venerdì 23 dicembre 2016

Parole giuste nelle cronache di femminicidio L'Ordine nazionale ha adottato il decalogo che detta linee guida su come trattare i casi di femminicidio. Grazie anche all'intervento di Giulia

Il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti ha fatto proprio, in piena condivisione, il documento della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) a proposito di violenza sulle donne, elaborato nel solco della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993.

In particolare il documento richiama i giornalisti all'uso di un linguaggio corretto, cioè rispettoso della persona, scevro da pregiudizi e stereotipi, ad una informazione precisa e dettagliata nella misura in cui i particolari di un accadimento siano utili alla comprensione della vicenda, delle situazioni, della loro dimensione sociale. Ad esempio, adottando nei casi di femminicidio il punto di vista della vittima, possiamo ridarle la dignità e l'umanità che, in una cronaca quasi sempre centrata sulla personalità dell'omicida, vanno perdute.

Ancora il documento offre indicazioni importanti circa il rapporto che il/la giornalista può instaurare con chi ha subito violenza, salvaguardandone l'identità, evitando la descrizione circostanziata dei luoghi, preservando quindi il diritto alla privacy.

Il testo sottolinea inoltre l'opportunità di arricchire la narrazione di dati, annotazioni, pareri di esperti che servano a collocare gli atti di violenza nel loro contesto storico e culturale, consentendo ai lettori di comprendere quanto sia infondata la convinzione che "la violenza sulle donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile".

Il Consiglio Nazionale dell'Ordine promuoverà la massima diffusione di questo documento, in tutte le sedi possibili, a partire dalle scuole e dai corsi di formazione professionale.
http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=92540&typeb=0

giovedì 22 dicembre 2016

Amiche in Arena: Il finanziamento sostiene 10 Centri antiviolenza della rete D.i.Re

La Rete nazionale dei Centri Antiviolenza D.i.Re ha ricevuto da Amiche in Arena una donazione di € 150 mila in occasione del concerto del 19 settembre scorso contro la violenza alle donne all’Arena di Verona. Una donazione preziosa di cui siamo profondamente grate a Fiorella Mannoia, Loredana Bertè e a tutte le artiste che si sono esibite gratuitamente, raccogliendo fondi per sostenere i Centri antiviolenza.
Abbiamo scelto 10 Centri antiviolenza della nostra Rete, associazioni in grave difficoltà economiche, che non hanno avuto accesso ai finanziamenti dell’ultimo bando del Dipartimento per le pari Opportunità e non hanno finanziamenti da Enti locali per poter sostenere adeguatamente l’attività di accoglienza e di accompagnamento delle donne fuori dalla violenza.
D.i.Re ha dunque scelto, fra diverse richieste, 10 Centri, quelli più a rischio di chiusura, e ha versato la donazione di Amiche in Arena per sostenerli. I due criteri fondamentali per la scelta sono stati: difficoltà economica grave e validità del progetto.
Purtroppo non è stata una scelta facile. I Centri antiviolenza destinatari della selezione interna sono sia del nord che del sud d’Italia, uniti dalla volontà di aiutare donne nel percorso di uscita dalla violenza.
I centri beneficiari sono:
Associazione Vivere Donna di Carpi con il progetto “Il Centro al centro”;
Associazione Donne Insieme di Piazza Armerina con il progetto “Insieme per D.i.Re No alla violenza”;
Centro contro la violenza alle donne Roberta Lanzino di Cosenza con il progetto “Donne che aiutano le donne”;
Associazione Safiya di Polignano a Mare con il progetto “Una più una”;
Associazione Donne in Genere di Roma con il progetto “Uno spazio di libertà delle donne per le donne”;
Associazione Attivamente coinvolte di Tropea con il progetto “Con-tatto: le donne per le donne”;
Associazione EOS di Varese con il progetto “La stanza delle donne”;
Casa delle donne di Viareggio con il progetto “R-Esistere. Coordinate contro la violenza”;
Associazione Io Donna di Brindisi con il progetto “SoS Teniamoci”;
Associazione Donne contro la violenza di Crema con il progetto “Batti 5 contro la violenza”.
Certe di una buona riuscita di tutte le proposte D.i.Re ringrazia ancora le artiste coinvolte nel Progetto in Arena per la grande opportunità offerta confidando ancora nella vendita del CD del concerto appena uscito, che potrà anche esso sostenere ed aiutare altri Centri in difficoltà.
D.i.Re coglie l’occasione per invitare tutte le artiste coinvolte a visitare i nostri Centri. Saremmo liete di ospitarvi per una giornata e farvi conoscere i nostri centri ricchi di accoglienza ed ospitalità a partire dalle operatrici, volontarie e attiviste che animano i nostri luoghi.
http://www.direcontrolaviolenza.it/amiche-in-arena-il-finanziamento-sostiene-10-centri-antiviolenza-dela-rete-d-i-re/

martedì 20 dicembre 2016

avviso importante

 da venerdì 23/12, per il periodo delle festività natalizie, il Centro Antiviolenza distrettuale Cadmi - La Stanza dello Scirocco 
riceverà le donne del distretto, che dovessero farne richiesta lasciando messaggio in segreteria al numero verde 800049722, presso gli uffici Cadmi di Milano in via Piacenza 14. 
L'ascolto della segreteria telefonica verrà effettuato in diversi momenti del giorno.

lunedì 19 dicembre 2016

Non è un addio Fermiamo le edizioni cartacee di NOIDONNE e consegniamo alla dimensione virtuale la possibilità di continuare un cammino iniziato oltre 72 anni fa... Tiziana Bartolini

Fermiamo le edizioni cartacee di NOIDONNE e consegniamo alla dimensione virtuale la possibilità di continuare un cammino iniziato oltre 72 anni fa. Non consideriamo questo un addio, quindi, ma un approdo che ci consente di esplorare nuovi territori contando sul sostegno delle lettrici fedeli e sulla possibilità di incontrarne di nuove.
Siamo convinte, infatti, che questo giornale abbia un futuro che va immaginato a partire dai traguardi raggiunti e che lo hanno inserito pienamente nel presente, accettando l’incalzare della tecnologia e la sfida dell’innovazione nei linguaggi e nei contenuti.
NOIDONNE è già pronto per costruire il suo domani, è disponibile ad accogliere le sollecitazioni e ad interpretare la complessità che ci riguarda come donne. Il settimanale on line NOIDONNE WEEK esce regolarmente da anni, siamo sui social e presto rinnoveremo il sito e avvieremo la digitalizzazione dell’archivio storico. Ci attende un lavoro impegnativo che richiede impegno e risorse. Ti invitiamo quindi ad essere ancora con noi per condividere una bella storia scritta dalle donne. Pensiamo che sia significativo il fatto che ci troviamo a voltare pagina proprio mentre Hillary Clinton perde le elezioni. La sua sconfitta, che ci colpisce tutte profondamente, è di portata storica e va esaminata negli aspetti più oscuri e nelle sue molteplici sfaccettature anche come sconfitta di una interpretazione del femminile che non ha avuto successo. Eppure le donne devono essere parte attiva degli imponenti cambiamenti cui assistiamo visto che la posta in gioco è la costruzione di un nuovo ordine mondiale economico e civile.
In questo contesto anche il sistema dell’informazione sta cambiando profondamente e il NOIDONNE che si è ricostruito un varco nel terzo millennio - riprendendo nel 2000 le pubblicazioni dopo ‘la grande crisi’ degli anni ‘90 - termina le edizioni cartacee con la soddisfazione di aver aggiunto un pezzo consistente ad una lunga storia iniziata nel 1944.
Non nascondiamo il dolore di una scelta pesante ma non più rinviabile e per congedarci ‘dalla carta’ con tutto l’orgoglio che merita il nostro giornale ripubblichiamo gli inserti usciti nei mesi del 2014 per i settanta anni del giornale: una cavalcata attraverso le straordinarie esperienze, le dure lotte e le indimenticabili protagoniste che hanno fatto la storia delle donne e della democrazia del nostro paese. In questo numero gli anni più recenti li raccontano Nadia Angelucci e Elena Ribet, socie della Cooperativa Libera Stampa, editrice di NOIDONNE. Un commiato lo firma, Giancarla Codrignani, socia che da anni scrive ed è autorevole punto di riferimento. Costanza Fanelli, attualmente presidente della cooperativa, e che a lungo ha ricoperto lo stesso ruolo in anni passati, scrive alcune riflessioni. Da noi tutte un ringraziamento va a Isa Ferraguti, presidente che l’ha preceduta in anni difficili.
E la sottoscritta?.. Ho avuto l’onore di pilotare una piccola e fragile imbarcazione con un nobile passato e un presente incerto. L’ho fatto cercando di compensare con l’entusiasmo e la fantasia la perenne assenza di risorse economiche nell’intento di non disperdere una storia di donne meravigliosa ed unica. E l’ho fatto - in tutta onestà e libera da pregiudizi - con generosità e professionalità, con rigore e amore, accogliendo idee e persone. Uno stile che ha permesso al giornale di guardare oltre vecchi attriti, mai sopiti, che lo hanno attraversato in passato. Un approccio che ci permette di fermarci, adesso, senza debiti e - lo sottolineo con orgoglio - senza flessioni nelle vendite e negli abbonamenti.
Questo lungo tratto di strada, dal 2000 ad oggi, è stato possibile percorrerlo grazie a tante amiche fedeli e sincere che hanno contribuito in vario modo avendo in cambio “solo” la gioia di far viaggiare parole e pensieri di donna, di offrire spazi ad altri sguardi e notizie. Le ringrazio e le abbraccio calorosamente una ad una e mi spiace non poterle citare tutte. I loro nomi firmano, numero dopo numero, agli articoli che ci hanno regalato. Innumerevoli e preziosissimi, poi, i contributi che non sono rintracciabili nel giornale ma senza i quali tutto sarebbe stato più difficile se non impossibile. Prima di tutto le diffonditrici che non ci sono più e che ricordiamo con immenso affetto: Anna Lizzi Custodi e Anna Marciano. Ringraziamo Vanna Zanini e Maria Del Re, che vendono il giornale nei loro quartieri, e Grazia Giurato per una generosità spesso rinnovata. Ci sono poi tanti e tanti gruppi che hanno costantemente contribuito alla diffusione straordinaria dell’8 marzo, a partire da molte realtà dell’Udi per arrivare ai gruppi dello Spi, della Cgil, dell’Auser e di tante altre associazioni e gruppi di tutte le regioni. È doveroso in questa circostanza dare un riconoscimento all’apporto di due uomini senza i quali NOIDONNE non avrebbe avuto questi 16 anni di vita: Roberto Rossi, che ha stampato dal 2000 al 2005, e Rinaldo, che da oltre 12 anni gestisce da volontario e con certosina meticolosità le complesse incombenze amministrative, noiose ma indispensabili per il funzionamento di un’impresa.
Ci aspetta un grande lavoro che non si profila meno difficile soprattutto per la sostenibilità economica. Ma è un lavoro che contiamo di fare insieme a te e con tante altre donne. Quelle da sempre affezionate a questo giornale e le tante - soprattutto giovani - che contiamo di avvicinare perché dalla nostra abbiamo un’arma formidabile: la consapevolezza di una comunanza di sentimenti che va coltivata.
Il sito www.noidonne.org sarà il nostro luogo di incontro e di elaborazione.
Ci troverai lì per condividere il piacere di un’informazione originale e all’insegna della ricerca.
http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=05692

