voti provenienti da Forza Italia e dal M5S. Ad essa segue la lista del PD e Siamo Europei, con il 22% dei voti delle donne (+3%), il Movimento 5 Stelle con il 17% (-14%), Forza Italia con il 9% (-6%) e la lista di Fratelli d’Italia con il 6% (+1%).

Proiettando il dato percentuale in termini numerici, la Lega ha quindi preso tra le donne circa 4,8 milioni di voti, PD e SiamoEuropei 2,8 milioni, il Movimento 5S 2,2 milioni, Forza Italia 1,1 milioni, Fratelli d’Italia 788 mila voti.

Le donne italiane, però, hanno votato solo per la metà. E qui sta la verità con la quale i partiti dovranno prima o poi confrontarsi, soprattutto per quelli che volessero prima o poi ritornare ad essere realmente competitivi.

Le donne con diritto di voto in Italia sono infatti 26,2 milioni, dei quali 13,1 milioni quindi, il 50%, non sono andate a votare. L’incidenza del voto delle donne che hanno scelto la Lega è dunque certamente del 37% relativamente alla conta dei seggi che le verranno assegnati al Parlamento Europeo, ma in termini di rappresentanza sociale questo risultato rappresenta il 18,5% del totale delle donne italiane. Seguito dall’11% delle donne che hanno votato per il Partito Democratico e SiamoEuropei, l’8,5% che hanno votato M5S, il 4,5% che hanno votato Forza Italia e il 3% che hanno votato Fratelli d’Italia.

Di fronte a tali calcoli, due notizie una buona e una cattiva.
Quella buona, è che noi donne siamo meglio di quello che abbiamo pensato in molte oggi, leggendo i risultati delle elezioni europee. Considerati i tempi, la quantità di anziane, la protesta sociale, le diseguaglianze, l’analfabetismo funzionale e le paure varie ed assortite che vengono fomentate quotidianamente per far presa sui più fragili, 4,8 milioni di donne “sovraniste-populiste” su un totale di 26 milioni ci possono anche stare, in una democrazia che deve per forza comporre molteplici bisogni e punti di vista.

La cattiva notizia è che ci sono 13 milioni di voti di donne che non sono andate a votare che a quanto pare non interessano molto soprattutto chi dovrebbe, se non altro per la propria storia, avere un minimo di interesse a raggiungerle.

Con una tale quantità di voti potenziali là fuori forse, ma sottolineo forse, uno sforzo in più per comporre programmi politici ed elettorali che sappiano parlare a queste donne la prossima volta lo si potrebbe fare.
https://www.ladynomics.it/il-voto-delle-donne-alle-elezioni-europee/?fbclid=IwAR2eUzmBM7j_qTIwyluWN1hShhPNfQ6hGE4RkIVNApfVEVh5a7jQZ3eNjEM

lunedì 27 maggio 2019

Offese sessiste all'arbitro donna, giocatore si abbassa i pantaloni in campo: insulti anche dalle famiglie

Offese sessiste dalla tribuna per una gara intera e in più la provocazione di un quattordicenne che si abbassa i pantaloncini in campo e la sfida ad espellerlo oppure a effettuare pratiche sessuali con lui. Ha dovuto subire tutto questo il direttore di gara Giulia Nicastro, ventiduenne con una quarantina di partite sulle spalle, mercoledì scorso sul campo della Gazzera a Mestre nel torneo Sottana per Giovanissimi tra Treporti e Miranese. Una ventina di genitori dei ragazzini del Treporti si è scagliata sin dal fischio d'inizio contro l'arbitro, offendendola e invitandola a dedicarsi al mestiere più antico del mondo piuttosto che calcare i campi da calcio.

Un comportamento incivile che non trova alcun aggancio con eventuali precedenti torti subiti - non avendo mai arbitrato Nicastro i ragazzini litoranei - e che ha colpito sia la dirigenza della Miranese sia i componenti del team organizzatore che ha tutelato e sostenuto sia nell'intervallo sia a fine gara l'arbitro. Ma da parte di dirigenza e staff del Treporti nessun intervento immediato per richiamare i propri tifosi alla ragione.

E così in un clima incandescente con il gruppo di genitori scatenato contro l'arbitro, in uno dei giovani giocatori del Treporti è maturata la convinzione che tutto fosse concesso. Al momento dell'esecuzione di un calcio d'angolo il quattordicenne si è abbassato i pantaloncini in mezzo al campo sfidando apertamente Giulia Nicastro: «Vediamo se hai il coraggio di espellermi oppure...» e qui l'invito a pratiche sessuali. Immediato il rosso per il treportino, cosa che ha fatto crescere ancor di più i toni dei genitori-ultras. A fine gara perfino uno dei giovanissimi della Miranese si è diretto verso il settore occupato dai genitori avversari, rimproverandoli per il comportamento incivile. Mentre la società organizzatrice ha emesso un comunicato di solidarietà all'arbitro e di censura per il comportamento dei litoranei, la giustizia ha inflitto il massimo della pena al Treporti mentre ha deciso di rinviare al Giudice Regionale l'incartamento per gli eventuali provvedimenti contro il ragazzino oppure per l'invio della documentazione alla Federcalcio a Roma. Giulia Nicastro è assistita psicologicamente e aiutata a superare il difficile momento dalla sezione Aia di Venezia e non può rilasciare dichiarazioni sia perché per gli arbitri è necessaria l'autorizzazione federale a concedere commenti sia perché non è ancora concluso il giudizio sportivo nei confronti del giovanissimo.

IL PRECEDENTE Questo episodio fa seguito, a quasi sei mesi di distanza, ad un fatto analogo accaduto a Sara Semenzin di Volpago del Montello a Bassano del Grappa: in quell'occasione - per giunta si trattava della giornata contro la violenza sulle donne indetta dall'Onu - l'arbitro fu fatto oggetto di offese sessiste sia dal pubblico sia dai componenti e staff di entrambe le formazioni. In casa Treporti si dicono mortificati. «Il nostro tesserato ha perso la testa: abbiamo già chiesto scusa alla società organizzatrice, lo stesso faremo all'arbitro che stiamo cercando di contattare dice Marco Dalla Puppa, dirigente litoraneo . A scaldare la situazione è stato un gruppo di circa venti persone, in gran parte genitori, che hanno rivolto al direttore di gara diversi insulti. Ed è stato in questo contesto che il nostro tesserato ha perso la testa e si è lasciato andare ad un gesto bruttissimo». Non sono esclusi provvedimenti nei confronti del proprio giocatore. «Al momento sono in corso altri accertamenti conclude il dirigente anche la società farà le proprie scelte. Non abbiamo deciso ancora nulla, ma sicuramente affronteremo con il ragazzo quanto successo. Con i genitori possiamo fare poco, con i ragazzi è nostro dovere intervenire».
https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/insulti_arbitro_donna_miranese_calcio_giulia_nicastro_mestre-4516776.html?fbclid=IwAR3HqCK81HeSXegMwnaEo4TkPDfeFyOW-DaUC7a1XhYivmkEbEPTwFJd7uQ

giovedì 23 maggio 2019

il 26 maggio si vota per rinnovare il Parlamento Europeo ed è importante votare e far sentire la voce delle donne

Il 26 maggio si vota per rinnovare il Parlamento Europeo  ed è importante votare e far sentire la voce delle donne

Queste elezioni, a 40 anni dalle prime a suffragio universale, avvengono in un momento in cui l'Europa è fragile.

Riappaiono all'orizzonte nuovi muri, nuove frontiere, nuovi nazionalismi che rischiano di rompere il patto di civiltà su cui è stata fondata l'Europa dopo gli orrori della seconda guerra mondiale e la caduta di fascismo e nazismo.

Noi crediamo che sia giunto il momento di ripensare l'Europa e le elezioni sono lo strumento con cui indicarne la giusta identità.

“La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”.
Così si concludeva il Manifesto di Ventotene, ispiratore della nascita dell'Unione Europea, nato dalle menti illuminate di tre Padri Fondatori Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e di una Madre Fondatrice poco raccontata, Ursula Hirschmann.

L'Europa ha bisogno del contributo delle donne, poco presenti nel momento della sua nascita. Di quelle donne che fanno della libertà, della pace, della democrazia, dell'integrazione, dell'accoglienza, della dignità, dell'umanità, dell'ambiente, del welfare, della parità di genere i valori su cui costruire i pilastri del Futuro: una barriera per bloccare i tentativi di portare indietro la storia col rischio di fare breccia nei diritti, a partire da quelli conquistati dalle donne.

Le donne elette nel Parlamento Europeo sono oggi  il 36% in rappresentanza di più del 50% della popolazione femminile e “ventunesimodonna” crede nell'importanza della democrazia paritaria, equilibrio di rappresentanza fra donne e uomini nei luoghi in cui si decide.

Poiché è possibile esprimere fino a 3 preferenze noi invitiamo a votare 2 donne e 1 uomo.
Se si esprimono 2 preferenze devono comunque essere presenti entrambi i generi, pena l'annullamento della seconda preferenza.



“La Stanza dello Scirocco” Scongiurata per il momento la chiusura Dopo il blocco del finanziamento di Regione Lombardia il Centro Antiviolenza per il momento rimane aperto con i fondi del Piano di Zona dei Comuni

“La Stanza dello Scirocco”, il Centro Antiviolenza interistituzionale situato in via Marzabotto a Corsico e finanziato su un Progetto sovracomunale da Regione Lombardia, ha rischiato la chiusura.
Regione Lombardia, contravvenendo a quanto scritto nella Convenzione di Istanbul che raccomanda l'anonimato come protezione delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza,pretende che venga inserito negli atti il codice fiscale delle donne che accedono ai Centri.
CADMI (Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano il primo centro antiviolenza italiano nato nel 1986, con storia ed esperienza di accompagnamento per le donne che intendono uscire dalla violenza) che gestisce il centro con la collaborazione delle donne dell'associazione Demetra di Trezzano, considera questa scelta impraticabile. Il codice fiscale, oltre a ledere il diritto alla privacy, mette a rischio l'incolumità delle donne che denunciano, dei figli e delle figlie, individuabili e raggiungibili dai coniugi violenti con le conseguenze che le cronache ci raccontano e che i Centri Antiviolenza incontrano quotidianamente.
Alle difficoltà con cui le donne si rivolgono ai centri antiviolenza si aggiunge ora anche la paura di essere individuate sin dalla prima accoglienza e impedisce la creazione di una relazione di fiducia con le operatrici. Un bel modo per aiutare le donne a denunciare i maltrattanti, liberarsi dalla violenza e ricominciare a vivere.
Inutili le motivate proteste, i tentativi tesi in questa fase a far concludere il percorso iniziato. Regione Lombardia non sente ragioni. Nulla da fare. Il Centro può chiudere.
Per fortuna i sei Comuni cui il centro fa riferimento decidono di autofinanziarlo con delibera del Piano di Zona attualmente gestito dal Sindaco di Cesano Boscone Simone Negri che ha condiviso e sostenuto le preoccupazioni manifestate dalle donne del territorio. Un solo voto contrario, quello dell'assessore Fabio Raimondo di Corsico, che ha ritenuto più importante anteporre le ragioni di Regione Lombardia alle negatività della chiusura del centro, negando alle donne attualmente assistite di concludere i faticosi percorsi iniziati.
Noi donne dell'associazione “ventunesimodonna”di Corsico, che dal 2016 facciamo parte della rete che accompagna il Centro, condividendo le preoccupazioni per l'inutile esposizione delle donne ai rischi della visibilità, abbiamo ritenuto importante un confronto con le operatrici della Stanza dello Scirocco e con la vicepresidente del CADMI Alessandra Garisto. All’incontro erano presenti le assessore alle politiche di genere dei comuni di Buccinasco, Cesano Boscone e Trezzano sul Naviglio e alcune associazioni di donne del territorio per una valutazione comune.
La questione non è risolta con il finanziamento del semestre giugno-dicembre. 
Rimane il problema del prossimo bando e delle strade da percorrere qualora la scelta di Regione Lombardia rimanesse invariata. 
Per il momento ringraziamo i Sindaci e le Assessore dei comuni del Piano di Zona che con la loro sensibilità hanno evitato un disagio alle numerose donne che cercano di uscire dalla violenza che quotidianamente subiscono.

domenica 19 maggio 2019

Period poverty: quando avere il ciclo costa troppo Emma Bubola

In Kenya, il 65% delle ragazze non può permettersi gli assorbenti, in Italia sono tassati più dei tartufi. Avere le mestruazioni è ancora considerato un lusso

In Kenya, il 65% delle ragazze non può permettersi gli assorbenti. Secondo l’Unicef, in certe aree del Paese africano, bambine e ragazze si prestano ad abusi sessuali in cambio di assorbenti. Nel sud-est asiatico, un terzo delle ragazze non va a scuola durante i giorni di mestruazione perché non ha accesso al materiale necessario per gestire il flusso. In India, 4 ragazze su 5 non hanno accesso ai prodotti sanitari e nelle zone rurali si usano pezzi di tessuto, ma anche polvere o sabbia per assorbire le perdite, aumentando il disagio nonché il rischio di infezioni.

