lunedì 30 novembre 2020

La porno vendetta, i confini del sexting e della violenza di genere LUCIA LIPARI

La porno vendetta è il nuovo terreno sul quale si consuma la violenza contro le donne, un tipo di ricatto sempre più diffuso e una delle più odiose forme di persecuzione, a seguito di una storia finita male o semplicemente mai iniziata.

Immagini o video sessualmente espliciti postati su internet o spammati su chat private, senza il consenso delle persone rappresentate. Contenuti intimi che diventano virali e portano a conseguenze estreme le vittime.

Riguarda tutte e non risparmia le ragazzine, “Cappuccetto rosso” che incontrano sui social il Lupo.

I casi di cronaca del resto sono in aumento e sotto gli occhi di tutti, indipendentemente dalla fascia d’età.

Il “Codice rosso” ne ha introdotto la fattispecie di reato ed oggi il revenge porn è cristallizzato dall’articolo 612-ter del codice penale, prevedendo per gli autori fino a sei anni di reclusione e multe che vanno dai 5mila ai 15mila euro. La portata della norma ha un‘applicazione ampia ed investe non solo ex mariti, ex mogli, ex fidanzati, ma anche coloro che hanno ricevuto foto e video e le fanno rimbalzare sul web senza il consenso della vittima. Va inoltre chiarito che il consenso alla ripresa del partner in momenti privati non equivale al consenso alla divulgazione, perché non può essere implicito ne tacito, neanche nel caso in cui la persona in questione abbia un atteggiamento aperto o svolga per esempio professioni hard.

La situazione rischia di diventare sempre più paludosa e i media, la società civile e la politica non possono restare alla finestra a guardare. Occorre responsabilizzare i colossi informatici, le grandi aziende che gestiscono piattaforme on line e social, per cercare di contenere un crimine odioso. Bisogna martellare sull’importanza di campagne di sensibilizzazione, sull’informazione e la consapevolezza per chi usa alcune piattaforme. E’ necessaria l’immediatezza nella rimozione di video, immagini e contenuti lesivi e non autorizzati, riguardanti l’immagine delle donne che presentano denuncia, ma ancora andrebbero contemplati sanzioni più stringenti per coloro che non portano avanti attività di origin & fact checking sull’appropriatezza delle immagini e dei contenuti diffusi attraverso i propri canali.

Nel contrasto alla violenza di genere, non và sottostimato il diritto all’oblio, il diritto, in questo caso delle donne, di essere dimenticate. Questo diritto alla privacy permette, nell’ipotesi di diffusione illecita di immagini, la possibilità di essere deindicizzati nei motori di ricerca e quindi di non apparire nei link delle ricerche via Google. Il problema che si pone però è quello della lunghezza dei tempi per ottenere l’accoglimento della domanda di deindicizzazione: giorni o settimane, mentre la divulgazione di una foto avviene in pochi istanti. Dato quest’ultimo che fa emergere in modo evidente l’asimmetria tra giustizia e tecnologie, perché la prima non riesce a tenere il passo delle seconde.

Dal sexting al revenge porn è un attimo.

L’isolamento imposto per contenere il coronavirus ha minato molte relazioni, anche quelle tra i più giovani, ed ha scatenato l’esplosione dell’on line.

Il sexting (sex+texting) riguarda lo scambio di messaggi, audio, immagini o video a sfondo sessuale o sessualmente espliciti, specialmente attraverso smartphone o chat di social network. Il termine sdoganato per la prima volta dal Sunday Telegraph Magazine, è ormai di uso comune.

Il fenomeno è molto diffuso anche tra i minori. Save the Children scrive che “il sexting è comune tra gli adolescenti e rientra pienamente nel processo di costruzione e scoperta della propria identità, tipico di questo periodo”. Insomma niente di nuovo, ma i mezzi attraverso cui i ragazzi si esprimono sono cambiati rispetto al passato. Infatti la pericolosità sta nelle possibili pieghe del sexting: quando non si è più padroni delle immagini inviate e la loro diffusione su web e social è incontrollabile, passare dal sexting al revenge porn o al sextortion dura un soffio, giusto quello del click fatto da un ex partner per vendicarsi e ledere la reputazione della persona ritratta, a seguito dell’estorsione e dela minaccia di diffusione del materiale privato. Per queste ragioni la comunicazione sociale ed istituzionale dovrebbe incrementare le iniziative volte a spiegare bene le opportunità di un sicuro utilizzo di internet a tutti, specie ai minori, perché la violenza ha diversi strumenti con cui colpire.

L’incremento delle violenze domestiche causa covid

Il lockdown ha intrappolato all’interno delle mura domestiche molte donne vittime di violenza. Convivere con partner violenti e non potere lasciare il proprio indirizzo ha reso infatti molto difficile il ricorso ai centri d’aiuto.

Ad oggi non sono ancora quantificabili i dati relativi alla violenza contro le donne durante il periodo di confinamento. I dati nazionali al riguardo sono pochi e spesso contradditori.

Da un lato si nota un chiaro aumento delle telefonate al numero nazionale anti-violenza, il 1522, dall’altro, secondo fonti del Ministero dell’Interno, risultano diminuite le denunce per maltrattamenti, abusi sessuali e stalking.

L’Istat registra inoltre che i femminicidi siano diminuiti per più di due terzi tra febbraio e maggio 2020, ma l’informazione non deve trarre in inganno, anzi deve far riflettere sulle tante situazioni sommerse e sul silenzio che cala sulle violenze domestiche, un altro fenomeno che da tempo ha assunto dimensioni allarmanti.

Sebbene si siano fatti passi in avanti a livello legislativo riguardo al riconoscimento della violenza sulle donne, molte regioni non si sono ancora allineate e non hanno adottato misure adeguate di sostegno.

Gli studi compiuti nelle case rifugio ci restituiscono inoltre l’immagine di un altro fenomeno correlato alla violenza di genere, quello della violenza assistita da parte dei bambini e delle bambine. La maggior parte delle donne maltrattate sono madri che vengono picchiate ed umiliate davanti ai propri figli. Una ricerca condotta a livello nazionale da Save the Children, dal titolo “Abbattiamo il muro del silenzio”, ha permesso di evidenziare questo fenomeno e la necessità di intervenire in modo precoce, superando stereotipi culturali e colpevoli disattenzioni.

Va comunque rilevato che otto donne su dieci che subiscono violenza continuano a non denunciare e questo è un trend nazionale.