domenica 18 dicembre 2016

Guerra in Siria: ad Aleppo le donne si suicidano per non finire vittime di stupri dei miliziani

Orrore senza fine ad Aleppo, dove continua la strage dei civili, soprattutto di donne e bambine. A questo scenario si aggiunge una larga fetta di popolazione rimasta intrappolata nella città sotto assedio. Mentre infatti gran parte del quartiere orientale di Aleppo è stato liberato delle forze lealiste fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad e ci sono scene di giubilo, in alcune zone molte persone risultano intrappolate. Tra questi, le donne che si suicidano per non finire vittime di stupri dei miliziani. Almeno 20 donne siriane si sono uccise.
A questi 20 terribili suicidi accertati, si aggiungerebbe la richiesta disperata di molte giovani ai loro padri o fratelli di essere ammazzate per lo stesso motivo. Non vogliono essere catturate e stuprate dai miliziani. Questo quanto riporta il New York Times.
A confermarlo anche i tweet del religioso Muhammad Al-Yaquobi, fuggito dalla Siria, al quale hanno chiesto in molti il permesso di uccidere mogli, figlie o sorelle per salvarle dallo stupro. Richieste e storie agghiaccianti, che nel corso del conflitto siriano sono venute spesso a galla grazie ai social. Il suicidio tra l’altro non è permesso nell’Islam, quindi le donne e i loro familiari chiedono una sorta di “permesso”.
Sempre su Twitter leggiamo infatti di una ragazza che annuncia il suo suicidio, “una delle donne di Aleppo che nel giro di poche ore potrebbe essere stuprata”.
La ragazza in questione però non chiede né perdono, né il permesso:
 “Non voglio niente da voi, neanche le preghiere. Sono ancora in grado di parlare e credo che le mie preghiere siano più sincere della vostra. Tutto quello che chiedo è di non prendere il posto di Dio e giudicarmi quando mi suiciderò. Ho intenzione di farlo e non mi preoccupo se mi condannerete all’inferno. Ho intenzione di togliermi la vita perché così il mio corpo non potrà apportare alcun piacere per coloro che non avevano nemmeno il coraggio di pronunciare il nome di Aleppo pochi giorni fa. Ho intenzione di suicidarmi ad Aleppo, perché il giorno del giudizio è appena arrivato e non credo che l’inferno sia peggio di quello che già stiamo vivendo…”.
Non poco tempo fa era venuto fuori il simile destino di molte donne catturate dall’Isis: schiave sessuali o vendute nei mercati.
Sempre più appelli via Twitter di donne e civili
Molti nel corso degli anni gli appelli che i siriani hanno rivolto a noi occidentali per denunciare lo scempio, l’orrore che si sta consumando in Siria. O almeno quando le bombe non tolgono la poca elettricità che hanno. Raccontano l’orrore, la paura, l’angoscia. Come l’attivista Lina Shamy che vive ad Aleppo e lunedì sera ha pubblicato un video su Twitter, forse la sua ultima apparizione. E forse tanti orrori neppure li conosciamo.
LEGGI L’ULTIMO RAPPORTO SULLA GUERRA CIVILE IN SIRIA
I negoziati al momento stanno trattando per organizzare dei passaggi per i civili e consentire loro di uscire fuori dalla città e questo permetterebbe a donne e bambini di mettersi al sicuro: al momento infatti molti di loro tentano di salvarsi accovacciandosi sotto ciò che rimane degli edifici bombardati o proteggendosi tra le macerie della loro città.
Le 20 donne coraggio siriane vanno ad aggiungersi alla lista di morte che solo nelle ultime 24 ore ha fatto 82 vittime, molti delle quali bambine e donne. E che nonostante il gesto coraggioso e che chiede giustizia, rimangono con il loro corpo senza vita in mezzo alla strada. Nessuno infatti a causa dei continui bombardamenti prova a recuperarli.
Un quadro desolante e drammatico che una volta per tutte il mondo deve arrestare.
http://www.pourfemme.it/articolo/regali-di-natale-per-le-amiche/6739/