In Occidente, dove il problema è marginale, l’accesso ai prodotti sanitari resta comunque problematico per molte donne e ragazze. In Inghilterra, il 10% delle ragazze tra i 14 e i 21 anni ha dichiarato di non potersi permettere gli assorbenti, il 15% di aver fatto fatica ad acquistarli e il 14% di averli chiesti ad amiche perché troppo cari. Con diversi livelli di gravità, questi fenomeni ricadono sotto la definizione di "period poverty", “povertà mestruale”: l'impossibilità di potersi permettere le attrezzature sanitarie adeguate per superare il ciclo mestruale in modo agevole e igienico.

Lo stigma
La povertà mestruale è legata a doppio filo allo stigma associato al sanguinamento mensile. In Nepal, il Chaupadi era una pratica ancestrale che consisteva nell’obbligare le ragazze con il ciclo a dormire fuori casa.
La tradizione è stata messa fuori legge nel 2017, ma nel 2018 una ragazza è morta per questo motivo. In Afghanistan è ancora diffusa la credenza che lavarsi durante il ciclo porti all’infertilità e in Giappone le donne hanno difficoltà a diventare chef di sushi perché le mestruazioni altererebbero il loro senso del gusto.
La versione occidentale di questo stigma è la vergogna nel parlare pubblicamente di mestruazioni, il nascondere l’assorbente nella manica quando ci si alza per andare a cambiarlo, o l’abitudine di andare in bagno con la borsa quando l’unica cosa di cui si ha bisogno è un tampax.

La mancanza di luoghi igienici
La mancanza di accesso a luoghi igienici dove gestire le perdite dovute al ciclo mestruale caratterizza, secondo l’Unicef, una scuola al mondo su tre. In India, la mancanza di toilette e acqua corrente nelle scuole fa sì che il ciclo sia considerato una delle cause fondamentali dell'abbandono scolastico da parte delle ragazze. L’abbandono aumenta il rischio di gravidanze in adolescenza e matrimoni infantili, e quindi di perpetuazione dei divari socio-economici esistenti.

Sanguinare una volta al mese è un lusso
In India, con la tassa dei Beni e Servizi del luglio 2017, i prodotti di igiene mestruale erano tassati al 12%, ma una campagna di attivismo è riuscita, nel settembre 2018, a eliminare questa tassa e ora gli assorbenti sono esenti da tasse. In Kenya la diminuzione della tassazione era iniziata nel 2004 e dal 2011 esiste nel Paese un progetto che ne prevede la distribuzione gratuita nelle scuole.

Anche in Europa campagne e attivismo sono riusciti a spingere i governi ad abbassare o addirittura eliminare la tassazione sui prodotti sanitari dedicati al ciclo mestruale. Spagna, Inghilterra, Francia e Belgio hanno ridotto la tassa sugli assorbenti dal 10 al 4%. In Irlanda i prodotti sanitari mestruali non sono tassati mentre in Scozia, lo Stato ha iniziato a distribuire gratuitamente assorbenti e tampax alle studentesse dell’università.

In Italia, gli assorbenti sono ancora considerati un bene ordinario, a cui si applica un’IVA del 22%. Nella stessa categoria ci sono trattamenti di bellezza, acqua minerale in bottiglia e elettrodomestici. Dall’ultima finanziaria invece, i tartufi sono tassati al 5% perché deperibili.
L'attivista Chiara Capraro ha creato una petizione che ha raccolto 180.000 firme per far abbassare l'IVA sugli assorbenti al 4%. La questione è arrivata in Parlamento, senza però riuscire a essere approvata, nonostante il presidente della Commissione Igiene e sanità Pierpaolo Sileri (M5s) avesse presentato un disegno di legge a questo proposito. Il 14 maggio la Camera ha bocciato la proposta di legge del PD che andava nella stessa direzione.
Al momento della proposta di legge, personalità mediatiche di tutti i campi si sono sentite in dovere di sminuirla. Anche la comica Luciana Littizzetto ha affermato che gli assorbenti non contavano nulla rispetto, per esempio, alla disparità salariale tra uomo e donna. Il problema di non considerare gli assorbenti un bene di prima necessità è però più profondo della sua palese incoerenza.

Laura Coryton, studentessa dell’Università di Oxford e fondatrice della campagna Stop Taxing Periods ha affermato: «Tassando le donne che hanno il ciclo mestruale, i governi sottintendono che sia un lusso per loro partecipare nella vita pubblica una volta al mese e che la società non valorizza il loro contributo».
https://www.open.online/inchieste/2019/04/19/news/period_poverty_avere_il_ciclo_costa_troppo-196064/

venerdì 17 maggio 2019


Perché oggi è la giornata mondiale contro l'omofobia di Giulia Giacobini

La data del 17 maggio è stata scelta per quanto avvenuto nel 1990, quando l'Organizzazione mondiale della sanità prese una decisione storica, cambiando la vita di milioni di persone

Tim Cook, ceo di Apple, ha fatto coming out nel 2014. “Sono orgoglioso di essere gay e considero la mia omosessualità uno dei più grandi doni che Dio mi abbia fatto”, ha scritto all’epoca in un editoriale su Bloomberg in cui dichiarava la sua scelta. Le sue dichiarazioni sono state universalmente viste come un atto di coraggio: prima di lui, nessun amministratore delegato di una grande impresa aveva ammesso pubblicamente di essere attratto da persone del suo stesso sesso. E la sua scelta avveniva in un anno molto importante per il movimento lgbt.

Oggi, 17 maggio, si festeggia la giornata mondiale contro l’omofobia, una ricorrenza molto rilevante, e quantomai necessaria. L’Organizzazione mondiale della sanità ha infatti considerato a lungo l’omosessualità una malattia mentale, e per diversi anni dottori e specialisti in tutto il mondo hanno provato a curare uomini che amavano uomini e donne che amavano donne.

La svolta è arrivata solo nel 1990, dopo anni di battaglie da parte della comunità Lgbtq+. Il 17 maggio di quell’anno l’Oms depennò l’omosessualità dalla lista. Da allora, amare una persona dello stesso stesso è considerata una “variante naturale del comportamento umano”, recita la definizione dell’organizzazione. E la giornata contro l’omofobia, istituita dall’Unione europea proprio nel 2004, si celebra oggi proprio per ricordare questa data storica.

Un lungo percorso
L’omosessualità è stata considerata per secoli un reato o una malattia (in alcuni paesi, come il Brunei, lo è ancora). Nel 1952, l’American Psychiatric Association la considerava un “disturbo sociopatico della personalità” mentre nel 1968 si arrivò ad accostarla ufficialmente alla pedofilia e alle devianze sessuali, considerati “disturbi mentali non psicotici”. Nel 1974, l’opinione della comunità scientifica iniziò a cambiare ma si diffuse l’espressione “omosessualità egodonistica”: I dottori che la utilizzavano erano convinti che le persone gay fossero a disagio e soffrissero perché non riuscivano ad accettare il loro orientamento.

In Italia, chi si dichiarava omosessuale o veniva considerato tale perché si travestiva o aveva atteggiamenti femminili, talvolta veniva rinchiuso in un manicomio. Ma, come scrive Gay.it, l’attrazione verso persone dello stesso sesso era considerata un problema morale, più che sanitario, e molto spesso il ricovero dipendeva dalla volontà delle famiglie e del paziente. In generale, le persone che venivano internate non assumevano farmaci ma venivano sottoposte a ripetute violenze psicologiche. Alcune, tuttavia, erano trattate con l’elettroshock.

Come l’Ue ha cambiato tutto
Il primo a lanciare l’idea di una giornata internazionale contro l’omofobia fu Louis-George Tin, attivista francese e curatore del Dizionario dell’omofobia, un libro che ripercorre la storia e le difficoltà di alcuni gay famosi come Oscar Wilde, analizza alcune teorie omofobe – dalla loro nascita alla loro infiltrazione nella società – e parla della situazione degli omosessuali nei diversi paesi del mondo. La prima giornata internazionale contro l’omofobia è stata festeggiata nel 2004.

Tre anni dopo, l’evento venne promosso anche dall’Unione europea. Nel 2007 l’europarlamento adottò infatti una risoluzione sull’omofobia che, all’articolo 8, ribadiva l’invito “a tutti gli stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni”.

Oggi l’evento è promosso anche dalle Nazioni Unite, festeggiato in 130 paesi nel mondo e volto a sensibilizzare le persone anche sulla bifobia e la transfobia, ovvero l’avversione discriminante nei confronti delle persone bisessuali e transessuali.
https://www.wired.it/attualita/politica/2019/05/17/giornata-contro-omofobia-perche-festeggia-oggi/?fbclid=IwAR20XiMniiUUL7XRSKB6o9s4BPqbVv8HxoMBEbEmJ-_YRfgdabtF5t_zB04&refresh_ce=

venerdì 10 maggio 2019

Mary Quant ideò la minigonna, Amelia Earhart sorvolò l'Atlantico: storie di donne comuni che hanno fatto epocaA queste, e altre donne che hanno fatto la storia sono dedicati i separé di Byobú, presentati in questi giorni alla Design Week, l'evento internazionale dedicato al mondo del design che si svolge ogni anno a Milano HuffPost.

 Mary Quant ideò la minigonna, Amelia Earhart sorvolò l'Atlantico: storie di donne comuni che hanno fatto epoca

Donne rivoluzionarie che con il loro coraggio hanno cambiato il modo di pensare di un'epoca. Da Mary Quant, che nel lontano 1963 liberò le gambe delle donne e con la sua minigonna diede una botta all'emancipazione femminile, alla leggendaria Amelia Earhart, prima donna a sorvolare l'Atlantico in solitaria. Ed è sempre il viaggio a segnare la liberazione di un'altra icona femminile, l'esploratrice Alexandra David-Néel, che all'inizio del Novecento si spinse, da sola, fino a Lhasa, in Tibet, città vietata all'epoca a qualsiasi straniero. E a inaugurare la figura della viaggiatrice solitaria, più forte della paura, dei pregiudizi e delle convenzioni che volevano che, fino agli inizi del Novecento, il viaggio fosse una prerogativa degli uomini.