L’orientamento al lavoro: una carta da giocare

Ridurre il tasso di disoccupazione femminile costituisce una priorità d’intervento; bisogna considerare che nel 2019, solo il 30,2 % delle donne calabresi, di età compresa tra i 15 ed i 64 anni, risultava occupata. Questa condizione ostacola la fuoriuscita della donna dal circuito vizioso in cui è inserita. Un sistema di welfare insufficiente poi detta le scelte di molte madri.

L’autonomia economica, ottenuta attraverso il lavoro, rappresenta lo strumento fondamentale e imprescindibile per ridefinire qualsiasi percorso di vita.

Infatti, anche quando molte donne ottengono l’indipendenza psicologica dal maltrattante, si scontrano con le difficoltà di inserirsi o reinserirsi nel contesto sociale e lavorativo. Le esperienze più recenti nel campo dell’orientamento e della formazione al lavoro hanno evidenziato come l’inserimento/reinserimento lavorativo e la permanenza nel mercato del lavoro dipendano da una serie di variabili complesse e interagenti, tra cui pesano la bassa scolarizzazione e la scarsa esperienza lavorativa, spesso compressa per volontà del partner violento e per ragioni che rendono inconciliabile la gestione dei figli minori.

https://www.articolo21.org/2020/11/la-porno-vendetta-i-confini-del-sexting-e-della-violenza-di-genere/?fbclid=IwAR0rw5K1QyCJsO-cJ5BOU675J8qFcTaVsd44HlBgnmuvmZ09LfyEpKZl-LA

venerdì 20 novembre 2020

CON GLI OCCHI DELLE BAMBINE Come le disuguaglianze di genere possono condizionare il futuro e lo sviluppo delle bambine e le adolescenti.

La più ampia pubblicazione per Save the Children, è disponibile in PDF. Scarica l'Atlante dell'Infanzia 2020

https://atlante.savethechildren.it/index.html?fbclid=IwAR1p4fFy6fkVKN25T0WPOCV3xE6ujf-n4k5jA9Gf7k9xb-N5DqN1VHAz8UI

STEREOTIPI DI GENERE

L’“Atlante dell’infanzia a rischio” è giunto quest’anno alla sua undicesima edizione, una pubblicazione che da oltre un decennio fornisce numeri, dati e riflessioni sui minori più vulnerabili che vivono nel nostro Paese. Quali sono i fattori che condizionano il futuro dei bambini fin dai primi anni di vita? Quali servizi possono diventare opportunità di riscatto in condizioni di disagio? In questo estratto online daremo una panoramica di tutto questo ma con un focus sulle disuguaglianze di genere.

In Italia vi è una grande disparità di genere che trova una delle sue espressioni più drammatiche nei femminicidi ma si manifesta quotidianamente in molti aspetti della vita. Quello della disuguaglianza di genere è un tema che ricorre spesso quando si parla della scarsa rappresentanza femminile nelle cariche pubbliche o ai vertici delle imprese, della ripartizione dei carichi di lavoro domestico e di cura, delle differenze salariali e dell’accesso al lavoro.Abbiamo cercato di capire dove nasce questo divario, quali sono le sue radici socio-culturali ed economiche che condizionano sin dall’infanzia e per sempre il futuro delle bambine.

Un’indagine dell’Istat sugli stereotipi relativi ai ruoli di genere in Italia indica, tra quelli più ampiamente condivisi, il fatto che debba essere l’uomo a provvedere alle necessità economiche della famiglia (27,9%), che per l’uomo più che per la donna sia molto importante avere successo nel lavoro (32,5%) e che sempre lui sia poco adatto ad occuparsi delle faccende domestiche. Convinzioni di questo tipo pesano come macigni se consideriamo, ad esempio, come sono effettivamente ripartiti i carichi di lavoro domestico tra donne e uomini occupati: 4h08’ al giorno per le prime, 1h47’ per i secondi. Una sproporzione sostanziale che non riguarda solo gli adulti ma coinvolge anche figlie e figli minori. Le piccole incombenze domestiche quotidiane sono infatti equamente ripartite indipendentemente dal genere fino agli 11 anni, ma superata quest’età si comincia a evidenziare una sproporzione del carico domestico a sfavore delle ragazze che lavorano mediamente un quarto d’ora in più dei fratelli maschi.

Gli stereotipi di genere sui ruoli si formano molto presto e condizionano precocemente anche le aspettative, i comportamenti e gli stessi interessi dei bambini. 

Gli studiosi hanno coniato il concetto di “illusione della parità”. 

Le ragazze sono più brave dei loro compagni di classe, abbandonano meno la scuola e si laureano di più dei loro coetanei, ma quando entrano nel mondo del lavoro scoprono che la parità è ancora lontana. La differenza salariale tra donna e uomo (a svantaggio della donna) è solo una delle disparità più visibili. Pesa moltissimo sulle occupate e non – ad esempio - anche il maggiore carico di lavoro domestico.

Gli stereotipi di genere agiscono anche su quella che viene chiamata “segregazione formativa” che vede una presenza di massa delle ragazze nei percorsi formativi che hanno al centro le materie umanistiche e sociali ma solo in piccolissima parte nelle “hard STEM”. 

Apparentemente può sembrare una scelta libera da condizionamenti, in realtà è l’effetto di dinamiche più profonde. Non c’è un’adeguata valorizzazione del contributo delle donne alla scienza, con la conseguente assenza di modelli e di rappresentazione. Al contrario, la narrazione collettiva, anche dei media, è ancora troppo legata all'idea dello scienziato uomo autorevole e di successo. In questo neppure la scuola è riuscita pienamente, fino ad ora, a decostruire il modello dominante per indirizzare e stimolare parimente alunne e alunni verso le materie scientifiche. 

IL FUTURO DELLE BAMBINE

Dove nascono quelle difficoltà che rendono più complicato il percorso delle bambine e delle ragazze verso il futuro che meritano? 

In molti casi può succedere sin dai primissimi anni di vita, nei casi più fortunati il divario può palesarsi più avanti negli anni. Una "specializzazione" delle competenze, ad esempio, si osserva molto precocemente. Già a partire dalla scuola primaria si delinea un divario nelle capacità matematiche a favore dei bambini e di quelle alfabetiche a favore delle bambine. Secondo i ricercatori dell’Invalsi, le motivazioni si possono riscontrare in molteplici fattori, dai condizionamenti familiari e culturali alle capacità della scuola di motivare e valorizzare aspettative e competenze.