mercoledì 14 dicembre 2016

Pensare in modo diverso la politica Lea Melandri

Scambiare la libertà che le donne vanno faticosamente conquistando, a cominciare dalla vita di ogni giorno, con la volontà di sopraffazione del maschio appartiene ancora una volta all’immaginario maschile, ricorda Lea Melandri. È una trappola che ha una lunga storia ma emerge oggi anche nei film della Disney (come Oceania, definito “film femminista”, dove lei è una eroina e lui un bamboccione, che finisce di rafforzare l’idea sbagliata secondo cui le femministe vorrebbero un mondo di donne forti e uomini deboli). Quello che invece i movimenti delle donne negli anni Settanta hanno iniziato a sperimentare – ad esempio con l’autocoscienza – è una critica a tutte le forme di potere, è pensare differentemente la politica, cioè “portare l’attenzione sulla soggettività di ognuna, attraverso la relazione con le altre donne, intendere la libertà come processo di liberazione (presa di coscienza) dalla complicità profonda con il pensiero maschile…”
Elisa Giomi ha giustamente criticato sulle sue pagine facebook il titolo della Stampa riguardante il nuovo film della Disney: “Lei è una eroina, lui un bamboccione. Con ‘Oceania’ il cartone di Natale diventa femminista”:
“Si rafforza così l’idea (sbagliata) secondo cui le femministe vorrebbero un mondo di donne forti e uomini deboli. Ci piacerebbe, invece, trasmettere la convinzione che – a prescindere dal proprio genere – per dimostrarsi forti non serve avere accanto una persona più debole, logica che alimenta la cultura della violenza e del bullismo e che NON appartiene al femminismo”.
Sono d’accordo con Elisa: il femminismo ha significato la critica a tutte le forme più o meno violente, più o meno manifeste di potere. Scambiare la libertà che le donne vanno faticosamente conquistando con la volontà di sopraffazione del maschio appartiene ancora una volta all’immaginario maschile. Riproporlo è profondamente diseducativo, ma non si può neanche ignorare l’ambigua seduzione che esercitano sulle donne stesse le figure di un femminile eroico, maternamente o virilmente salvifico.
La fantasia del “capovolgimento” del potere tra i sessi ha una radicamento antico, che andrebbe indagato più attentamente, e che ne spiega la durata.
Qualche riflessione.
Si può ipotizzare che all’origine del processo di differenziazione che ha visto l’uomo riservare a se stesso il versante della storia (pensiero, linguaggio, decisionalità politica) e alla donna quello della natura, dell’animalità, del supporto indispensabile al suo destino pubblico, ci sia, oltre e più ancora che la capacità generativa femminile – rispetto alla quale l’uomo si è trovato in posizione di marginalità, invidia, bisogno di rivalsa -, l’esperienza della nascita dal corpo della donna, un vissuto di inermità, dipendenza, sopravvalutazione della potenza materna da parte dell’uomo figlio.
Come dice candidamente Rousseau, nella guerra tra i sessi, è stato il più debole ad avere la meglio sul più forte.
Il dominio maschile si impone come rivalsa, controllo, sfruttamento della donna-madre, che verrà così a trovarsi al centro di una evidente contraddizione: esaltazione immaginativa, per dirla con le parole di Virginia Woolf, e insignificanza storica.
Tradotto in termini più attuali: assistiamo oggi da un lato al riconoscimento, quanto meno verbale, delle “doti femminili” come risorsa preziosa per l’economia e la politica, e dall’altro a quello che Marina Piazza chiama, documentandolo ampiamente in un libro omonimo, “lo scacco della maternità”.
Questa aporia, che ha a che fare con l’origine del rapporto tra i sessi, con la costruzione delle identità di genere, e soprattutto con la collocazione del materno al centro della “differenza femminile”, della sua presunta ‘naturalità’, non poteva non emergere in quei movimenti delle donne che hanno pensato di avvalersi della figura reale o simbolica della madre per emanciparsi.
Uso volutamente la parola emancipazione per indicare sia l’emancipazionismo tra Ottocento e Novecento, sia le teorie filosofiche del “pensiero della differenza” degli anni Ottanta e Novanta, sia quella che oggi viene definita la “femminilizzazione” dello spazio pubblico, considerata anche da alcuni gruppi femministi un’opportunità per acquisire potere e portare cambiamenti significativi al mondo del lavoro e della politica.
Riservo invece la parola liberazione a quello scarto, o discontinuità, che ha prodotto nella coscienza storica il femminismo degli anni Settanta, in cui è stata proprio l’identificazione della donna con la madre, della sessualità con la procreazione, a essere fatta oggetto di critica e di cambiamento.
Ci si accorge in sostanza che l’espropriazione più profonda che le donne hanno subìto riguarda, più ancora che il loro ruolo di genitrici, la loro individualità, il loro essere, prima che mogli e madri, delle persone. È solo nel momento in cui le donne riconoscono e si legittimano una sessualità propria che la maternità da destino può diventare una scelta.
Negli anni Settanta quindi si profila un orizzonte interpretativo nuovo, inedito, rivoluzionario rispetto all’esistente: al posto della coppia originaria madre e figlio – quella su cui si può ipotizzare che si sia costruita la visione dualistica del mondo che è arrivata fino a noi – viene messa la relazione tra individui di un sesso e dell’altro; si comincia a distinguere la femminilità e la maschilità come costruzioni sociali, culturali, immaginarie, dall’essere reale dell’uomo e della donna. Si tratta di uno spostamento radicale di prospettiva che si tradurrà nelle pratiche anomale dell’“autocoscienza” e della “pratica dell’inconscio”: una riflessione collettiva sui vissuti personali, l’analisi della violenza che passa invisibile attraverso l’incorporazione di modelli di potere imposti, la lenta modificazione di sé come presupposto per la modificazione del mondo.
L’autocoscienza, come scrive Maria Luisa Boccia nel suo libro La differenza politica, è la prima forma di un “pensare differentemente la politica”, vuol dire portare l’attenzione sulla soggettività di ognuna, attraverso la relazione con le altre donne, intendere la libertà come processo di liberazione (presa di coscienza) dalla complicità profonda con il pensiero maschile.
“Una donna deve innanzitutto logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la cultura dell’uomo l’ha dotata. All’identità femminile, prodotta dall’uomo, subentra ‘un io non conforme’ alla femminilità ed è da questo movimento della singolarità in relazione che prende forma la soggettività sessuata”.
È da questa critica alla femminilità tradizionalmente intesa che parte la presa di distanza del movimento degli anni Settanta dall’emancipazionismo del primo Novecento.
http://comune-info.net/2016/12/pensare-in-modo-diverso-la-politica-disney/