A queste, e altre donne che hanno fatto la storia sono dedicati i separé di Byobú, presentati in questi giorni alla Design Week, l'evento internazionale dedicato al mondo del design che si svolge ogni anno a Milano. L'idea è semplice: creare nuovi modi di vivere lo spazio in un'epoca in cui gli ambienti di casa sono sempre più dinamici, flessibili e aperti. È il ritorno del paravento, nato in Cina nel II secolo e in voga nelle case fino al secolo scorso, amato persino da Coco Chanel che li collezionava.

Byobú, marchio italiano nato nel 2017 dall'idea di due giovani creative, lo rilancia, ma con un'idea in più: mandare un messaggio tutto al femminile. "La storia non è fatta di gente straordinaria, ma da donne comuni che hanno avuto il coraggio di andare contro corrente e di cambiare le regole", spiega Martina Di Paolo, illustratrice. Perché "per una donna, il mondo, oggi come cent'anni fa, è molto più difficile rispetto a un uomo", aggiunge Chiara Pollano, designer. E così, attraverso illustrazioni originali che evocano avventure che hanno segnato un'epoca, ogni separé racconta una storia straordinaria.

Storie solo evocate nelle trame delicate e fantasiose dei tessuti, che ricreano i mondi visti da queste donne e i loro viaggi, e dove sono i particolari a parlare: i piedi sottili di Jeanne Baret che spuntano tra foglie e piante tropicali mentre, in abiti maschili, è intenta a studiare la natura delle Mauritius. O la mano sensuale di Polly Peabody che allaccia il reggiseno moderno, sua rivoluzionaria invenzione che ha dato l'addio, una volta per tutte, alle costrizioni del corsetto. E, ancora, le gambe della nuotatrice Annette Kolmann che fluttuano su un fondale di coralli, la prima a indossare il bikini.

Un omaggio alle donne che hanno cambiato il costume di un'epoca, "meno note di icone come Frida Kahlo, ma che hanno contribuito in maniera significativa a farci arrivare fino ai giorni nostri". Simboli per tutte le generazioni che nell'intento delle due creative, "sono fonte d'ispirazione per altre donne affinché prendano coraggio e non si lascino sopraffare dalla società, che è ancora troppo maschilista".

Immagini di donne seducenti, di gambe accavallate che sbocciano dai petali dei fiori della passione. È il separé di Byobù ispirato a Mary Quant (Londra, 1934), la celebre stilista che nel 1963 inventò la minigonna. Avrebbe dovuto diventare insegnante, almeno così avevano previsto per lei i genitori, due professori universitari. Invece, alla fine decise lei. E s'inventò la mini, dieci centimetri sopra il ginocchio, un piccolo, rivoluzionario accorgimento che, proprio per la sua lunghezza ridotta, non ostacolava il movimento delle gambe e risultava più pratico rispetto agli abiti femminili dell'epoca. "Sono state le ragazze della King's Road a inventare la mini. Io stavo facendo abiti semplici e giovanili, con cui era possibile muoversi, con cui si poteva correre e saltare e li avrei realizzati della lunghezza voluta dalla clientela. Io li indossavo molto corti e la clientela diceva 'Più corti, più corti'". E così Mary Quant, che a soli sedici anni decise di andarsene di casa per vivere da bohémienne a Londra e aprire una boutique, fece arrossire le benpensanti di tutto il mondo.

Tra le palme, i fiori e i caschi di banane delle terre che si affacciano sul Pacifico, spunta la figura, appena accennata, di un aereo. È il separé dedicato ad Amelia Earhart (1897-1937), eroina mondiale del volo, scomparsa nel 1939 quando, prima donna al mondo, stava tentando la circumnavigazione del pianeta attorno all'equatore. Qualche anno prima, nel 1932, era già diventata un'eroina mondiale, sorvolando in solitaria l'Atlantico. Nessun'altra donna prima era riuscita in una simile impresa. Esempio di coraggio e spirito d'avventura, ha iniziato prendendo l'aviazione come un hobby, spesso accettando ogni tipo di lavoro per mantenersi le costose lezioni. Nel 1922 compra il suo primo aeroplano e da qui la sua storia è in salita: viaggia da Honolulu a Oakland, da Los Angeles a Mexico City, e da qui a Newark. Pilota, scrittrice di successo e persino disegnatrice di moda. Il suo impegno "per la donna che svolge una vita attiva" è completo: ed è così che Earhart studia un capo di abbigliamento comodo – con pantaloni morbidi, cerniere e grosse tasche – per aprire la strada dell'aviazione anche alle donne. Il suo sogno più grande però era fare il giro del mondo in aeroplano: inizia l'impresa, ma raggiunti circa due terzi del viaggio, scompare misteriosamente insieme al copilota Frederick Noonan. È il 2 luglio 1937. All'eroina americana del volo è stato dedicato, di recente, un film dal titolo "Amelia" con Richard Gere e Hilary Swank nel ruolo dell'aviatrice.

È il Tibet, con i suoi templi, uno yak che spunta dalle foglie e il volto di un'esploratrice, il protagonista dell'ultimo separé della nuova collezione di Byobù. Un omaggio ad Alexandra David Neel (1868-1969), prima donna occidentale che riuscì nell'impresa di raggiungere l'Oriente, nel 1924. Esploratrice, scrittrice e antropologa, la sua avventura inizia presto: a diciotto anni scappa di casa per raggiungere la Spagna in bicicletta, e da allora non ha mai smesso di viaggiare. In India imparò il sanscrito e si dedicò allo studio del buddismo. Nei suoi viaggi si spinse fino a Lhasa, la capitale del Tibet, a quel tempo sconosciuto e interdetto agli stranieri. Fu la prima donna occidentale che riuscì a entrarci, lasciando importanti testimonianze scritte.

Il bozzetto del primo reggiseno moderno emerge da uno sfondo floreale che evoca il mondo della sensualità e della femminilità. Questo separé omaggia Caresse Crosby (1891-1970), scrittrice e attivista americana, più conosciuta come Polly Peabody. Fu una ricca dama newyorkese che, oltre a essere ricordata come editrice per aver pubblicato opere di autori destinati al successo come Ernest Hemingway e Charles Bukowski, è ricordata per aver inventato l'arma suprema di seduzione delle donne: il reggiseno, liberandolo per sempre da stecche e altre torture. Suo è il primo brevetto del reggiseno moderno, che risale al 1914. Peabody deposita il marchio di sua invenzione con il nome di "Caresse Crosby" e lo cede alla Warner per 1.500 dollari, che metterà poi sul mercato i primi reggiseni con le bretelle elastiche. Il prototipo se lo era fatto da sola un anno prima utilizzando due fazzoletti e un nastro, e fu rivoluzione. Della sua invenzione, disse, con orgoglio: "Non posso dire che il reggiseno occuperà mai un posto nella storia come quello del battello a vapore, ma fui io ad inventarlo".

Alla prima donna che riuscì a compiere il giro del mondo è dedicato questo separé. Jeanne Baret (1740-1807), esploratrice francese fece parte della spedizione di Louise Antoine de Bougainville e fu la prima donna a compiere la circumnavigazione del globo. Vestita con abiti maschili – come emerge dal particolare dei pantaloni a righe che si intravedono tra la ricca vegetazione – si faceva chiamare Jean Baret, arruolandosi come assistente del naturalista Philibert Commerson. Prerogativa maschile, la figura del viaggiatore e avventuriero, Baret con i suoi studi e le sue illustrazioni, diede un grande contributo allo studio della botanica di Paesi fino ad allora sconosciuti, come le Mauritius.

Le gambe nude di Annette Kolmann che si liberano nelle acque variopinte della barriera corallina, nuotatrice australiana, la prima a indossare l'antenato del bikini e a scoprire così il corpo delle donne. Fu arrestata a Melbourne, alla fine della traversata, ma lei continuò imperterrita a immergersi nelle acque con questo nuovo costume, che fece scalpore.
https://www.huffingtonpost.it/2019/04/15/mary-quant-ideo-la-minigonna-amelia-earhart-sorvolo-latlantico-storie-di-donne-comuni-che-hanno-fatto-epoca_a_23711809/?fbclid=IwAR2MdR3DM0c8OynwFAo6CZ30mjJNbxt5-2gDIY_WArmUlAS-5lUCJFFHP

vi aspettiamo domenica con bambini e bambine


giovedì 9 maggio 2019

Il bisogno della storia delle donne Maria G. Di Rienzo

Le donne hanno governato e profetizzato, hanno coltivato e costruito, creato arte e scienza, lottato per i loro diritti e per i diritti dei loro popoli. Sono state diplomatiche e spie, sacerdotesse e mediche, reazionarie e rivoluzionarie, guerriere e pacifiste. C’erano sempre, eppure le «cronache ufficiali» hanno rimpiazzato la loro storia con un elenco interminabile di uomini nel quale fa capolino ogni tanto una regina o una cortigiana. La storia delle donne, avverte Maria G. Di Rienzo, femminista e pacifista, non si può trovare con il solo ausilio dei libri, va ricercata in storie orali, nelle fiabe e nei miti, nelle lettere e tra i reperti archeologici. Una storia interdisciplinare di chi la vita la dà, la nutre, la gode e mette in questo modo sottosopra la storia nota, quella fatta solo di guerre e di conquiste economiche. Ecco perché abbiamo bisogno della storia delle donne.
Relazione nell’Incontro nazionale separato Memoria collettiva, Memoria femminista, organizzato a Roma il 15 dicembre 2012 da Coordinamenta femminista e lesbica di Roma nella sezione  Trasmissione della memoria.

Circa dieci anni fa, tenevo un corso di storia delle donne nella mia città. Lo avevo basato su alcune figure storiche non molto indagate, e poco considerate nonostante la loro importanza, in vari campi dello scibile umano. Nell’incontro dedicato a Ipazia di Alessandra, in cui il mio scopo era parlare di donne e scienza, citai la vicenda di Maria Gaetana Agnesi (foto a lato), l’inventrice o la scopritrice (a seconda di come si veda la matematica) della Curva di Agnesi. Si tratta di una funzione matematica rappresentata graficamente come un «cappello di strega», il che tra parentesi me la rende simpatica anche se sono negata per i numeri.

Una donna fra il pubblico fece un salto sulla sedia e mi interruppe. Era eccitata e commossa. «Io sono un’insegnante di matematica – disse – Ho studiato la “Curva di Agnesi”, ma nessuno mi aveva mai detto che Agnesi era una donna». Perché l’amica fra il pubblico provava un’emozione così forte? Perché aveva dovuto combattere per tutta la vita con gli stereotipi di genere, i quali sostenevano (e sostengono) che le donne non sono portate per le scienze esatte e che quindi lei sarebbe stata un fallimento se si fosse dedicata a ciò per cui provava interesse. E perché nessuno le aveva mai detto che «il matematico italiano Agnesi» era femmina? Perché senza queste omissioni intenzionali nella narrazione storica risulterebbe chiaro che le donne hanno determinato quanto gli uomini il corso degli eventi e le forme dell’umana cultura. Nel bene e nel male, a seconda di che significato si voglia dare a questi due termini. Abbiamo governato, profetizzato, fondato stati, abbiamo coltivato e costruito, creato arte e scienza, lottato per i nostri diritti e per i nostri popoli. Siamo state diplomatiche e spie, sacerdotesse e mediche, reazionarie e rivoluzionarie, guerriere e pacifiste. C’eravamo, sempre. Ma le «cronache ufficiali» ne tengono scarso conto. La nostra storia è stata rimpiazzata con un elenco interminabile di uomini in cui fa capolino ogni tanto una regina o una cortigiana.