Facendo un passo indietro negli anni della formazione dei bambini, vale la pena soffermarsi sui servizi offerti nell’ambito della prima infanzia. 

Nonostante sia stato finalmente riconosciuto il ruolo educativo degli asili nido - accessibili e di qualità - nel ridurre disuguaglianze e povertà educativa, e sia ora integrato sotto la guida del MIUR, a questo passaggio però non è corrisposto un investimento di risorse adeguato e un vero e proprio coordinamento: la reale accessibilità e il livello dell’offerta di servizi per la prima infanzia sono ancora prevalentemente a carico dei singoli Comuni, quindi ancora molto legati alle variabili territoriali e moltissimi Comuni non hanno né risorse né capacità amministrative per assicurare questo tipo di servizio. Lo sviluppo degli asili nido, soprattutto nelle zone più deprivate, può avere un impatto sociale significativo sia sui bambini sia sulle famiglie e in particolare sulle donne madri. L’offerta educativa nella fascia 0-6, infatti, contribuisce allo sviluppo cognitivo dei bambini (influenzando l’apprendimento ma anche le capacità di socializzazione) e costituisce un punto di riferimento essenziale per i genitori. 

La possibilità di contare sugli asili nido rappresenta un volano indispensabile anche per l’occupazione femminile, considerando che un numero sempre maggiore di donne è costretto a scegliere tra vita professionale e maternità.

L’assenza di una rete di presa in carico dei bambini nella prima infanzia, scoraggia le donne dalla ricerca di un’occupazione e aumenta le richieste del part time o addirittura le dimissioni dall’impiego in corso. Le rilevazioni dell’Ispettorato del lavoro relative al 2019, riportano che il 73% delle dimissioni volontarie di quell’anno venivano da madri lavoratrici con figli molto piccoli (per un totale di 37.611 donne).

Le maggiori difficoltà per donne e ragazze nel mondo del lavoro non si limitano alla complicata conciliazione tra vita privata e professionale. In generale avranno infatti più difficoltà a trovare lavoro e, anche quando sono occupate, hanno uno stipendio più basso rispetto ai pari grado dell’altro sesso (gender pay gap).

In moltissime ragazze è presente l’intuizione che lo studio potrà essere un elemento essenziale per colmare lo svantaggio e questo le spinge a frequentare l'università.

Da non sottovalutare il fenomeno delle “sovra-istruite”: qualifiche post-laurea, soggiorni all’estero, anni di studio e dedizione non impediscono che – pur di lavorare – molte ragazze accettino lavori non adeguati alle proprie qualifiche, sotto retribuiti e magari part time.

C’è poi anche chi lascia precocemente la scuola, i cosiddetti “early school leavers”. Maschi e femmine mostrano nelle statistiche una differente “propensione” all’abbandono. Se andiamo ad analizzare la serie storica degli ultimi 15 anni in Italia, i ragazzi lasciano gli studi precocemente più spesso delle ragazze. Nel 2019 i numeri parlavano rispettivamente del 15,4% di abbandoni contro l’11,5%, ma il dato complessivo si declina con significative disuguaglianze nelle varie realtà territoriali.

Diversi fattori condizionano le differenze di genere dell’abbandono scolastico, tra questi non possiamo non considerare la maggiore facilità per i maschi, anche se meno istruiti, di inserirsi e restare sul mercato del lavoro. Nell'orizzonte delle ragazze, invece i tempi della ricerca di un’occupazione si dilatano, condizione che rende le ragazze più reticenti ad abbandonare la scuola e più concentrate e adattabili nel percorso di studio.

A RISCHIO POVERTA'

Quello della povertà è un fenomeno multidimensionale e difficile da cogliere in tutta la sua complessità. In Italia mancano stime accurate per misurare la povertà di genere perchè si fa riferimento prevalentemente alla capacità di spesa dei nuclei familiari, su base campionaria, così come per la misura del rischio povertà di Eurostat che fornisce comunque un indizio: un rischio maggiore nelle donne tra i 25 e i 54 anni.

Molti altri dati però indicano disuguaglianze di genere nella capacità economica. L’assenza di un impiego o le occupazioni saltuarie e part time, retribuzioni inferiori e minori opportunità di carriera sono tutte condizioni che contribuiscono a segnare il destino economico delle donne: nel 2017 la quota di quelle che percepivano una pensione inferiore a mille euro al mese era del 45% rispetto al 27% degli uomini.

Ma anche i dati relativi alle giovani generazioni preoccupano e dimostrano che un’inversione di tendenza non si è ancora verificata. Nel 2019, erano 1 milione 60 mila le ragazze tra i 15 e i 29 anni che non studiavano né lavoravano (NEET), quasi 1 su 4, rispetto a 940 mila ragazzi, 1 su 5. Tra i 25-34enni, 106 mila giovani donne erano definite “scoraggiate”, ma soprattutto 500 mila erano inattive "per motivi familiari" a fronte di soli 24 mila giovani uomini e, infine, 419 mila donne lavoravano in part-time involontario a fronte di 239 mila maschi. C’è anche un 40% di occupate definite “sovra-istruite” dall’Istat contro il 35% dei coetanei maschi.

Il percorso a ostacoli fin qui delineato, quindi, può influire gravemente sulle condizioni economiche delle donne e sul loro lento scivolamento nell’indigenza. 

VIOLENZA DI GENERE

Molti stereotipi contribuiscono a legittimare o sminuire episodi di violenza su donne e ragazze. Dal controllo ossessivo, al senso di possesso dell’uomo sulla donna, fino a episodi di violenza fisica e sessuale, molti abusi sono tuttora “giustificati” da una  parte della popolazione.

Tra i pregiudizi più duri a morire c’è quello che se una ragazza è vittima di una violenza carnale, in qualche modo se l’è andata a cercare. Si cercano gli indizi: se ha bevuto troppo, se il vestito è considerato provocante, ancora troppe persone presentano alti livelli di tolleranza nei confronti delle molestie e della violenza su ragazze e donne.

La violenza contro le donne tra le mura domestiche spesso coinvolge i figli.
Si chiama “violenza assistita” e consiste nell’esperienza da parte del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o sLa più ampia pubblicazione per Save the Children, è disponibile in PDF. Scarica l'Atlante dell'Infanzia 2020u altre figure affettivamente significative sia adulte sia minori (definizione Cismai - Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso dell’infanzia).