martedì 13 dicembre 2016

I mille (e più) giorni di sessismo su Laura, Maria Elena e Agnese di Fabiana

Dalla formazione del Governo Renzi fino alla caduta, avvenuta  domenica scorsa dopo la vittoria del no al referendum, quello che sicuramente più ricorderemo di questi mille giorni di governo sono gli insulti più o meno violenti e i linciaggi che si sono scatenati sul web.
Oltre che al diretto interessato —a cui ovviamente è lecito muovere critiche e disapprovazione— le più colpite sono state in particolare tre donne: Boldrini, Boschi e sua moglie Agnese Landini.
Per Boldrini, su cui ho già avuto modo di esprimermi in diverse occasioni, i giorni di sessismo sono stati molto più di mille, partendo dal famoso episodio in cui Beppe Grillo, in uno dei suoi tanti post acchiappaclick, incitava i suoi accoliti a esprimersi nel caso in cui si fossero trovati in macchina con Boldrini.
Ovviamente quello che ne scaturì fu una delle pagine più vergognose non solo della storia della politica ma anche dell’umanità .
Nessuno dei cinque stelle si curò di scusarsi con la Presidente della Camera, ma anzi, l’allora capo della comunicazione, Claudio Messora, in un tweet, rasserenò Boldrini di non correre alcun rischio di stupro alludendo al suo non appetibile aspetto fisico perché, secondo l’illuminato Messora, solo le donne giovanissime e bellissime sono vittime di violenza sessuale.
Ma ovviamente non fu l’unico episodio in cui Laura Boldrini fu bersaglio di insulti misogini e imbarazzanti.
Oltre ai cinque stelle anche Salvini più volte è stato fautore di attacchi vergognosi ai danni di Boldrini. Tra gli altri ricordiamo quando, in uno squallido spettacolino, la paragonò a una bambola gonfiabile.
Proprio qualche giorno fa, esattamente il 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, la stessa Presidente pubblicò alcuni degli insulti ricevuti nell’ultimo mese
Tante volte ci siamo chiesti: perché Laura Boldrini catalizza tutto questo odio?
Partiamo col chiarire che chi giustifica questi comportamenti vergognosi, legittimandoli con una presunta rabbia del popolo, non fa altro che avallarli.
Boldrini è stata, ed è, uno dei bersagli preferiti di buona parte degli italiani innanzitutto perché è una donna che ricopre un ruolo rilevante, un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini.  Inutile girarci intorno, inutile fingere che il livello culturale e dell’emancipazione femminile sia, tutto sommato, a buon punto, inutile fingere che Boldrini scateni questo odio perché è antipatica perché, a seconda di qualcuno, ricorderebbe la maestrina con la penna rossa o perché il popolo è arrabbiato. Diciamo le cose come stanno: gli italiani non sono ancora abituati a rapportarsi con donne che ricoprono posizioni di potere.
Oltre che dai sessisti, più o meno latenti, Boldrini è vittima di tanto odio anche per il suo impegno per i migranti e le minoranze; sicché aggiungiamoci anche gli insulti a sfondo razzista e xenofobo.
Numerosissime sono state, nel corso di questi anni, le bufale costruite intorno alla sua figura, ai migranti e ad altri simboli sacri dell’italiano medio che Boldrini avrebbe messo in discussione. Dai tatuaggi vietati sul posto di lavoro al divieto del presepe e l’albero di Natale. Dalla bufala dell’obbligo di burqa per tutte le donne italiane alla tassa sulla carne di maiale.
L’odio per Boldrini unisce le estreme destre alle estreme sinistre, come quando, nel convegno su ‘Donne e media’ al Senato, Laura Boldrini affrontò il tema del sessismo nei media. Ne parlammo qui. Anche in quel caso ci fu l’ennesimo linciaggio nei suoi confronti, non solo dai casapoundiani ma anche da progressisti, da gente di sinistra e da un foltissimo numero di donne, arrabbiatissime dalle parole di Boldrini che aveva messo in discussione il loro sacro ruolo di angelo del focolare e addetta ai fornelli e alle pulizie.
Progressisti e uomini (ma anche donne, eh) di sinistra che per legittimare il proprio maschilismo addossano le colpe alla sua antipatia e alla sua rigidità. Perché ovviamente, da che mondo è mondo, tutte le figure istituzionali, tra un impegno e l’altro, deliziano il popolo con qualche stand up comedy, così, giusto per dimostrare di essere anche simpatici.
Di certo non sarà un caso che questa presunta antipatia, per quanto riguarda politici e figure istituzionali, venga fuori solo quando si sta parlando di donne. Stessa identica cosa è stata rimproverata ad Hillary Clinton e, guarda caso, stessa identica cosa, da anni, viene rimproverata anche ad Angela Merkel —oltre che a ossessivi consigli e frecciatine sul suo look e su come dovrebbe migliorare i suoi outfit.
Per caso qualcuno ha mai sbeffeggiato qualche uomo politico per il suo modo di vestire? Eppure di uomini che vestono in maniera imbarazzante potremmo citarne diversi (vedi camicie di Formigoni)
Non si sa come mai dalle donne ci si aspetti più simpatia che dagli uominI.
Perché le donne dovrebbero sorridere più degli uomini?
Perché mai l’immagine di una donna dovrebbe essere più rassicurante o solare di quella di un uomo? Perché un uomo tutto d’un pezzo è serio e rigoroso e una donna tutta d’un pezzo è una stronza, una maestrina, una scassapalle e un’acida mestruata?
Altra cosa che, ad esempio, viene sempre sottolineata quando in discussione viene messa una politica è la sua incapacità, la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo.
E quale esempio migliore potrei citare se non quello di Maria Elena Boschi a cui tale accusa  è stata mossa, praticamente, sin dal primo giorno che si è insidiata come Ministra delle riforme?
Qui apriamo un capitolo enorme su cui ho visto scivolare nel sessismo più becero anche le femministe più dure e pure e radicali.
Ne scrissi ad esempio qui, dove le veniva consigliato di mantenere un profilo basso e praticamente di non andare al mare. Mi è capitato di discutere con femministe “dagli archivi decennali” —o almeno così si sono catalogate—mentre giudicavano Boschi per un paio di scarpe ree di poca serietà e poca professionalità
Non a caso la stessa Boschi, qualche settimana fa, ai microfoni di Formigli, proprio mentre per l’ennesima volta le veniva chiesto circa le sue scarpe leopardate, rispose:
“Mi piacerebbe, in un mondo normale, se una donna decide di impegnarsi in politica, che le scarpe siano l’ultimo dei problemi“.
Gigantografie su suoi piedi e vivisezioni ossessive al limite del feticismo. Perché se indossi scarpe leopardate sarai di sicuro una puttana.
Ragionamenti assurdi persino nei paesi più conservatori e fondamentalisti.
E come al solito chi ha alimentato tutto ciò sono stati proprio i giornali. Come dimenticare tutti gli autorevoli articoli di Scanzi sui piedi di Boschi?
1) “Si narra che Maria Elena Boschi, tra una ballerina azzurra tacco 12 leopardato, ami le scarpe. Le scarpe non amano lei, a giudicare dall’effetto un po’ zampone, ma pazienza”
2) “Il piede femminile più brutto della politica? Quelli di Maria Elena Boschi: sono piedi cicciuti che ‘spanciano’, sono grassottelli e in più lei ha una caviglia bruttina”
Non ci è dato sapere come siano i suoi di piedi, certo è che dallo scarso equilibrio mentre balla un’idea ce la saremmo fatta, ma di gran lunga preferiamo i suoi passi impacciati e scoordinati alla sua penna.
Maria Elena Boschi è diventata, nel corso di questi mille giorni, una vera e propria ossessione per la redazione del Fatto Quotidiano. Immaginiamo quindi, con la caduta del Governo, quanta disperazione si possa respirare in redazione. Di cosa mai parleranno, ora?
Se riportassimo tutti gli editoriali e le vignette che hanno visto come protagonista l’ex ministra non ci basterebbero altri mille giorni.
Quelli di seguito sono solo alcuni degli articoli offensivi che abbiamo visto pubblicare sul Fatto Quotidiano ai danni di Maria Elena Boschi:
Da un articolo di Marco Travaglio sul cartaceo: “Maria Elena trivellata dai pm”
Da un altro articolo di Travaglio su Maria Elena Boschi, datato 12 luglio 2016 dal titolo “Ma papà ti manda sola?”, si legge: Ora si e ci chiederà: e di che parlo allora? Bella domanda. Non saprei: che so, intrattenga il pubblico sull’annosa ansia da prova costume, sull’endemico problema del giro-vita, sulla vexata quaestio della cellulite, o su un argomento a piacere. Ma lasci stare l’Italicum
Le riforme e la politica, ma per carità Maria Elena, non sono cose da donne, torna a parlare di cellulite e diete —di cui, secondo i Bronzi di Riace Scanzi e Travaglio, avresti tanto bisogno.
I suoi piedi, le sue gambe, le sue caviglie e i suoi capelli, ogni parte di questa donna è passata al setaccio.
Questa, ad esempio, è una vignetta che campeggiava sulla prima pagina del Fatto Quotidiano qualche mese fa:
E poi ancora Travaglio in un articolo del 13 luglio 2015 scriveva: “Decisamente più difficile sarà spiegare al pupo come fu che mamma divenne ministro” alludendo immaginiamo già a cosa.
Un conto è criticare il suo operato un altro è accusarla di tresche, rapporti sessuali con questo o quel politico per ottenere tale ruolo.
Avete mai letto fiumi di editoriali sulle cosce di Grillo o di Berlusconi o di D’alema?
L’aspetto di una donna è sempre una colpa, sia che esso sia piacente sia che lo sia meno. Maria Elena Boschi e Rosy Bindi sono due facce della stessa medaglia.
Ma nel primo caso le critiche, gli attacchi e le supposizioni sono state ancora più feroci. Perché in un paese in cui l’Illuminismo sembra debba ancora arrivare se sei una bella donna di sicuro sei una zoccola. Se hai un aspetto piacente automaticamente sei andata a letto con il tuo capo per stare lì. E se in tali corto circuiti cadono persino pseudo femministe, che speranza abbiamo con tutti e tutte gli altri/e?
Una lettrice sulla pagina facebook, mi ha segnalato alcuni dei commenti che ha collezionato su Boschi. Ma ovviamente non sono gli unici, tantissimi giornali e altri autorevoli siti di informazione hanno raccolto, in varie occasioni, tutti i fantastici epiteti rivolti a lei. Basta digitare su google le parole chiave: Boschi+insulti sessisti e apparirà un mondo meraviglioso ai vostri occhi.
C’è stata poi un’altra donna che è stata bersaglio e vittima di dileggio e violenza verbale  da buona parte degli e delle italiane.
Schernita e ridicolizzata innanzitutto per il suo aspetto fisico, Agnese Landini, moglie di Renzi, è passata sotto la lente d’ingrandimento, studiata minuziosamente in tutte le angolature come se fosse in lizza per un qualche concorso di bellezza. Inutile dire che se avesse avuto un aspetto che più incarna i canoni di bellezza attuali si sarebbe beccata “troia”, “cagna” e altri meravigliosi appellattivi (vedi Melania Trump).
Ma, al di là del disgustoso body-shaming, quello che personalmente mi ha fatto rivoltare più lo stomaco sono gli insulti a sfondo transfobico, il paragonarla a una transessuale e a Vladimir Luxuria —come se essere transessuale fosse un insulto o una cosa di cui schernirsi.
E anche qui mi è capitato di notare i più accaniti sostenitori dei diritti lgbt cadere in squallidi sfottò condividendo link dove si faceva notare la somiglianza tra Agnese e Vladimir Luxuria.
Gli indignados (di non si sa cosa) sono persino arrivati a scriverle che avrebbe dovuto vergognarsi perché il suo posto da insegnante avrebbe potuto lasciarlo a qualche altro. E certo perché Agnese Landini non è un essere umano a sé, con desideri,  aspirazioni e ideali, ma un accessorio del marito.
Perché spesso essere anti questo o quel politico fa totalmente perdere i lumi della ragione. Stessa cosa accadde con Berlusconi quando a essere prese di mira con insulti irripetibili furono Minetti e Carfagna.  E anche in quel caso una parte del femminismo diede il meglio di sé, scendendo in piazza non per contestare il modello berlusconiano ma per urlare: “non siamo tutte puttane” —e per l’ennesima volta dividendo le donne in sante e puttane.
Dalle accuse di aver fatto un salto di carriera perché moglie di Renzi (qui troviamo un articolo molto dettagliato circa il suo percorso lavorativo)  fino alla marea di insulti che le sono stati indirizzati quando, in veste istituzionale, accompagnò suo marito alla Casa Bianca. In quell’occasione anche la campionessa paralimpica Bebe Vio non fu risparmiata affatto da certe cortesie.
Agnese Landini, fu assalita di insulti, tra gli altri, anche da decine e decine di insegnanti, sicuramente ligi e ligie al proprio dovere, indignati dal fatto che Agnese avesse chiesto un permesso —come fa qualsiasi insegnante e lavoratore del mondo quando ha impegni inderogabili— per importanti motivi istituzionali.
E ovviamente anche lì nessuno perse l’occasione per chiamarla racchia, cesso, transessuale, eccetera.
E per concludere in bellezza, l’ultima trovata dellaggente per prendersela con Agnese Landini è il maglione che indossava domenica sera mentre suo marito annunciava le dimissioni. Questa volta Agnese è “colpevole”, secondo autorevoli pagine facebook, di aver speso 950 euro per un maglione.
E questi sono solo alcuni degli insulti che per l’ennesima volta sono stati mossi ai danni di questa donna  E questi sono solo alcuni degli insulti che per l’ennesima volta sono stati mossi ai danni di questa donna
Tutti gli altri potete trovarli qui
Non vorrei entrare in questa polemica imbarazzante ma è lampante che il maglione indossato da Agnese sia totalmente diverso da quello indicato nell’immagine. E se anche fosse, non sarà forse libera di spendere il suo stipendio come meglio crede o dovrebbe stare a preoccuparsi di stupide pagine facebook e dei suoi commentatori che magari postano quei link e quei commenti al vetriolo da uno iPhone ben più costoso di quel maglione?
Ma che importa se indossava davvero quel maglione o meno! Cosa vuole laggente? Un’occasione  per chiamare questa o quella donna puttana, mostro, cesso e transessuale. E noi gliela daremo!
Da notare che come al solito parte dei commenti sono stati scritti da donne che tra le altre cose avevano incorniciato la propria foto profilo con la scritta “No alla violenza sulle donne”.
Insomma, un paese profondamente povero di umanità e di empatia, confuso, analfabeta e che incapace di muovere critiche nel merito (anche perché tutto ciò comporterebbe leggere e informarsi, apprendere notizie da chi fa giornalismo in maniera seria e autorevole e non dai soliti siti bufalari su cui ormai buona parte di italiani è abituto ad informarsi) ha come passatempo preferito il linciaggio a sfondo sessista, razzista e omofobico sul web.
http://narrazionidifferenti.altervista.org/mille-piu-giorni-sessismo-laura-maria-elena-agnese/