Io ricordo con precisione il mio primo incontro con la storia che si insegna a scuola. All’inizio di tutto sta una figurina sul sussidiario delle elementari: un disegno che avrebbe dovuto rappresentare la preistoria, la vita dei nostri antenati cavernicoli. In primo piano c’è un uomo che lavora una scheggia di selce, in secondo piano un gruppo di uomini insegue un dinosauro con le lance, e sullo sfondo, in lontananza, donne e bambini stanno attorno a una pentola sul fuoco, all’imboccatura della caverna. Osservando le punte delle lance degli improbabili cacciatori si capiva subito che erano punte di selce come quella in primo piano. Il messaggio d’insieme era inequivocabile. Il suo primo tratto era: agli uomini il fuori, l’attività, la lotta, il provvedere sostentamento; alle donne il dentro, la cucina, la cura, i bambini. Il secondo tratto: i primi manufatti umani sono stati pensati solo dai maschi, e principalmente per uccidere. Il terzo tratto: in tutto ciò vi è una gerarchia valoriale, e cioè quel che gli uomini fanno è in primo piano, importante e fondamentale per la civiltà, quel che le donne fanno è meno importante, sta sullo sfondo.

Per circa 4.000 anni alle donne si è raccontata questa favola. Tramite la storia, ma anche tramite la letteratura, la storia dell’arte, e tramite religioni e leggi e usi e costumi. In molte ci crediamo ancora e la perpetuiamo. In molte ci abbiamo creduto, per poi scoprirne i limiti e le menzogne e contestarla. In molte non ci abbiamo mai creduto, e alcune hanno indagato le origini della favola e altre no. Ed è grazie a coloro che si sono prese la briga, e credo anche il gusto, di indagare che noi oggi sappiamo che non è andata come nella rappresentazione grafica che vi ho descritto, e che ad esempio dalla nostra comparsa sul pianeta circa 990.000 anni orsono, per i primi 900.000 anni non abbiamo mangiato carne, e quando ci siamo decisi a farlo le «cacce» non erano ai dinosauri, ma a vermetti, lucertole e animali di piccola taglia. E sempre sulla scala dei 990.000 anni la guerra abbiamo cominciato a farla circa 5.000 anni fa, quindi non c’è modo di considerarla il motore della civiltà e della storia. Se l’umanità è sopravvissuta ai disastri naturali e poi a quelli orchestrati dall’umanità stessa è in virtù della cooperazione e della condivisione, che sono poi i tratti originari delle più antiche civiltà che conosciamo.

Io sono comunque una di quelle donne a cui la favola non suonava giusta, fin da piccola (soprattutto perché produceva un ammontare allucinante di sofferenze). Così mi sono domandata: Eva ha mangiato la mela della conoscenza e poi ha avuto una crisi d’amnesia? È vero che tutto quello che uso, dalla lingua agli attrezzi, è frutto della genialità di una sola parte dell’umanità, mentre l’altra scodellava marmocchi e restava a guardare? Ora, a scanso di equivoci, chiarisco subito che produrre deliziosi marmocchietti e marmocchiette e aver cura di loro, aiutarli a crescere, eccetera, qualora tu lo voglia, ne ricavi piacere e senso, e possa gestire senza intralci la tua fertilità, è semplicemente il continuare la vita umana sulla terra, e direi che è un lavoretto importante.

Comunque, per rispondere alle domande di cui sopra sono diventata una studiosa di storia, e nello specifico di storia delle donne. Che è materia necessariamente interdisciplinare perché le fonti diciamo «standard» sovente non forniscono alcuna informazione sulle vite delle donne e quel poco che si trova è altrettanto sovente venato da pregiudizi, visto attraverso gli occhiali degli stereotipi di genere e in tal modo narrato. La storia delle donne non si può trovare, e non si può raccontare, con il solo ausilio dei libri sugli scaffali, ma necessita che con la stessa accortezza si valutino le storie orali e il folclore, le fiabe e i miti, i diari e le lettere, i reperti archeologici, eccetera. Questo perché cancellazioni e dimenticanze intenzionali, e proibizioni vere e proprie, hanno posto tutta una serie di dati e testimonianze fuori dall’ufficialità. Alle donne europee non fu consentito neppure consultare biblioteche e fonti documentali sino al XVIII secolo e in molte università, europee e non, alcune biblioteche resteranno chiuse all’ingresso delle donne sino al XX secolo (che è l’altro ieri, tanto per dire). Il mio percorso di ricerca ha seguito, senza volerlo ma fedelmente, quello che è stato il percorso della storia delle donne in senso ampio: il recupero della cultura e della simbologia femminile, l’indagine sui modi e sulle cause dell’oppressione storica delle donne, l’indagine su come l’assortimento di ruoli di genere assunti di volta in volta da uomini e donne, in società e periodi diversi, funzioni come mantenitore dell’ordine sociale o innovatore e trasformatore dello stesso. Più di trent’anni di studi di genere, in tutto il mondo, hanno prodotto una mole immensa di lavoro, di cui però, tristemente, si continua a usufruire molto poco se si eccettuano alcuni ambiti specializzati.

In Italia, poi, rispetto ad altri paesi europei o agli Stati uniti, abbiamo qualche difficoltà particolare nel gestire la faccenda. Un problema sono le esternazioni di alti esponenti del Vaticano, i quali periodicamente (l’ultimo di cui io so è il messo papale Cordes, la data è il 4 febbraio scorso) attaccano il concetto di «genere» come la fonte di ogni male per gli esseri umani di sesso maschile: sapere che i ruoli vengono dalla socializzazione degli individui e non dalla biologia è cosa che secondo il Vaticano ha castrato i maschi (sono le esatte parole del messo), li ha svirilizzati, li induce a lasciare le proprie famiglie, a commettere crimini e addirittura a suicidarsi. Naturalmente la colpa è delle femministe, ed eroicamente lo stato vaticano si oppone a questa tragedia rifiutando ad esempio di firmare la Cedaw, ovvero la Convenzione per porre fine a tutte le discriminazioni contro le donne del 1979, e attaccando, quando può, i paesi che stanno per firmarla (ne mancano un po’ fra le nazioni del mondo, fra cui gli Stati uniti, anche se Obama ha detto che la firmerà).

In realtà, queste esternazioni non sarebbero un problema, per gli studi di genere, se a esse non fosse accoppiato un alto grado di sudditanza da parte delle gerarchie politiche italiane. Per cui qualsiasi cosa un cardinale, un vescovo o il papa dicano i politici di tutte le parti si affrettano a dichiararsi d’accordo o ad assicurare che ne verrà tenuto debito conto, e poiché la maggior parte di quel che passa nelle scuole lo decide il ministero della Pubblica istruzione credo che prima di vedere l’educazione al genere come materia della scuola dell’obbligo, o la proliferazione di studi di genere nelle università italiane, dovrà passare ancora del tempo.

Un secondo problema riguarda specificatamente gli studi sulle società matrilineari. C’è una sorta di rigetto, da parte di molte donne magari interessate a periodi storici e studi storici diversi, ed è un rigetto che ha motivazioni molteplici, ma per farla breve il principale è la presenza, o la menzione, di un sacro o di un divino femminile. Tante non ne vogliono sentir parlare perché l’associazione che fanno subito, mentalmente, è quella di un rovesciamento speculare di ciò che conoscono come religione: e poiché ciò che conoscono come religione non è di solito affermativo o positivo per le donne, il loro rifiuto ha una sua logica. Comunque, non abbiamo tracce di oppressione semplicemente rovesciata di segno in nessuna delle società umane più antiche di cui abbiamo evidenza scientifica, e la presenza di questo divino femminile non si può paragonare in alcun modo alle religioni monoteiste organizzate odierne. Il solo nominare la spiritualità però tende a mettere a disagio alcune persone, soprattutto negli ambiti politici della sinistra, ed è per questo che una partecipante a un circolo di streghe, formatosi nell’ambito di un partito di sinistra, mi ha detto: Facciamo queste cose, ne ricaviamo senso, piacere e conoscenza, indaghiamo la nostra storia passata, ma non ne parleremmo mai con i nostri compagni. Io credo che queste donne sarebbero d’accordo con Bonnie Raitt, quando dice: La religione è per le persone che hanno paura di andare all’inferno, la spiritualità è per chi all’inferno c’è già stato.

Il terzo problema riguarda la legittimazione. E cioè hanno status e valore solo i prodotti che provengono da determinate associazioni, o da particolari persone, o che possono vantare la presentazione o la prefazione di tal madrina o tal padrino. Sarà che in Italia siamo tutti un po’ mafiosi, ma il problema in sostanza è che non si riesce a far senso comune delle cose che gruppi e individui elaborano sulla storia delle donne anche a causa di veti e scomuniche.

Alla bambina, o al bambino, che oggi chiedono «Perché non posso far questo e perché devo far quello? Perché va così?», si risponderà ancora, spesso, «Perché è sempre andata così». E se i piccoli seccatori insistono si potrà aggiungere «Queste sono le nostre sacre e originarie e pure tradizioni (laiche o religiose non importa, il confucianesimo è un esempio di patriarcato laico che non ha bisogno di dio per stabilire una gerarchia). Per cui noi facciamo le cose in questo modo e tu ti adegui».

Ma c’è un problema. Chi può davvero dire quando le nostre pure e sacre tradizioni hanno avuto inizio? Vi svelo uno schemino sociologico. Per dare a un uso lo status di «sacra tradizione» ci vogliono grossomodo tre generazioni. La prima è quella dei pionieri, diciamo così, quelli e quelle che stabiliscono: da oggi, nel nostro gruppo la tal cosa la facciamo così. Sono degli innovatori, sostanzialmente: tutti i profeti delle maggiori religioni monoteiste hanno stabilito nuovi costumi atti a sostituire quelli che c’erano già. Se chiedete ai pionieri perché la tal cosa la fanno così, risponderanno: il nostro profeta ci ha detto… è la volontà di dio… i saggi anziani hanno deciso… eccetera, eccetera. Non parleranno di tradizioni, perché sono ancora tutti vivi coloro che potrebbero rispondergli: col fischio che questa è la nostra tradizione, è da giovedì scorso che abbiamo deciso questa cosa. Allora passiamo a chiederlo alla generazione successiva: la quale, ancora, non si azzarderà a parlare di tradizione sacra del nostro popolo, dirà di usi e costumi appresi dai padri e dalle madri. È vero, ammetteranno magari, prima facevamo in altro modo, ma era un modo impuro, eretico, pagano, sbagliato, socialmente dannoso o che ne so: l’uso derogatorio del linguaggio comincia a erodere i fatti, a mischiare interpretazioni, a costruire leggende. Ma è solo con la terza ondata, diciamo così, che la memoria di ciò che è stato precedentemente, a livello storico, scompare. I nipoti dei pionieri risponderanno alla domanda «perché fate così» con: perché abbiamo sempre fatto così, sono le nostre sacre tradizioni! Marlene Starr, per farvi un esempio, è una discendente degli abitanti originari del Canada, gli indiani canadesi se volete. Se voi oggi esaminate le relazioni tra i sessi nel suo gruppo osserverete uno sbilanciamento a favore degli uomini, la specializzazione dei ruoli, un discreto tasso di violenza di genere. Potreste concludere che sono le loro tradizioni e che volete rispettarle. Ecco però cosa racconta Marlene: «Nelle società aborigene tradizionali, donne e uomini avevano ruoli di eguaglianza. Questo è stato distrutto dal colonialismo, in special modo dall’Indian Act che ha creato e stabilito le scuole che noi dovevamo frequentare. Ci è stato ossessivamente ripetuto, in queste scuole e altrove, sia tramite insegnamenti diretti, sia tramite la proposta di modelli, che dovevamo accettare come giusta e inevitabile l’inferiorità delle donne. La filosofia de “la forza fa il diritto” ha fatto danni incommensurabili alle nostre comunità, e ci vorranno anni di ri-socializzazione prima che noi si possa riacquistare l’equilibrio che avevamo prima».