IN ITALIA I DATI  SUI FEMMINICIDI PARLANO DI 1 DONNA UCCISA OGNI 3 GIORNI

Un trend in crescita nel nostro Paese. Persino nei mesi del lockdown, che ha visto un calo in quasi tutti i reati, compresi gli omicidi, la "fabbrica dei femminicidi" non si è mai fermata.
Il fenomeno della violenza sulle donne è la punta dell’iceberg, e la conseguenza più drammatica, di uno scenario molto complesso in cui le disuguaglianze non solo sono sistematiche e diffuse ma – come abbiamo visto - spaziano anche tra diverse sfere della quotidianità: stereotipi, suddivisione dei carichi familiari, accesso al mondo del lavoro, salari (solo per citarne alcune).

Sarebbe necessario operare alle radici delle diseguaglianze di genere prevenendone gli effetti già nel percorso educativo, a tutti i livelli di istruzione. L’investimento sui talenti femminili coinvolge naturalmente anche il mondo educativo maschile, perché il vero cambiamento chiama in causa tutti. È necessaria una strategia educativa che consideri la sfera emotiva, l’affettività e la sessualità e che sappia promuovere il superamento degli stereotipi, il ripudio di ogni forma di violenza e lo sviluppo delle capacità di cooperare. 

Le donne possono cambiare il corso della storia
(Eglantyne Jebb)

giovedì 19 novembre 2020

LA GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Quest'anno il 25 novembre si celebra in piena pandemia, in uno scenario distopico fra distanziamenti sociali, didattica a distanza, strade deserte, mascherine, sirene, ambulanze, terapie intensive, smart working, tamponi, assembramenti, tracciamenti, sorveglianza, algoritmi

 Possiamo immaginare che durante questo lockdown d'autunno la violenza non si fermerà. Si ripeteranno i maltrattamenti, le molestie su donne, bambine e bambini ed i femminicidi del lockdown di primavera. Pochi giorni fa aTorino un uomo ha sterminato la famiglia. Ha ucciso la moglie, il figlio e la figlia gemelli di due anni ed il cane prima di uccidersi. E gli episodi di violenza domestica che si ripetono giornalmente sono la punta dell'iceberg delle molteplici forme di violenza agita singolarmente da uomini che mal sopportano l'autonomia e le libere scelte delle donne considerate loro proprietà.

Restando in questo inquietante scenario vogliamo mettere sotto attenzione la violenza istituzionale agita da uomini alla guida di Stati che alla “malsopportazione” dell'autonomia delle donne aggiungono la negazione della loro presenza nella sfera pubblica. Tentano di azzerare conquiste, impoverire l'emancipazione femminile e schiacciare le donne nel ruolo domestico, funzionale ad una agognata società patriarcale da restaurare laddove le sue tracce si affievoliscono. 

Ci provano spesso partendo dal controllo della libertà procreativa. 

Valga come esempio quanto sta accadendo in Polonia, paese nel quale si vuole impedire l'interruzione delle gravidanze difficili, anche nel caso in cui il feto presenti malformazioni tali che portano morte sicura. 

Impensabile la violenza di “parti imposti” da una legge che non considera il dolore delle donne costrette a partorire creature malate che dovranno essere seppellite poco dopo la nascita. Donne trattate come incubatrici viventi come nel peggiore dei  mondi distopici immaginabili.

Anche in Italia continuano a verificarsi “strane cose” attorno alla limitazione della libertà riproduttiva delle donne, dal lento e continuo svuotamento della legge 194 al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona al quale hanno partecipato capi di Stato ed anche Ministri italiani, dall'obbligo di ricovero ospedaliero per l'uso della pillola RU486 alla recente scoperta dell'esistenza di cimiteri di feti sepolti e sulle croci il nome delle donne, naturalmente a loro insaputa. 

Violenze praticate con la complicità di burocrazia e istituzioni per ricordare alle donne  che quella riproduttiva è la loro primaria funzione. 

Ma c'è una marea di coraggiose donne che come le polacche, in piena pandemia e nonostante i pestaggi, gli arresti e perfino le uccisioni, manifestano nelle piazze dell'est europeo, nelle città africane, asiatiche, latino-americane contro le politiche scellerate che cancellano e negano diritti e libertà.  

E poi c'è la marea di donne che in tutte le latitudini raggiungono posti prima inaccessibili nel campo della scienza, dell'economia, della politica: Kamala Harris, la prima vicepresidente degli USA, in Italia le donne pilota, la Vicecapo della polizia di Stato, la Magnifica Rettrice de La Sapienza di Roma e, per fare un esempio vicino a noi, la Vicecomandante dei carabinieri di Cesano Boscone.

Una leadership femminile che continua a salire e trasporta le acque limpide e fresche delle risorse femminili, per il cambiamento del futuro nel nome dei diritti umani e delle uguaglianze di tutti i generi.



martedì 17 novembre 2020

La realtà di cui tutte le donne hanno esperienza e che gli uomini non conoscono Traduzione a cura di Luana (grazie!) di un articolo apparso il 15/07/16 su goodmenproject:


Uomini, è la vostra occasione di ascoltare ciò che le donne affrontano sin da quando sono troppo piccole. Quindi: ascoltate. Solo questo.C’è una cosa che accade tutte le volte che parlo o scrivo di problemi femminili. Intendo argomenti come dress code, cultura dello stupro e sessismo.Ricevo commenti come: non ci sono cose più importanti di cui preoccuparsi? È davvero una questione così seria?

Non è che sei troppo sensibile?   Sei sicura di affrontare razionalmente la cosa?

Ogni. Singola. Volta.  E ogni singola volta mi sento frustrata. Perché non capiscono? Credo di aver realizzato perché.Loro non sanno.Non sanno che ridimensioniamo. Minimizziamo. Ci adeguiamo in silenzio.Diamine, anche se come donne viviamo queste cose, non sempre ne siamo coscienti. Ma lo abbiamo fatto tutte.Tutte abbiamo imparato, per istinto o per esperienza e per errore, come minimizzare una situazione che ci fa sentire a disagio. Come evitare di irritare un uomo o di metterci in pericolo. Tutte, in molteplici occasioni, abbiamo ignorato un commento offensivo. Tutte abbiamo riso di una avance inappropriata. Tutte abbiamo mandato giù la rabbia quando siamo state sminuite o trattate con sufficienza.Non è una sensazione piacevole. È nauseante. È pesante. Ma lo facciamo, perché non farlo potrebbe metterci in pericolo, potrebbe farci licenziare o farci chiamare cagne. Così di solito prendiamo la strada meno precaria.Non è qualcosa di cui parliamo ogni giorno. Non ne parliamo ai nostri fidanzati, mariti e amici tutte le volte che accade. Perché è così frequente, così pervasivo, che è diventato semplicemente qualcosa con cui facciamo i conti.