lunedì 12 dicembre 2016

La colpa di essere la moglie di Renzi di Romina Fiore

Insultata e denigrata senza ritegno.
Certo, porta con sé il fardello di essersi maritata con Matteo Renzi e tanto è bastato per rovesciarle addosso, insieme alla mole di insulti gratuiti che sarebbero arrivati comunque, anche l’abominevole deriva lessicale patrocinata dal coniuge.
Rottamiamo, Ciaone e tutta la risacca di quel linguaggio distruttivo e sprezzante, arrogante e superbo, di cui lui ha dato prova in numerose occasioni, le è piovuta sulle spalle.
Ha commesso l’imperdonabile errore di aver sposato Renzi in un mondo dall’insulto facile, dalla denigrazione di default, dall’offesa che tracima oltre l’obiettivo e va a schernire l’entourage, frugando anche nell’albero genealogico, pur di trovare capri espiatori sui quali accanirsi.
Hanno cominciato col suo aspetto fisico, fatta a pezzi come quarti di bue perché non avvenente.
Non poter sfoderare un’esteriorità conforme ai canoni di bellezza classici è una negligenza inammissibile che ha sdoganato la sequela di paragoni indegni, nomignoli tipo Luxuria, per un’imprecisata somiglianza, e altre analoghe irrisioni.
Ma se, invece, la fortuna l’avesse baciata in fronte fornendole una bellezza oggettiva e unanimemente riconosciuta, il vituperio sarebbe stato circoscritto nel perimetro della mignottaggine e inviti a intraprendere la carriera del porno. Cosi come stanno facendo con Maria Elena Boschi, ma non divaghiamo.
Agnese Landini è un’insegnante che ha scelto di restare tale.
È passata di ruolo grazie all’abilitazione conseguita con la SSIS nel 2007 e poi alla chiamata diretta prevista dalla legge, per mezzo della quale hanno firmato il contratto a tempo indeterminato molti colleghi che lavorano con me quotidianamente.
Lei aveva nelle suole delle scarpe otto anni di precariato, il doppio di quanti ne avessi io all’atto della mia immissione in ruolo, per intenderci, ma le accuse che avesse ottenuto l’incarico grazie al marito, oltretutto a Firenze, sono state abbondanti e partorite dalle bocche ignoranti di chi non ha la minima cognizione di come funzioni il reclutamento dei docenti.
 – È andata col marito negli USA anziché andare a lavorare – recitava una delle tante accuse.
Beh, forse non tutti sanno che il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro prevede che i dipendenti, pubblici e privati, godano di un permesso retribuito di tre giorni l’anno e che nella mia carriera da docente ho visto colleghi usufruirne per portare il cane dal veterinario, per un trasloco e per altri motivi a vario titolo futili e validi.
Ha preferito portare avanti la sua professione, come una donna qualsiasi, anziché indossare il ruolo da first lady divisa tra manifestazioni di beneficenza e serate con le amiche al Circolo del Bridge. È rimasta nell’ombra, discreta e riguardosa del ruolo di sfondo, con una dignità degna d’esempio.
E, nonostante ciò, è diventata il parafulmine dell’aggressività e dell’insulto becero e sguaiato, di fauci con canini in vista e grondanti di bava che ne hanno accompagnato il cammino, sebbene riservato e appartato.
Ma poi è arrivato quello sguardo, inquadrato di sfuggita dalla telecamera, in occasione del discorso di dimissioni del suo uomo.
Lei era lì, in un angolo, ad ascoltare.
Forse la sua presenza era anche funzionale a un teatrino organizzato a dovere dai consulenti di immagine del marito.
Non lo sappiamo.
Forse le hanno imposto pure quel maglione, oggettivamente bruttarello, per far leva su una parvenza casalinga e casuale.
E non sappiamo nemmeno questo.
Ma lo sguardo composto, onorevole e signorile carico di tenerezza e comprensione, con cui una donna contempla il proprio uomo in un momento difficilissimo, è arrivato come un cazzotto allo stomaco.
E con quello sguardo ha tumulato voi e la vostra idiota e perfida cafonaggine.
http://www.sardegnablogger.it/la-colpa-dellessere-moglie-renzi-romina-fiore/

giovedì 8 dicembre 2016

Solo una nuova idea di coppia può liberare le donne di Francesca Guinand

Il binomio lavoro-maternità è ancora troppo duro da portare avanti. Tocca agli uomini farsi in parte carico del peso che grava sulle nostre spalle. E a noi sensibilizzarli.
Scrivere tutte le settimane per due anni del lavoro - durissimo - delle mamme e delle donne italiane mi ha cambiato la vita. Personale e professionale. Ho un figlio maschio che sto crescendo libero da comportamenti “di genere”. O almeno ci sto provando. Ho un compagno con il quale sto imparando a dividere il carico di cura di figlio e casa. Ho uno, cento, mille lavori da freelance. Ma oggi, sabato 3 dicembre, mentre questa rubrica compie due anni, solo pochi mesi in meno rispetto a mio figlio, a Roma, nella nuova sede di Luiss Enlabs - l’acceleratore di startup più grande d’Europa - si sta realizzando la prima edizione del Festival "Donne a Lavoro".

UN FOLLE PROGETTO. Ecco il futuro dell’Italia figlia di queste righe digitali. Le persone che ho intervistato e conosciuto per scrivere #mumatwork erano talmente stimolanti, interessanti, mi hanno così ispirata e dato forza che ho deciso, con grande incoscienza, di creare un Festival. Ma non l’ho fatto da sola. La prima persona che ha creduto in questo folle progetto è stata Valeria Fedeli, la vice presidente del Senato. Poi Riccarda Zezza, la presidente di Piano C e co-autrice di maam. Loro sono state le prime a dirmi, sì, vengo. Hanno dato credito a un’idea, alla buona volontà.