Generalmente le donne sono state addestrate a non aver relazione con la storia, e a non reclamarla per se stesse. La mancanza di una consapevolezza storica ottiene che le donne continuino a fare tutto, invece di cambiare tutto. L’equazione è semplice: se sei senza passato, sei pure senza futuro. Ci sono quattro modi principali in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne. Il primo è la ferma omissione delle donne dalla storia presente, ovvero dalle notizie. Circa il 15 per cento dell’informazione di cronaca riguarda le donne, usualmente come vittime di violenza o come autrici di crimini. Chiunque abbia mai organizzato qualcosa sulle donne e per le donne e delle donne lo sa: se non hai l’aggancio giusto o il seno scoperto sei invisibile. Il secondo modo, complementare, è l’omissione della storia dai giornali e dagli inserti cosiddetti «femminili» (quelle cose che si chiamano «Donna e Mamma», «Donna Moderna» e così via). Si ha, leggendoli, la curiosa sensazione che il tempo non esista. Un cronosisma, come avrebbe detto Kurt Vonnegut. Qui le notizie sono pettegolezzi, chi ha sposato chi, chi ha lasciato chi, eccetera. Il tuo destino come donna è sicuramente nelle tue mani: ci sono diete per te, e cosmetici per te, e test per insegnarti ad acchiappare il principe azzurro. Non hai passato, non hai futuro, è un eterno presente nella casetta di Barbie. Dal che emerge semplicemente il terzo tipo di pressione: ovvero il tema ideologico che se le donne si prendono sul serio perdono la loro femminilità. Questo è un tema ricorrente e sempreverde. Ho perso il conto degli studi psico-socio-tuttologi creati per spiegarci che abbiamo voluto tutto, e quindi abbiamo perso la nostra vera natura, siamo diventate uomini, abbiamo messo in crisi gli uomini e quindi gli uomini scappano da noi e il nostro orologio biologico ticchetta impazzito, solo e triste. «Ormai comandano le donne», di sicuro l’avete sentito o letto da qualche parte. Pensate che qualche tempo prima di Cristo lo diceva pure Catone il censore, e non avrete bisogno che sia io a dirvi che è propaganda. E per chi crede che il termine post-femminismo sia qualcosa di vent’anni fa rendo noto che esso fu coniato già nel 1919, per dare l’avvio a una campagna di denigrazione delle suffragiste.

Il quarto modo in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne è l’erosione della memoria. I libri di testo non riportano la storia delle donne, i media non la conoscono, l’arte la ignora. In grazia di ciò, molte giovani pensano che la discriminazione sessuale sia cosa che non le riguarda direttamente. O che il diritto di voto l’hanno sempre avuto. O che sia sempre stato legale interrompere una gravidanza e divorziare. Ignorano tutte quelle madri, reali e simboliche, che si sono incatenate davanti ai parlamenti, che hanno fatto scioperi della fame, che si sono autodenunciate per aver abortito (anche quando non era vero), che hanno scritto e parlato e proposto e perseverato. E così queste ragazze, quando si trovano di fronte alla lettera di dimissioni in bianco da firmare per essere assunte, o quando al colloquio di lavoro chiedono loro se sono fidanzate o se pensano di far figli sono seccate, ma sono soprattutto scioccate. E pure quelle che non si arrendono, non avendo passato sono costrette ogni volta a ripartire da zero, a reinventare modelli di attivismo e di resistenza, o a fare affidamento su modelli altrui. Questo è il rischio nel rimanere indifferenti alla nostra propria storia: perdere quel che abbiamo ottenuto, e consegnare un futuro indecente alle bambine di oggi. Forse impareremo, prima o poi, a onorare le nostre eroine, magari mentre sono ancora vive, a pretendere le loro facce sui francobolli, e le loro vicende nella narrazione storica, di modo che le nostre figlie abbiamo qualcosa di meglio da sperare che diventare veline.

Spero non vi urti se a questo punto vi recito parte di una poesia. Sono versi del primo poeta della storia umana, della cui esistenza storica siamo scientificamente certi; una persona che visse, scrisse e insegnò 2.000 anni prima di Aristotele. I 153 versi originari furono vergati in caratteri cuneiformi su tavolette di creta e potevano essere letti sia dall’alto in basso che trasversalmente.

Sapiente, Saggia, Signora di tutte le terre,

che fai moltiplicare ogni creatura vivente e le genti,

io ho reso nota la tua canzone sacra.

Dea che dà la vita, appropriata per me,

di cui si acclama.

Compassionevole, donna che dà la vita, cuore raggiante,

io ho detto questo in tua presenza, in accordo con i divini poteri.

Di fronte a te sono entrata nel luogo sacro del tempio.

Io, l’Alta Sacerdotessa, Enheduanna,

reggendo il cesto delle offerte, ho liberato la mia voce in un canto gioioso.

(…) Mia signora, io proclamerò la tua grandezza in ogni paese.

Il tuo sentiero e le tue azioni loderò per sempre.

Io sono tua! E lo sarò per sempre.

Io, Enheduanna, l’Alta Sacerdotessa della Luna.

Di sicuro a scuola vi hanno parlato dell’alfabeto cuneiforme sumero. Fu creato attorno al 3200 a.C., specificatamente per ragioni contabili (quante pecore, quanti vasi, e via così). Le prime tavolette che contengono liste di nomi datano a circa cento anni dopo. Quando Enheduanna compone le sue poesie (che venivano cantate) la scrittura nel suo paese, l’odierno sud dell’Iraq, ha circa 350 anni e gli ideogrammi sono una novantina. Le precedenti tavolette che abbiamo sono del tutto anonime: Enheduanna è la prima a identificare se stessa nello scritto, ed è la prima a scrivere poesia. Di sicuro a scuola non vi hanno parlato di lei. Il primo poeta della storia umana è una donna. Lo sappiamo dal 1927, ma non sono notizie da dare alla leggera, forse ci stanno ancora pensando su: a che età inserire l’informazione per non sconvolgere le giovani menti? Gli scolaretti potrebbero restare turbati? Le scolarette potrebbero diventare arroganti? Naturalmente nessuno si fa mai gli scrupoli al contrario, e cioè se a sentire ripetere a oltranza «le conquiste dell’uomo», «le scoperte dell’uomo», «le invenzioni dell’uomo», le scolarette pensino di non esistere, o che le donne non sono mai esistite, o che l’essere femmine dev’essere una disgrazia o cattivo karma per le dissolutezze della loro vita precedente.

Scherzi a parte, sono al termine del mio intervento e poiché la forma del cerchio è quella che mi piace di più, tanto che anche il mio corpo tende ad assomigliarle, vorrei chiudere come ho aperto, e cioè con Maria Gaetana Agnesi. Siamo nel 1700, ci sono sette sorelle e un padre che crede nell’istruzione femminile, tant’è che una sorella di Maria Gaetana, Maria Teresa, diventerà anch’ella famosa, come musicista. I maligni dicono che se il padre avesse avuto anche un solo figlio maschio non avrebbe riversato tanta ambizione sulle figlie: comunque, era deciso a «dimostrare» che le donne potevano fare matematica e scelse Maria Gaetana per la sua dimostrazione. Come sappiamo, la ragazza si rivelò più che eccellente in tal campo. Ma quando suo padre morì, Maria Gaetana abbandonò gli studi matematici per fare quello che le piaceva fare, e che sentiva giusto fare, e cioè aiutare gli altri, in particolare le altre donne, a stare meglio. Così si dedicò ad aprire ospedali e asili e in genere a prestare assistenza. Non sappiamo quante vite abbia salvato, e se non fosse per il «cappello da strega» non conosceremmo neppure il suo nome. È l’incursione in un campo considerato «maschile» a lasciare una tenue traccia di lei, nulla di quel che compì dopo.

Perché se la storia è solo storia di guerre, di conquiste economiche o territoriali, di imperi e contro-imperi, di grandi navigatori e nuove frontiere, di mirabolanti congegni sempre più perfetti nell’uccidere (dalla punta di selce all’uranio impoverito o al fosforo bianco), se la storia è storia di mortali e di una valle di lacrime, allora in questa storia non c’è posto per le viventi e i viventi, per chi la vita la dà, la nutre, la gode. Ecco perché abbiamo bisogno della storia delle donne.
(fonte: Womenews.net)
https://comune-info.net/2013/01/perche-abbiamo-bisogno-della-storia-delle-donne/?fbclid=IwAR3b6mwiXYnw1q4BgEGqHAyBgCvoeBIp-YotXMX_WclB7goh5cAScFamHEk

mercoledì 8 maggio 2019

La #CostituzioneDelleDonne Articolo 9: La Repubblica promuove anche la cultura e la ricerca delle donne? di Giovanna Badalassi

Artciolo 9 della Costituzione: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
L’articolo 9, come tutti gli articoli più importanti della Costituzione, è brevissimo, al punto che potrebbe stare in un tweet: 134 caratteri per dire che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

I commentatori più autorevoli della Costituzione considerano questo articolo importantissimo per l’Italia, in quanto lo si ritiene responsabile del “dialogo tra passato e futuro, fondato sulla cultura, che ci permette di vivere la complessità del presente; ed è premessa e condizione della nostra dignità”. Il primo comma riguarda infatti il futuro, in quanto impegna la Repubblica a promuovere cultura e ricerca, il secondo comma si rivolge invece passato e alla conservazione della memoria insita nel paesaggio e nel patrimonio artistico.

E’ anche l’articolo che più di tutti gli altri definisce la nostra identità nazionale, trovando nella cultura il punto di equilibrio tra la tutela della bellezza grandiosa che abbiamo ereditato e l’aspirazione a rimanerne all’altezza. E’ talmente tanto “nostro”, questo articolo, che non trova corrispondenza in nessuna altra costituzione di paese occidentale.

Che ruolo hanno le donne in questo Articolo? Viene in mente una parola che può legare tutto: “patrimonio”. Il patrimonio culturale, scientifico, paesaggistico, storico, artistico.
Una parola che rivela tutta la verità del ruolo che le donne hanno avuto nella storia della cultura dell’Italia, e cioè piuttosto marginale.  Il patrimonio ha infatti in sé la radice “pater”, e letteralmente significa il legame del padre, che è tenuto quindi alla “cura delle cose”. Un pilastro della storia dell’organizzazione sociale al quale fa da contraltare il matrimonio, il legame della madre, tenuta invece alla cura delle “persone”.

Ecco, il patrimonio al quale fa riferimento la nostra Costituzione pare riguardare la più alta forma della cura maschile che si esprime nella bellezza artistica, paesaggistica, culturale ecc.

Se parliamo quindi di patrimonio culturale e di arte nel senso più profondo del termine di “adattare, fare, produrre” parliamo soprattutto di mani maschili che hanno scritto, dipinto, suonato, costruito cattedrali, chiese, monumenti, statue, ma anche che hanno ridisegnato il nostro paesaggio, bonificato, piantato, accudito terre e coltivazioni, tramandandoci un paese davvero unico sotto ogni punto di vista.

Certo, oggi si sta facendo molto per recuperare la memoria delle artiste e scienziate del nostro passato, in antico concentrate soprattutto tra le suore dei conventi e le figlie della nobiltà, ma certo il ritardo con il quale le donne hanno avuto accesso all’istruzione ha condizionato parecchio le loro potenzialità espressive per parecchi secoli. Basti ricordare che arrivò  “soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili. Ventisei anni dopo, nel 1900, risultavano comunque iscritte all’università in Italia 250 donne, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali

Viene quindi da chiedersi: quale cultura femminile si può riscoprire rispetto alla memoria culturale e artistica del passato,oltre alle poche eccellenze individuali, se non attraverso quella cultura prodotta dagli uomini che le donne le hanno, certo, dipinte, raccontate, scolpite, ma sempre come soggetti (oggetti?) della loro visione?