Quindi, forse loro non sanno.

Forse non sanno che alla tenera età di tredici anni abbiamo dovuto ignorare degli adulti che ci guardavano il seno.    Forse non sanno che uomini dell’età dei nostri padri ci hanno provato con noi mentre facevamo le cassiere.    Probabilmente non sanno che quel ragazzo al corso di inglese ci ha mandato dei messaggi pieni di rabbia solo perché lo abbiamo respinto.  Potrebbero non essere a conoscenza del fatto che il nostro relatore ci dà regolarmente pacche sul sedere.  E di sicuro non sanno che la maggior parte delle volte sorridiamo a denti stretti, guardiamo da un’altra parte o fingiamo di non essercene accorte. È probabile che non abbiano idea di quanto spesso accadono queste cose. Che queste piccole cose sono diventate la routine. Che sono così previste che quasi non ce ne accorgiamo più. Così di routine che le ignoriamo e minimizziamo meccanicamente.  Non mostriamo la nostra rabbia repressa, la paura, la frustrazione. Un sorrisino veloce o una risatina soffocata ci permetteranno di continuare la nostra giornata. Ridimensioniamo. Minimizziamo. Dentro e fuori di noi. Dobbiamo farlo. Non passarci sopra ci metterebbe in condizione di scontrarci più spesso di quanto la maggior parte di noi riesca a fare.

Impariamo a farlo fin da quando siamo piccole. Non abbiamo dato un nome o un’etichetta a questa cosa. Non abbiamo nemmeno badato al fatto che le altre ragazzine facevano lo stesso. Ma stavamo insegnando a noi stesse a padroneggiare l’arte del ridimensionare. Apprendevamo, osservando e valutando velocemente i rischi, come le nostre reazioni avrebbero o non avrebbero dovuto essere. Facciamo un elenco veloce. Lui ci sembra irascibile, arrabbiato? Ci sono altre persone qui intorno? Sembra ragionevole e sta solo cercando di essere simpatico, anche se non potrebbe essere meno capace? Sta per dire qualcosa che avrà un impatto sulla mia vita scolastica/sul mio lavoro/sulla mia reputazione? In pochi secondi determiniamo se rispondere qualcosa o se lasciarci scivolare tutto addosso. Se sfidarlo o se girarci dall’altra parte, sorridere educatamente o fare finta di non aver sentito/visto/percepito.

Succede sempre. E non sempre è chiaro se la situazione è pericolosa o innocua.

È il capo che fa o dice qualcosa di inappropriato. È il cliente che tiene lontana la mancia finché non siamo costrette a sporgerci su di lui per prenderla. È l’amico che ha bevuto troppo e cerca di spingerci in un angolo per un momento di “trombamicizia” anche se abbiamo messo in chiaro che non siamo interessate. È il ragazzo che si infuria se rifiutiamo un appuntamento. O un ballo. O un drink. Lo vediamo accadere alle nostre amiche. Lo vediamo accadere in così tanti scenari e situazioni che diviene la norma. E non pensiamo nulla al riguardo, fino a quella volta che va a tanto così dal diventare pericolosa. Finché non sentiamo dire che quell’amico che ci aveva spinte in un angolo è stato accusato di stupro il giorno dopo. Finché il nostro capo non mantiene la promessa di baciarci alla festa di Capodanno appena ci becca da sole in cucina.  Queste sono le cose che potremmo raccontare ai nostri amici, ai nostri fidanzati, ai nostri mariti.

Ma tutte le altre volte? Tutte le volte che ci siamo sentite a disagio, o nervose, ma non è accaduto niente di più? Quelle volte in cui riprendiamo i nostri affari, senza pensarci due volte? È la realtà dell’essere donne nel nostro mondo.  È mettersi a ridere di fronte a un atteggiamento sessista perché sentivamo di non avere altra scelta. È avere la nausea di aver dovuto “stare al gioco” per tirarcene fuori.  È sentire vergogna e rimorso di non aver risposto per le rime a quel ragazzo, quello che sembrava minaccioso, ma col senno di poi forse era inoffensivo. Forse. È tirare fuori il telefono col dito pronto sul tasto di chiamata quando camminiamo da sole di sera.  È tenere le chiavi strette tra le dita, nel caso in cui avessimo bisogno di un’arma mentre andiamo a prendere la macchina.  È mentire e dire che abbiamo un fidanzato, così un ragazzo accetterà un “no” come risposta.   È essere in un bar affollato/a un concerto/*inserire un qualsiasi luogo affollato*, e doversi girare per vedere chi è lo stronzo che ci ha appena palpeggiato il sedere.  È sapere che anche se lo beccassimo non gli diremmo niente. È camminare nel parcheggio di un centro commerciale e rispondere educatamente “buongiorno” quando un tizio sconosciuto passandoci accanto ci dice “ciao”. È fare finta di non sentirlo mentre ci insulta perché non ci siamo fermate a parlare con lui. “Cos’è? Te la tiri troppo per parlare con me? Che problemi hai? Pfff… cagna!”.  È non raccontarlo ai nostri amici, ai nostri genitori o ai nostri mariti, perché è semplicemente un dato di fatto, una parte delle nostre vite.  

 È il ricordo che ci perseguita di quella volta che siamo state abusate, aggredite o violentate.  È la storia che le nostre amiche ci raccontano, tra le lacrime che ci spezzano il cuore, di quella volta che sono state abusate, aggredite o violentate.  È realizzare che i pericoli che percepiamo, ogni volta che dobbiamo scegliere di confrontarci con queste situazioni, non sono frutto della nostra immaginazione. Perché conosciamo troppe donne che sono state abusate, aggredite o violentate. 

Di recente mi è venuto da pensare che molti uomini potrebbero non essere consapevoli di questo. Hanno sentito parlare di cose del genere, talvolta le avranno viste e saranno intervenuti per fermarle. Ma forse non hanno idea di quanto spesso accadano. Non è detto che sappiano che influiscono su molto di quello che diciamo, che facciamo, e su come lo facciamo. 