AIUTI CRUCIALI. Poi ci sono state le fondatrici della Onlus che abbiamo creato per realizzare il Festival: Maria Grazia Avataneo Fey e Daniela Tonelli. Abbiamo lavorato notte e giorno, sabato e domenica, ad agosto, in malattia e nelle pause dai nostri lavori e delle nostre vite, perlopiù all’alba e di notte. Inoltre, senza location non ci sarebbe stata nessuna manifestazione. I partner sono Luiss Enlabs, LVenture Group, Hitalk e Dla Piper. A tutti loro va il mio ringraziamento.

Nel 30% dei casi la neo-madre perde il lavoro e d'un tratto deve sobbarcarsi la cura di casa e figlio

Il programma della manifestazione è nato dai temi più caldi trattati nella rubrica: la genitorialità, l’esclusione finanziaria, il lavoro del futuro delle ragazze, le aziende che fanno cultura e che sostengono donne e famiglie. Sì, perché se si continua a parlare solo alle donne, se il lavoro flessibile si offre solo alle mamme, il problema non si risolverà mai. Dobbiamo fare con gli uomini: sia in casa che fuori.

IL FIGLIO CAMBIA GLI EQUILIBRI. Se da un lato dobbiamo concedere spazio casalingo ai padri, dall’altro dobbiamo conquistarlo nel lavoro. E il secondo cambiamento è possibile solo se accade qualcosa nella coppia, primo baluardo da scardinare. Perché, come ha raccontato nel suo libro la ricercatrice bolognese Naldini, le coppie italiane quando sono “solo” coppia riescono a essere paritarie. È quando arriva un figlio che gli equilibri si rompono e la donna diventa “solo” madre.

UNA MISSION IMPOSSIBLE. Nel 30% dei casi la madre perde il lavoro e all’improvviso deve sobbarcarsi la cura della casa e del figlio. E all’inizio, per noi italiane che facciamo il primo figlio in media dopo i 32 anni, è davvero una mission impossible. Abituate a pensare solo a noi stesse, all’improvviso dobbiamo pensare unicamente a un’altra persona. È per questo che la chiave della “questione” femminile sono gli uomini. Sia per il lavoro, sia per i figli, sia per la violenza sulle donne. Se deve essere #nonunadimeno dobbiamo parlare con loro, non tra noi stesse.
http://www.lettera43.it/it/articoli/societa/2016/12/02/solo-una-nuova-idea-di-coppia-puo-liberare-le-donne/206951/

mercoledì 7 dicembre 2016

Serena Williams, il manifesto femminista della pasionaria: «Io, il miglior tennista di sempre» di Gaia Piccardi

In una lettera aperta a tutte le donne, l’ex numero uno rivendica con orgoglio il diritto ai premi uguali agli uomini e alla parità di genere. Prove generali di un futuro in politica

La pasionaria ha colpito ancora. Con la grinta con cui ha messo in cascina 22 titoli Slam (ma promette di cercare di vincerne 30 entro la fine della carriera: il record, già mostruoso così com’è, diventerebbe disumano da battere). Con l’orgoglio con cui, da gennaio, ripartendo da quell’Australian Open che si è già annessa sei volte, proverà a strappare dalle grinfie della tedesca Angelique Kerber lo scettro di numero uno del ranking mondiale, il simbolo del potere tennistico che le è appartenuto per 309 settimane in totale. A compendio di una stagione dolceamara — trionfo a Wimbledon ma clamorosi scivoloni a Melbourne, a Parigi e ai Giochi di Rio —, Serena Williams ha scritto una lettera aperta al «Porter Magazine Incredible Women 2016 Issue», ripresa dal sito della Wta (l’associazione delle tenniste professioniste) e rimbalzata ai quattro angoli del web. Un vero e proprio manifesto della pasionaria del tennis, sempre pronta a battersi per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere. Un passo che fa di Serena, più di quanto già non lo fosse, un esempio da seguire per le donne afroamericane e non.

Lottate per l’eccellenza
«A tutte le incredibili donne che lottano per l’eccellenza» è l’incipit. «Da bambina avevo un sogno, come sono certa lo abbiate voi: diventare il miglior giocatore di tennis del mondo. Non la miglior giocatrice femmina, il miglior giocatore». Punto. Senza distinzione di sesso. «La mia battaglia è cominciata quando avevo tre anni; da allora non mi sono più fermata». Benché Serena, partita dal ghetto nero di Compton (Los Angeles) insieme alla sorella Venus, abbia raggiunto la vetta dello sport professionistico a suon di risultati, non sembra soddisfatta. «Purtroppo troppo spesso — sottolinea —, noi ragazze non siamo supportate e veniamo scoraggiate dal seguire il cammino che abbiamo scelto. Insieme, però, possiamo cambiare tutto questo. È una questione di resilienza: ciò che era considerato un ostacolo verso il successo, il mio sesso e la mia razza, è diventato un motore per inseguire ciò che voglio dalla vita. Non ho mai permesso che niente e nessuno definissero me e il mio potenziale. Ho scelto di controllare il mio futuro».

Il tema dei soldi? Frustrante
Il tema dei prize money dei tornei pari agli uomini. La polemica tra tennisti e tenniste era riesplosa quest’anno a Indian Wells. Serena non usa giri di parole: «Il discorso sui premi, ogni volta che si ripropone, è frustrante. Il lavoro che ho sostenuto e i sacrifici che ho fatto sono esattamente gli stessi degli uomini. Non vorrei mai che, per lo stesso lavoro, mia figlia venisse retribuita meno di mio figlio. E so che non lo volete nemmeno voi. Sulla strada per il successo a noi donne viene spesso rimproverato di non essere uomini. Come se fosse un difetto! A Roger Federer, Tiger Woods, LeBron James non viene continuamente ricordato che sono maschi. Io credo che noi donne dovremmo essere valutate per i nostri risultati, non per il nostro sesso».

Messaggio alle giovani
E infine il messaggio per le giovani: «Spero che la mia storia vi ispirerà a inseguire la grandezza e l’ottenimento dei vostri sogni. Continuate a sognare in grande: solo così la prossima generazione di donne troverà il coraggio di realizzare i propri».
Firmato Serena Williams. Un futuro in politica assicurato.
http://www.corriere.it/sport/16_dicembre_02/serena-williams-manifesto-femminista-pasionaria-io-miglior-tennista-sempre-fde89d8e-b86f-11e6-886d-3196d477f919.shtml

martedì 6 dicembre 2016

L’uomo che non deve chiedere mai? Non ci piace. Parola di maschi di Luca Milani

Lo GNAM (gruppo nonviolento autocoscienza maschile) è un piccolo gruppo di uomini che da anni cerca di interrogarsi su modi differenti di essere uomini, maschi, rispetto alle rappresentazioni culturali tacitamente condivise. Il 25 novembre, nel corso della diretta non-stop «Questo non è amore» del Corriere della Sera sulla violenza di genere, abbiamo sentito espliciti richiami anche a quei «piccoli atti di gentilezza, di tenerezza» che sarebbero auspicabili nelle relazioni tra i generi.
Lo GNAM è proprio questo: un piccolo atto di gentilezza e di tenerezza quotidiana, fatto da maschi e da uomini che non si riconoscono nella rappresentazione stereotipata dell’«uomo che non deve chiedere mai». Lo GNAM è un gruppo informale/amicale di uomini — insegnanti, operatori sociali, formatori nonviolenti, professori, etc... — attivo sul territorio milanese da più di venticinque anni. È sorto nei primi anni ’90 dall’iniziativa di un piccolo gruppo di uomini, allora di età compresa tra i venti e i trent’anni, accomunati dallo stesso impegno in gruppi e associazioni che si occupavano di formazione alla nonviolenza e di pacifismo.