A parte le pioniere dell’arte e della scienza, la cultura delle donne è stata infatti, fino all’emancipazione femminile dell’era moderna, una cultura soprattutto chiusa dentro al matrimonio, trovando magari forme d’arte “domestica” importanti (pensiamo ai ricami, ai tessuti preziosi) o modi “casalinghi” di essere scienziate (pensiamo al ruolo delle donne nell’erboristeria medievale).

Ma la cultura delle donne nella storia è stata soprattutto “umana”, centrata sulle persone, più che alle cose. Una cultura femminile che ha forgiato il modo “Italiano” con il quale ci comportiamo: come crescere figli e accudire anziani, gestire famiglie, relazioni, rapporti, emozioni, comportamenti. Anche questa è un tipo di cultura che definisce, e non poco, la nostra identità, che però è stata tramandata di madre in figlia, senza trovare spazio sui libri, giacché si esprime soprattutto attraverso il comportamento.

Venendo all’oggi, le donne, negli anni che hanno seguito la Costituzione e grazie all’emancipazione femminile e all’ingresso in massa nell’istruzione alta, stanno recuperando il ritardo storico
dal quale sono partite, al punto da essere quasi più loro degli uomini a occuparsi di tramandare il nostro patrimonio culturale alle nuove generazioni: secondo i dati Miur le donne sono infatti la maggioranza dei laureati italiani (57,2%), soprattutto nell’area umanistica (79,4%), sono il 51,8% dei dottori di ricerca all’università, 4 docenti su 5 in Italia sono donne, tra le professioni del restauro il rapporto tra donne e uomini è di 9:1.

Rispetto al futuro della cultura e ricerca tecnica e scientifica, invece, le donne devono compiere ancora molta strada.
Ancora troppo poche sono le donne scrittrici (40%), musiciste (8,7% le cantanti interpreti), scienziate (39,3% le laureate nell’area scientifica), soprattutto mano a mano che si salgono gli scalini del potere:  solo il 23% dei professori ordinari, ad esempio, sono donne.

Certamente, quindi, anche in questo ambito la Repubblica si deve attivare in modo specifico per promuovere la cultura e la ricerca delle donne, riconoscendone il nuovo ruolo sociale che si stanno conquistando in questi anni così difficili.

A cominciare dall’impegno culturale più importante di tutti: quella lotta contro il cambiamento climatico, che sta facendo emergere un protagonismo femminile sempre più attento, partecipe e determinato.

Il progetto La #Costituzionedelledonne: Che cosa rappresenta oggi per noi donne la Costituzione? Quanto ci sentiamo rappresentate, capite e considerate? Un articolo al giorno, per tutto il mese di maggio, perchè la Festa della Repubblica sia davvero per tutte e tutti.
https://www.ladynomics.it/la-costituzionedelledonne-articolo-9-cultura/?fbclid=IwAR1BdR59SZPuHjt7J4r52U1PKcUN29mXxDmD2dWARjoBp6_O7gx9pbazYNQ

lunedì 6 maggio 2019

Femminicidio, Censis: “In un anno uccise 120 donne. Di queste 92 sono state ammazzate dal partner o da un familiare

Secondo l'istituto, nei primi otto mesi del 2018, alle 2.977 violenze sessuali denunciate si aggiungono 10.204 denunce per maltrattamenti in famiglia, 8.718 denunce per percosse e 8.414 denunce per stalking. I reati di genere tendono però a diminuire e aumentano le donne "che si rivolgono alla rete dei centri antiviolenza 49.152 nel 2017"

Sono 120 le donne uccise tra il primo agosto 2017 e il 31 luglio 2018: di queste 92 sono state ammazzate in ambito familiare per mano del partner, dell’ex partner o di un altro familiare. Sono questi i dati pubblicati dal Censis sugli episodi di violenza di genere. Nei primi otto mesi del 2018, alle 2.977 violenze sessuali denunciate si aggiungono 10.204 denunce per maltrattamenti in famiglia, 8.718 denunce per percosse e 8.414 denunce per stalking. L’istituto di ricerca ha anche calcolato che, nell’ultimo decennio sono stati 48.377 i reati di violenza sessuale denunciati e in oltre il 90% dei casi la vittima era una donna. “L’unico dato positivo è che nell’ultimo anno tutti questi reati tendono a diminuire, mentre aumentano le donne che si rivolgono alla rete dei centri antiviolenza: 49.152 nel 2017, con 29.227 donne prese in carico dagli stessi centri”, continua il Censis.

In Italia le donne sono più numerose degli uomini e hanno livelli di istruzione più elevati. Ciò nonostante, l’effettiva parità di genere è ancora lontana. L’Italia si distingue nel panorama europeo come uno dei paesi con il maggiore ritardo in termini di partecipazione delle donne al mercato del lavoro e nelle opportunità di carriera. Con un tasso di attività femminile del 56,2% l’Italia si colloca all’ultimo posto nella graduatoria dei Paesi dell’Unione europea. Il tasso di disoccupazione femminile è pari all’11,8%: peggio di noi solo Spagna e Grecia. Una donna su tre svolge lavori part-time, nel 60,3% dei casi si tratta di part-time involontario. Le occupazioni femminili si concentrano soprattutto su posizioni impiegatizie: le donne manager sono appena il 27% del totale dei dirigenti, ampiamente al di sotto del valore medio europeo, che è pari al 33,9%. E gli impegni familiari ancora oggi gravano quasi esclusivamente sulle donne: nel nostro Paese l’81% delle donne cucina e svolge lavori domestici quotidianamente, e il 97% si prende cura ogni giorno dei figli.

All’interno del corpo sociale e nei diversi ambiti della vita quotidiana, continua il Censis, permangono dunque fattori di discriminazione, che nei loro tratti più estremi arrivano alla misoginia e possono sfociare nella vera e propria violenza contro le donne.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/03/femminicidio-censis-in-un-anno-uccise-120-donne-di-queste-92-sono-state-ammazzate-dal-partner-o-da-un-familiare/5152467/?fbclid=IwAR3M81vEjY1ARQLfKMTV7bzdzDiWHi8HdrBetq_p5KK0KeLHCVEo1

sabato 4 maggio 2019

Perché la meritocrazia ha fallito: sia con gli uomini che con le donne scritto da Riccarda Zezza

Durante uno di quegli incontri a porte chiuse tra manager di alto livello e imprenditori (15 persone intorno al tavolo) in cui pensi di avere il privilegio di ascoltare la parte più intelligente della storia, quella che di solito non finisce sui giornali, uno dei presenti – uomo di potere di circa 45 anni – prende la parola sul tema “quote rosa” e dice:

“Le uniche due CEO donna nel mondo in ambito food sono state due totali disastri, ed era impossibile toglierle da lì proprio perché donne”.

Normalmente non interromperesti un relatore così autorevole, ma non resisto e gli chiedo che cosa intenda esattamente con questa affermazione. Ottengo una spiegazione articolata del fatto che le quote rosa confliggono con la meritocrazia, creando delle selezioni basate su “altro”. Bisognerebbe invece lasciare che fosse il merito a guidare le scelte. Mi e gli domando quindi se è per meritocrazia che 95 amministratori delegati su 100 sono uomini.

E’ stato un uomo, il politico americano Daniel Patrick Moynihan a dire che “Ognuno ha diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti”, quindi andiamo a vedere che cosa ci dicono i fatti sul motivo per cui la moderna meritocrazia seleziona prevalentemente uomini per le posizioni di potere.

Il soffitto di cristallo è composto da un insidioso mix di fattori, e il non poterne isolare uno solo è una delle cause della sua scarsa frangibilità:
1) antropologicamente, per la nostra specie è naturale la selezione dei simili: tendiamo istintivamente a preferire chi ci assomiglia: stesso genere di appartenenza, stesso colore della pelle, modo di vestire, classe sociale, etc e questo fa sì che i sistemi già in essere tendano in modo naturale a preservarsi nel tempo.

2) la descrizione del “leader” pesca in un immaginario estremamente maschile: caratteristiche come l’assertività – che nelle donne diventa aggressività – la competitività, l’orientamento al risultato, l’estrema razionalità, provengono dalla storia di una leadership tradizionalmente maschile: la leadership femminile si esprime in modo diverso e non ha ancora scritto la propria letteratura.

3) nel bacino di manager da cui pescare per selezionare i leader, le donne sono ancora una minoranza; pur rappresentando ormai quasi il 50% della forza lavoro, sappiamo che la percentuale di presenza femminile diminuisce al salire nella gerarchia aziendale: sono donne il 30% dei manager, il 25% dei senior manager, l’11% dei dipendenti più pagati, meno del 5% degli amministratori delegati. Questo “funnel” è al tempo stesso la conseguenza dei fattori culturali citati sopra e la fonte di un ulteriore barriera: al momento di scegliere un top manager, il bacino di donne a cui guardare è ancora il più ridotto.

Vi sono molti altri fattori da considerare, il risultato (il “fatto” da cui non si può prescindere attraverso le proprie opinioni) è che, stanti così le cose, ci vorranno più di 100 anni per raggiungere le pari opportunità di genere nel mondo, secondo il World Economic Forum. E questa durata, che il centro di ricerca americano traccia annualmente, non fa che crescere.

Ma la legittima domanda: “come allargare le maglie che fanno arrivare le donne alle posizioni decisionali, nell’interesse della qualità delle decisioni che la nostra società prende?” può curiosamente anche essere invertita, secondo l’autore del libro “Come mai così tanti uomini incompetenti diventano leader, e come impedirlo”. Secondo Tomas Chamorro, infatti, il problema non sta tanto nel fatto che la selezione sia troppo dura per le donne, ma nella facilità con cui uomini con scarse qualità professionali vengono scelti a guidare team e aziende.

Invece di allargare le maglie per l’ultimo genere arrivato, bisognerebbe quindi trarre ispirazione dagli effetti benefici di un processo più selettivo – come sembra essere quello che oggi devono sperimentare le donne – per iniziare a selezionare meglio gli uomini.

D’altra parte anche qui i fatti parlano meglio delle opinioni: il 65% degli Americani dicono che, potendo scegliere, cambiare capo gli farebbe più piacere che ricevere un aumento di stipendio. Il (tentato) ingresso delle donne nelle stanze del potere potrebbe quindi aiutarci a rivedere il concetto stesso di meritocrazia: sono molti i dati che ci dicono che, da tempo, la meritocrazia non funziona più, se mai ha funzionato.
https://alleyoop.ilsole24ore.com/2019/05/03/meritocrazia-2/?fbclid=IwAR1FCSboP_SmlbS9uK6YJJ96hOjs9Nzrju8FoKnLoyTykgOOz54Y9AQMQjs

CINEFORUM DONNA 9 maggio alle 21,25 al cinema Cristallo

Il Circolo Donne S.Aleramo di Cesano B.ne con Demetra Donne di Trezzano e ventunesimodonna di Corsico in collaborazione con il cineforum Giovani il 9 maggio alle 21,25 al cinema Cristallo
Vi aspettiamo






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venerdì 3 maggio 2019

Il 40% delle ragazze 25-29enni non studia, non lavora e non lo cerca di Cristina Da Rold

Quattro giovani donne italiane su dieci fra i 25 e i 29 anni sono “inattive”, cioè non studiano, non lavorano, non cercano lavoro. Sono le cosiddette NEET. Fra i ragazzi della stessa età la percentuale è del 28%, che pone questo gender gap al quinto posto fra i più alti dell’area OCSE. La percentuale di inattive si abbassa man mano che cresce il livello di istruzione: fra le laureate di questa fascia di età lo è solo il 17%. Un dato interessante è che fra i 20-24enni, cioè i ragazzi appena più giovani, la percentuale di NEET è un po più bassa, il 30%, ma comunque alta se consideriamo che la media OCSE è del 16%.
Lo mette nero su bianco l’ultimo rapporto di OCSE “Education at a Glance 2018”  , che dipinge senza mezzi termini un’Italia che dà ancora troppo poche opportunità alle donne, anzitutto a quelle che non hanno studiato, complice un contesto poco favorevole. In generale fra maschi e femmine – ma il dato è molto interessante – 8 ragazzi su 10 con genitori che non hanno il diploma, non hanno a loro volta ottenuto un diploma, mentre la media OCSE è di 3,5 su 10.