Forse dobbiamo spiegarlo meglio. Forse dobbiamo smettere di ignorare noi stesse e di minimizzare. I ragazzi che fanno spallucce o si deconcentrano quando una donna parla di sessismo nella nostra cultura? Forse non sono per forza cattivi ragazzi. Non hanno vissuto la nostra realtà, tutto qui. Noi non parliamo davvero di tutto quello che vediamo e viviamo ogni giorno. Quindi, come fanno a sapere?

Dunque, forse gli uomini buoni che sono presenti nelle nostre vite non hanno idea che dobbiamo affrontare tutto questo regolarmente. Forse per noi è la norma a tal punto che non ci è venuto in mente che avremmo dovuto parlargliene.  Ho pensato che non ne conoscono la portata, che non sempre capiscono che questa è la nostra realtà. Quindi, sì, quando mi infurio per un commento che qualcuno fa per il vestitino corto di una ragazza, non sempre lo capiscono. Quando mi agito per tutto il sessismo quotidiano che vedo, che osservo e di cui sono testimone, quando sento le cose che mia figlia e le sue amiche stanno passando… non realizzano che questa è la punta di un iceberg molto più grande.        Forse sto realizzando che non possiamo aspettarci che gli uomini capiscano quanto sia pervasivo il sessismo di ogni giorno se non iniziamo a parlargliene e a indicarglielo quando si manifesta. Forse sto iniziando a realizzare che gli uomini non hanno idea del fatto che persino quando entriamo in un negozio le donne devono tenere alta la guardia: dobbiamo essere istintivamente consapevoli di ciò che ci circonda e di ogni possibile minaccia.  Forse inizio a capire che fare spallucce e non pensare che sia un grande problema non aiuterà nessuno.   Noi siamo abituate a ridimensionare.  Abbiamo acuta coscienza della nostra vulnerabilità. Siamo consapevoli che se ne avesse avuto l’intenzione, quel tizio nel parcheggio avrebbe potuto sopraffarci e farci qualsiasi cosa avesse voluto.  Ragazzi, questo è ciò che significa essere una donna.  Siamo sessualizzate prima ancora di capire che cosa questo significhi. Ci sviluppiamo fisicamente come donne mentre le nostre menti sono ancora innocenti.  Riceviamo occhiate e commenti prima ancora di avere l’età per prendere la patente. Da uomini adulti. Ci sentiamo a disagio ma non sappiamo cosa fare, quindi andiamo avanti con le nostre vite. Impariamo presto che affrontare a muso duro ogni situazione che ci mette in imbarazzo potrebbe metterci in pericolo. Siamo consapevoli di essere spesso il genere più piccolo e fisicamente più debole, del fatto che ragazzi e uomini sono capaci di sopraffarci se scelgono di farlo. Dunque minimizziamo e ridimensioniamo.Quindi, la prossima volta che una donna vi racconterà di aver ricevuto bacini di apprezzamento, come si fa per chiamare un gatto, e che questo l’ha messa a disagio, non ignoratela. Ascoltate.La prossima volta che vostra moglie si lamenta di essere stata chiamata “amore” al lavoro, non fate apaticamente spallucce. Ascoltate.La prossima volta che leggete o sentite una donna che ha sfidato un linguaggio sessista, non sminuitela. Ascoltate.La prossima volta che la vostra fidanzata vi racconta che un ragazzo le ha parlato in un modo che l’ha fatta sentire a disagio, non ignoratela. Ascoltate.

Ascoltate, perché la vostra realtà non è uguale alla sua.  Ascoltate, perché le sue preoccupazioni sono concrete, non esagerate né eccessive. Ascoltate, perché la realtà è che lei, o qualcuno che lei conosce, in qualche momento della sua vita è stata abusata, aggredita o violentata. E lei sa che c’è sempre il pericolo che le accada. Ascoltate, perché un semplice commento di un estraneo può infondere brividi di terrore. Ascoltate, perché forse sta cercando di fare sì che la sua esperienza non sia quella delle sue figlie. Ascoltate, perché ascoltare non ha mai fatto male a nessuno.

Ascoltate. Solo questo.

https://abbattoimuri.wordpress.com/2016/08/22/la-realta-di-cui-tutte-le-donne-hanno-esperienza-e-che-gli-uomini-non-conoscono/?fbclid=IwAR0uY7VCzBxoNdpTIfgqIY3DQh6VUpzsaTyCZ4Hvl2hv9XAhZnp4s6AJvZI

lunedì 16 novembre 2020

Ihaveavoice

@I.have.a.voice1 Organizzazione no-profit

“Ehi bella, dai, fammelo un sorriso!”

“Che gnocca! Vieni qua, non te la tirare!”

“Che bel c*lo!”

“Non sai quello che ti farei!”

Quante volte camminando per strada, sentiamo certe frasi, da così a molto peggio?

Magari di notte, da gruppi di uomini, con il terrore che possano farci qualcosa di brutto?

Questi non sono complimenti, né attenzioni lusinghiere, questa è una vera e propria molestia.

Il “catcalling” consiste in frasi ammiccanti non richieste da uomini sconosciuti verso donne che camminano per strada. La donna, quindi, viene trattata come un oggetto a disposizione del piacere maschile. È una una forma di violenza, che genera ansia, stress, rabbia e senso di impotenza.

La donna si può sentire in colpa, perché forse se non avesse indossato quel vestito non avrebbe attirato attenzioni o se non avesse quel seno prosperoso non le avrebbero detto quelle cose oscene. 

La donna si può sentire in pericolo, perché non si sa quali siano le vere intenzioni e se si sta rischiando qualcosa di grave, come uno stupro.

La donna si può sentire inerme, perché non sa cosa fare, come reagire: ribattere e rischiare di peggio o stare zitta e subire?

La donna si può sentire arrabbiata, perché si sente considerata come un oggetto sessuale, non rispettata, e non c'è niente che possa fare per difendersi.

Le donne lo subiscono e gli uomini si sentono in diritto di poter dire e fare qualsiasi cosa alle donne, come se, appunto, l'esistenza stessa delle donne fosse legata al loro piacere. Come se le donne fossero sempre e comunque a loro disposizione.

Ci hanno fatto credere che dovevamo sentirci apprezzate, che siamo belle solo se l’occhio maschile ci lusinga.

Ci hanno fatto credere che le parole dei maschi fossero fondamentali per la nostra autostima, che dovevamo ascoltare la loro voce più della nostra.

Ci hanno fatto credere di essere arrabbiate o esagerate, quando ci siamo riprese la nostra voce e abbiamo smesso di subire in silenzio.

Ma non è così. 

Abbiamo tutto il diritto di pretendere rispetto.