Il gruppo periodicamente si riunisce in serate più o meno a tema focalizzate sul confronto introspettivo, non giudicante ed esperienziale sull’essere umani-E-maschi. GNAM richiama all’onomatopea del gustare del cibo: è il nome che abbiamo dato ai nostri incontri tra uomini in cui ognuno ha la possibilità di raccontare se stesso e la propria esperienza maschile, anche grazie al pretesto di preparazione e condivisione del buon cibo. Condividiamo delle esperienze personali e ci confrontiamo sulla maschilità in genere, sui diversi modi di viverla, cerchiamo di esplorare le possibili nuove forme della maschilità.
Il modello di maschilità dominante non ci piace e sentiamo la necessità di fare i conti, di confrontarci e di aprire un conflitto con questi modelli nei quali non ci riconosciamo. Non ci piace essere appunto «uomini che non chiedono mai», invece essere persone che amano chiedere, capire, interrogarsi, confrontarsi nel rispetto e nell’amicizia. Non ci piace essere promotori di una falsa sensazione di «bastare a sé stessi» — negando i bisogni anIl gruppo periodicamente si riunisce in serate più o meno a tema focalizzate sul confronto introspettivo, non giudicante ed esperienziale sull’essere umani-E-maschi. GNAM richiama all’onomatopea del gustare del cibo: è il nome che abbiamo dato ai nostri incontri tra uomini in cui ognuno ha la possibilità di raccontare se stesso e la propria esperienza maschile, anche grazie al pretesto di preparazione e condivisione del buon cibo. Condividiamo delle esperienze personali e ci confrontiamo sulla maschilità in genere, sui diversi modi di viverla, cerchiamo di esplorare le possibili nuove forme della maschilità.
Il modello di maschilità dominante non ci piace e sentiamo la necessità di fare i conti, di confrontarci e di aprire un conflitto con questi modelli nei quali non ci riconosciamo. Non ci piace essere appunto «uomini che non chiedono mai», invece essere persone che amano chiedere, capire, interrogarsi, confrontarsi nel rispetto e nell’amicizia. Non ci piace essere promotori di una falsa sensazione di «bastare a sé stessi» — negando i bisogni anche maschili di attaccamento, di affetto, di tenerezza — né ci piace il cliché dell’uomo che non deve manifestare la «debolezza» dei sentimenti, amputato dalla possibilità di chiedere e — quindi – di dare aiuto. Ci piace essere uomini aperti alla condivisione dei sentimenti e dell’affettività, aperti al chiedersi quali siano i ruoli del maschile oggi, attenti a leggere come cambia e se cambia il nostro modo di comunicare con moglie, compagne, compagni, amiche e amici, con colleghe e colleghi.
Ci piace pensare che le cose possano cambiare anche attraverso appunto i «piccoli gesti» che non sono «gesti piccoli», testimoniando nelle relazioni di tutti giorni che è possibile essere uomini e maschi in modo alternativo rispetto ad alcuni assunti stereotipati che poi rischiano di essere alla base di una giustificazione culturale alla violenza:
- rifiutando la mercificazione del corpo della donna, rappresentata come oggetto da possedere, laddove le relazioni sono il tempio del dono reciproco;
- rifiutando la scarsa educazione alla autonomia e al rispetto, in primis nei confronti delle donne — probabilmente dovuta anche alla scarsa educazione alla autonomia, alla responsabilità e al senso del dovere degli uomini stessi;
- rifiutando la scarsa educazione alla gestione dei sentimenti, probabilmente dovuta alla nulla che maschili di attaccamento, di affetto, di tenerezza — né ci piace il cliché dell’uomo che non deve manifestare la «debolezza» dei sentimenti, amputato dalla possibilità di chiedere e — quindi – di dare aiuto. Ci piace essere uomini aperti alla condivisione dei sentimenti e dell’affettività, aperti al chiedersi quali siano i ruoli del maschile oggi, attenti a leggere come cambia e se cambia il nostro modo di comunicare con moglie, compagne, compagni, amiche e amici, con colleghe e colleghi.
Ci piace pensare che le cose possano cambiare anche attraverso appunto i «piccoli gesti» che non sono «gesti piccoli», testimoniando nelle relazioni di tutti giorni che è possibile essere uomini e maschi in modo alternativo rispetto ad alcuni assunti stereotipati che poi rischiano di essere alla base di una giustificazione culturale alla violenza:
- rifiutando la mercificazione del corpo della donna, rappresentata come oggetto da possedere, laddove le relazioni sono il tempio del dono reciproco;
- rifiutando la scarsa educazione alla autonomia e al rispetto, in primis nei confronti delle donne — probabilmente dovuta anche alla scarsa educazione alla autonomia, alla responsabilità e al senso del dovere degli uomini stessi;
- rifiutando la scarsa educazione alla gestione dei sentimenti, probabilmente dovuta alla nulla o quasi capacità di ascolto e di riconoscimento degli stati emotivi.
Ci si potrebbe chiedere perché incontri solo maschili. Siamo dell’idea che (virgolettato di Marco F.) «per poter far emergere le difficoltà che si incontrano nel vivere la propria maschilità e per poter costruire una maschilità diversa, non omologata, possa essere utile anche una momentanea separatezza di genere. La separatezza non è cosa nuova per i maschi: ci sono luoghi, professioni, istituzioni, sport esclusivamente maschili. Spesso in queste sedi si riproducono e si consolidano vecchi modelli di maschilità e di maschilismo. La cosa nuova è provare ad utilizzare la separatezza per vivere diversamente la maschilità, con una critica ai modelli prevalenti e soprattutto per affermare una diversità». Non siamo un gruppo attivamente organizzato sul territorio, ci piacerebbe riuscire a finire il libro che abbiamo iniziato a scrivere collettivamente, incluse delle interessanti ricette (visto che pare andare di moda il tema della cucina…).L’uomo che non deve chiedere mai? Non ci piace.
http://27esimaora.corriere.it/16_dicembre_04/uomo-che-non-deve-chiedere-mai-non-ci-piace-parola-maschi-gnam-gruppo-nonviolento-1e33810c-ba01-11e6-99a2-8ca865283c9e.shtml





sabato 3 dicembre 2016

Appunti su come crescere un figlio maschio (in particolare il mio).

La scorsa settimana ero a Milano al Tempo delle Donne del Corriere della Sera, a parlare di maternità e figli maschi. Sulle prime il tema mi ha fatto sorridere, non ho idee chiarissime su come sto crescendo Lorenzo in quanto Lorenzo, figuriamoci in quanto figlio maschio. Poi, come spesso succede, mi sono venute in mente delle cose, un po’ le ho dette, un po’ le scrivo qui, ma a freddo, a incontro finito.

Ho pensato che a Lorenzo vorrei dare gli strumenti per uscire bene dall’adolescenza. Se non a pieni voti, comunque in tempo. Ci sono in giro moltissimi adolescenti fuori corso, cinque, dieci, vent’anni in ritardo. L’adolescenza è il momento in cui i ragazzi devono tarare le proprie emozioni, si passa dall’euforia che è il superlativo della gioia, alla disperazione che è il superlativo dell’infelicità in un attimo. Serve a delimitare le soglie del dolore, della felicità, a tracciare il campo di gioco. E allora ci sta l’amore urlato contro, ci sta il melodramma, ci stanno le forzature. Ci stanno per un po’, poi basta. Vorrei che Lorenzo diventasse un uomo capace di vivere i rapporti forte delle proprie emozioni, e non un eterno adolescente in balia di emozioni forti.

Poi vorrei insegnargli a distinguere tra sensibilità e fragilità. Quando un uomo si dimostra sensibile si dice che ha un lato femminile sviluppato. Non so se sia davvero così. Mi pare, però, che le donne mettano in conto la sofferenza più degli uomini e quindi siano più preparate. Gli uomini, dal dolore si fanno prendere quasi sempre alla sprovvista, come quando nei film il protagonista viene colpito in petto da un proiettile e non capisce bene cosa stia accadendo, porta la mano alla ferita, guarda il sangue che gli macchia le dita, stupito, e sembra accorgersi di avere un cuore solo nel momento in cui gli si spezza. Mi pare, continuo con questo mi pare paraculo, perché non sono un’antropologa, né una sociologa, né una maschiologa, che gli uomini abbiano un’incoscienza spavalda e adorabile, che nelle donne acquista consapevolezza e si trasforma in coraggio. Ecco gli uomini sono meno abituati a comprendere l’anatomia dei sentimenti, loro e altrui. Sono più spavaldi ma meno coraggiosi. Le madri forse dovrebbero lavorare lì: meno maschi alfa, più uomini emotivamente alfabetizzati.

Per Lorenzo vorrei essere tante cose ma non una mamma lupa, una mamma ferina, viscerale. Le donne “l’uomo della mia vita l’ho partorito” dimenticano che è l’incipit di quasi tutte le tragedie greche. E lo dico io che mi sono fatta venire il batticuore quella volta che ho trovato Lorenzo ad aspettarmi alla stazione, di ritorno da un viaggio. Però i proclami, le affermazioni di assoluta dedizione, le dichiarazioni di amore furioso sono convinta che ai figli non facciano bene. C’è una maturità anche nella maternità, niente di così difficile, ma semplicemente l’annusata al collo, in quel punto preciso dove il suo odore resta bambino, gliela dai quando dorme, di soppiatto, che l’amore di una mamma è bene che resti un po’ segreto, un po’ clandestino.