Allargando il ventaglio alle 15-29enni (dato Istat) nel 2017 il 63% di loro è inattivo, contro il 53% dei maschi. E si consideri che la scuola dell’obbligo in Italia è prevista oltre i 15 anni.
Rimanendo invece sui dati OCSE, anche come percentuale complessiva di NEET fra maschi e femmine siamo al primo posto in Europa, attualmente al livello della Grecia. Gli inattivi rappresentano il 10% dei giovani fra i 15 e i 19 anni (contro l’8% della Grecia), il 30% dei 20-24enni (sono il 34% in Grecia) e il 34% dei 25-29 enni, contro il 35% della Grecia.

Se consideriamo invece la fascia di età dai 25 ai 34 anni (più adatta per fare una comparazione fra titoli di studio rispetto alle 15-29enni) vediamo che a essere inattiva è una giovane su 3, stessa percentuale di 15 anni fa. Lo sono 7 delle ragazze italiane su 10 senza alcun titolo di studio, così come la metà di quelle con la licenza media, anche se c’è uno scarto nord sud di 20 punti percentuali: al sud le inattive sono oltre 6 su 10. Fra le diplomate a essere inattive oggi sono 3,5 su 10 e il divario geografico è importante: al sud le inattive sono il doppio rispetto al nord. Sono inattive infine anche quasi 2,5 laureate su 10, il 17% al nord e il 38% al sud, dove in genere l’offerta di lavoro qualificato è più bassa rispetto al resto d’Italia. Un dato interessante è che è al nord che le cose sono andate peggiorando di più negli ultimi 15 anni per le ragazze con basso titolo di studio: nel 2004 era inattivo il 28% delle 25-34enni, oggi il 40%. Al sud si è rimasti stabili al 60% di inattività fra le ragazze di questa fascia di età.

E rispetto agli uomini? I dati parlano chiaro: per le giovani donne dunque vale l’adagio: meno studi, meno lavori e se lavori si va allargando il gap con i coetanei uomini: il divario fra tassi occupazionali di maschi e femmine è maggiore dove si studia di meno. In altre parole, lo svantaggio si accumula nel tempo.

Siamo senza dubbio di fronte a un’Italia a più velocità: per le laureate, il gap in termini di tasso occupazionale con gli uomini è sottilissimo: nel 2017 il 65% delle 25-34enni laureate lavora, contro il 69% dei maschi. Per le giovani donne che non hanno studiato invece è tutta un’altra storia: nel 2017 solo una donna su tre che non ha un diploma lavora (fra gli uomini della stessa età lavorano due su tre) e la metà delle diplomate (contro il 73% degli uomini).
Inoltre, proprio per le donne con la crisi le cose sono andate peggiorando. Nel 2007 lavorava il 42% delle 25-34enni senza un diploma e il 64% delle diplomate e il 69% delle laureate.

A confermare una certa differenza di genere, anche nel ruolo in famiglia, quanto a inattività fra la popolazione con basso titolo di studio è infine una nota statistica  pubblicata a luglio 2018 da ANPAL, che si riferisce alla Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro Istat 2013-17. Qui i NEET – sempre fra i 15 e i 29 anni – vengono suddivisi in quattro gruppi: il gruppo di coloro che sono “in cerca di occupazione”, che rappresenta il 41% del totale dei NEET, i ragazzi “in cerca di opportunità”, il 25% del totale; gli “Indisponibili”, che rappresentano il 19% e che sono prevalentemente donne nella maggioranza dei casi con oltre 25 anni e con figli. Infine, c’è il gruppo dei “disimpegnati”, che rappresenta il 15% del totale dei NEET e anche qui si tratta per lo più di donne tendenzialmente tra 25-29 anni, ancora una volta con figli.
Non si può non chiedersi quale possa essere in prospettiva il futuro di tutte queste giovani donne che non hanno o soprattutto non cercano una propria indipendenza economica.
https://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/09/23/40-delle-ragazze-25-29enni-non-studia-non-lavora-non-lo-cerca/?fbclid=IwAR13KGYDctkOPzMJuhxTN08cCTdusMSGNEoBk3rSdwOpVvzgM7I37Gol4oM

giovedì 2 maggio 2019

"A 35 anni mi hanno detto o lavori o fai la mamma. Ho scelto i miei figli. Ma questo succede solo in Italia"By Luciana Matarese

La storia di Marianna che ha dovuto lasciare il lavoro perché mamma. Secondo l'ispettorato del lavoro, il numero di sceglie stare a casa è in costante aumento

"Oggi nel mondo del lavoro tantissime di noi si trovano davanti a un bivio: o mantieni il posto di lavoro, magari con l'obiettivo di fare carriera, o fai la mamma. Ma le due cose dovrebbero poter coesistere, come succede fuori dall'Italia", dice d'un fiato Marianna Cammarota. Lei fa parte dell'esercito silenzioso di lavoratrici diventate mamme che per accudire i figli ha dovuto rinunciare all'impiego "conquistato con passione e sacrifici, era il lavoro che mi piaceva", aggiunge.

Ma Marianna è solo una delle tante. Si fa sempre più ripida la strada per le donne madri che vogliono - o devono, perché nella stragrande maggioranza dei casi spinte da difficoltà oggettive - mantenere il loro posto di lavoro. Migliaia di lavoratrici, in Italia, si trovano a fare i conti con l'impossibilità di portare avanti il loro impiego per occuparsi dei figli, il che vuol dire non avere altra scelta se non quella di dimettersi.

Marianna ha trentacinque anni, due figli gemelli di cinque, vive a Lissone, provincia di Monza. A luglio dell'anno scorso ha dovuto lasciare il posto di lavoro, contratto a tempo indeterminato, in una azienda, una S.p.a., 300 dipendenti, che si occupa di sicurezza e telecomunicazioni. "Ho dovuto mollare, non riuscivo più a seguire i bambini né potevo organizzarmi con mio marito, che fa il poliziotto e dunque deve rispettare dei turni stabiliti", sospira. La storia di Marianna è simile a quella di tantissime donne lavoratrici che diventano mamme. Trasferitasi dalla Sicilia a Milano quindici anni fa, nel 2007 entra nell'azienda in cui è rimasta fino all'anno scorso con un contratto a tempo determinato, che dopo due anni diventerà a tempo indeterminato. Nel 2013, subito dopo il matrimonio, nascono i due gemelli "e lì sono iniziati i problemi", sospira Marianna, che sa di non avere parenti su cui contare per l'accudimento dei figli, ma confida nella possibilità di trovare una soluzione con l'azienda. Così chiede e ottiene un part-time per tre anni, alla scadenza dei quali, nel 2017, "mi sono ritrovata di nuovo davanti alla scelta". Marianna ricorre alla cosiddetta "contrattazione di secondo livello", che, in assenza di politiche di sostegno, è l'unico fronte su cui le mamme lavoratrici possono muoversi interpellando, magari col supporto del sindacato, i vertici dell'azienda.

"Ho chiesto il part-time e mi è stato negato, così come un orario fisso 8-17, ma mi fu detto che, nel caso, avrei dovuto fare i turni e lavorare anche il sabato. Per me era impossibile - racconta Marianna - E poi, da quando ero diventata mamma, l'atteggiamento nei miei confronti era cambiato. Eppure negli anni l'azienda aveva investito su di me, mi aveva fatto fare un corso ed ero diventata tecnico informatico. Da quando ero diventata mamma, avvertivo che non c'era più la stessa stima di prima. Mi hanno fatto capire in molti modi, anche spostandomi da una parte all'altra, che per loro ero diventata un peso". Una situazione che, spiega, le è costata anche un danno psicologico.

"Da quando sono nati i miei figli, ho resistito quattro anni, poi mi sono ritrovata con le spalle al muro e ho dovuto mollare - aggiunge - Non ho avuto scelta, non avrei mai potuto conciliare vita familiare e vita lavorativa alle condizioni dell'azienda, eppure quel lavoro mi piaceva e mi serviva".

Ora Marianna è in disoccupazione e da settembre il sussidio diminuirà. Il suo obiettivo è trovare un nuovo lavoro, pure cambiando ambito e mansione. "Ho un attestato da operatore sanitario, potrei provare in un centro diurno in modo da lavorare fino alla 16 per potermi poi dedicare ai bambini", spiega e ha già pronta la risposta da dare se ai colloqui le chiederanno: "Vuole sposarsi? Vuole dei figli?".

Domande che difficilmente vengono rivolte a un uomo. "Si chiama colloquio differenziato - spiega ad HuffPost Tania Scacchetti, segretaria nazionale confederale della Cgil, che si occupa di mercato del lavoro - ed è sempre più diffuso nel nostro Paese. Si tratta di una discriminazione ab initio, anche rispetto al riconoscimento del valore sociale della maternità, che rende ancora più difficoltoso l'accesso delle donne al mondo del lavoro".

"Sono pronta, dovessero chiedermi se ho figli risponderò che questo non può essere considerato un problema - chiude Marianna - una mamma sul posto di lavoro ha la stessa affidabilità di una donna senza figli. Lo avrei dimostrato alla mia azienda alla quale io non avevo chiesto lo stipendio in regalo, ma che ci si venisse incontro conciliando le esigenze reciproche. Chiedevo una possibilità".

I numeri. Dal 2011 al 2017 - i dati sono dell'Ispettorato del lavoro - 165.562 hanno lasciato il posto di lavoro, principalmente per "incompatibilità tra l'occupazione lavorativa e le esigenze di cura della prole", si legge nell'ultimo monitoraggio aggiornato al 2017, che, con 30.672 dimissioni e risoluzioni contrattuali di lavoratrici madri (pari al 77 per cento delle 39.738 totali, in cui sono comprese anche quelle dei lavoratori padri) ha fatto registrare il numero più alto degli ultimi sette anni.

La crescita è stata costante e inarrestabile: nel 2011 le donne che si sono dimesse soprattutto perché impossibilitate a conciliare lavoro e maternità erano 17.175, sono diventate 18.454 nel 2012, 21.282 nel 2013, 22.480 nel 2014, 25.620 nel 2015, fino a toccare quota 29.879 nel 2016 e 30.672 l'anno dopo. Assenza di nidi aziendali, costi elevati per l'assistenza dei neonati, organizzazione e condizioni di lavoro ritenute gravose o difficilmente compatibili con l'esigenza di occuparsi dei figli: le ragioni, alle quali in alcuni casi si aggiungono la mancanza di una rete parentale di supporto, sono in gran parte riconducibili alla carenza di una politica di sostegno alla conciliazione vita-lavoro e, più complessivamente, alla genitorialità.

Niente bonus baby sitter. Invece, di recente, è stato cancellato anche il bonus baby sitter: dal 2013, quando fu introdotto, era stato confermato fino al 2018 e garantiva alle mamme lavoratrici che rientravano prima al lavoro - rinunciando al congedo facoltativo e allo stipendio al 30 per cento) 600 euro mensili per sei mesi per pagare asilo o baby sitter.

Rimane costante la tendenza secondo cui uomini, ma soprattutto donne, che si dimettono hanno prevalentemente un solo figlio o sono in attesa del primo, ma aumenta, e di molto, il numero di coloro che lasciano l'impiego a causa dei costi elevati di asili nido e baby sitter: nel 2017 sono stati 3014, più del doppio dei 1.475 del 2016.