Non solo chiederlo, ma pretenderlo.

Non siamo qui per il piacere di nessuno, se non per il nostro.

Il catcalling spaventa le donne e ne limita la libertà, non facendole sentire al sicuro. È una violenza che in Francia è considerata reato.

Quando le donne potranno girare per la città, di notte, da sole, senza provare paura? 

In che modo sarebbe diversa la nostra vita se gli uomini non si ritenessero in diritto di considerarci oggetti a loro disposizione?

C’è bisogno di una maggior sensibilità nei confronti di questo tema. Non deve essere banalizzato o analizzato in modo superficiale, perché rappresenta una vera minaccia per le donne. E, soprattutto, a vergognarsi non deve più essere chi lo subisce, ma chi lo pratica.

Mettiamo fine al catcalling.

https://www.facebook.com/I.have.a.voice1/posts/3982731178420821

sabato 14 novembre 2020

Femminicidi: Lettera aperta a giornaliste e giornalisti

 "... la violenza contro le donne non può essere ridotta a meri fatti di cronaca... facciamo appello al senso di responsabilità..."

Care colleghe e cari colleghi,

in questi mesi di pandemia non si fermano i casi di femminicidio, punta dell’iceberg della violenza contro le donne.

Raccontiamola in modo corretto: basta parlare di raptus! Basta giustificare gli assassini! Basta ai facili moventi come la depressione e la gelosia! Basta far ricadere sulle donne la responsabilità della loro morte!

La grave crisi che sta attraversando il nostro Paese sta mettendo sotto pressione anche la nostra categoria. Ma proprio in un momento complesso come questo dobbiamo dare prova di essere capaci di narrare quanto accade nella consapevolezza della grande responsabilità che abbiamo nei confronti di chi ci legge e ascolta.

Abbiamo elaborato il Manifesto di Venezia, a cui hanno aderito liberamente centinaia di giornaliste e giornalisti (https://bit.ly/3pcnKSx), nel tentativo di offrire uno strumento di lavoro utile ad inquadrare in modo corretto il fenomeno. Sappiamo che molte e molti si sforzano di farlo ogni giorno.

Ancora troppo spesso però ci dimentichiamo, scrivendo i nostri articoli o servizi radiofonici e televisivi, che la violenza contro le donne non può essere ridotta a meri fatti di cronaca. Che si tratta di un fenomeno strutturale della nostra società e come tale abbiamo il dovere di raccontarlo: violenza contro le donne in quanto donne, per questo è necessario utilizzare la parola “femminicidio”.

Facciamo appello al senso di responsabilità di ciascuna e ciascuno. L’omicida di Torino - solo l’ultimo di molti esempi - non ha avuto un raptus, lo sterminio che ha compiuto non è nato dal nulla. I dati ci raccontano che il gesto finale di eliminazione della propria compagna, moglie, ex arriva dopo un lungo periodo di violenze e soprusi.

Non rendiamo vittime una seconda volta le donne assassinate, non cadiamo in queste narrazioni tossiche, diamo valore alla nostra libertà di informare.

Mimma Caligaris (presidente CPO Fnsi)

Paola Dalle Molle (coordinatrice Cpo Cnog)

Silvia Garambois (presidente GiULiA giornaliste)

Monica Pietrangeli (coordinatrice CPO Usigrai)

http://www.noidonne.org/articoli/femminicidi-lettera-aperta-a-giornaliste-e-giornalisti.php?fbclid=IwAR0eH87YQNaZ95fwk1UAjWQzVXr6VXaAO642lkbKCTRxQmf7PxbxnAxDmEY

giovedì 12 novembre 2020

Ogni anno l’associazione di donne “VIVA VITTORIA” di Brescia (https://www.vivavittoria.it/) propone di “ricoprire” simbolicamente per il mese di marzo una piazza di una città italiana con dei manufatti di lana.

Ogni anno l’associazione  di donne “VIVA VITTORIA” di Brescia  (https://www.vivavittoria.it/) propone di “ricoprire” simbolicamente per il mese di marzo una piazza di una città italiana con dei manufatti  di lana.

Quest'anno la scelta è caduta su Piazza Duomo, o comunque una piazza simbolo di Milano, che verrà ricoperta con centinaia di coperte di lana nel corso del mese di marzo (il comune di Milano patrocina l'iniziativa).
Le coperte saranno poi vendute e il ricavato verrà devoluto all’associazione SVS Donna aiuta Donna Onlus Milano e a Telefono Donna Milano, associazioni impegnate nel contrasto alla violenza sulle donne.
La scelta di Milano, in un momento in cui forse più di altre ha sofferto e sta soffrendo il dramma della pandemia, ci è sembrata un segnale importante.

Ventunesimodonna insieme alle amiche di Cesano Boscone partecipa a questo percorso di solidarietà, facendo appello alla sensibilità e all'attenzione  che da sempre le socie e le amiche delle due associazioni riservano a questo tema.

Come contribuire?
- se sai lavorare confezionando quadrati di lana, misura 50cmx50cm, lavorati a ferri o all'uncinetto, con qualsiasi colore e punto
- se non sai lavorare, procurando lana in qualsiasi quantità e colore e portandola al punto di raccolta
- dando diffusione e visibilità a questo progetto

I quadrati lavorati dovranno essere consegnati nei due punti raccolta entro e non oltre il 25 gennaio, per permettere il confezionamento delle coperte

- a Corsico c/o la Bottega Equo Solidale “Justo mondo” in via Monti, 10
cell. 3389224312

- a Cesano Boscone c/o  Sede Centro Culturale Villa Marazzi via Dante, 47  
cell.3472929598   

mercoledì 11 novembre 2020

Quando i media giustificano il carnefice che massacra moglie e figli Daniela Amenta

E' una costante: l'uomo che fa una strage, poi si toglie la vita è sempre "una brava persona". E ad armarlo è il terrore di perdere la sua famiglia mentre le vittime vere spariscono dalla narrazione

Forse basterebbe capire da che parte stare. O almeno provare a raccontare evitando la trappola del pregiudizio pesantissimo, dello stereotipo reiterato, della violenza continua, costante. Che i media parlino di stupro, violenza, femminicidio e perfino stragi familiari c'è spesso uno squilibrio sconcertante, perfino volgare tra vittima e carnefice.