L’aggressività non è un valore. Lo sono la tenacia e la determinazione, l’aggressività no.

A Lorenzo vorrei ricordare che è nato con dei privilegi, privilegi economici e sociali naturalmente, ma anche privilegi legati al suo sesso. In quanto maschio, per esempio, la statistica vuole che abbia più facilità ad avere uno stipendio meglio retribuito o che le donne non si sentiranno in diritto di importunarlo per strada o che il numero delle persone con cui deciderà di andare a letto non farà di lui un poco di buono o un ragazzo rispettabile. Gli inglesi lo chiamano “male privilege”. Un dono che non si è guadagnato e mi piacerebbe che come tutti i doni lo spartisse con Marta. Perché crescere con una sorella, una femmina quasi coetanea, è davvero il più grande dei privilegi.
https://tiasmo.wordpress.com/2015/10/12/appunti-su-come-crescere-un-figlio-maschio-in-particolare-il-mio/

venerdì 2 dicembre 2016

#Nonunadimeno, non una a metà. Il femminicidio si nasconde nelle pieghe della nostra cultura di Wu Ming

«Non una di meno». È il grido che, nelle scorse settimane, ha chiamato alla più importante manifestazione femminista di questi anni. Si svolgerà a Roma nelle prossime ore. Appuntamento alle h.14 in Piazza della Repubblica.
È la cresta dell’onda mondiale che, dall’Argentina alla Polonia, va riempiendo strade e piazze, scuotendo governi e opinioni pubbliche. Lo stesso motto «Non una di meno» arriva dal Cono Sur, da quel «Ni una menos» rimbombato a Buenos Aires il 3 giugno scorso. Quel grido arriva a noi accompagnato dalla presentazione di una nuova Internazionale femminista.
A proposito della grande mobilitazione simultanea iniziata ieri – 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne – le compagne argentine scrivono:
«ci riuniremo ed organizzeremo in molteplici e differenti forme: assemblee popolari, radio aperte, escraches, lezioni pubbliche, interruzione delle attività nei luoghi di lavoro, interventi artistici e politici nello spazio urbano […] Confluiremo tutte assieme in una mobilitazione che connette Ciudad Juarez con Mosca, Guayaquil con Belfast, Buenos Aires con Seul e Roma.»
La piazza romana di oggi e l’assemblea di domani chiederanno con forza, tra le altre cose, la profonda revisione del Piano Nazionale Straordinario Antiviolenza, adottato un anno fa dal governo Renzi e giudicato da più parti limitato e ambiguo.
Non una di meno

Ci siamo chiesti: come possiamo contribuire, a modo nostro e nei nostri spazi, a questa mobilitazione?

Nell’appello di Nonunadimeno si legge:
«il femminicidio è solo l’estrema conseguenza della cultura che lo alimenta e lo giustifica. È una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata.»
Ciò è molto più vero di quanto possano comunicare tali parole, per quanto giuste.
Nel femminicidio, disgraziatamente, noi ci viviamo. Da troppo tempo.
Il femminicidio e il punto di vista del femminicida sono nella nostra cultura, annidati in profondità, tanto che non sappiamo più distinguerli dal resto.
Per fare un esempio, quante grandi canzoni descrivono innocentemente, svagatamente, addirittura orgogliosamente l’uccisione di una donna da parte di un uomo?
Quante canzoni adottano punto di vista e autogiustificazione del maschio assassino?
Da Via Broletto a Hey Joe, il femminicidio è orecchiabile, gradevole, fa battere il ritmo col piede, e noi empatizziamo con l’io narrante, specialmente nella versione di Willy DeVille tifiamo per Joe, il femminicida che scappa, che fugge verso il Messico, impunito, libero. Femminicidio è libertà.
«Sto andando verso Sud
giù, dove posso essere libero
Nessuno mi troverà
Nessun boia mi metterà intorno una corda
perché ho sparato alla mia donna…»
Un esempio persino più eclatante, una rappresentazione crudele del femminicidio a cui assistiamo sin da bambini e nessuno ci ha mai insegnato a mettere in discussione, è al centro del documentario Donne a metà di Mariano Tomatis. Ripeschiamo da un vecchio post la descrizione della scena:
«un maschio vestito di tutto punto – abbigliato per ostentare potere – lega una donna seminuda, la chiude in una cassa, la sevizia e la sega in due senza che la vittima metta mai in discussione il proprio ruolo e la sorte che deve subire. È la rappresentazione acritica di un femminicidio. È il supplizio della Dalia Nera, ma prima [di Donne a metà] ben pochi ci avevano fatto caso […] Che figata, una donna immobilizzata, infilzata da lame e segata in due! Applausi.»
Di Donne a metà la collega Michela Murgia ha scritto: «Guardatelo e diventerà irrilevante scoprire come si taglia una donna in due. Sarà più importante capire il perché.»

Per questo, proprio oggi, ne riparliamo, e lo consigliamo. Quello che noi maschi possiamo fare è curarci lo sguardo. Fare ogni giorno ginnastica oculare, per imparare a vedere il femminicidio, per metterlo a fuoco. Buona visione.

giovedì 1 dicembre 2016

Contro la violenza sulle donne il miglior spot è l'educazione di Alessandra Erriquez

Da grande farò l'astronauta, io la veterinaria, io la stilista. In occasione della giornata contro la violenza sulle donne, lo spot Rai ci presenta una carrellata di bambine alle prese con le loro aspettative future.

Da grande finirò in ospedale - dice l'ultima - perché mio marito mi picchia. Ora, lasciamo stare le contestazioni, e anche l'eventuale offesa o efficacia di questa comunicazione. Una bambina dichiara il suo futuro. Chi l'ha deciso quel futuro? Se una donna viene picchiata è perché un uomo la picchia. Mi chiedo, quanto sarebbe stato più potente se nel video fosse stato un bambino a dichiarare il suo futuro di violenza? Non so, ho la sensazione che ci concentriamo molto sulla debolezza e poco sulle responsabilità.

Cresciamo le bambine come principesse, mamme, dottoresse. Bambine dolci, pronte all'accudimento, alla cura. E chi cura le loro identità? Appena una bimba gioca nel terreno, si arrampica sugli alberi o si mette in porta per giocare a calcio la definiamo un maschiaccio. Una descrizione a metà strada tra ciò che non è e un dispregiativo.

Non andiamo meglio con i bambini. Non possono piangere se si fanno male e non possono giocare con le bambole. Destano fierezza se baciano una bambina o si prendono coraggiosamente a botte. Non è il mio mestiere indagare sul perché una donna possa diventare vittima e perché un uomo violento. Mi fa riflettere, tuttavia, che tante donne siano finite nelle mani di un marito violento nel tentativo di scappare da un padre violento.

O che tante, pur circondate dall'amore familiare, siano state vittime perché si sentissero deboli, inferiori, inadeguate. Pur essendo donne brillanti e intelligenti. O che tante si siano innamorate di un uomo per poi conoscere l'inganno. E la paura. O che tante abbiano desiderato indossare un jeans attillato per esprimere la propria femminilità e non per scatenare reazioni. Forse l'unico strumento veramente efficace è l'educazione.

Proviamo a pensare che un maschietto che piange sta soffrendo e che una femminuccia col pallone si sta divertendo, che un ragazzo con tante amiche non è un play boy e che una ragazza con tanti amici non è una poco di buono. Proviamo ad annullare tutti gli stereotipi, i preconcetti e i pregiudizi.

L'unica cosa che viene prima di una violenza è una educazione alla violenza. Mi piace pensare che un bambino cresciuto nel rispetto, quello suo e quello reciproco tra i suoi genitori, abbia poche possibilità di divenire una persona violenta. Non ne ho certezza, è vero. Ma ho certezza invece che un bambino picchiato è un bambino per cui picchiare è, se non giusto, possibile.

Eppure reputiamo spesso lecita la sculacciata. Uno schiaffo non ha mai fatto male a nessuno, ci diciamo, ce l'abbiamo persino in un proverbio: Mazz' e panella fann e figl' bell. Chissà perché non ammettiamo moralmente che un uomo picchi la sua compagna, non ammettiamo violenza quando ci si delude fra amici, non la concediamo per gli scontri in ufficio. Ma da genitore a figlio sì.

Inorridisco dinanzi a storie di donne malmenate, stuprate, sfigurate. Ecco, sfigurate sempre, in un certo senso, donne che perdono una sana immagine di sé. Inorridisco, ma nulla posso. Se non, educare al meglio i miei due figli maschi.

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