Considerando anche la decisione del Governo giallo-verde di non rinnovare il bonus, misura non esaustiva ma che certo aiutava, il numero delle donne costrette a dimettersi per provvedere ai figli, dunque, negli anni a venire potrebbe continuare a crescere.

"Dati allarmanti, cosa fa il Governo". Per l'onorevole Cinque Stelle Maria Edera Spadoni, vicepresidente della Camera, attenta ai temi relativi alla donne e al lavoro, "la questione esiste e i dati sono allarmanti, sulla questione femminile c'è molto da fare prima di tutto sul piano culturale". Quanto alla misure a sostegno della maternità e della genitorialità, la vicepresidente della Camera garantisce che "nel Governo c'è grossa sensibilità", prova ne sono, a suo avviso, "la riconferma, nella legge di bilancio 2019/2021, del bonus bebè e del bonus asilo nido, e, nel Def, il rifinanziamento, del fondo per le Politiche sociali e quelli per le politiche della famiglia e l'assistenza agli alunni disabili. E poi - conclude Spadoni - ci sono reddito di cittadinanza e "Quota 100" che certamente aiuteranno anche le donne".

Resta il trend registrato dall'Ispettorato del lavoro, forse poco noto, certo poco raccontato eppure drammatico, che rischia di spingere ancora di più le donne nell'angolo in cui, nei fatti, la relegano un certo disinteresse del legislatore, il dibattito in corso sul ruolo della famiglia tradizionale - con l'uomo che lavora e la mamma che sta a casa con i figli - e anche quanti, pur senza dichiararlo espressamente sostengono in realtà che "le donne possono essere o tabernacoli o assassine" - come ha scritto di recente Lidia Ravera.

Lo sciopero delle mamme. Vogliono una possibilità i lavoratori e le lavoratrici della "eDreams", multinazionale spagnola che si occupa della vendita di pacchetti vacanza. Dei circa 90 dipendenti, 65 sono donne, età media 35 anni. Molte mamme o future mamme, che lavorano, qualcuna anche da vent'anni, per turni. Negli ultimi due anni poco meno di dieci si sono dimesse per l'incompatibilità tra turni e vita familiare, dopo essere diventate mamme. Il 23 aprile, a Milano, i lavoratori hanno incrociato le braccia per due ore in quello che è stato definito "lo sciopero delle mamme". Il tema è, ancora una volta, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

"Forse a volte ci si dimentica che dietro un telefono o un computer ci sono persone, come noi. Un'agenzia per quanto on line, dietro un sito ha dei lavoratori, che in questo caso, lavorano su turni, 363 giorni all'anno - scandisce ad HuffPost, Marco Beretta, segretario Filcams Cgil Milano, che sta seguendo il caso - Più volte nel corso degli anni, sono state svolte assemblee dei lavoratori in cui questi ultimi hanno segnalato forti difficoltà a conciliare i tempi lavorativi con quelli al di fuori dell'ufficio. Abbiamo provato a discuterne con l'azienda, proponendo anche valide soluzioni per affrontarli, con una sola unica risposta: la totale chiusura. Rifiutarsi di sedersi ad un tavolo e discutere di questi temi, vuol dire non considerare l'importanza del principale motore dell'azienda: i lavoratori". E le lavoratrici.
https://www.huffingtonpost.it/2019/05/01/a-35-anni-mi-hanno-detto-o-lavori-o-fai-la-mamma-ho-scelto-i-miei-figli-ma-questo-succede-solo-in-italia_a_23719985/?fbclid=IwAR3UPWIe2nVecP-coVgDW7t2DOE9yD8s8MaEXVfZG5qGZnDBXnj6siH3SOg

mercoledì 1 maggio 2019

“Cari sindacati, il Concertone senza donne è una vergogna”

Valeria Fedeli, Anna Ascani, Silvia Costa e altre 21 donne hanno firmato una lettera aperta a Cgil, Cisl e Uil sullo spettacolo del 1º maggio privo di soliste: "È una scelta intollerabile e ingiustificabile. Come irricevibili sono le motivazioni avanzate dagli organizzatori della kermesse"

Alle segreterie di Cgil, Cisl e Uil

Con forte stupore e disappunto abbiamo appreso che quest'anno su oltre trenta nomi presenti in scaletta, nemmeno una solista donna si esibirà sul palco di Piazza San Giovanni a Roma per il tradizionale concerto che da 29 anni i sindacati organizzano il 1 Maggio per celebrare la Festa dei Lavoratori e delle Lavoratrici. Un appuntamento che ha sempre rivestito un significato sociale, politico e culturale che va ben al di là dello spettacolo in sé e per sé e che, grazie proprio all'iniziativa unitaria di Cgil, Cisl e Uil, ha avuto la fondamentale funzione di diffondere, soprattutto tra i più giovani, il valore del lavoro come fondamento della nostra Repubblica democratica, diritto fondamentale per tutte e tutti attraverso il quale i cittadini, donne e uomini, partecipano al benessere sociale ed economico del Paese.

Sorprende, pertanto, che proprio i sindacati possano aver avallato una scelta che è difficile non definire di rimozione dei talenti e professionalità femminili e quindi sessista, contraria a quei valori e principi che affondano le radici nel pieno riconoscimento della pari dignità di tutte e tutti senza distinzione alcuna a partire da quella di genere. L'esclusione delle donne dal palco di Piazza San Giovanni è una scelta intollerabile e ingiustificabile. Come irricevibili sono le motivazioni avanzate dagli organizzatori della kermesse secondo i quali nessuna delle artiste contattate per partecipare avrebbe dato la propria disponibilità a causa di impegni già assunti.

La stragrande maggioranza dei nomi che il prossimo 1 Maggio saliranno sul palco sono infatti di artisti emergenti per i quali il Concertone rappresenta una vetrina importante. È credibile che tra loro, eccetto le pochissime che si esibiranno in quanto componenti di una band, non si sia trovata nemmeno una donna disponibile a promuovere la propria musica in un contesto così popolare? È accettabile che a nessuna sia stata offerta la stessa opportunità di esibirsi in diretta Rai?

Una Rai altrettanto colpevole. Nonostante sia vincolata a un contratto di servizio che prevede il superamento degli stereotipi di genere "al fine di promuovere la parità e di rispettare l'immagine e la dignità della donna anche secondo il principio di non discriminazione", come già accaduto con il Festival di Sanremo, anche in questa occasione il servizio pubblico offrirà una rappresentazione parziale e quindi discriminatoria della scena artistica e musicale italiana.

Riteniamo peraltro provocatorio il post che, nel goffo tentativo di porre rimedio, gli organizzatori hanno pubblicato su Facebook e in cui compare la foto dello staff al lavoro dietro le quinte accompagnata dalla didascalia "Lo sapete che il 1 maggio 2019 è un evento a trazione femminile?". A "trazione femminile" sì, ma solo nelle retrovie mentre sul palco, sotto i riflettori, ci saranno solo maschi. Come purtroppo succede in tanti altri ambiti della società dove le donne sono relegate a ruoli secondari se non, come in questo caso, invisibili.

Senza nulla togliere al valore artistico dei cantanti presenti, l'assenza di soliste donne non è inaccettabile solo da un punto di vista politico, sociale e culturale ma crediamo anche che abbassi il livello della qualità dello spettacolo. La diversità di generi (musicali) e di genere costituisce infatti una ricchezza sempre, un valore aggiunto in ogni contesto. Siamo pertanto al fianco del gruppo di artiste che si stanno facendo promotrici, sempre nel giorno del 1 maggio, del concerto #Maicosìtante per dimostrare che le donne cantanti e musiciste esistono e non possono essere discriminate o escluse da nessun ambito pubblico.

Valeria Fedeli, senatrice Pd
Elisabetta Addis, economista
Luisa Algranati Cusenza, Università di Bordeaux
Anna Ascani, deputata e vicepresidente nazionale Pd
Gabriella Anselmi, presidente Nazionale Fildis
Chiara Bagni Morandi, Pres Naz. DNG Donne e Violenza
Claudia Barbarano, Assemblea Regionale Pd Lazio
Letizia Battaglia, fotografa
Chiara Berti, capogruppo maggioranza Unione dei comuni della Romagna Faentina
Edda Billi, presidente Alma Sabbadini Casa Internazionale delle donne Roma
Gemma Bracco, Consigliere di parità della Provincia di Perugia
Lucia Caponera, associazione Arcilesbica Roma
Monica Carpacci, Pres. Assalto al Cielo
Marilù Chiofalo, direzione Regionale Pd Toscana
Marta Ciavarella, Giurista
Mirella Cocchi, Comp. Commissione Pari Opportunità Regione Toscana
Laura Coccia
Sabina Colletti, Associazione Pari Diritti Roma
Anna Paola Concia
Gabriella Corsaro, responsabile organizzazione Pd Parma e segretaria Circolo Pd Oltretorrente
Silvia Costa, europarlamentare Pd
Claudia Daconto, segreteria Pd Roma
Diana De Marchi, presidente Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili Comune di Milano
Eleonora De Nardis, giornalista Aracne
Alfosina De Sario, Commissaria Questura di Foggia
Marina del Vecchio, Casa Internazionale delle Donne Roma
Michela Di Biase, consigliera regionale Pd del Lazio
Nadia di Sabato, CPO Ordine Avvocati Foggia
Titti Di Salvo, segreteria Pd Roma e presidente Led - Diritti e Libertà
Teresa Esposito, dirigente provinciale e regionale Pd Calabria
Annamaria Ferretti, Casa Del Mediterraneo delle Donne Bari
Gilda Galleati, Mise
Mariapia Garavaglia, Senatrice
Bettina Giordani, presidente Fidapa Roma
Giulia Giuliani, musicista
Vanna Iori, senatrice Pd
Maria Rosaria Judice, CPO Ordine Avvocati di Foggia
Lucia La Torre, Vice Presidende Nazionale Terziario Donna
Mary Longano, segretaria provinciale Diritti e Pari Opportunità Provincia di Novara e assessora per il Comune di San Nazzaro Sesia
Elena Luviso, Sapienza, Pres Nazionale Donne in Gioco | ADECOC| Diritti e Culture Organizzare Comunicando
Simona Malpezzi, vicepresidente Senatori Pd
Maria Pia Mannino, ex responsabile Pari Opportunità Uil
Elena Marinucci, fondatrice Commissione Nazionale Pari Opportunità
Silvia Oddi, Vice Presidente Associazione Alma Cappiello
Stella Palumbi, Università Reggio Calabria
Ros Parisi, Università di Foggia
Franca Pinto Minerva, Università di Bari
Marinella Perroni, teologa e biblista
Patrizia Prestipino, deputata Pd
Caterina Pucci, presidente Commissione di garanzia provinciale Pd Macerata, direzione Pd Civitanova Marche
Luisa Rizzitelli, presidente Assist - Associazione Nazionale Atlete
Miriam Russo, studentessa Chieti
Flaminia Saccà, docente di Sociologia Politica Università della Tuscia
Alessandra Sannella, referente di Ateneo RUS, Università di Cassino e del Lazio Meridionale
Giulia Spaziani, Pres. Spazio Musica Parlemo
Fiorenza Taricone, Ref Laboratorio Anti Discriminazione Università Cassino e Lazio Meridionale
Carmela Tarquini, ADECOC Termoli
Bambina Turano
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/04/29/primo-maggio-concertone-donne-cgil-cisl-e-uil/41975/?fbclid=IwAR0tK3qXM5qdhHJuN0ABHgewzcWLCov7RLVGojuS5e4owX9IF3yYEXgpUmY