L'ultimo carnefice, in ordine di tempo, si chiamava Alberto Accastello. A Carignano, in Piemonte, all'alba dell'8 novembre, armato di pistola, ha ucciso la moglie Barbara, il figlioletto di due anni Alessandro e perfino il cane. Ha fatto fuoco anche contro l'altra bimba della coppia, Aurora, che è in condizioni disperate. Poi si è tolto la vita.

Nel raccontarci questa tragedia il Corriere della Sera riporta la testimonianza dei vicini, immancabili nella narrazione del dramma. Leggiamo per scoprire che Accastello "era un gran lavoratore, viveva per la famiglia. La moglie Barbara voleva separarsi, ma il marito non accettava la sua decisione. Ultimamente le liti tra loro sarebbero state frequenti. Lui «lavorava anche al sabato e la domenica per finire la villetta che avevano costruito — continuano i vicini —. Alberto era una persona tranquilla. Sempre attento e gentile. Evidentemente la prospettiva della separazione lo ha sconvolto. Aveva chiesto a Barbara un’altra possibilità, ma lei diceva “quando dico di no è no”. L’abbiamo vista ieri sera era tranquilla, anzi euforica».

Sintesi: Accastello, brav'uomo, diventa pazzo quando la moglie Barbara gli chiede la separazione. Lei è "euforica", "quando dice no e no" e tanto basta per far scattare la mattanza.

Oltre alle testimonianze dei vicini non esiste contraddittorio in questo articolo pubblicato dal quotidiano più importante d'Italia. E' un'equazione miserabile che confonde i piani, i ruoli. Chi è vittima, chi è carnefice? La strage della "persona tranquilla" sconvolta dall'eventualità della fine del rapporto è, in pratica, giustificata.

Accade quasi sempre così. Se ti stuprano te la sei cercata (il vestito troppo corto, sei uscita di notte, hai bevuto), se ti ammazzano anche. Nella sostanza, insomma, il tema dell'articolo non riguarda il terribile gesto in sé, ma la narrazione del fatto. Una narrazione tossica. Nessuna separazione provoca un delitto. Dice bene sul Dubbio Simona Musco: "Applicare ad un tale orrore una attenuante di fondo è solo la conferma che c’è un problema culturale. Quello che magari anche in maniera inconscia – ma molto più spesso assolutamente consapevole – accetta le logiche del patriarcato, del possesso, della riduzione della donna e dei bambini ad oggetti che esistono solo in relazione al loro rapporto col marito/padre e della famiglia come unità inscindibile, da salvaguardare ad ogni costo".

E' già successo, stesso taglio, medesima interpretazione.

7 giugno 2020. Lecco. Un uomo, Mario Bressi, uccide strangolandoli i due figli gemelli di 12 anni. Poi si toglie la vita.

Titoli:

“L’uomo ha commesso l'omicidio perché non poteva sopportare l'idea della separazione" (Ansa)

"Separazione difficile, uomo uccide i due figli e si toglie la vita" (Tg Com).

“Il dramma dei papà separati”. (Il Mattino)

Morale: di chi è la colpa? Di un assassino o della separazione, ergo della donna che l'ha chiesta?

E' un crinale pericolosissimo quello che i media in Italia, anche i più autorevoli, attraversano con la leggerezza degli incoscienti, talvolta dei complici.

Nel caso di Accastello la strage è totale, in quella compiuta a Lecco c'è perfino un elemento devastante in più. Mario Bressi non uccide la ex moglie Daniela Fumagalli ma di fatto la condanna all'eterna consunzione, al pubblico ludibrio, al giudizio infame. E' una condanna a morte in contumacia.

Colpa, è colpa tua. Come si sopravvive alla colpa di essere la ragione di un gesto così devastante? Come si sopravvive alla morte dei figli provocata da un incidente, una malattia, figuriamoci da quella ideata e realizzata dall'uomo che avevi scelto per amore? Esistono gli orfani, le vedove, i vedovi. Come si chiama un genitore, una madre, che subisce la morte di un figlio? In molte lingue non c'è parola. In sanscrito si dice vilomah, significa "evento avverso all'ordine naturale".

Potremmo citare altre decine di casi.

La semantica della violenza ha sempre una base linguistica. Le parole fanno male. Malissimo a volte. I professionisti dell'informazione dovrebbero saperlo e invece non si sottraggono alla lapidazione, al pregiudizio, agli stereotipi. Parte di un Tribunale che ha già scelto da che parte stare, chi condannare.  

Il 3 settembre del 2017 Lucio Marzo, anni 17, ammazza a pugnalate Noemi Durini, anni 16, in un paese in provincia di Lecce. La seppellisce, agonizzante, sotto un cumulo di pietre in aperta campagna. Dieci giorni dopo confessa. Il 14 settembre il Corriere titola "Il fidanzatino sotto torchio confessa: l'ho uccisa io". Sommario del pezzo: "Chi poteva pensare a una violenza tale da togliere la vita al suo amore?".

Di che amore parliamo, scusate? Ripeto: chi è la vittima, chi è il carnefice?

Quando il femminicidio avviene tra le pareti domestiche (nel 2019 le vittime sono state 73. A settembre 2020 siamo già a 53, e mancano 3 mesi alla fine dell'anno) la titolazione è perfino più subdola, una sovrabbondanza di termini che di fatto giustificano il massacratore.

Eccoli: 

raptus

raptus di gelosia

passione

paura dell'abbandono

aveva il terrore di perderla

la donna della sua vita

amore tormentato

amore malato

perdita di controllo

Guardate, basta digitare su Google "uccisa per gelosia", 211mila risultati in 50 secondi.

Il meccanismo è sempre lo stesso: rendere le vittime invisibili, portare le donne sul banco degli imputati, reiterare la colpa di chi colpe non ha nel chiedere una separazione. Sono codici linguistici pericolosissimi, tanto da indurre il lettore/la lettrice a ricercare particolari morbosi sulla vittima tali da spiegare la gelosia dell'uomo, e in fondo a motivare l'accaduto in virtù del terribile e ingestibile raptus.

All'interno del Codice deontologico dei giornalisti esiste il Manifesto di Venezia, settembre 2017, fortissimamente voluto da Giulia, il collettivo di giornaliste nato nel 2011 con l’obiettivo di modificare lo squilibrio informativo sulle donne anche utilizzando un linguaggio privo di stereotipi e correttamente declinato al femminile.

Tre anni dopo è cambiato poco, purtroppo. Quasi nulla.

https://www.globalist.it/media/2020/11/10/quando-i-media-giustificano-il-carnefice-che-massacra-moglie-e-figli-2067871.html